L'inarrestabile proliferazione degli insediamenti
Le colonie israeliane, ostacolo alla pace


Mentre l'esercito israeliano moltiplica le sue cruente incursioni nelle città «autonome», le autorità d'occupazione impongono nuove misure restrittive alla circolazione dei beni e delle persone: la Cisgiordania è stata divisa in otto «zone-cantone», con appositi permessi speciali per spostarsi da una zona all'altra. Queste decisioni, che accentuano il soffocamento economico, sotterrano gli accordi di Oslo, mentre sul campo si estende, in violazione di tutte le risoluzioni internazionali, il cancro delle colonie.

di MARWAN BISHARA*

Perché è così difficile costruire la pace in Medioriente? Il massimo ostacolo è costituito indubbiamente dall'esistenza delle colonie israeliane, ragion d'essere e motore dell'occupazione dei territori.
Trent'anni di obiezioni americane e europee non hanno cambiato nulla.
Benché siano illegali, le colonie si sono allargate continuamente, compromettendo qualsiasi tentativo di costruire uno stato palestinese.
E, se continueranno a proliferare, faranno precipitare - e a quale prezzo! - la fine di Israele così come lo avevano concepito i suoi fondatori. La dinamica e l'ideologia delle colonie in questi ultimi anni sono diventate la pietra angolare dell'identità israeliana moderna. La politica di colonizzazione e le sue attuali manifestazioni violente trascendono le divisioni etniche e religiose del paese per plasmare un nuovo «israelismo», basato su un nuovo nazionalismo ebraico. I coloni e i loro alleati riproducono Israele a loro immagine e somiglianza: una teocrazia perennemente in conflitto. Da quando è al governo Ariel Sharon, e grazie anche al sostegno esplicito di George W. Bush, questo processo diventa sempre più chiaramente una profezia realizzata di distruzione irreversibile. I coloni della nuova generazione non hanno nulla in comune con i loro predecessori di prima del 1948, fondatori del sionismo e nel contempo costruttori dello stato su basi laiche, socialiste e sostanzialmente europee. Dopo il 1967 i coloni sono principalmente neoliberali, spesso originari dei paesi arabi, credenti e conservatori alla Reagan. Per giunta, a differenza dei coloni del passato, la loro occupazione gode del patrocinio dello stato di Israele.
Per assicurare il successo del nazionalismo «della grande Israele», come fecero i loro predecessori nel 1948, secondo i nuovi sionisti sarà necessaria una nuova campagna di pulizia etnica. Il «trasferimento» o l'espulsione collettiva dei palestinesi è già un'idea e un discorso diffuso fra i membri del governo di Sharon.
C'è di peggio: l'ex generale Efi Eitam, ministro di fresca nomina, colono accanito e leader del Partito religioso nazionale (Nrp), ha affermato che l'idea del «trasferimento» è politicamente «interessante», anche se irrealistica senza una guerra. Secondo questo ex laburista, in caso di conflitto generalizzato «non rimarrebbero molti arabi».
Ed è bene ricordare che Eitam ha auspicato attacchi preventivi contro l'Iraq e l'Iran (1) ... Da parte sua, l'attuale primo ministro di Israele ha riconosciuto che l'esercito se ne sarebbe andato già da tempo, se non ci fossero le colonie. Ma queste ultime presentano un elemento vantaggioso: grazie a loro, i leader israeliani hanno buon gioco a convincere i loro concittadini che «l'esercito d'Israele non è un esercito straniero che impone il suo potere su una popolazione straniera». Nel 1977, allorché era anche presidente del Comitato ministeriale per le colonie, l'allora ministro Sharon era stato supervisore delle nuove colonie formatesi a Gaza e in Cisgiordania. Prevedeva di installarvi due milioni di ebrei. A un quarto di secolo di distanza, il primo ministro Sharon non si è spostato di un millimetro: Israele ha il «diritto morale» di modificare la demografia di quei