Immagine tratta dal sito http://www.henrythornton.com/
Una delle conseguenze dell'assoluta indifferenza della civiltà indiana per la storia è il fatto che le origini dei Rajput sono avvolte in una spessa coltre di nebbia. I brahmani non hanno prodotto nulla di simile a ciò che i Greci chiamavano "inchieste", bensì solo una letteratura piena di fantasione genealogie in cui i Rajput sono descritti come essere generati da alcune delle più venerate figure della lussureggiante mitologia indù, e precisamente da Rama, Krishna e Agni; dal primo sarebbe nata la "razza solare" (Surya-vanshi), dal secondo la "razza lunare" (Chandra-vanshi), infine dal terzo la "razza ignea" (Agni-kula). Esattamente come gli aristoi dell'antica Grecia, i Rajput rivendicavano uno status ontologico privilegiato, grazie al quale legittimavano la loro pretesa di essere gli unici abilitati a governare e ad esercitare le arti marziali. Pretendevano, insomma, di essere una genia di origine divina, di fronte alla quale gli uomini comuni non potevano che avere un dovere: obbedire con dedizione e perfino con devozione. Donde la particolare cura con la quale ogni clan rajput provvedeva alla redazione del suo gotra-charya (albero genealogico) nel quale erano, per così dire, certificati i titoli di nobiltà - origini, imprese, eroi, numi tutelari, ecc. - che legittimavano i diritti e i privilegi che esso rivendicava a petto delle caste inferiori.
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I Rajput costituivano una tipica aristocrazia della spada. La guerra era il loro Beruf: una professione che era anche una vocazione. Nel loro modo d'essere, tutto era in funzione dell'esercizio delle attività marziali: l'educazione morale, il dressage professionale, il codice d'onore, lo stile di vita, l'ideologia. Essere un uomo, per un Rajput, significava essere un guerriero. Ma un guerriero di tipo particolare, che doveva rispettare "religiosamente" il dharma (legge) della sua casta, il quale gli faceva obbligo di combattere secondo regole minuziosamente elaborate , che non potevano essere assolutamente violate, pena la perdita dell'onore.
L'onore (pratap) era il valore centrale della cultura rajput: ad esso ogni guerriero doveva essere pronto a tutto sacrificare: la vittoria, il potere, la ricchezza e persino la vita. D'altra parte, solo conformandosi a ciò che imponeva tassativamente il dharma della sua casta, un Rajput poteva essere all'altezza del suo status privilegiato e rivendicare il diritto di appartenere a una genia di origine divina. Il che lo rendeva colmo di smisurato orgoglio e altezzosamente cosciente della sua superiorità morale, attestata, prima di tutto e soprattutto, dal fatto che egli era in grado in ogni momento di vincere la paura della morte.
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La generosità dei Rajput si spingeva sino al punto che essi consideravano un sacro dovere offrire asilo (sirna) persino ai nemici che ne facevano esplicita richiesta. Talvolta non esitavano a sacrificare la vita pur di proteggere chi, nell'estremo bisogno, si era rivolto a loro. Come fece Raja Kampiladeva. Nel 1327 Naha-ad-Din-Garshap aveva preso le armi contro lo zio Muhammad ibn Taghlaq. Sconfitto a Devagiri, per sottrarsi alla vendetta del sultano si era presentato alla corte di Kampiladeva. Questi, pur essendo Garshap un mlechchha, lo accolse con grandi onori e assunse il solenne impegno di proteggerlo a qualsiasi costo. Come era logico prevedere, Muhammad ibn Taghlaq inviò un esercito a Kampili con l'incarico di riportare a Devagiri il nipote ribelle. All'arrogante richiesta, Kampiladeva replicò che, ospitando Garshap, aveva impegnato il suo onore di raja e che quindi avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per tenere fede alla parola data. Seguì uno scontro, durante il quale i Turchi ebbero la peggio. Un secondo esercito fu inviato dal sultano, sempre più furente. Nuovo scontro. Nuovo smacco dei Turchi. Ma Muhammad ibn Taghlaq, il cui dominio si estendeva su quasi tutta l'India, aveva sufficienti risorse per soddisfare la sua sete di vendetta. Un terzo esercito, ancor più potente dei precedenti, calò su Kampili. Questa volta Kampiladeva giudicò impossibile affrontare in campo aperto i musulmani e si rifugiò con il suo ospite nella fortezza di Anagondi, che veniva considerata pressoché inespugnabile. Le provviste, però, risultarono del tutto insufficienti per resistere a un lungo assedio. Allora l'orgoglioso raja prese l'unica decisione che avrebbe potuto salvare il suo onore: immolatesi le donne secondo il rito del johar, uscì dalle mura di Anagondi per morire con la spada in pugno, non prima, però, di mettere in salvo Garshap, inviandolo sotto scorta presso la corte di Raja Vira Ballala Hoysala.
Dal volume I Rajput. Storia, leggende e tradizioni dei Samurai dell'India di Luciano Pellicani (Newton Compton - 1994)