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    Predefinito 12 ottobre

    Oggi, ricorrenza della scoperta dell'America, da parte di Cristoforo Colombo, vorrei onorare questa data ricordando la festività della solenne Dedicazione della Basilica della Madonna del Pilar a Saragozza.
    Sin dall'Alto Medioevo, questa si celebrava il 12 ottobre. E fu proprio in questo giorno, nel 1492, che Cristoforo Colombo approdò, per la prima volta, sulle coste del Nuovo Mondo. Una coincidenza che, in una prospettiva di fede, può considerarsi provvidenziale, data la grande venerazione che il comandante italiano aveva per la Madonna. Non a caso una delle tre caravelle si chiamava "Santa Maria", in onore della Vergine.





    La venerazione verso la Madonna del Pilar è antichissima, risale alle origini stesse del Cristianesimo ed alla prima evangelizzazione in terra iberica.
    La Vergine, infatti, sarebbe venuta a Caesarea Augusta (Saragozza) nella notte del 2 gennaio del 40 d.C., ancora vivente a Gerusalemme, per confortare l'apostolo Santiago (S. Giacomo il Maggiore) ed i suoi primi iberici da lui battezzati, sconfortati per gli scarsi frutti portati dalla prima predicazione. Per questo, lasciò un pilar (un pilastro) quale simbolo di forza e tenacia della fede.
    Da allora la diffusione della fede cristiana trovò un nuovo slancio e più numerose giunsero le conversioni.
    Da allora anche quel "Pilar" divenne oggetto di grande devozione per tutti gli spagnoli. Sul luogo dell'apparizione oggi esiste uno dei più grandi santuari della Cristianità, che sorge imponente sulla riva destra dell'Ebro, chiamato dai latini Hiberus, e che ha dato nome all'intera penisola, Hiberia, appunto.
    In questo Santuario, nella Santa, Angelica y Apostolica Capilla, si venera il Sacro Pilastro, sormontato dalla statua della Vergine, su uno sfondo di marmi preziosi e di 148 stelle d'oro incrostate di gemme. Il Pilastro non è altro che una colonna di diaspro alta circa un metro e 70 centimetri, con un diametro di 24. La statua, in legno nero, è alta meno di una quarantina di centimetri. La colonna è rivestita d'argento ed è coperta da un prezioso drappo, che è cambiato ogni alba, secondo i colori liturgici del giorno.
    Nel Grande Santuario accorrono sin dall'alba schiere innumerevoli di fedeli a salutare la loro Madonna; in esso hanno lavorato artisti insigni come Francisco Goya y Lucientes, araganose e dunque gran devoto della sua Vergine del Pilar.
    Ella è patrona della Spagna e della Hispanidad.

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    Pio XII dinanzi all'effige della Madonna del Pilar

    Giovanni Paolo II al Santuario nel 1982

    Francisco Bayeu, La Vergine del Pilar tra S. Pietro e S. Gregorio Magno



    In queste due cartolline che precedono, l'immagine della Madonna del Pilar divenne anche simbolo di lotta politica durante la guerra civile spagnola, quando, nell'estate del 1936, tre bombe furono lanciate sul santuario, suscitando un'ondata di indignazione persino tra i "rossi"

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    Cristoforo Colombo, l’espansione europea e la scoperta dell’America

    di Marco Tangheroni


    in AA. VV., Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Piemme, Casale Mon.to 1994, 259 ss.
    «Siamo riuniti di fronte a questo Faro di Colombo, che con la sua forma a forma di croce vuole simbolizzare la Croce di Cristo piantata su questa terra nel 1492 Con esso si è voluto anche rendere omaggio al grande Ammiraglio che lasciò scritto quale sua volontà: "mettete croci in tutte le vie e i sentieri, affinché Dio li benedica"» (Giovanni Paolo II)
    «Giovedì 11 ottobre. Navigò in direzione di Ovest-Sud-Ovest. Incontrarono mare grosso, più di quanto ne avessero avuto in tutto il viaggio. Videro procellarie e un giunco verde presso la nave... Dopo il tramonto del sole, tornò alla sua primitiva rotta verso Ovest. Saranno andati a 12 miglia all'ora e fino alle ore 2 dopo mezzanotte avranno percorso 22 leghe e mezzo. E poiché la caravella Pinta era meglio dotata di velatura e andava dinanzi all'Ammiraglio, trovò terra e fece i segnali che l'Ammiraglio aveva ordinato... Ammainarono tutte le vele e rimasero con il trevo, che è la vela grande, senza coltellacci, e si posero in panna, temporeggiando fino al far del giorno successivo, venerdì, quando arrivarono ad un'isoletta dei Lucayos, che si chiamava nella lingua degli indiani Guanabanì.

    Subito videro gente ignuda e l'Ammiraglio scese a terra sulla barca armata e Martino Alonso Pinzón e Vicente Anes, suo fratello, che era capitano della Niña. L'Ammiraglio spiegò la bandiera reale e i capitani avevano le due bandiere della croce verde, che l'Ammiraglio alzava come insegna in tutte le navi, con una F ed una Y ed in cima ad ogni lettera una corona, una da un lato della croce e l'altra dall'altro».

    Queste - ovviamente tradotte dal castigliano - sono le parole del Diario di bordo di Colombo, pervenutoci soltanto nella riduzione del padre Las Casas, relative allo straordinario evento compiutosi il 12 ottobre del 1492, la scoperta dell'America. Un evento di straordinaria importanza storica che, insieme all'espansione portoghese verso l'Oriente (pochi anni prima Bartolomeo Diaz aveva doppiato il capo di Buona Speranza e pochi anni dopo anni dopo Vasco da Gama raggiungerà il subcontinente indiano), aprì la via alla planetarizzazione del mondo. Per quanto nei manuali di storia in uso nelle scuole superiori siano di solito ormai pochissime le pagine dedicate a questo tema, la sua importanza storica difficilmente potrebbe essere sopravvalutata: crediamo che in realtà non si ingannasse Lopez de Gómara, quando, con comprensibile esaltazione per la nascita della Nuova Spagna, una settantina di anni dopo lo sbarco a San Salvador scrisse che l'avvenimento era stato il più grande e importante nella storia del mondo dopo l'incarnazione di Nostro Signor Gesù Cristo.

    La nostra epoca, immersa nella mediocrità, mal riesce a sopportare, anche nelle valutazioni storiche, la grandezza di avvenimenti e di persone, tutto annegando nel sociologismo, nell'economicismo, nella storia della lunga durata o del rispettivo quotidiano. E di grande «avvenimento», come di «grande ammiraglio», ha parlato più volte, in occasione del Quinto Centenario del Descubrirniento, anche il papa Giovanni Paolo II.

    In occasione di questa ricorrenza abbiamo assistito al diffondersi e quasi al prevalere, nei mass media, di un clima culturale e propagandistico che, già delineatosi negli anni precedenti, è venuto precisandosi e chiarendosi; abbiamo assistito ad una diffusa e imponente campagna contro la scoperta, la conquista, l'evangelizzazione e, attraverso queste polemiche, contro il passato e il presente della Chiesa cattolica, contro la Civiltà Cristiana e contro quei paesi, soprattutto la Spagna che, in quei secoli, ne furono sostegno ed espressione.

    Un'orchestra - per usare il termine impiegato da Vladimir Volkoff nel Montaggio - composta da vari strumentisti.

    Un primo gruppo, esiguo ma strumentalizzabile, è costituito dai cosiddetti indianisti che, sulla base di un'immagine assolutamente falsa delle culture precolombiane, propongono un ritorno ad una «concezione collettivista... e comunitaria del continente, basata sulla filosofia dell'uguaglianza», l'espulsione dei missionari e di ogni organizzazione di assistenza e la guerra ai servi dell'imperalismo, discendenti dei conquistatori protagonisti della «barbara irruzione dell'Europa», in nome di un confuso millenarismo incaico presente anche nell'ideologia marxista-leninista di Sendero Luminoso. Ciò in una comprensibile consonanza con Fidel Castro che si è proclamato «indigeno americano onorario».

    Un secondo gruppo, anch'esso esiguo ma rumoroso e organizzato, è costituito da quei sedicenti cattolici sempre pronti a raccogliere l'invito alla demolizione della tradizione cattolica, alla fustigazione del passato della Chiesa; ciò non senza accettazione più o meno convinta da pane di più ampie espressioni della cultura cattolica, abituate a «lasciarsi presentare il conto, spesso truccato, senza discutere», per riprendere i termini di Jean Moulin in una conversazione con Vittorio Messori. Non a caso si è parlato, da parte di un autorevole settimanale francese, di un «complot médiatique» portato avanti da «théologiens de la liberation; . ..théologiens d'Europe opposés au credo de leur propre Eglise; groupes de presse: vedettes universitaires viellisantes» e volto ad impedire il viaggio del papa a Santo Domingo.

    Ma la parte maggiore nell'operazione propagandistica hanno avuto i mass media americani, in preoccupante e non causale consonanza con la sempre più forte penetrazione delle sette di ispirazione protestante nell'America latina, in completo oblio (quasi, anzi, in una sorta di transfert) delle forme di colonizzazione anglosassone e riformata nell'America settentrionale. Ciò sulla spinta della nuova sinistra Political Correct; «un modo come un altro - è stato giustamente detto da Saverio Vertone - per alimentare quel blablabla di una certa intelligenza che in tutto il mondo ha ormai perso ogni riferimento ai fatti, alle necessàà, ai problemi di chi sta certamente male... [un lasciarsi] cullare dalle parole e dai manierismi intellettuali di chi sta abbastanza bene, e si nutre non solo di buone bistecche e patate ma anche di ignoranza. Poter dare del «fallocratico», «eurocentrico», «sessista» al povero Colombo...».

