E’un boccone duro da mangiare giù, a maggior ragione trattandosi di un digiuno.
Io sono dell’opinione che ogni cosa si muova, ricordando il nome di Giuliana Sgrena e la sua condizione, sia utile.
Forse non a lei, forse non alla sua liberazione, ma almeno a chi attende e non può accettare di limitarsi ad attendere. Ed è utile ricordare il suo nome all’opinione pubblica araba, e far sì che quella italiana non dimentichi: fa bene, e va bene, persino il palco di Sanremo.
E’ più discutibile, invece, l’appello di un gruppo di religiosi che invita al digiuno, a staffetta, davanti a palazzo Chigi. Uno vorrebbe aderire, anche per la forma di protesta scelta, non violenta, e di nobili tradizioni, e adatta allo scopo più di tanti comizi.
Ma è l’appello che non convince.
Intanto si apre con la richiesta del ritiro delle truppe italiane: richiesta legittima, e perfino forse dettata dalle circostanze – è esattamente quello che chiedono i sequestratori - ma vederla campeggiare lì, al primo posto insospettisce: non erano disponibili, gli imam di Firenze e Colle Val d’Elsa a limitarsi a chiedere, in nome della sacralità della vita umana, la sola salvezza di Giuliana? O, piuttosto di un minimo comune denominatore faticosamente raggiunto tra i religiosi, quella richiesta è un punto di principio, orgogliosamente ribadito da Alex Zanotelli, don Ciotti, dom Franzoni, don Albino Bizzotto, monsignor Bettazzi?
Un gesto politico più importante della richiesta, e tale da precederla, della liberazione di Giuliana? Se è così, va riconosciuto il diritto ai religiosi di entrare nel merito, di dire la loro sull’Iraq in generale. Ciò che infatti fanno, chiedendo la “fine di una guerra spaventosa, essa stessa generatrice di terrorismo”.
Lo spazio, negli appelli, è tiranno, ma è inevitabile chiedersi, e chiedere loro come mai non sentano il bisogno, e l’urgenza etica di condannare il terrorismo in quanto tale, riducendolo a una sottocategoria, figlia del male rappresentato da Bush.
Ora, a noi risulta che l’11 settembre venga prima dell’Afghanistan e dell’Iraq.
Risulta anche che, per criticabile fosse l’invasione del paese di Saddam – niente armi di distruzione di massa, legami pressoché inesistenti tra il regime e al Qaida, giustificazioni etiche sulla fine di un dittatore che stridono con tante altre compiacenze nei confronti di dittatori amici – e per criticabili che siano stati i comportamenti ad essa seguiti – scioglimento dell’esercito, debathizzazione frettolosa e incerta, frontiere aperte all’internazionale fondamentalista, vergogne di Abu Ghraib, ritardi nel fronteggiare l’insurgenza sunnita con metodi politici e militari – in Iraq oggi c’è una sola guerra in corso: quella dichiarata dal terrorismo alla normalizzazione del paese, a suon di attentati, omicidi e sequestri.
Vogliamo veramente liberare gli iracheni?
Siamo per la liberazione, oltre che degli ostaggi, degli iracheni tutti da questa minaccia? Liberiamoli dalla presenza dei militari stranieri, dicono i religiosi. Religiosi che uno si aspetterebbe pronunciarsi, una volta che vogliano entrare nel merito, su altre questioni.
Va bene, la correttezza politica porta a fare il nome, dopo Sgrena e Aubenas, di Hussein Hanoun, l’iracheno sequestrato con quest’ultima.
Non importa che la fragilità ossequiosa di questa correttezza politica ci abbia fatto dimenticare presto il nome di quell’italoiracheno, il cui fratello parlava e piangeva con accento veneto, ucciso nella distrazione di noi tutti.
Ma importa qui ricordare il nome di Minas Ibrahim Al Yussufi, il leader del partito democratico cristiano rapito il 28 gennaio.
Lui niente libertà?
E lo stato di persecuzione in cui sopravvive la comunità cristiana? Si sa o non si sa delle bombe alle chiese, delle bombe alle rivendite di alcolici, delle bombe ai saloni di bellezza, dei sequestri “economici” ai cristiani delle professioni liberali, delle prepotenze curde contro i cristiani di Mosul, esclusi dal voto?
Tutte quisquilie, e tutte figlie della madre di tutte le ingiustizie, la guerra di due anni fa?
I curatori d’anime non hanno niente da dire?
Neppure una colazione saltata in nome della libertà di preghiera?
Il puntiglioso sguardo di questi uomini di fede, è strabico. Bastava, forse, un appello impastato di pietà e semplicità, a fianco di ogni vittima, e con i nomi delle più care come un simbolo per tutte, un gesto di pace e di religiosità autentica.
Hanno voluto dire la loro, come degli ulema di turno, lasciando a noi di aderire all’appello, per quel pezzo che condividiamo, e digiunare per conto nostro, un giorno qualunque, a casa nostra, masticando amaro e a vuoto, come capita certe volte di mangiare, da soli, solo perché si deve.
Toni Capuozzo su il Foglio del 4 marzo
saluti