territori. Dopo le elezioni vittoriose del febbraio 2001, Sharon ha fatto costruire trentacinque nuovi avamposti di colonie (2). L'inflessibilità di Sharon Nella seconda metà degli anni '70, nella fase di transizione dal governo laburista a quello del Likud, Sharon era emerso come il leader in grado di realizzare il sogno di una «grande Israele» che andasse al di là delle frontiere internazionali riconosciute. Incoraggiando gli israeliani ad insediarsi «ovunque» nei territori occupati, Shimon Peres ha sostenuto Sharon nell'attuare il programma del potente movimento bipartisan (Likud/laburisti), favorevole ad una «grande Israele» che si estenda dalle rive del Giordano alle sponde del Mediterraneo.
Venticinque anni dopo l'attuazione del piano di Sharon, il numero dei coloni nei territori occupati è passato da 7.000 nel 1977 ad oltre 200.000 nel 2002 - a cui vanno aggiunti altri 200.000 che vivono a Gerusalemme est. Le loro 200 colonie occupano l'1,7% del territorio della Cisgiordania, ma ne controllano il 41,9% (3). Alcuni di loro sono pericolosi fanatici armati, con licenza di uccidere da parte dell'esercito israeliano. Nel corso degli anni, gli squadroni della morte dei coloni hanno ucciso civili non armati, hanno lanciato attacchi terroristici contro funzionari eletti, e hanno torturato e ucciso numerosi palestinesi. Il mese scorso, i servizi di polizia hanno sventato all'ultimo momento un attentato contro civili palestinesi.
Dopo l'accordo di Oslo (1993), Israele ha triplicato il numero dei coloni e raddoppiato quello degli insediamenti, collegandoli fra loro con una serie di strade di raccordo e di zone industriali e assicurandosi il controllo dei territori palestinesi. In qualità di ministro delle infrastrutture nel governo di Benyamin Netanyahu, Sharon concentrò nei territori occupati i programmi di investimento di Israele. I governi di Rabin e Barak non sono stati da meno. In realtà, la massima proliferazione di insediamenti si è verificata proprio durante il governo di Barak con la supervisione di Yitzhak Levy, all'epoca leader del Nrp e ministro delle colonie (4). Quando giunse il momento di fare ordine in questo caos, al vertice di Camp David nel luglio 2000, i negoziati segnarono il passo, e sono poi falliti per l'insistenza da parte israeliana a conservare le colonie e il 9% della Cisgiordania. Si chiese ai palestinesi di firmare un accordo finale imperniato sulla promessa di un quasi-stato diviso in quattro regioni separate, accerchiate da blocchi di colonie. In pratica, il mantenimento delle colonie ha sabotato il tentativo di porre fine all'occupazione, e compromesso il processo di pace.
Dopo l'insuccesso del vertice di Camp David e lo scoppio della seconda intifada, il rapporto della Commissione internazionale guidata dal senatore americano George Mitchell sottolineò il fatto che la politica degli insediamenti ebraici non poteva procedere contemporaneamente al processo di pace. La Commissione raccomandò il congelamento delle colonie israeliane come condizione per far cessare il violento conflitto in atto e per riprendere le trattative di pace. Per tutta risposta, il governo Sharon decise di stanziare altri quattrocento milioni di dollari per le colonie.
Attualmente, settemila coloni controllano il 30% dei 224 kmq della striscia di Gaza, in cui abitano 1,2 milioni di palestinesi, in massima parte rifugiati. È praticamente impossibile muoversi dalla striscia di Gaza senza passare attraverso colonie fortificate con tanto di piscine e campi di basket, proprio al centro di un territorio sabbioso e sovrappopolato in cui l'acqua scarseggia e la terra coltivabile è un sogno. Nel primo anno dell'intifada, circa 400 case di palestinesi sono state distrutte da Israele nella striscia di Gaza, con il pretesto di proteggere le colonie vicine.