    Lo sforzo di ristabilire la verità storica - o, piuttosto, dati i limiti di spazio, di offrire al lettore le linee essenziali di una tale operazione - si articolerà, nelle pagine successive, in due parti: la prima dedicata alla figura di Colombo, la seconda alla leggenda nera sulla scoperta e conquista dell'America latina.

    Cominciamo col rispondere ad una domanda che viene spesso posta: fu l'arrivo a Guanahani il 12 ottobre 1492, della piccola flotta capitanata da Cristoforo Colombo l'inizio di una vera scoperta?

    Nel Dizionario Italiano Ragionato leggiamo la seguente definizione del termine scoperta: «L'esplorazione e rivelazione agli uomini di nuove parti della Terra. La rivelazione, per opera della scienza, di nuovi fenomeni, di nuove specie biologiche, di nuovi corpi celesti». Dunque esplorare, cioè «cercare di scoprire, di svelare, di conoscere»; e rivelare, dal latino revelare=togliere il velo, svelare; e, ancora, rivelare agli uomini, cioè fare partecipi gli altri, tutti gli altri.

    Già da questa definizione si comprende subito che solo una volontà ideologica e mistificatoria può portare a voler sostituire il termine incontro a quello di scoperta. Infatti, l'incontro, anche a volere prescindere dalle pur corrette considerazioni del professor Alberto Caturelli sul fatto che gli incontri avvengono tra persone e non tra culture o popoli considerati come una totalità, presuppone una casualità dell'imbattersi e una sorta di parità nel valore del movimento dei protagonisti.

    Ora questo non è certo il caso di cui ci stiamo occupando, nel quale una cultura superiore si muove per esplorare e scoprire nuove terre, mentre l'altra, in questa prima fase, nulla apporta di suo. Dove su questa superiorità di una civiltà almeno sul piano tecnologico anche i più accaniti sostenitori dell'uguaglianza di tutte le civiltà, anche coloro per cui, come diceva Sciacca, il «cotto» dell'antropofago ha lo stesso valore della Divina Commedia, non possono non convenire per l'evidenza dei fatti.

    La definizione, inoltre, permette di comprendere bene la differenza tra il descubrimiento e il quasi certo arrivo di un gruppo di Vikinghi nell'America settentrionale, tra la foce del San Lorenzo e l'attuale Massachusets, verso la fine del X secolo, sulla scia degli insediamenti in Groenlandia, la «terra verde», come intorno al 1000 poteva apparire. Un nucleo insediativo debole e scomparso abbastanza rapidamente, prima ancora che la fine della fase calda del clima provocasse una nuova avanzata dei ghiacci vaganti e un abbandono della stessa Groenlandia a partire dal XIV secolo, con la fine, anche, della navigazione delle rotte marittime scandinave dei mari più settentrionali.

    Mi pare di potere dire che, nei limiti, ristretti, e comunque impropri per mancanza di sistematica esplorazione, di chiara consapevolezza e rivelazione ad altri, entro cui il termine «scoperta», con forzatura semantica, potrebbe essere impiegato per le navigazioni vikinghe, in ogni caso ciò che fu Scoperto cadde poi nell'oblio, venne, insomma, ri-coperto, nuovamente velato.

    Lasciamo pure, dunque, all'acidità degli storici anglosassoni, che non si rassegnano al fatto che l'America sia stata scoperta da un latino e da un cattolico, i giudizi riduttivi sulla portata dell'avvenimento del 12 ottobre 1492, ed in conseguenza del significato storico di Cristoforo Colombo, del tipo di quello del «kennediano» Arthur Schlesinger jr: «Gli italo-americani mostrano un interesse particolare per il primo italiano a fare fortuna nell'emisfero occidentale. Ma alcuni scettici dicono che, quando salpò, non sapeva dove stesse andando; quando arrivò, non sapeva dove fosse; quando tornò non sapeva dove fosse stato».

    La stessa volontà di sminuire l'importanza della scoperta fu alla base della decisione (da Caturelli qualificata giustamente come ridicola) del presidente Johnson di proclamare il giorno 9 ottobre giorno di Leif figlio di Erik vero anniversario della scoperta dell'America, sulla base di uno dei frequenti falsi ritrovamenti archeologici.

    Senza la ferma volontà dell'Ammiraglio genovese, e senza l'appoggio della regina Isabella, il Nuovo Mondo non sarebbe stato scoperto in quel modo e in quel momento; come dubitare, allora, dell'importanza dell'avvenimento e dei suoi protagonisti?

    Si noti che abbiamo scritto senza esitazioni «ammiraglio genovese». Infatti, bisogna ribadire, contro le fantasie di pseudoeruditi locali, che Colombo non fu né francese, né corso, né catalano, né galiziano, né portoghese o greco o inglese o tedesco. E non fu nemmeno ebreo, come hanno anche in anni recenti sostenuto scrittori come Salvador de Madariaga o Simon Wiesenthal, in cui argomenti non meritano per la loro debolezza di essere qui confutati, anche se hanno avuto editori a grande diffusione e una certa eco fin nei film a fumetti. Il lettore meno avvertito di questi può anche essere indotto in una certa confusione dal metodo, seguito dai loro autori, di accumulare una gran quantità di presunti indizi. In realtà, secondo un corretto metodo storico, l'accumulo di prove, ciascuna delle quali, considerate in sé, è di nessun fondamento e basata su asserzioni tanto assurde quanto formulate con impudente baldanza, anziché dare alla tesi una qualche solidità, ne dimostra più ampiamente l’incoscienza; ma, appunto, occorre essere avvertiti. Basti qui riportare i severi giudizi di storici come Jacques Heers («L'affermazione lascia alquanto sbalorditi») o i Bennassar («La tesi... non si appoggia su nessun argomento serio... Bisogna avere letto molto male i testi dello Scopritore per tirare fuori una simile teoria»).

    E, ormai, le ricerche di archivio hanno permesso di ricostruire la storia della famiglia di Cristoforo, originaria dell'Appennino ligure, e di mettere a fuoco la figura del padre Domenico, il quale, oltre ad esercitare la professione di tessitore, fu anche guardiano della porta dell'Olivella ed era legato al clan familiare dei Fregoso.

    Naturalmente, non diciamo questo da spirito nazionalistico o da preoccupazioni assurde di purezza razziale, ma dalla consapevolezza che l'origine ebraica di Colombo porta anche al travisamento della genesi e delle finalità del suo progetto, che, addirittura, nella prospettiva di Wiesenthal sarebbe stato concepito per assicurare agli ebrei iberici una nuova patria in vista della temuta espulsione; perderemmo così non solo l'utilità delle prime esperienze marinare mediterranee e il senso dei suoi stretti collegamenti con l'ambiente genovese dell'Andalusia, ma anche, e soprattutto, la missione evangelizzatrice che l’Ammiraglio attribuiva a se stesso. Genovese fu dunque, certamente e al di là di ogni ragionevole dubbio, Cristoforo Colombo; genovese e di assoluta formazione e cultura cristiane.

    Esamineremo oltre i giudizi negativi su Colombo collegati alla condanna più generale della colonizzazione spagnola. Preme ora, invece, combattere valutazioni positive del navigatore genovese caratterizzate dalla contrapposizione di un Colombo uomo moderno, rappresentante del progresso, in lotta vittoriosa contro l'opposizione del suo tempo, in particolare della cultura cattolica, ottusa e dogmatica, e della reazionaria monarchia iberica.

    Non è un caso, per limitarci ad un esempio, peraltro significativo per l'incidenza che esso avrà nell'immaginario degli spettatori, che questa sia la presentazione del personaggio che caratterizza pesantemente un recente e spettacolare film, in cui Colombo-Depardieu è in lotta contro terribili, dogmatici e ignoranti inquisitori e contro un potere monarchico oppressivo e calcolatore, cui alla fine potrà sfuggire soltanto grazie al fascino da latin lover che egli riesce ad esercitare sulla regina Isabella.

    Per i fatti mi limiterò a ricordare che in realtà le obiezioni che prima i dotti portoghesi consultati dal re Giovanni II e poi quelli spagnoli, il cui parere fu richiesto dai Re Cattolici, avevano ragione nel bocciare, muovendo proprio da posizioni scientificamente più valide ed avanzate, la visione cosmografica di Colombo.

    Questa, infatti, si basava su due errori che si sommavano a vicenda: un'errata valutazione della lunghezza della circonferenza terrestre e un esagerata estensione del continente euroasiatico verso oriente. Solo la somma di questi due errori poteva rendere concepibile come effettuabile, con i mezzi di allora, l'idea di un viaggio in cui ci si proponesse di raggiungere l'Oriente passando per l'Occidente. Basti pensare a quello che sarebbe successo alla piccola flotta se, per momentanea paradossale ipotesi, non ci fosse stato, nel mezzo tra l'Europa e l'Asia, il continente americano. Ed anche se si preferisse credere, senza prove e contro l'impressione che si ricava dalle testimonianze scritte, che in realtà Colombo sapeva di sostenere una tesi errata pur di ottenere l'appoggio dei sovrani cui si rivolgeva, nulla cambierebbe questa congettura circa quel che si è appena osservato.

    Il nodo storico da chiarire è semmai quello di spiegare perché i Re Cattolici, nonostante i fondati pareri negativi dei più qualificati dotti dell'epoca, decisero di appoggiare l'impresa, quando, come ricorda nel 1501 lo stesso Colombo nel Memorial de agravios, «acá se decia que esta impresa hera burla». Al di là del sostegno accordato da importanti personaggi, come il Santangel, al navigatore genovese, credo che la soluzione di questo nodo vada ricercata soprattutto nel grande entusiasmo conseguente al compimento della Reconquista con la conquista di Granada il 2 gennaio 1492; gli stessi tempi dell'improvvisa decisione presa da Isabella e Ferdinando lo confermano. Del resto è lo stesso Ammiraglio a stabilire questa connessione nel prologo del Diario di Bordo, che si apre proprio con il ricordo di essere stato spettatore della conquista di Granada con cui i sovrani avevano «posto fine alla guerra contro i Mori che regnavano in Europa».

    l'immagine di un Colombo uomo moderno ed illuminato è da fare risalire - ed è notazione non priva di interesse - alla cultura illuministica e al clima in cui fu celebrato il terzo centenario del suo viaggio alla fine del XVIII secolo. Mentre venivano riproposti e dilatati tutti i luoghi comuni della leggenda nera antispagnola e anticattolica, in quanto, per dirla con i Bennassar, «l'Espagne sert de repoussoir aux philosopbes des Lumières», lui, Colombo, veniva separato dalla conquista, anzi ad essa contrapposto, e presentato come un eroe coraggioso, generoso, tradito dai riprovevoli sviluppi successivi.

