Declassificata l'accusa al presidente dell'Union Carbide Anderson da omicidio a negligenza

Bhopal, una strage senza colpevoli

Dopo 22 anni nessun responsabile, nessun risarcimento alle vittime


Sabina Morandi

La notte del 3 dicembre 1984 una fuga di gas, fuoriuscita dagli impianti della fabbrica di pesticidi di proprietà della multinazionale americana Union Carbide, ha investito la città di Bhopal, nel Nord dell'India. Non si saprà mai quante sono state le persone che hanno effettivamente perso la vita nelle prime ore dall'incidente. Le stime ufficiali parlano di 16 mila morti e di almeno mezzo milione di intossicati gravi che riporteranno danni permanenti, ma è ormai accertato che hanno perso la vita più di 30 mila persone, per la maggior parte residenti nella baraccopoli costruita a ridosso degli impianti. E' proprio per questo che un serio conteggio delle vittime non è mai stato effettuato. Quella gente, venuta dalle campagne impoverite per cercare un lavoro nella città del miracolo economico, non è stata mai registrata da nessuna parte e, quindi, si può dire che non sia mai esistita. Certo, faceva comodo come manovalanza per i lavori a giornata della grande fabbrica, ma poi la sera scompariva nelle baracche di lamiera. E una sera, è scomparsa per sempre.
Oggi, a ventidue anni da quella notte, nessun responsabile ha pagato e nessun risarcimento è mai arrivato a destinazione. Oggi le persone continuano a morire per gli effetti del gas tossico, i bambini deformi continuano a nascere e l'acqua continua a essere inquinata. Eppure il governo indiano si appresta a chiudere la pratica una volta per tutte.

Che il Sevin fosse una sostanza altamente tossica lo sapevano tutti. Per fabbricarlo è necessario impiegare l'isocianato di metile, probabilmente il più pericoloso gas mai sintetizzato dall'industria chimica. Ma non bisogna immaginare che la fabbrica di Bhopal fosse meno attrezzata della sua omologa in Virginia.

Una fabbrica modello
La costruzione dell'impianto nella ricca e antica città di Bhopal venne affidata ai migliori ingegneri della Union Carbide che, nel 1976, sbarcarono in India armati di buone intenzioni e, soprattutto, di rigidissimi protocolli di sicurezza. Cosa andò storto?

Nel suo bellissimo libro, Mezzanotte e cinque a Bhopal, i Dominique Lapierre e Javier Moro, descrivono alla perfezione la concomitante serie di eventi infausti che hanno portato al disastro. Burocrazia locale, errori di marketing - ovvero tonnellate di Sarin rimaste invendute - e soprattutto una certa tendenza al risparmio che, nel corso di qualche anno, ha mandato in malora la fabbrica modello. Mentre negli anni '80 il clima politico cambiava e la sicurezza diventava un optional, il boss della Union Carbide, quel signor Anderson latitante ormai da qualche anno, tagliava le spese. Fu lui a ordinare lo smantellamento delle rigide misure di sicurezza imposte dagli specialisti statunitensi, e fu sempre lui a restare sordo agli appelli dei suoi ingegneri, molti dei quali, di fronte alla sordità del management, diedero le dimissioni.

Nel dicembre dell'84 si erano accumulati tutti gli elementi: le masse di disperati accampati intorno alla fabbrica a mendicare qualche lavoretto, gli impianti ormai fatiscenti, gli allarmi e i meccanismi di sicurezza smantellati da anni, e, infine, l'accumulo di Sarin invenduto che era stato tassativamente vietato dalle vecchie norme di sicurezza. A tutto ciò bisogna aggiungere che il personale medico non aveva alcuna possibilità di gestire l'emergenza visto che, in nome del segreto industriale, la Union Carbide non aveva mai voluto rivelare la composizione del gas tossico e senza quella informazione non era assolutamente possibile preparare degli antidoti.

"Solo negligenza"
Elementi per mandare in galera Warren Anderson, allora capo della Union Carbide, ce ne sarebbero eccome, anche se l'iter di un processo del genere, con tutte le complicazioni della giurisdizione internazionale, è lungo per definizione. Per non rischiare, comunque, Anderson ha evitato di presentarsi davanti ai tribunali per tutti questi anni, fidando sulle corti statunitensi che, però, non gli hanno dato sempre ragione. Nel novembre scorso, ad esempio, una corte di giustizia di New York ha dato ragione al gruppo di sopravvissuti che da anni si battono per il risarcimento delle vittime e per la bonifica del territorio. Con il passaggio della Union Carbide alla Dow Chemical, infatti, si rischiava che la causa si dissolvesse nel nulla. I tribunali Usa hanno invece dato ragione ai sopravvissuti e la causa per risarcire sia i familiari delle vittime che chi continua a soffrire di danni permanenti, può continuare.

Tutto bene dunque? Neanche per sogno. Visto che nei tribunali statunitensi la transnazionale non trova appoggi, tanto vale rivolgersi direttamente al governo indiano. Con un abile colpo di mano la Corte di Giustizia di Bhopal ha trasformato l'accusa a Anderson da omicidio a negligenza, carico per il quale non è prevista l'estradizione. Poi, per tacitare la propria base elettorale, il partito fondamentalista indu al potere ha stanziato delle indennità straordinarie per gli abitanti - ovviamente indu - di alcuni quartieri di Bhopal che, fra l'altro, non sono stati toccati dalla nube. Gli abitanti delle baraccopoli, poveri e musulmani, si devono rassegnare.

Sciopero della fame
Dal 29 giugno scorso Tara Bai, Rashida Bee e Satinath Sarangi, le tre donne sopravvissute alla catastrofe che hanno fondato il Bhopal Group for Information and Action, sono in sciopero della fame. A loro si sono uniti molti degli attivisti che manifestano a New Delhi quasi quotidianamente. I militanti si scagliano contro la recente decisione del governo sulle imputazioni di Anderson ma anche contro il fatto che le compensazioni siano utilizzate per pagare l'opera di bonifica e non per compensare le vittime, come decretato dai tribunali che si sono pronunciati.

Restano due considerazioni. In primo luogo, il tentativo di riabilitare le corporation che va sotto il nome di "social responsability" dopo le decisioni su Bhopal si rivela per quello che è: una mossa propagandistica che non implica alcuna presa in carico di responsabilità. Oltreoceano le grandi corporation possono continuare a fare quello che vogliono. La seconda considerazione è di ordine politico. L'approccio nazionalistico delle destre - fondamentaliste o meno - all'atto pratico si rivela un bluff. Il partito indu che ha vinto le elezioni con una campagna elettorale tutta in chiave anti-occidentale e anti-corporation, alla prima occasione ha calato le braghe. Una lezione da cui bisognerebbe trarre insegnamento anche alle nostre latitudini.

Liberazione 11 luglio 2002
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