No Global, ai giornali piace caldo
di Piero Sansonetti
Dal dopoguerra ad oggi, in Italia, abbiamo visto grandi movimenti di massa alternarsi sulla scena politica. Se l’Italia oggi è un paese moderno e forte, deve molto a loro. Generalmente questi movimenti hanno avuto la loro base, la loro forza, nelle nuove generazioni. È stato così all’inizio degli anni ‘60 (dopo il luglio di Genova, di Reggio Emilia e di Palermo, e dopo la repressione feroce della polizia), è stato così nel ‘68, è stato così nel 1977. Questi movimenti hanno avuto molte motivazioni, molti obiettivi, e anche una varietà abbastanza grande di posizioni politiche al proprio interno.
Tutti - più o meno - hanno subìto la tentazione della violenza, e l’hanno praticata in varie forme. Nel 1977 le frange più estremiste del movimento si avvicinarono molto al terrorismo: restò un confine, ma un confine fragile tra loro e le le brigate rosse.
Il movimento no-global, dopo le furiose giornate di Genova, non ha commesso neppure il più piccolo atto violento. E le indagini della magistratura sulle giornate del G8 stanno dando risultati abbastanza chiari: la violenza fu scatenata dai black-block e dalla polizia, poi fu proseguita dalle forze dell’ordine all’interno della scuola Diaz e nelle caserme. Il movimento no-global (dall’Arci, alle organizzazioni cristiane, ai cobas, ai “disobbedienti” di Casarini) fu aggredito e non aggressore. E nonostante la morte di Carlo Giuliani, nonostante le centinaia di feriti, nonostante gli indegni episodi di tortura in caserma - dei quali hanno parlato con orrore i giornali italiani, americani, tedeschi, svizzeri - il movimento ha vissuto un altro anno intero senza cadere nella tentazione di rispondere alla violenza con la violenza. Sabato scorso a Genova hanno sfilato 100 o 150 mila persone in un clima totalmente pacifico. E’ stato un corteo immenso e molto importante, anche perché ha dimostrato che il declino del movimento non esiste. Possiamo dire, non per paradosso ma per rispettare la verità, che questo è il primo movimento giovanile di massa, da mezzo secolo, del tutto estraneo alla violenza. Lo è per scelta, per cultura, per tradizione.
Per questo ci si stupisce un po’ quando ci si accorge che sui giornali, nelle Tv - e persino in alcune zone del movimento - la discussione fondamentale sembra essere quella su violenza e non-violenza. Non si capisce il senso di questa discussione, né la sua urgenza, né i suoi obiettivi.
L’altro giorno Luca Casarini, che è uno dei leader più conosciuti dell’area no-global, e lo è da diversi anni, ha conquistato i giornali (e molte prime pagine) con una frase pronunciata all’assemblea che il movimento ha tenuto a Genova, il giorno dopo la manifestazione. La frase diceva pressapoco così: «il movimento deve alzare il livello del conflitto, perché siamo ormai nell’epoca della guerra globale. Il forum che terremo a Firenze, in novembre, deve essere un momento di rottura e non di accordo con le istituzioni. Dovremo organizzare la sovversione sociale, occupare le case per darle agli immigrati senza tetto, colpire le banche imperialiste. Questo movimento non è un movimento non-violento». La dichiarazione di Casarini è molto piaciuta ai giornali, specie quelli più ostili al movimento, che l’hanno esaltata, sottolineata, usata come prova provata che ormai siamo sull’orlo della guerra civile. Le parole che più hanno colpito l’immaginazione sono quelle che riguardano la “sovversione sociale”, che nessuno sa con esattezza cosa voglia dire, ma tutti ne intendono il suono anarchico, ottocentesco, temibile (sembra di sentire i versi della vecchia canzone di Paolo Pietrangeli: “sapesse contessa all’industria di Aldo...”). Le parole più concrete invece sono quelle sulle occupazioni delle case e sulle banche. Le parole più semplici sono quelle di rifiuto della non-violenza, che peraltro Casarini ripete da molto tempo ma che non gli hanno impedito, sin qui, di restare un manifestante pacifico anche se “verboso”.
Giusto un anno fa, poche ore prima che uccidessero Giuliani, ero accanto a Casarini che guidava il corteo dei “disobbedienti”. Lo ho sentito varie volte impartire l’ordine di fermare il corteo, per evitare di essere coinvolti negli incidenti e nelle provocazioni dei black block. Poi, dopo le due e mezzo del pomeriggio, a un certo punto Casarini ha detto a un suo collaboratore queste testuali parole: «Basta, ora andiamo: non ci fa paura la polizia dell’impero, figuriamoci ce ci possiamo fare impressionare da quattro stronzi con la tuta nera...». Due minuti dopo la polizia ha caricato il corteo, e Casarini - come me e molte altre migliaia di persone - è fuggito via, perché la polizia dell’Impero in realtà fa paura, perché era armata fino ai denti e perché nessuno in quel corteo aveva un bastone, una spranga, una fionda o nulla del genere. Avevano solo gommapiuma e salvagenti da barca.
Perché fingersi violenti? Per un semplicissimo motivo: perché ai giornali piace così. I giornali non mettono in prima pagina un corteo di centomila persone, mettono in prima pagina la frase di Casarini. Nessuno conosce il programma politico che sarà alla base del forum di novembre (e al quale lavorano centinaia di militanti del movimento) tutti conoscono la frase ad effetto di Casarini.
Agnoletto, e cioè il portavoce dei no-global, sostiene che la colpa è tutta della stampa, che ama innescare questi meccanismi nei quali una frase vale più di qualunque atto politico. E che è disinteressata alla sostanza del movimento, alle sue elaborazioni, alle sue idee, alle sue proposte: ne ama solo la parte spettacolare, pettegola. Agnoletto ha torto. La colpa è della stampa ma è anche di chi si diverte a giocare con le prime pagine. Perché il risultato che ottiene è disastroso. Costringe il movimento ad arretrare, a difendersi, a discutere di cose vecchie e poco interessanti. Questo è stato l'esito della frase pronucniata da Casarini in assemblea. In cambio di che? Un po’ più di visibilità per i disobbedienti? Poco, troppo poco.
l'Unità 22 luglio 2002
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