    È invece assolutamente necessario alla corretta comprensione storica l'insistenza sulle radici medioevali e cristiane di Colombo, sulle motivazioni religiose che lo animarono, che imbarazzano molti storici moderni, i quali, come ha scritto Jacques Heers, docente di storia medievale alla Sorbona, «se ne parlano, vi vedono un elemento troppo trascurabile per evocarlo in maniera attenta, oppure un semplice pretesto. Molti pensano volentieri che il Genovese parlasse di dovere religioso, di servizio di Cristo e di prospettive di evangelizzazione solo per conciliarsi meglio le buone grazie della regina attraverso una manovra interessata». Ovvero, aggiungiamo, non potendo negare il gran peso reale di queste motivazioni, le considerano come un'eredità negativa, poi sviluppatasi ai limiti della malattia psichica, nonostante la quale, e non in virtù della quale, egli concepì e realizzò i suoi viaggi.

    Questo non significa che anche altre motivazioni siano alla base dell'impresa, come la ricerca dell'oro, l'ambiziosa ricerca di una nobilitazione personale e della propria famiglia, una talora quasi irritante consapevolezza delle proprie capacità. Ma senza un adeguato e decisivo peso alle motivazioni di carattere religioso, noi non potremmo sperare di penetrare la personalità di Colombo, di capirne i gesti, di comprenderne gli scritti.

    Citiamo ancora una volta Jacques Heers: «... lo scopritore del Nuovo Mondo si presenta a noi come un uomo di grande fede, profondamente attaccato alle proprie convinzioni, compenetrato di religiosità, accanito nel difendere e nell'esaltare il cristianesimo ovunque, nel promuovere una riconquista o una conquista contro i nemici di Dio, gli infedeli o i pagani. È perfino il solo tratto della sua personalità che non ammette discussioni, che ci appaia chiaramente, mentre altri, sui quali si è tanto e gratuitamente ricamato, ci sfuggono quasi completamente... Per Colombo ed altri, il viaggio, la peregrinazione, rimaneva, come ai tempi eroici dell'evangelizzazione dell'Europa, la virtù dei campioni di Dio, di coloro che abbandonano tutto per il suo servizio. Nuovi propagatori della fede, nuovi Crociati, questi capitani di mare e cavalieri di Cristo issano sempre il segno della croce sugli alberi delle loro caravelle».

    Gli scritti di Colombo giunti fino a noi (purtroppo soltanto una parte del molto che scrisse: alla corte di Carlo V di chi mostrava una tendenza alla grafomania si diceva «scrive come Colombo») lasciano soltanto l'imbarazzo della scelta per la relativa esemplificazione.

    È comunque importante ricordare che questi tratti sono già ampiamente presenti nel Diario di Bordo del primo viaggio per dimostrare che non siamo di fronte ad aspetti emersi soltanto nel periodo in cui, dall'anno 1500, egli era caduto in disgrazia, anche se è vero che proprio allora egli affina il proprio spirito e appare sempre più incline al misticismo.

    Così è già presente la convinzione del carattere provvidenziale del viaggio, accompagnato dal favore divino. Alla data 23 settembre (aveva lasciato le Canarie verso l'ignoto il 6 settembre) Colombo istituisce un parallelo tra sé e Mosè, commentando l'improvviso ingrossarsi del mare senza vento: «Molto necessario mi fu il mare grosso, come non fu mai visto prima tranne al tempo degli Ebrei quando fuggirono dall'Egitto seguendo Mosè». Il naufragio della Santa Maria nella notte di Natale, in un primo momento attribuito da Colombo all'indolenza di un mozzo, è da lui letto, già il giorno successivo, come dovuto ad un tradimento degli uomini di Palos: un tradimento, peraltro, voluto da Dio perché egli fondasse, con il legname e le provviste della nave, il primo insediamento cristiano. E nel tradimento di Pinzòn vede la mano del demonio.

    Quando, nel viaggio di ritorno, deve affrontare presso le Azzorre una spaventosa tempesta, l'Ammiraglio, sgomento per la sorte degli uomini che aveva convinto a seguirlo, per il timore di non rivedere i figli, per l'angoscia che il compimento del viaggio rimanesse ignoto ai sovrani, si volge a Dio, prima nella sua coscienza, poi con pubbliche e collettive promesse di pellegrinaggi a Santa Maria di Guadalupe e a Loreto, confortato dal ricordo delle «grazie che Dio gli aveva fatto, dandogli tanto grande vittoria, permettendogli di scoprire quello che aveva scoperto». Nella lettera al Santangel, probabilmente una copia della pergamena che, nel timore del naufragio, gettò in mare avvolta «in un panno incerato, legato molto bene» e posto dentro «un grande barile di legno», Colombo ricorda che tutto il successo suo e dei sovrani era dovuto esclusivamente a quel «eterno Dios nuestro Señor, el cual da a todos aquellos que andar su camino victoria de cosas que parecen imposibles».

    L'idea di essere stato scelto dalla Provvidenza divina per compiere le antiche profezie è alla base delle sue riflessioni negli ultimi anni di vita. Nella lettera ai re del 1501 afferma che al suo viaggio, riuscito grazie a «un miracolo evidentissimo che volle fare Nostro Signore in questo affare del viaggio alle Indie», si deve il «pieno compimento di ciò che disse Isaia».

    Da buon medievale il Genovese dava molta importanza ai nomi. E stata notata la cura con cui dà i nomi alle isole e ai luoghi che raggiunse con la sua esplorazione in relazione al calendario liturgico, alle solennità ecclesiastiche e ai misteri della fede. Ma soprattutto egli attribuiva un significato simbolico e provvidenziale al proprio nome: Colombo, ad immagine dello Spirito Santo e segno della pace che porta, Cristoforo in quanto «portatore a Cristo».

    A partire dal 1502 egli non firma più el Almirante, ma con un criptogramma, al quale egli teneva moltissimo e attribuiva grande importanza, alla cui base pone appunto la segnatura Christo ferens, «che porta a Cristo». Quanto alle lettere puntate, al di sopra, l'interpretazione più recente e fondata vede nelle tre «S» del triangolo superiore una ripetuta e circolare invocazione allo Spirito Santo, nella «A» un'invocazione all'Altissimo e nelle tre lettere inferiori i nomi Christus; Maria, Yesus. La forma generale, del resto, richiama il triangolo trinitario.

    Due appaiono, sempre, i pilastri della spiritualità di Colombo: la devozione per Maria e quella per la Santissima Trinità. A Maria dedica molti toponimi, come Asunción, Concepción, Anunciación. Alla Trinità vuole che siano dedicate da parte dei sovrani «solenni grazie... per l'accesso che avranno dall'accesso di tanti popoli alla nostra santa fede». Alla Trinità egli attribuisce, nel 1498, all'inizio dell'atto di maggiorascato in favore del figlio, l'idea prima - «nos puso en memoria» - e poi la precisa concezione - «perfecta inteligençia» - della possibilità di passare dalla Spagna alle Indie «pasando el mar Océano al Poniente».

    L'idea della possibilità di condurre i popoli nuovi alla fede cristiana, che abbiamo appena sentito ricordata nella lettera al Santangel, è la prima che gli viene in mente di annotare il 12 ottobre: «Conobbi che era gente che meglio si salverebbe e si convertirebbe alla nostra santa fede con l'amore che con la forza». I passi del genere sono molto numerosi nel Diario. Il 17 novembre, per esempio, dopo avere sottolineato la necessità di superare la barriera linguistica, scrive: «E poi si raccoglieranno i benefici e si lavorerà per fare cristiani tutti questi popoli, il che agevolmente si farà perché essi non hanno setta alcuna, né sono idolatri».

    Non moltiplicherò gli esempi. Ma ancora un riferimento va fatto al tema della Crociata, della liberazione del Santo Sepolcro, della lotta contro i Musulmani: un'idea fissa, un obiettivo concreto, nella mente di Colombo a partire dal 1500; un aspetto che, evidentemente, non può che imbarazzare gli interpreti «modernizzanti» e «laicizzanti» di Colombo.

    È interessante notare che, contrariamente a quanto si pensava fino a quattro o cinque anni fa, questo tema, se domina, come ho detto, il pensiero dell'Ammiraglio dopo il terzo viaggio, appare sin dalla lettera indirizzata ai sovrani dopo il primo viaggio già nel 1493, rinvenuta in un copialettere settecentesco, contenente nove lettere di Colombo, sette delle quali prima ignote, pubblicato nel 1990. Nella prima di esse, appunto, oltre alla richiesta di un cardinalato per il figlio, c'è il calcolo degli Indios che potrebbero essere utilizzati nella crociata da organizzare.

    Nell'atto di maggiorascato del 1498 l'Ammiraglio racconta di avere, fin da prima di essersi mosso per il suo viaggio di scoperta, richiesto al re e alla regina che la rendita delle Indie fosse utilizzata per la conquista di Gerusalemme e impone al figlio Diego o ad ogni altro suo erede di utilizzare le entrate che gli spettavano in base agli accordi di Santa Fé del 1492 di «andare con il Re Nostro Signore, se andrà a Gerusalemme a conquistarla, o anche solo, con la maggiore forza possibile».

