Gli Stati Uniti non firmano il protocollo dell'Onu contro gli abusi carccerari
La tortura secondo Bush


Daniele Zaccaria

Un diplomatico Usa: "Viola le nostre leggi" Il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite ha approvato ieri un importante protocollo per sanzionare gli stati che nel mondo praticano la tortura. Ma gli Usa si sono atenuti. Dopo un lungo ciclo di discussioni, in cui Washington ha a lungo osteggiato il contenuto del documento, invocando la sua presunta incongruenza con il dettato della Costituzione americana, l'Onu è riuscita a spuntarla.

Anche perché molte delegazioni cominciavano a mostrare visibili segni d'insofferenza verso il sistematico ostruzionismo della Casa Bianca: «Gli Stati uniti vogliono guadagnare tempo per uccidere il protocollo», aveva tuonato poco prima dell'accordo la Danimarca, Presidente di turno dell'Unione europea. Non del tutto a torto, in quanto, per riuscire a rinviare il voto, la diplomazia statunitense si era prodigata in una vera e propria schermaglia giuridica, evocando e comparando leggi, trattati e convenzioni internazionali, per riuscire a dimostrare come un tale protocollo costituisse una flagrante ingerenza nella sua sovranità nazionale: "E' una violazione delle nostre leggi e del nostro ordinamento giudiziario", si è giustificato goffamente un delegato. Ma, come spesso accade, ogni disputa ideologica dissimula un interesse più che concreto. In questo caso il problema risiede nel carattere effettuale delle sanzioni previste nel testo.

A cominciare dall'istituzione di un ispettorato incaricato di compiere dei controlli a sorpresa per verificare le condizioni di detenzione dei prigionieri nei differenti paesi. Un'autentica spada di Damocle per una nazione che è da tempo nel mirino delle Nazioni Unite e delle associazioni umanitarie, per il trattamento riservato ai membri di Al Qaeda, rinchiusi nella prigione militare di Guantanamo. La dissociazione di ieri, impedirà che gli ispettori dell'Onu possano presentarsi ai cancelli del famigerato campo di detenzione "X-ray" per verificarne le condizioni di detenzione. Infatti, solo le nazioni firmatarie del protocollo, sono soggette ai suoi vincoli: ragion per cui ora Washington non corre più tali pericoli.

Ma anche senza scomodare le poco limpide procedure della giustizia militare, è l'intero sistema carcerario americano che avrebbe rischiato di venire di venire messo all'indice dall'opinione pubblica internazionale. Le recenti esibizioni muscolari della polizia californiana verso ragazzi neri (prontamente riprese dalle sempre più provvidenziali telecamere amatoriali), hanno infatti riaperto il mai archiviato dibattito sull'effettiva democraticità delle forze dell'ordine statunitensi, e delle loro costanti performance a base di manganellate contro cittadini inermi, ma considerati "sospetti".

Il testo finale, approvato con 35 voti a favore, 8 contrari e dieci astensioni (assieme agli Usa si sono schierati anche la Cina, la Russia, Cuba, Sudan, Egitto, Pakistan e Libia) è il frutto di uno sfibrante itinerario diplomatico durato più di dieci anni (l'ultimo trattato anti-tortura era quello di Ginevra del 1984, condiviso peraltro anche dagli Usa, ma erano altri tempi). E che ora riceve l'applauso delle principali organizzazioni umanitarie: «Siamo felici. il protocollo diventerà un autentico strumento contro l'uso politico della tortura. La maggior parte degli stati si è resa conto che, invocando l'unanimità, gli americani ponevano di fatto un veto sul documento» ha esultato Joanna Weschler di "Human Rigth Watch". La ratificazione finale della bozza da parte dell'Assemblea dell'Onu (che scriverà nero su bianco gli orientamenti generali del protocollo) è prevista per il prossimo autunno, ma ormai sembra una pura formalità.

E dire che appena qualche giorno fa, nel corso di una conferenza stampa a Mosca, l'ambasciatore degli Stati Uniti in Russia, Alexander Vershbow, aveva duramente denunciato «le gravi violazioni dei diritti dell'uomo sulla popolazione civile cecena, commesse dalle forze armate russe nel nome della lotta al terrorismo». Colpisce in particolar modo l'umoristico riferimento alla pretestuosità della "lotta al terrorismo", che poi non è altro che l'asse attorno a cui ruota l'intera strategia militare di Casa Bianca e Pentagono dall'undici settembre in poi. Il più inamovibile presupposto concettuale della "guerra infinita"di George. W. Bush, che è servito da cauzione per i bombardamenti in Afghanistan e nella realizzazione di imponenti dispositivi securitari nelle grandi città occidentali. Detta da un loro esponente, una frase del genere acquista davvero il sapore della beffa.

Ma evidentemente la macabra geografia degli abusi militari non disegna una omogenea mappa delle responsabilità, le quali variano a seconda di chi sia il soggetto che commette le "gravi violazioni dei diritti umani". Tra il dire e il fare spesso, s'interpongono gli stringenti dettàmi della realpolitik e le mille articolazioni della "ragion di stato". Che oggi pongono gli Stati uniti di fronte ad una contraddizione grande come una casa. Da un lato si fregiano d'incarnare l'essenza stessa della democrazia, autoproclamandosi avanguardia della comunità internazionale. Ma dall'altro sono i primi ad infrangerne le regole, appena queste ultime intralciano i loro interessi nazionali.

Liberazione 26 luglio 2002
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