Luisa Morgantini
Marwan Barghouti è una persona di grande ironia, forse un po' impaziente anche se nei lunghi anni nel carcere israeliano, durante la prima Intifada, ha maturato tanta pazienza. Marwan ha creduto e crede profondamente alla necessità della pace e della coesistenza fra lo stato di Israele e la Palestina.
L'ho incontrato la prima volta a Birzeit. Era dirigente dell'organizzazione degli studenti, e quando lo rividi - dopo gli anni in carcere e la sua deportazione a Parigi e in altre città europee - era un dirigente di Al Fatah.
Nelle città europee, in quegli anni, vi erano sempre assemblee, incontri, conferenze tra israeliani e palestinesi. Si parlava di pace, di spezzare la catena dell'odio, della convivenza. Di Marwan, qualsiasi cosa dicano, ricordo bene quello che ha ripetuto sempre a me: era un sostenitore rigoroso del processo di Oslo. Ricordo di averlo incontrato a Ramallah, il giorno dopo che a Tulkarem l'esercito israeliano aveva assassinato Thabet Thabet medico e dirigente di Al Fatah. Thabet lo conoscevano tutti, e tutti sapevano della sua dedizione alla pace e al dialogo. Quel giorno Marwan piangeva il suo amico, e piangendo ripeteva che lui la pace la voleva, sempre di più.
Durante questi anni ogni volta che lo rivedevo mi felicitavo che fosse ancora vivo. Che non lo avessero ucciso. Marwan ci scherzava sopra, anche quando noi, un gruppo di donne europee, gli proponemmo di essere sempre con lui, per impedire che fosse ucciso.
«Non c'è altra strada di un negoziato che porti alla realizzazione di uno Stato palestinese in coesistenza con lo Stato israeliano» ripeteva, spiegandomi che «siamo stati proprio noi a convincere la popolazione che l'accordo di Oslo poteva condurci alla pace». «Sono stato in carcere tanti anni, sono stato deportato insieme a tanti altri - diceva anche - ma tutti noi continuano a credere che non vi è altra strada che quella del negoziato».
Su ragioni e opportunità della nuova Intifada non aveva dubbi: «Quello che chiediamo è semplicemente un nostro diritto, chiediamo una terra e la dignità che si deve ad ogni umano, ad ogni popolo». Parlava sempre dell'Onu, di una comunità internazionale in cui non ha perso mai del tutto la fiducia: «Israele deve cessare l'occupazione militare, lo dicono anche le risoluzioni internazionali».
Marwan Barghouti è un uomo che non sopporta le umiliazioni, che non ha mai tollerato di vedere i giovani, i ragazzi e le ragazze della "sua" Palestina, costretti al volere dei soldati israeliani. «Perché qui siamo prigionieri senza nessuna libertà di movimento» insisteva «e ditemi voi se è possibile una pace dove ci sono dominati e dominatori». Del mondo, che nella vita aveva pure conosciuto, non si spiegava il silenzio di fronte all'ingiustizia: «Per i media noi non valiamo un granché. I nostri morti non hanno nome, non hanno genitori. I nostri morti non hanno storia, sono morti e non uccisi».
Quando gli ribadivo la mia distanza da qualsiasi violenza o lotta armata, diceva di essere stato sempre fermamente contrario alle azioni contro i civili, «inaccettabili moralmente e politicamente». Diceva pure che però un popolo ha il diritto alla resistenza contro una forza militare di occupazione, «un diritto riconosciuto ad ogni popolo dalla Convenzione di Ginevra».
Nel capodanno scorso eravamo insieme, nelle strade di Ramallah. Festeggiavamo l'anno nuovo per le strade di quella città palestinese, e ricordo che Marwan, parlando dal palco, era emozionato nel vedere quella piazza con la gente palestinese fianco a fianco ai gruppi internazionali, tutti uniti per dire no all'occupazione e per dire sì una pace giusta.
Quando lo hanno arrestato è stato molto doloroso. Pensavo alle sue battute, a quando insieme con altri italiani ci voleva invitare a pranzo al ristorante Barduni. All'affetto che aveva verso i giovani che gli stavano intorno. All'amore per i suoi figli e per Fadua, sua moglie, un avvocato che oggi è diventata messaggera per la sua liberazione. Proprio Fadua, una donna con la quale avevo parlato diverse volte anche della sua estraneità al lavoro politico di Marwan, oggi è diventata una portavoce del diritto dei palestinesi alla liberta.
Marwan ieri, con le manette ai polsi e la sua grande dignità, ha rivendicato il suo diritto. Quello dei giovani e del popolo di Palestina alla libertà, alla dignità.
La dignità, fondamentale per Marwan. Mi confidò, una volta, che l'unica cosa che davvero gli pesava quando i soldati lo picchiarono in una manifestazione era il pensiero dei suoi figli, che lo vedevano brutalizzato. Mi diceva: «nessun bambino in Palestina o nel mondo dovrebbe vedere il proprio padre picchiato dai soldati».
Il 5 settembre ci sarà il processo a Marwan. Dovremmo essere acconto a lui, in tanti. Spero che potrà esserci anche Nelson Mandela.
Liberazione 15 agosto 2002
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