    Dopo il 1500 Colombo, caduto in temporanea disgrazia, tanto da essere trasportato in Spagna in catene, peraltro contro la volontà di Isabella che lo fece subito liberare, pone mano ad una raccolta, nota come Libro de las Profecías, in cui mise insieme assieme passi della Bibbia, di Padri della Chiesa e della Medea di Seneca nei quali egli vedeva l'annuncio della sua scoperta di nuove terre e dello svelamento dei misteri nascosti dall'Oceano. Il suo titolo completo lega insieme il recupero della Città Santa e la conversione degli Indios: Liber seu manipulus de auctoritatibus, dictis ac sententiìs et prophetiìs circa materiam recuperande sancte civitatis et montis Dei Syon ac inventionis et conversionis insularum Indie et omnium gentium atque nationum, ad reges nostros Hispanos. Nello stesso 1501, in un passaggio di una lunga ed orgogliosa lettera indirizzata ai sovrani citava Gioacchino da Fiore il quale aveva scritto che «doveva uscire di Spagna chi avrebbe riedificato la casa del monte Sion».

    Ci par dunque legittimo riproporre qui la definizione data dal Taviani: non santo, ma defensor fidei. E sottolineare, riprendendo il titolo di un nostro articolo, le radici medievali e cristiane di Colombo.

    Nuova, originale e ardita fu dunque l'impresa di Colombo; ma al tempo stesso dobbiamo vederla inserita nel quadro dell'espansione europea dei secoli XIII-XVI, una delle grandi fasi della storia universale, peraltro generalmente trascurata tanto nei manuali scolastici quanto nella pratica dell'insegnamento. Pure, se consideriamo la situazione della Terra all'inizio del XIII secolo dobbiamo constatare, con Pierre Chaunu, che l'occupazione umana di essa era incompleta e discontinua; «originatasi certamente da un focolaio unico, la specie umana, vinta dalla distanza, ha dunque vissuto lungo tutto l'arco interminabile della preistoria, i destini autonomi delle culture e delle civiltà».

    Vediamo, in rapida successione ed in modo essenziale, le tappe di questa espansione.

    Nel 1291, lo stesso anno della caduta di San Giovanni d'Acri, ultimo baluardo crociato in Terrasanta, due fratelli genovesi si avventurano nell'Atlantico con due galere, ad partes Indie per mare Oceanum; precursori di Colombo o di Vasco da Gama? Non lo sappiamo, perché non fecero ritorno. Come, mezzo secolo più tardi, non farà ritorno il maiorchino jaume Ferrer partito nel 1346 per anar al riu de l'or, al di là del Sahara.

    Ma dalla prima metà del XIV secolo si scoprono gli arcipelaghi oceanici: le Canarie, Madera, le Azzorre, che vengono, dopo la scoperta, colonizzate da portoghesi e spagnoli anche se il primo contatto era stato stabilito da un genovese, Lancelotto Malocello. Queste isole segnano i confini di una sorta di «Mediterraneo atlantico» e serviranno poi, egregiamente, da trampolini di lancio per le ulteriori spedizioni.

    Il Portogallo, grazie anche all'opera del principe Enrico il Navigatore, fu il grande protagonista della progressiva scoperta delle coste africane: un'impresa sistematica e pluridecennale che non casualmente prosegue sullo slancio della conquista di Ceuta nel 1415. Nel 1434 è superato capo Bojador, nel 1444 è raggiunta la foce del Senegal, tra il 1470 e il 1475 è compiuta l'esplorazione di tutto il golfo di Guinea e dell'Africa equatoriale: Colombo, come egli stesso ci ricorda in postille apposte a libri di sua proprietà, durante il periodo in cui visse in Portogallo ebbe modo di navigare fino alla Guinea pochi anni dopo, facendo un'esperienza fondamentale.

    Salito al trono Giovanni II nel 1481 gli sforzi portoghesi riprendono: nel 1486 Diogo Cao raggiunge il 230 grado di latitudine sud; l'anno successivo parte la spedizione di Bartolomeo Diaz che nella primavera del 1488 supera il capo Tempestoso. com'egli lo chiamò, o di Buona Speranza come venne poi denominato per felice volontà del re. La via per l'Asia era ormai aperta e pochi anni dopo la percorrerà, per primo, Vasco da Gama.

    Si vede dunque che l'impresa di Colombo si inseriva in una storia di lunga durata che la precede e la segue. Il che non le toglie la novità, l'ardimento, la grandezza: ma allontana, questo sì, eventuali sospetti di casualità. Proprio per questo, anzi, possiamo a maggiore ragione definirla vera scoperta.

    Quest'espansione europea, per quanto sia giusto ricordarne anche le finalità economiche o i fattori geostorici (primo fra tutti la progressiva chiusura del Mediterraneo orientale a causa dell'espansione dei Turchi ottomani) e le condizioni tecniche (come i progressi dell'arte della navigazione), ha bisogno di essere spiegata a livelli più profondi, anche perché protagonista di essa non è una realtà di base sovrappopolata in cerca di sbocchi: al contrario, la grande peste del 1348 e le epidemie successive ne avevano brutalmente ridotto la popolazione. Si calcola che il Portogallo avesse, attorno al 1450, da 700.000 a 800.000 abitanti; la Castiglia, negli stessi anni, doveva contarne ne circa 4 milioni. L'Europa intera, compresa la Russia, doveva averne allora circa 60 milioni, l'Africa tra i 60 e i 70, l'America 80, l'Asia 200: insomma, la planetarizzazione del mondo fu opera del 15% dell'umanità.

    In altre parole, per dirla ancora con Pierre Chaunu, «Perché l'Europa? Perché non la Cina?». Quella Cina che pure aveva, e da più tempo, la tecnologia e le risorse umane per slanciarsi verso l'esterno.

    Sembra impossibile non cercare la spiegazione nell'essenza cristiana della civiltà europea, peraltro capace di fare propria nei suoi aspetti positivi l'eredità della civiltà greco-romana. Forma, nel senso filosofico della parola, della civiltà europea medievale era la religione cristiana, cioè una religione il cui atteggiamento verso il tempo e la storia sono assolutamente positivi, avendo al suo centro l'incarnazione del suo Dio (patì sotto Ponzio Pilato, cioè in un momento e in un luogo precisi). Pio ricordato come Colombo sentisse di essere stato chiamato a compiere le profezie degli antichi e della Scrittura. e «a cielo chiuso», su un piano di conoscenza storica e di teologia della storia, dobbiamo riconoscere che egli aveva in un certo senso ragione: effettivamente nel suo viaggio ) come momento cruciale di una lunga fase di espansione) si compirono le attese, le «premonizioni» come ben dice il Caturelli, dell'antichità classica e della Cristianità medievale che non conoscevano, ma pre-sentivano l'esistenza di altre genti e di mondi nuovi.

    Nel XV canto dalla Gerusalemme Liberata Torquato Tasso fa ricordare alla Fortuna i segni posti da Ercole e il viaggio di Ulisse: «ma quei segni sprezzò ch'egli prescrisse, di veder vago e di saper, Ulisse»; e le fa poi profetare la realizzazione dell'impresa da parte di Colombo, nuovo Ulisse: «Un uom della Liguria avrà ardimento/ a l'incognito corso esporsi in prima;/ né 'l minaccievol fremito del vento,/ né l'inospito mar, né 'l dubbio clima,/ né s'altro di periglio o di spavento/ più grave e formidabile or si stima,/ faran che 'l generoso entro a i divieti! d'Abila angusti l'alta mente accheti./ Tu spegherai, Colombo, a un novo polo! lontane sì le fortunate antenne,/ ch'a pene seguirà con gli occhi il volo/ la fama ch'ha mille occhi e mille penne».

    In questi versi, evidentemente, il Tasso ha presente la figura e le vicende di Ulisse quali erano state narrate nel XXVI canto dell'Inferno da Dante Alighieri, «onore della Chiesa», secondo la bella espressione di Paolo VI.

    L'Ulisse di Dante (che non è all'Inferno per questa ragione) è spinto al suo ultimo viaggio, al di là dei riguardi posti da Ercole, da una naturale sete di conoscenza; ma il suo viaggio è, però, al tempo stesso un folle volo, perché compiuto senza l'aiuto della grazia divina, sì che esso si conclude, come altrui piacque, davanti alla montagna del Purgatorio, non senza aver intravisto una nova terra. Ulisse è così realmente figura di Colombo, e troverà, quasi due secoli dopo Dante, il suo intervento nel navigatore genovese. Come la civiltà antica ebbe nella civiltà cristiana del Medioevo, di cui la scoperta di Colombo è frutto maturo e quasi ultimo, il suo inveramento.

    Scrive Franco Cardini: «E stato comunque notato che c'è qualcosa di mistico, di arcano - qualcuno s’è arrischiato a dire di soprannaturale - in quella scoperta delle coste di San Salvador-Watling: i voli di uccelli, i misteriosi legni lavorati come messaggi dentro oniriche bottiglie, la luce tremula como una candelilla. Ma era denso di segni quel 1492.

    Come si è detto, peraltro, le polemiche che hanno accompagnato la ricorrenza del quinto centenario della scoperta dell'America non hanno investito soltanto la figura di Colombo ma anche la regina Isabella (la cui causa di beatificazione è avversata energicamente) e, più in generale, tutto il ciclo scoperta-esplorazione-conquista che si aprì il 12 ottobre del 1993. Tutto il più stantio armamentario della «leggenda nera» antispagnola ed anti-cattolica, nata all'epoca delle guerre di religione e compiutamente formatasi con l'Illuminismo, è stato riproposto. Ed una parola più di tutte è stata insistentemente ripetuta, un'accusa è stata violentemente formulata: con Colombo ha avuto inizio un genocidio, del quale i conquistadores sarebbero stati i crudeli esecutori.

