di Fausto Bertinotti
Questa maggioranza parlamentare non è invincibile. Lo hanno dimostrato ieri le dimissioni del ministro dell’Interno, che sono finalmente un segno di chiarezza, un atto di pulizia nei complessi e spesso incomprensibili giochi della politica.
Ma sbaglierebbe chi, offuscato dalle manovre di palazzo, che pure ci sono, non vedesse la vera causa di questa sconfitta del governo di centrodestra, non sapesse leggere nei motivi profondi, ma evidenti, delle dimissioni di uno dei più importanti membri dell’esecutivo. Esse sono il risultato di un movimento di opinione vasto, che in questi mesi, da Genova in poi, si è rafforzato nelle sue opinioni, ha lottato contro la repressione poliziesca, contro i tentativi di colpire le fasce giovanili, contro la criminalizzazione del conflitto sociale. Quel movimento ha logorato, colpito e indebolito le fondamenta di una macchina statale che voleva limitare libertà e diritti. Così di fronte ad un ministro che ha detto una cosa indicibile il caso è scoppiato e il governo ha dovuto cedere. Possiamo dire ancora una volta “ben scavato vecchia talpa”.
Ma queste dimissioni sono anche il frutto di una intrinseca debolezza di questo esecutivo, il risultato di una scelta politica sbagliata che questo governo ha perpetrato con protervia. La connessione fra terrorismo e conflitto sociale pareva un’arma fortissima contro i lavoratori e contro il sindacato. Pareva l’efficace grimaldello attraverso il quale l’antagonismo sociale sarebbe stato soffocato e la voce dei lavoratori sarebbe stata messa a tacere. Perciò quella improponibile connessione è stata affermata, diffusa, propagata. Si è rivelata un boomerang. Ieri il governo è risultato più debole proprio sul terreno sul quale voleva stravincere. E la sua sconfitta sul terrorismo può preludere ad una sconfitta sul piano sociale. Non è un eccesso di ottimismo che oggi ci fa dire che da questa vicenda esce un incoraggiamento per la lotta sull’articolo 18 e anche per una opposizione al dpef, ma la constatazione che il governo ha perduto una battaglia, che l’arma sulla quale puntava di più ha perso efficacia.
Non è la sua prima sconfitta. Esso infatti in pochi mesi ha perduto il ministro degli Esteri e il ministro dell’Interno. Due ministeri fondamentali, ma per questo governo persino più importanti, la cui crisi modifica lo stesso significato della compagine governativa. Con le dimissioni di Ruggiero è infatti saltato il rapporto con le imprese della globalizzazione, con quel mondo dell’industria nazionale ed internazionale che puntava sicuramente ad una maggiore rappresentanza e presenza nel governo del paese. Con le dimissioni del ministro dell’Interno si scoperchia un’altra contraddizione, quella interna a Forza Italia, alle sue anime e ai suoi schieramenti. Il partito del premier per la prima volta si divide e si scompagina e il suo leader non riesce ad impedirlo. Riesce solo a dare una risposta immediata ed accentratrice. Le dimissioni dei due ministri hanno come conseguenza una concentrazione di potere nelle mani del premier, accentuano un carattere monarchico del suo mandato. Berlusconi e il suo governo possono continuare a vivere solo se si rafforza una spinta centripeta che porta tutti i poteri nelle mani di uno solo, del capo, padrone assoluto del partito, della coalizione, del governo.
E’ questa tendenza alla monarchia assoluta un segnale di debolezza o un segnale di forza? Paradossalmente di entrambi. E’ una tendenza ambigua che solo il ruolo dell’opposizione può sciogliere in un senso o nell’altro. Una opposizione che sappia approfittare di questo momento per aprire fino in fondo la contraddizione sociale ed esprimere il protagonismo e l’antagonismo dei lavoratori renderebbe evidente la debolezza di un governo monarchico perché più solo. Ancora una volta la cartina di tornasole è l’articolo 18, la condizione dei lavoratori, il ruolo del sindacato. E’ questa l’occasione da non perdere. L’opposizione saprà coglierla?
Liberazione 4 luglio 2002
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