Turchia, parla Veli Buyuksahin, segretario del partito filokurdo Hadep
«Ora Ecevit apra le prigioni»
Soddisfazione per le riforme, deciso no alla guerra all'Iraq


Dino Frisullo

«Noi oggi ci candidiamo a governare una nuova Turchia». Pochi anni fa parole simili sarebbero state impensabili in bocca al segretario generale dell'Hadep, il partito filokurdo che ha per simbolo una farfalla "perché ci hanno sciolti quattro volte ma siamo sempre rinati", il partito che non ha un solo dirigente che non abbia conosciuto la prigione, minacciato tuttora di scioglimento e additato dal premier Ecevit, insieme agli islamici, come "il grande pericolo" in vista delle elezioni anticipate di novembre.
Sembra di veder sorridere Veli Buyuksahin, raggiunto al telefono nella sede centrale di Ankara tante volte devastata dalla polizia. «Non credo di esagerare», insiste, «se dico che l'Hadep questa volta non solo supererà la soglia di sbarramento del 10% ma punta al 15% dei voti, mentre il quorum di tutti i partiti tradizionali è a rischio. E se altri partiti socialisti e progressisti raccoglieranno il nostro appello per un'alleanza democratica, potremmo contendere la maggioranza relativa ai Lupi grigi del Mhp e agli islamisti».

Questo sarà possibile anche grazie alle riforme passate in parlamento?
Diciamo che è il contrario. Quelle riforme non ce le ha regalate nessuno, sono il risultato della proposta di pace del movimento kurdo e di anni di resistenza civile. Non abbiamo atteso il permesso del parlamento per organizzarci liberamente, criticare gli apparati repressivi, parlare, scrivere e cantare in kurdo, e molti nostri compagni sono ancora in prigione per questo. In Europa la chiamate disubbidienza civile, vero? Le decisioni del parlamento sono un grande passo avanti e una vittoria nostra, di tutti i democratici kurdi e turchi. Ma non parlerei di giornata storica. Lo sarà quando si apriranno le prigioni dove ancora si muore, quando si varerà una nuova Costituzione, quando non si parlerà più di tortura.

Temete che il regime faccia marcia indietro, vi metta al bando e si rimangi le riforme, come negli anni '90?
Certo è possibile. La pena capitale si ripristina in caso di guerra o rischio di guerra, la lingua kurda entra nei doposcuola e nelle emittenti private ma non nelle scuole e nei media pubblici, e restano in vigore, insieme ai tribunali speciali, le leggi contro ciò che i giudici speciali chiamano "terrorismo" e "separatismo". Se si tornerà indietro dipende anche da voi, dalla vigilanza dell'Europa democratica, che invitiamo fin d'ora a un grande meeting internazionale a Diyarbakir in marzo, alla vigilia del Newroz. Comunque oggi è diverso, la caccia alle streghe di Ecevit non muove facilmente gendarmerie e tribunali. C'è una grande mobilitazione democratica, una formidabile rete di società civile. Ogni nostra riunione diventa un'assemblea popolare e poi una manifestazione. Se tornassero a bruciare i villaggi, incarcerare i candidati e far sparire le urne elettorali, come nel '95 e nel '99, la gente insorgerebbe.

Fatto il primo passo, cos'altro deve cambiare in Turchia?
Basta riguardare i dieci punti della Piattaforma di Diyarbakir, approvata solennemente da migliaia di persone tre anni fa. I primi due impegnavano i kurdi ad un dialogo di pace, gli altri otto impegnavano il governo ad abrogare la pena di morte, i tribunali e le leggi speciali, a sciogliere le milizie omicide come le guardie di villaggio che ancora pochi giorni fa hanno ucciso tre persone a Mus, a garantire piena libertà di espressione, a consentire il ritorno dei profughi, lo sminamento e la ricostruzione dei villaggi, a risolvere la questione kurda in un quadro di autonomie e pluralismo. Ed a varare un'amnistia generale che liberi tutti i prigionieri politici che si vorrebbero murati vivi nelle celle d'isolamento. Compresi Hatip Dicle, Leyla Zana e gli altri nostri deputati, detenuti da otto anni nonostante le condanne di Strasburgo. Compreso Abdullah Ocalan.

La Turchia sta diventando il trampolino della guerra all'Iraq, che si combatterà in gran parte in territorio kurdo. Cosa ne pensa l'Hadep?
Siamo assolutamente contrari. Saddam Hussein ha massacrato la nostra gente, ma la guerra aggrava i problemi, non li risolve. E l'economia di guerra impoverisce tutti. Inoltre questa guerra si configurerebbe come un attacco al mondo arabo, e noi lottiamo per la convivenza di tutti i popoli del Medio oriente. Certo, in un quadro di democrazia e di federalismo, anche in Iraq. Ma la democrazia non viaggia sulle ali dei bombardieri. Al contrario: un clima di guerra metterebbe a rischio tutte le nostre conquiste, anche in Turchia.

Liberazione 6 agosto 2002
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