    Vediamo dunque, rapidamente, le osservazioni fondamentali che si possono muovere a questa leyenda negra. Naturalmente con ciò non si vuole affermare che siano stati assenti nell'azione dei colonizzatori iberici episodi e tratti moralmente e umanamente riprovevoli, opponendo così una leyenda rosa o blanca alle deformazioni della leyenda negra. Per dirla con le parole esatte di Giovanni Paolo II a Santo Domingo, ci furono eccessi di conquistatori, e non, come è apparso nelle traduzioni italiane, dei conquistatori.

    In primo luogo occorre sfatare il mito che il Nuovo Mondo fosse, all'arrivo degli Spagnoli, una specie di Paradiso Terrestre, abitato da società libere e pacifiche. In realtà erano stati costruiti, a prezzo di guerre sanguinosissime, regni ed imperi fondati sull'oppressione di gran parte della popolazione, sulla schiavitù, sulla pratica dei sacrifici umani.

    Con tutta la nostra buona volontà di conoscitori dell'antropologia e della necessità di considerare le civiltà, per così dire, dall'interno, iuxta propria principia, sono questi dati di fatto che non possiamo dimenticare.

    Quando si rimprovera ai colonizzatori europei la distruzione di tesori d'arte o lo stravolgimento delle strutture sociali preesistenti, perché dimenticare, allora, che queste pratiche erano già largamente praticate nel continente americano? Giustamente veniva recentemente ricordato dall'Economist che «i rotoli aztechi delle loro conquiste erano decorati con le scene delle distruzioni dei templi dei loro avversari vinti» e che «gli Inca deportarono intere popolazioni in luoghi lontani e non familiari in una scala fino ad allora sconosciuta».

    L'utilizzazione di categorie portate alla comprensione di tutto in un caso («le loro civiltà erano così e vanno accettate per quello che erano») e la condanna di tutto nell'altro caso, senza nulla concedere allo spirito dei tempi, dimostrano la malafede culturale di certe posizioni.

    Si deve invece ricordare che gran parte delle nostre conoscenze sulla civiltà amerindia deriva proprio dall'attenzione con cui gli Europei seppero guardare alle civiltà con cui vennero in contatto, sì che ci può ben dire che «l'etnologia scientifica fu inventata nel Messico del XVI secolo».

    La stessa conoscenza degli episodi di maltrattamento o di crudeltà (questi, del resto, avvenuti in genere in risposta ad atti di crudeltà degli indios) è dovuta alle cronache spagnole e al grande dibattito teologico e filosofico sul diritto naturale che si svolse nel Cinquecento in Spagna; un dibattito che sarebbe erroneo ridurre ai soli Las Casas e Sepùlveda, in quanto coinvolse la Chiesa, le università e la corte.

    Così raramente vengono ricordate le leggi e i provvedimenti dei sovrani spagnoli, dalla condanna di Isabella della deportazione in Europa di alcuni indigeni alle Nuove leggi di Can lo V (1542), le quali «sul piano del pensiero segnano... la vittoria della filosofia scolastica cristiana sull'umanesimo pagano-rinascimentale, sulle scappatoie offerte dalla categoria greco-aristotelica applicata agli Indi, servi per natura» (Chaunu).

    Ancora, non si vede perché dimenticare gli aspetti eroici e straordinari di molte fasi della conquista, portata a termine da condottieri di straordinario valore e in condizioni di impressionante inferiorità numerica. Per esempio, come non apprezzare le dimensioni epiche della conquista dell'altopiano messicano fatta dall'hidalgo dell'Estramadura Hernan Cortés?

    Oltre tutto, dimenticando questi aspetti, non si riesce a spiegare la rapidità della conquista, la quale, inoltre, fu resa possibile proprio dalla debolezza dei regni e degli imperi indigeni, dovuta anche alla loro struttura fortemente caratterizzata dal feroce dominio di pochi su molti e quindi dalle alleanze con popoli indigeni che i conquistadores poterono stringere.

    Già Colombo era stato accolto dagli Arawak abitanti le prime isole con cui venne in contatto come un aiuto insperato, piovuto dal cielo, contro i Caraibi. L'impresa di Cortés non sarebbe stata certamente possibile senza l'alleanza con varie città indiane, soprattutto con Tlaxcala. Pizarro si inserì in una guerra civile in atto nell'impero inca.

    La storiografia mette oggi in rilievo gli elementi di debolezza delle realtà amerindie anche dal punto di vista della cultura materiale.

    Lo Chaunu scrive: «La fragilità dell'uomo americano in America, la degradazione irreversibile dell'Indio è una delle chiavi di interpretazione più importanti di questo primo passato umano del Nuovo Mondo... Il dramma dell'umanità amerindia è di non avere potuto usufruire dell'esperienza degli altri uomini del Vecchio Mondo».

    Rimasti alla zappa, gli indios ignoravano la ruota, l'aratro pesante, il mantice, la lavorazione del ferro e (per quanto grandi architetti) anche l'arco. Non navigavano e non comunicavano agevolmente tra di loro, per la incredibile molteplicità delle lingue e per la mancanza di contatti pacifici e culturali. Ogni cultura distruggeva quella precedente e ripartiva quasi da zero. La più brillante delle civiltà precolombiane, quella maya, era crollata ben prima della conquista bianca. «Nessuna civiltà amerinda, insomma, ha veramente superato la fase calcolitica, l'età della pietra e del rame».

    Consideriamo infine la catastrofe demografica.

    Se si ritiene che nell'America del Nord, negli enormi spazi corrispondenti agli odierni Stati Uniti e Canada, la popolazione non arrivasse, nel XVI secolo, al milione di anime, i calcoli più elevati per il Centro e Sud America arrivano ad una cifra di circa 80 milioni: pochi per gli spazi a disposizione, ma certo moltissimi rispetto ai 15 milioni rimasti dopo un centinaio di anni.

    Ma e bene precisare che l'accusa di genocidio nei confronti dei colonizzatori non ha alcun fondamento.

    Essa intanto, cozza contro la logica. Gli Spagnoli, anche per lo scrupolo umanitario di una parte almeno dei loro ceti dirigenti, in particolare ecclesiastici, ma in parte pure per ovvie motivazioni economiche dipendenti dal lavoro delle popolazioni indigene, avevano tutto l'interesse a preservare la sopravvivenza dei nativi. Solo in una percentuale molto bassa la catastrofe demografica può essere attribuita alle guerre di conquista o all'imposizione del lavoro (certo, come altrove, molto duro nelle miniere).

    Nella sostanza essa dipese dalle grandi epidemie provocate dall'incontro di due realtà biologiche precedentemente prive di contatto e quindi portatrici di parassiti ignoti e perciò tragicamente distruttrici, non tanto per le popolazioni africane o europee, quanto proprio per le popolazioni americane fino ad allora vissute nel più totale isolamento dal resto degli abitanti della Terra e dunque anche dai microbi delle altre regioni del pianeta.

    Le nuove (per gli indios) malattie provocarono sin dai primi anni la morte di una gran parte della popolazione indigena delle isole, probabilmente circa l'80%. Fu soprattutto il morbillo a colpire a Santo Domingo, con conseguenze aggravate dai bagni gelati con cui gli indios, secondo il racconto di Las Casas, cercarono di curare febbri ed eruzioni che rappresentavano, per loro, una patologia assolutamente nuova. Il vaiolo, arrivato poco dopo, portò alla quasi totale estinzione della popolazione indigena dell'isola.

    Verso il 1520 la malattia raggiunse il Messico e il Guatemala e cinque anni dopo. l'impero Inca. Ulteriori stragi nei decenni successivi furono compiute nel continente americano dal morbillo, dal tifo, da influenze maligne tra le quali quella del 1576 uccise sugli altipiani dal 40 al 50% della popolazione india, colpendo unicamente gli indi e risparmiando non solo i bianchi ma anche gli schiavi neri.

    Né i vuoti erano facilmente colmabili per il basso livello di riproduzione. Per esempio, i Maya sono spariti senza che ne sia stato responsabile il deus ex machina rappresentato dall'uomo bianco; i neonati amerindi, anche nei settori più evoluti, sono molto meno resistenti di quelli dell'Europa cristiana nella stessa epoca... il coefficiente netto di riproduzione inoltre si trova, nel migliore dei casi, ad un livello che supera di poco l'unità.

    Infine, proprio l'assenza di razzismo da parte dei bianchi nei confronti degli indios non ne favoriva la conservazione etnica; il fenomeno del meticciato fu presto molto diffuso.

    Bibliografia

    La migliore biografia del Genovese è quella di J. HEERS, Cristoforo Colombo, Rusconi, Milano 1983.
    Per una lettura più rapida CH. VERLINDEN, Cristoforo Colombo, Visione e perseveranza, tr. it., Edizioni Paoline, Roma 1985.
    Per l'inquadramento dell'impresa colombiana nell'espansione europea della fine del Medio Evo, P. CHAUNU), L'espansione europea dal XIII al XV secolo, tr. it., Mursia, Milano 1979.
    L'articolo dell'autore di questo contributo cui si fa riferimento è M. TANGHERONI-M. PARENTI, Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e «defensor fidei», in «Cristianità», n. 203 (1992), pp. 11-17, con bibliografia aggiornata.
    Il Diario di bordo è qui citato nell’edizione curata da G. FERRO, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle Indie, Mursia, Milano 1985.
    Per il criptogramma e la spiritualità di Colombo: G. PISTARINO, Cnstoforo Colombo: l'enigma del criptogramma, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 1990.
    Per il significato della scoperta e i suoi sviluppi: il profondo A. CATURELLI, Il Nuovo Mondo Riscoperto, Edizioni Ares, Milano 1992.
    Per la fase della conquista: E CHAUNU, La conquista e l’esplorazione dei nuovi mondi (secolo XVI), tr. it., Mursia, Milano 1977.