Allorché l'esercito chiese a Sharon di spostare i coloni da un certo numero di insediamenti particolarmente isolati per raggrupparli in altri, più vicini e più protetti, il primo ministro rifiutò, e giurò che non avrebbe smantellato neppure una colonia, fintanto che era al potere. Allora, nominò altri due ministri del Nrp, lo zoccolo duro dei fautori della colonizzazione, e li cooptò nel gabinetto di sicurezza che si occupa appunto dei territori occupati. Il modo migliore per descrivere la nuova geografia delle colonie è di considerare la Cisgiordania come un pezzo di formaggio svizzero.
I buchi, vuoti e lontani fra loro, sono i cantoni palestinesi, le cosiddette regioni autonome, mentre la bella massa gialla continua che li circonda sono le colonie israeliane. In Palestina vigono due leggi: una per i coloni, l'altra per i palestinesi. I primi possono circolare, costruire ed espandersi, mentre i secondi sono asserragliati in circa duecento cantoni. Gli israeliani continuano a espropriare sempre più terra, mentre i palestinesi ne hanno sempre di meno. In questi ultimi anni, Israele ha praticato il blocco delle zone palestinesi, imponendolo spesso con estrema durezza, a livello sia globale che locale, per facilitare gli spostamenti dei coloni. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale, questi blocchi sono stati l'elemento che più di ogni altro ha danneggiato l'economia palestinese e ostacolato il processo di costruzione della nazione, rendendo impossibile la vita dei palestinesi. Alcuni amici occidentali di Israele, come l'editorialista Thomas Friedman, ritengono che, se dovesse prevalere la logica dei coloni, Israele si trasformerebbe in un vero e proprio regime di apartheid. L'ex ministro israeliano della giustizia, Michael Ben-Yair, è convinto che la logica dei coloni fondamentalisti ha già partita vinta, in quanto Israele ha già «instaurato un regime di apartheid nei territori occupati» (5).
Il punto di vista dei coloni è ben diverso. Secondo il generale in pensione Eitam - astro nascente della destra religiosa - la «grande Israele» è «lo stato di Dio; gli ebrei sono l'anima di questo mondo; il popolo ebraico ha la missione di rivelare l'immagine di Dio sulla terra». Personalmente, ritiene di trovarsi «nella stessa posizione di Mosè e di Re David», là dove «un mondo senza ebrei è un mondo di robot, un mondo morto; e lo stato di Israele è l'arca di Noè del futuro del mondo, che ha il compito di rivelare a tutti l'immagine di Dio» (6).
Una nuova geografia del conflitto Nel corso degli anni, sia le famiglie di basso e medio reddito che i nuovi immigrati sono stati indotti a andare a vivere nelle colonie, con l'offerta di case a basso prezzo e incentivi economici, attingendo anche ai fondi per l'assistenza inviati dagli americani. Man mano che le promesse di una vita migliore lasciavano il passo all'incubo delle colonie, il pragmatismo dei coloni li spingeva sempre più verso un'ideologia di destra. Oltre il 94% dei coloni ha votato per Netanyahu, e poi per Sharon alle ultime elezioni.
Attualmente, alcuni fanatici fondamentalisti dominano il consiglio generale per la gestione delle colonie, ed esercitano una influenza determinante sulle scelte del governo israeliano.Dieci dei centoventi deputati della Knesset sono coloni, e tutti fanno parte della coalizione di governo. Tre coloni sono già stati ministri del governo Sharon, oltre a due vice ministri in carica, senza dimenticare il gran numero di responsabili di agenzie governative. Anche se la comunità internazionale le considera entità «extraterritoriali», le colonie rappresentano il focolaio più caldo del nazionalismo della grande Israele. A differenza dei loro connazionali che auspicano uno «stato ebraico» riconosciuto internazionalmente all'interno di frontiere sovrane, questi nuovi fanatici insistono sul fatto che la loro patria è la «terra d'Israele» e non lo «stato d'Israele»: e quindi, non accetteranno l'esistenza di un altro stato tra il Giordano ed il mar Mediterraneo.