    FONTE: Contro la leggenda nera

    John Vanderlyn, La scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo



    Padre Juan Perez benedice Cristoforo Colombo in procinto di partire per le Americhe

    Sebastiano del Piombo, Cristoforo Colombo, 1529-30

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    La scoperta dell'America

    di Francesco Pappalardo

    1. La scoperta


    L’arrivo nell’isola di Guanahaní — poi San Salvador — della piccola flotta capitanata dal genovese Cristoforo Colombo (1451 ca. -1506), il 12 ottobre 1492, segna l’inizio della scoperta, della conquista e dell’evangelizzazione delle Americhe. Non si tratta, dunque, di un semplice rinvenimento — come nel caso del probabile arrivo di un gruppo di vichinghi nell’America Settentrionale verso la fine del secolo X, che non ebbe alcuna conseguenza per il continente —, ma di un atto che pone le premesse di un’integrazione razziale, culturale e spirituale unica nella storia.

    L’impresa di Colombo s’inserisce nel quadro dell’espansione europea dei secoli XIII-XVI, che vede protagonisti soprattutto portoghesi e spagnoli, i quali solcano con entusiasmo mari sconosciuti e affrontano i pericoli dei viaggi verso l’ignoto, animati anzitutto dal desiderio di ampliare le frontiere della Cristianità. Nell’ammiraglio genovese e in coloro che lo seguono non sono da trascurare le motivazioni economiche e la ricerca di orizzonti più ampi, anche in relazione al serrarsi del Mediterraneo Orientale per l’avanzata dei turchi ottomani, ma un peso notevole hanno pure le aspirazioni religiose, cioè il desiderio di convertire gli indigeni e di reperire fondi per la riconquista di Gerusalemme. Se il progetto crociato del grande navigatore non viene realizzato, non si può dimenticare che l’oro del Nuovo Mondo servirà a finanziare la resistenza contro i turchi.

    La spedizione guidata da Colombo segue immediatamente il compimento della Reconquista, cioè del processo di liberazione della penisola iberica dai musulmani, iniziato nel secolo VIII e concluso con la presa di Granada, il 2 gennaio 1492. L’entusiasmo per la vittoria spiega anche perché i Re Cattolici, Isabella di Castiglia (1451-1504) e Ferdinando d’Aragona (1452-1516), consapevoli della grande missione della Spagna — difendere e diffondere il messaggio cristiano in Europa e nel mondo — accogliessero il progetto, apparentemente irrealizzabile, del navigatore genovese: andare dalla Spagna alle Indie "passando il Mare Oceano a Ponente".

    2. La conquista

    A partire dal secondo viaggio di Colombo — realizzato fra il 1493 e il 1496 — la visione idilliaca delle Indie, che aveva caratterizzato fino ad allora le relazioni degli scopritori, viene meno tragicamente con l’uccisione di tutti i compagni dell’ammiraglio da parte degli indios. Ha inizio la conquista, il cui fine principale è sempre l’evangelizzazione, che prevale su altri fini del tutto leciti, come l’onore e la grandezza della Spagna, nonché la ricerca di ricchezze e di profitti materiali. L’ideale missionario, applicato alle nuove terre, costituisce l’humus dal quale scaturisce un tipo umano forse irripetibile, quello dei conquistadores. Figli di una terra dove si era appena conclusa la crociata contro i mori, ma in cui sopravviveva lo spirito che l’aveva ispirata, molti di essi attraversano l’oceano animati da un sogno di conquista e di gloria, fondato sulla volontà di ampliare i confini della fede cristiana e i domìni della Corona spagnola.

    La conquista, soprattutto nella fase iniziale, è una sorpresa per tutti, risultando come la conseguenza non di un piano preciso, ma di una serie di reazioni di fronte a situazioni impreviste o d’iniziative di pochi audaci, come quella di Hernán Cortés (1485-1547) nei territori dell’attuale Messico. Inoltre, solo per le comunità del Centroamerica e dell’America andina si può parlare di vera e propria conquista, perché i nuovi arrivati non si misurano con organizzazioni primitive ma con autentici Stati, caratterizzati peraltro da inspiegabili assenze sul piano economico e tecnologico — la ruota, l’allevamento, la lavorazione del ferro, l’arco e la volta nelle costruzioni — o da presenze sinistre, come il cannibalismo, i sacrifici umani, la schiavitù. Questi elementi spiegano sia l’intransigenza e il furore dei conquistadores — che inorridiscono di fronte a oscure idolatrie, nei cui templi scorreva sempre sangue —, sia la facilità della conquista. Infatti, i regni e gli imperi indigeni, costruiti a prezzo di guerre sanguinosissime e fondati sulla tirannia e sulla crudeltà, portavano in sé i germi della propria distruzione: l’inaridimento culturale e l’instabilità politica, a causa della turbolenza dei popoli sottomessi, la cui presenza a fianco degli spagnoli capovolge le sorti della guerra e la trasforma in una carneficina.

    Una diffusa letteratura antispagnola e anticattolica — nata nel Cinquecento in ambienti protestanti e alimentata ancor oggi da movimenti indianisti ed ecologisti, gruppi neomarxisti e terzomondisti, nonché frange cattoliche progressiste — continua a presentare la conquista come un "genocidio", ma la storiografia ha mostrato la falsità di questa leggenda nera. "Usciti troppo bruscamente dal loro isolamento — scrive lo storico francese e calvinista Pierre Chaunu —, gli Indiani d’America non soccombettero sotto i colpi delle spade in acciaio di Toledo, ma sotto lo choc microbico e virale". La catastrofe demografica dei popoli amerindi ha la sua causa nelle grandi epidemie, provocate dal contatto fra due realtà biologiche estranee, e non in una presunta politica razzista e di sterminio messa in opera dagli spagnoli, i quali, invece, avevano tutto l’interesse a garantire la sopravvivenza dei nativi e favoriscono la fusione fra vincitori e vinti. Significativamente l’Iberoamerica è la sola delle Americhe dove, ancor oggi, la razza indiana e i suoi meticci costituiscono la grande maggioranza della popolazione, dimostrando fra l’altro, grazie all’irrisorietà dell’insediamento di neri africani, che la Spagna ricorse in modo molto limitato all’importazione di schiavi nel Nuovo Mondo. Anche le denunce del domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566) — subito confutate dal missionario francescano Toribio da Benavente (1490 ca.-1569) — si sono rivelate eccessive e inaffidabili, così da non poter essere utilizzate come fonti storiche esclusive e attendibili.

    In realtà, nella conquista non colpiscono tanto gli abusi e gli errori iniziali — caratteristici di tutte le vicende umane — quanto la grande capacità di autocritica, unica nella storia della colonizzazione mondiale, che era la conseguenza di una profonda coscienza cristiana. Di fronte alle deviazioni la voce della Chiesa si leva dal primo momento attraverso la denuncia da parte dei missionari, le elaborazioni dottrinali dei teologi e dei giuristi, la sollecitudine dei sovrani spagnoli, che prendono numerosi provvedimenti in difesa degli indios, anzitutto le leggi di Burgos, promulgate dall’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558) nel 1519, due anni prima delle denunce di padre Las Casas. In particolare, la testimonianza della Scuola di Salamanca e le celebri ralazioni sugli indios, del domenicano Francisco de Vitoria (1483-1546), rappresentano un encomiabile sforzo di porre i fondamenti teologici e filosofici di una colonizzazione secondo princìpi ispirati all’etica cristiana.

    3. L’evangelizzazione

    Al momento di finanziare l’impresa di Colombo la regina Isabella spera di condurre altri popoli alla vera fede e non bada né a spese né a difficoltà per onorare gli impegni assunti con Papa Alessandro VI (1492-1503), che aveva concesso ai sovrani il dirito di patronato sulle nuove terre in cambio di precisi doveri di evangelizzazione. Ne consegue uno spiegamento missionario senza precedenti, che dà presto una nuova configurazione alla realtà ecclesiale universale, proprio nel momento in cui le convulsioni religiose in Europa provocavano gravi divisioni nella Cristianità, e che costituisce, secondo le parole di Papa Giovanni Paolo II, "una delle pagine più belle di tutta la storia dell’evangelizzazione portata a compimento dalla Chiesa".

    Protagonisti di questa epopea sono innanzitutto i missionari — altamente selezionati e dotati di grande libertà d’iniziativa di fronte alle autorità civili —, quindi la Corona spagnola, cioè i sovrani e gli organi di governo, fra cui il Consiglio delle Indie, infine tutti gli spagnoli giunti nel continente — conquistadores e coloni —, i quali, nonostante i limiti del loro operato, erano consapevoli di aprire la strada alla diffusione del messaggio di Cristo.

    L’azione evangelizzatrice opera in tre direzioni convergenti: l’irradiazione della fede e della cultura cristiana, il salvataggio delle lingue e delle tradizioni del continente americano, la civilizzazione delle popolazioni locali. Sotto il primo aspetto i missionari fanno fruttificare i semi di religiosità presenti nelle credenze dei popoli indigeni attraverso l’elaborazione di nuovi metodi di catechesi, la creazione di parrocchie di indios, dove costoro venivano istruiti nella verità della fede cristiana e ricevevano i sacramenti, e la preparazione di catechismi bilingui o pittografici.

    Di fronte al lento progresso dell’evangelizzazione dei primi anni — rivolta a popoli idolatri e lontani culturalmente dalla mentalità europea —, i missionari comprendono che è necessario conoscere a fondo la mentalità e la cultura indigena per presentare il Vangelo nel modo più adeguato. Con un lavoro di autentica premessa all’inculturazione essi studiano le istituzioni, gli usi e i costumi degli indios, raccolgono con amore le testimonianze culturali amerinde più antiche — dando inizio alla moderna etnografia — e apprendono gli idiomi locali, dedicandosi anche alla stesura di grammatiche, di vocabolari e di frasari di conversazione. In questo modo fanno compiere alle lingue indigene, fino ad allora soltanto orali, un incommensurabile salto qualitativo, elevandole all’astrazione della scrittura alfabetica, che dà loro la possibilità di superare l’arcaica struttura che le caratterizzava e di pervenire alla cultura riflessiva.

    Infine, i conquistadores e i missionari procedono a un vero e proprio atto di fondazione, erigendo città e creando istituzioni di governo, e realizzano una fondamentale opera di civilizzazione, analoga a quella compiuta dalla Chiesa in Europa durante il Medioevo cristiano. Costruiscono case e chiese, promuovono l’agricoltura e l’allevamento degli animali, creano scuole di arti e mestieri, aprono ospedali — il primo di questi, fondato in Messico da Cortés, nel 1521, è attivo ancor oggi — e numerosissimi centri di carità, fondano collegi e università, la prima delle quali a Santo Domingo, nel 1538, a meno di cinquant’anni dalla scoperta.

    L’opera di evangelizzazione e di civilizzazione degli indigeni favorisce anche la creazione di un grande patrimonio artistico, frutto dell’incontro fra la cultura cattolica e la sensibilità delle popolazioni locali. Il monastero medioevale del secolo XVI, la cattedrale rinascimentale del secolo XVII e la chiesa barocca del secolo XVIII illustrano le tappe dello sviluppo architettonico nel continente americano, così come alcuni capolavori pittorici, soprattutto quadri raffiguranti soggetti originali, come le Vergini mulatte e gli arcangeli archibugieri di Cuzco, in Perú, e le statue dei dodici profeti nel santuario del Bom Jesús, a Congonhas do Campo, in Brasile, opera dell’architetto e scultore Antonio Francisco Lisboa (1730-1814), raffigurano visivamente tale incontro fra l’iconografia cristiana e le tradizioni di quei popoli.

    L’integrazione fra vincitori e vinti è annunciata dall’apparizione della Vergine Maria all’indio Juan Diego (1474-1544) nel dicembre 1531, sulla collina di Tepeyac, presso Città di Messico, appena dieci anni dopo l’impresa di Cortés. Il volto meticcio della Vergine di Guadalupe prefigura la nascita di una nuova e originale civiltà, esito non di una violenta sovrapposizione ma di una felice sintesi, che si realizza sotto il segno del cattolicesimo, senza incontrare le difficoltà proprie della colonizzazione di marca protestante. Si compie così la fondazione dell’Iberoamerica, una realtà nuova, generata dalla fusione delle tradizioni greco-romana, iberica e cattolica con gli elementi più vitali del mondo precolombiano. I paesi del Nuovo Mondo non costituiranno infatti colonie ma province d’oltremare del regno di Spagna che, insieme con l’impero portoghese, come sottolinea il pensatore e giurista brasiliano José Pedro Galvão de Sousa (1912-1992), perpetuerà per alcuni secoli la tradizione dell’impero missionario medioevale. Oggi la metà dei membri della Chiesa cattolica abita il continente iberoamericano, definito da Papa Giovanni Paolo II — nella lettera apostolica Los caminos del Evangelio, del 29 giugno 1990 — "il Continente della speranza".
    -------------------------------------------------------------------------
    Per approfondire: Marco Tangheroni e Maurizio Parenti, Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e "defensor fidei", in Cristianità, anno XX, n. 203, marzo 1992, pp. 11-17; Pierre Chaunu, L’espansione europea dal XIII al XV secolo, trad. it., Mursia, Milano 1979; Alberto Caturelli, Il nuovo mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale, trad. it., Ares, Milano 1992; Jean Dumont, Il Vangelo nelle Americhe. Dalla barbarie alla civiltà. Con un’appendice sul processo di beatificazione della regina Isabella la Cattolica, trad. it., con una prefazione di M. Tangheroni, Effedieffe, Milano 1992; e Giulio Dante Guerra, La Madonna di Guadalupe. Un caso di "inculturazione" miracolosa. In appendice "Preghiera per la Vergine di Guadalupe" di Papa Giovanni Paolo II, Cristianità, Piacenza 1992.

    FONTE: Voci per un Dizionario del Pensiero Forte

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    Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e "defensor fidei"

    di Maurizio Parenti e Marco Tangheroni


    in Cristianità, n. 203 (1992)

    Le ricorrenze di date più o meno memorabili sono diventate spesso, ai nostri giorni, occasione per celebrazioni di vario tipo, pretesti per operazioni di carattere commerciale o di convenienza accademica; pertanto è giustificabile una possibile avversione per tali celebrazioni.

    Tuttavia, mentre non si può negare che queste ricorrenze possano anche portare a utili ripensamenti e a effettivi approfondimenti dei vari temi, è pure innegabile che — per dire il meno — certi "giochi" dei numeri abbiano una forte suggestione, in specie per chi, senza pretendere di decifrare i dettagli della Provvidenza storica, a essa crede. Basti ricordare l’impressionante rispondenza fra il 1789, data d’inizio della Rivoluzione francese, e il 1989, data d’inizio della fine della Rivoluzione comunista come mito e, entro certi limiti, anche come potere (1).

    Nel caso, poi, del quinto centenario della scoperta dell’America, alla oggettiva importanza dell’argomento si aggiungono motivi d’intervento di fronte a una polemica crescente e artificiosa, priva di seri contenuti storici e che ha invece bersagli ben precisi, il principale dei quali è senz’altro da identificare nella Chiesa cattolica e nella sua opera di evangelizzazione. Ne sono protagonisti ambienti protestanti, movimenti indianisti, terzomondismi marxisteggianti, nostalgici inguaribili del catto-comunismo alla disperata ricerca di nuove cause e di nuovi complessi di colpa.

    E poco sembrano valere gli sforzi e i risultati dell’autentica ricerca storica. Come ricorda Franco Cardini, contro questa "tradizione pseudostoriografica [...] la voce ferma e autorevole di studiosi seri sembra impotente" (2); il che, aggiungiamo, conferma l’importanza della posta culturale in palio.

    Già chiara, peraltro, si è levata la voce del Magistero pontificio. Nel suo secondo pellegrinaggio apostolico in Argentina, Papa Giovanni Paolo II si è espresso sul significato storico della scoperta e della conseguente opera di evangelizzazione: "Negli uomini e nelle donne di questa terra, nei suoi costumi e nel suo stile di vita perfino nella sua architettura, si scoprono i frutti di quell’incontro di due mondi che ebbe luogo quando giunsero i primi spagnoli ed entrarono in contatto con i popoli indigeni che vivevano in questa regione, e in modo particolare con la cultura quechua-aymarà.

    "Da questo incontro fruttuoso è nata la vostra cultura, vivificata dalla fede cattolica che, fin dall’inizio, si è radicata molto profondamente in queste terre" (3).

    Appare perciò utile un’opera chiarificatrice, che deve cominciare proprio dalla personalità di Cristoforo Colombo, il primo artefice della scoperta. Infatti, anche sulla sua figura si accaniscono nuovi detrattori, che riprendono vecchi tentativi di ridimensionamento, ipotesi prive di fondamento, interpretazioni non rispondenti a quanto la ricerca storica ha ormai acquisito pur nella difficoltà oggettiva delle fonti (4).

    Né giovano a una buona comprensione della personalità dell’Ammiraglio certe prospettive insistenti su una sua presunta "modernità", che lo avrebbe portato a superare e a vincere i pregiudizi medievali (5). Queste prospettive riprendono la posizione largamente dominante nella cultura illuminista, che esaltò il personaggio Cristoforo Colombo e la sua scoperta, "triomphe de la raison", infamando, al tempo stesso, la Spagna e la civiltà cattolica (6).

    Anche la formula adottata da Paolo Emilio Taviani, "una psicologia moderna su base medievale", secondo cui Cristoforo Colombo si collocherebbe "in mezzo tra due età", perché medievali sarebbero "l’impostazione teorica [...], la visione filosofica e teologica e gli stessi presupposti delle sue concezioni scientifiche", mentre rinascimentali "il suo ardore investigativo, il vivissimo sentimento della natura, la capacità di affrontare le spiegazioni dei fatti fino ad allora non ancora osservati o spiegati", paga un tributo non accettabile a una visione convenzionale della curiosità "scientifica" e dell’atteggiamento medievale verso le realtà della natura (7).

    In verità, è impossibile comprendere l’uomo Cristoforo Colombo senza intenderne le profonde radici cattoliche e medievali, senza inquadrarlo nel suo tempo e senza porlo al punto cruciale di una generale espansione europea (8): piuttosto che tentare una biografia (9), ci sembra opportuno insistere proprio su questa chiave di lettura e su alcune questioni a essa connesse.

    La patria di Cristoforo Colombo

    Approfittando dell’assenza di un certificato di nascita e della non rarità, in tutto il Mediterraneo, del cognome nelle diverse varianti linguistiche, la fantasia degli autori si è scatenata nell’attribuire a Cristoforo Colombo i luoghi di nascita più diversi: lo si è voluto francese, corso, catalano, galiziano, portoghese, greco, inglese, tedesco...

    Ma l’alternativa più insistente, e nuovamente ripresentata anche in occasione del quinto centenario della scoperta dell’America, è la sua origine ebraica; essa merita di essere brevemente esaminata perché, anche nella versione che lo vorrebbe di famiglia ebraica convertita, un converso, questa tesi lo riporterebbe, in parte, a una tradizione culturale diversa da quella da noi indicata come decisiva per la comprensione della sua figura.

    Già formulata, agli inizi del nostro secolo, da Henry Vignaud — in un’opera peraltro tesa alla demolizione della grandezza di Cristoforo Colombo (10) —, è stata ripresa nel 1939 da uno scrittore particolarmente sottile ed elegante, Salvador de Madariaga, all’interno di una concezione mirante a esaltare il ruolo dei conversos nella Spagna del tempo, decisivi nella guida del regno, dell’Inquisizione e dell’economia (11). Dunque, Cristoforo Colombo sarebbe stato un ebreo catalano convertito, appartenente a una famiglia fuggita in Liguria, dopo i moti antiebraici avvenuti in Catalogna alla fine del secolo XIV.