L'influenza dei coloni nelle scelte politiche di Israele supera di gran lunga la loro consistenza elettorale. Nell'ultimo quarto di secolo, con la fugace eccezione dei governi Rabin e Barak, l'influenza dei coloni religiosi è aumentata costantemente, fino a costituire lo zoccolo duro delle coalizioni di governo guidate dal Likud. La loro forza è una minaccia non solo per la Palestina e la normalizzazione di Israele, ma per l'intera regione.
Infatti, i think tanks dei coloni elaborano un'ideologia di guerra in sintonia con i nuovi concetti americani quali «la guerra contro il terrorismo» e «l'asse del Male», i nuovi sistemi missilistici e la peggiore letteratura sensazionalista prodotta dal Pentagono.
I coloni sognano di combattere le guerre dell'America in stile israeliano, e la convivenza con i loro vicini è l'ultimo dei loro pensieri. Per loro, infatti, «Israele è la speranza del mondo», mentre «la barbarie morale palestinese è organizzata per impedirci di esserlo».
Paradossalmente, l'ultima ondata di attentati suicidi palestinesi ha fatto il gioco dei coloni. L'idea, palesemente infondata, che i palestinesi pretenderebbero non solo il ritiro di Israele dai territori occupati, ma l'eliminazione totale dello stato ebraico, ha avuto l'effetto di compattare la società israeliana sulle posizioni radicali dei coloni, facendo passare in secondo piano il problema delle colonie come ostacolo alla pace. La politica di colonizzazione perseguita a dispetto di tutti gli accordi sottoscritti ha tracciato una nuova geografia del conflitto, al punto che milioni di palestinesi e di israeliani vivono nel terrore, per la presenza dei coloni illegali che fanno precipitare la regione in una guerra coloniale e comunitaria.
Se Israele continua ad espandere gli insediamenti come ha fatto dopo gli accordi di Oslo, i coloni saranno ben presto un milione. A quel punto, sarà impossibile separare i palestinesi da Israele e dai suoi coloni senza procedere ad una pulizia etnica.
Una simile evoluzione pregiudicherà non soltanto il futuro dello stato palestinese, ma anche le chances di mantenere in vita lo stato ebraico, col diminuire della maggioranza ebraica sul territorio della Palestina mandataria (Israele, Cisgiordania e striscia di Gaza).
Fra dieci anni, i palestinesi saranno maggioritari e i milioni di ebrei ed arabi saranno sempre più inseparabili.
Al momento, la logica di Sharon e dei suoi coloni continua ad alimentare una situazione di conflitto permanente e di guerra in Palestina e nel Medioriente. Se non interverrà la comunità internazionale, la logica delle colonie porterà alla stessa impasse che si verificò alla vigilia della guerra del 1948, costringendo a scegliere fra uno stato binazionale e un nuovo tentativo di pulizia etnica. Ma questa volta Israele rischia di commettere un errore strategico dalle conseguenze drammatiche: pensiamo a come è finito Slobodan Milosevic...

note:

* Ricercatore all'Ecole des hautes études en sciences sociales (Ehess) e autore, in particolare, di Palestine/Israël: la paix ou l'apartheid, La Découverte, Parigi, 2002.
(1) Haaretz, Tel Aviv, 12 aprile 2002.

(2) The New York Times, 27 aprile 2002.
(3) Vedi www.btselem.org, «Israel's Settlement Policy in the West Bank», Tel Aviv, 13 maggio 2002.

(4) Come è noto, la quarta Convenzione di Ginevra, firmata da Israele e dagli Stati uniti, prevede che «il potere occupante non potrà deportare o trasferire parte della sua popolazione civile verso i territori che occupa».
(5) Haaretz, 3 marzo 2002.

(6) Haaretz, 28 aprile 2002.
(Traduzione di R. I.) aa qq Un delitto perfetto
di Ignacio Ramonet


Le Monde Diplomatique - giugno 2002
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/