    Gli argomenti di Salvador de Madariaga sono di singolare debolezza e soltanto l’accumulo delle ipotesi e l’ingegnosità dello stile possono disorientare e stordire un lettore troppo passivo. Basti dire che i motivi principali sono i seguenti:

    — un’interpretazione ebraica del criptogramma con cui Cristoforo Colombo firmava le sue lettere;

    — il fatto che la madre si chiamasse Susanna, personaggio dell’Antico Testamento;

    — il mestiere di tessitore del padre, Domenico, considerato "mestiere di elezione degli ebrei".

    Ma del criptogramma lo stesso Ammiraglio ci invita a una lettura cristiana e strettamente collegata alla sua convinzione di avere avuto una precisa missione da Dio. Quanto ai nomi, dopo aver osservato che, pur raro, quello di Susanna era presente in tutte le principali casate nobili genovesi, Jacques Heers fa notare che Domenico Colombo dette a tutti i suoi figli nomi "perfettamente e inequivocabilmente cristiani: Cristoforo, Bartolomeo, Giacomo e Giovanni Pellegrino" (12).

    Quanto all’argomentazione relativa al mestiere del padre, citiamo ancora Jacques Heers: "L’affermazione lascia alquanto sbalorditi se si pensa alle migliaia e migliaia di telai che a quel tempo tessevano la lana nelle città e nelle campagne d’Italia"; a Genova, poi, non vi è nessuna traccia di una presenza ebraica in questo settore, anzi, a differenza di altre città, come Venezia, la presenza ebraica in generale era, attorno al 1450, praticamente inesistente (13).

    Ancor meno serio — per riprendere il severo ma giusto giudizio di Bartolomé e di Lucile Bennassar (14) — è pretendere, come fa Simon Wiesenthal, che Cristoforo Colombo cercasse nelle Indie una patria per stabilirvi gli ebrei iberici minacciati di espulsione (15): basti osservare che il progetto del navigatore genovese era stato formulato compiutamente almeno un decennio prima, mentre il provvedimento dei Re Cattolici fu una decisione quasi improvvisa.

    In realtà, oggi non si può seriamente dubitare che Cristoforo Colombo fosse genovese, di famiglia originaria della montagna ligure. Sappiamo che suo padre, di nome Domenico, esercitava il mestiere di tessitore e, legato al clan familiare dei Fregoso, fu guardiano della porta dell’Olivella. Conosciamo anche il nonno, Giovanni, anch’egli tessitore. La ricerca d’archivio ha aggiunto vari documenti alla generale attestazione dei suoi contemporanei che lo indicano come genovese.

    E poiché allora i genovesi erano quelli che si muovevano su più ampi spazi marittimi, assicurando i trasporti per mare dal Mar Nero alle Fiandre e all’Inghilterra, si possono ben comprendere le sue esperienze giovanili a Chio, il lungo soggiorno in Portogallo, con le prime esperienze oceaniche e il concepimento del suo progetto, perfino certi aspetti del suo soggiorno in Andalusia, ove la presenza di uomini d’affari genovesi e fiorentini era, come in Portogallo, notevole.

    Il progetto. Rifiuti e approvazioni

    Come l’esperienza marinara di Cristoforo Colombo si inquadra perfettamente nella storia della sua patria e del suo tempo, così il progetto di raggiungere l’Oriente passando, attraverso l’Oceano, per l’Occidente, si stava imponendo, sia pure in maniera sfocata e imprecisa, in diversi ambienti scientifici ed eruditi dell’epoca: basti ricordare l’influenza di Paolo dal Pozzo Toscanelli.

    Il navigatore genovese ha il merito di concepire con maggior precisione il disegno, rafforzando le tesi di alcuni dotti con la personale esperienza di uomo di mare, che aveva osservato indizi significativi e raccolto anche alcune voci degli ambienti marinari; e quindi di perseguire con ostinazione la realizzazione dell’impresa condotta, poi, con le sue straordinarie doti nella guida delle navi e degli uomini (16).

    Tuttavia è bene ricordare che il suo progetto si basava su un duplice errore geografico, pur condiviso da sapienti di grande autorità, e verrebbe voglia di esclamare con la liturgia del Sabato Santo: felix culpa! : infatti egli riteneva la Terra molto più piccola e l’Asia molto più estesa verso l’Europa. Così gli poté apparire realizzabile un viaggio che, senza l’inattesa presenza di un altro continente, si sarebbe rivelato, evidentemente, impossibile.

    È importante ricordare questo fatto perché ci permette di comprendere il parere negativo sia degli studiosi consultati dal re del Portogallo, Giovanni II, sia di quelli spagnoli, in buona parte dell’università di Salamanca, interpellati dai Re Cattolici. Essi avevano, da un punto di vista matematico e geografico, ragione. E su questo piano avvennero, com’è documentato, le discussioni. Naturalmente non era in questione la sfericità della Terra, dato pienamente acquisito dalla cultura geografica medievale, ma la sua dimensione; e non sarebbe stato necessario ricordarlo se non fosse ancora largamente diffuso questo luogo comune tipico della "leggenda nera" sul Medioevo.

    Dunque tali studiosi non erano, come spesso li si immagina, i rappresentanti di una cultura vecchia, superata, "medioevale", contrapposta a quella nuova e "moderna" di Cristoforo Colombo. Ancor meno essi erano fanatici religiosi nemici della umanistica laicità del genovese, come, per esempio, ce li raffigurava uno sceneggiato televisivo realizzato alcuni anni or sono, senza risparmiarci nessuno dei topoi che era, ahimé, prevedibile attendersi: facce incavate, occhi ardenti, voci stridule. Semmai era proprio Cristoforo Colombo a superare, di fronte agli altri e a sé stesso, le obbiezioni oltre che con argomenti razionali anche con una convinzione progressivamente crescente di una missione affidatagli dalla Provvidenza.

    Un’ultima considerazione: perché il progetto di Cristoforo Colombo, che era stato giudicato negativamente da ripetuti autorevoli pareri, trovò quasi improvvisamente accoglienza da parte dei Re Cattolici nei primi mesi del 1492?

    Indubbiamente pesarono i sostenitori e i finanziatori che il navigatore genovese era riuscito a procurarsi, ma la spiegazione essenziale è da ricercarsi nell’euforia dei sovrani, della Corte e del popolo spagnoli per l’avvenuto compimento del processo di Reconquista, avviato dalla metà del secolo VIII e terminato il 2 gennaio 1492 con la conquista di Granada: un quinto centenario, questo, che il governo socialista spagnolo non ha avuto il coraggio di celebrare o di commemorare.

    La religiosità di Cristoforo Colombo

    Certamente in Cristoforo Colombo e in coloro che lo seguirono, come in generale nell’espansione europea della fine del Medioevo, non sono da trascurare le motivazioni di tipo economico e, in particolare, la ricerca dell’oro, senza dimenticare che, a partire dagli anni Quaranta del secolo XV, per i portoghesi acquista crescente importanza anche la cattura di schiavi lungo le coste africane: ma questa motivazione economica è assente dal progetto del navigatore genovese; più in generale, in tale espansione si manifesta "l’incoercibile bisogno, più o meno cosciente, di spazio" (17), non per eccesso di popolazione — le grandi epidemie di peste del secolo precedente avevano abbattuto di circa il 40% la popolazione europea —, ma per la ricerca di orizzonti più ampi, anche in relazione al serrarsi del Mediterraneo Orientale per l’avanzata dei turchi ottomani e al completamento della Reconquista.

    Inoltre, per Cristoforo Colombo le motivazioni di ordine religioso avevano un peso notevole, che sarebbe estremamente ingiusto e arbitrario ridurre a giustificazioni strumentali o a residui poco significativi di riti o di pratiche a carattere magico e superstizioso.

    E ciò va ribadito contro gli storici moderni poco propensi a prendere in considerazione il richiamo religioso; essi, come ha osservato Jacques Heers, "se ne parlano, vi vedono un elemento troppo trascurabile per evocarlo in maniera attenta, oppure un semplice pretesto. Molti pensano volentieri che il Genovese parlasse di dovere religioso, di servizio di Cristo e di prospettive di evangelizzazione solo per conciliarsi meglio le buone grazie della regina attraverso una manovra interessata" (18).

    Già la lettura del Diario di bordo ci offre un’ampia esemplificazione di questi aspetti decisivi per comprendere la personalità dell’Ammiraglio (19): ci limitiamo a qualche esempio, per altro assai eloquente, circa la profonda religiosità di Cristoforo Colombo e la sua convinzione di svolgere una missione accompagnata dal favore divino.

    In data 23 settembre 1492 egli istituisce un parallelo fra sé e Mosé: come allora a Mosé, che conduceva gli ebrei fuori dalla schiavitù egiziana, risultò utile il mare grosso in assenza di vento, così lo stesso straordinario fenomeno si è ripetuto a suo vantaggio per tranquillizzare i marinai timorosi circa la possibilità di fare ritorno.

    Il problema della conversione degli indigeni è, fin dallo stesso primo contatto del 12 ottobre, al centro dell’attenzione dello scopritore: "Conobbi che era gente che meglio si salverebbe e si convertirebbe alla nostra santa fede con l’amore che con la forza" (20). E in data 27 novembre, rivolgendosi ai sovrani spagnoli, dopo aver esposto la necessità di superare la barriera linguistica, scrive: "E poi si raccoglieranno i benefici e si lavorerà per fare cristiani tutti questi popoli, il che agevolmente si farà perché essi non hanno setta alcuna, né sono idolatri" (21).

    Sempre il Diario di bordo ci informa sul comportamento e sui pensieri di Cristoforo Colombo durante la spaventosa tempesta che coglie le due caravelle superstiti a metà febbraio, durante il viaggio di ritorno.

    In tali drammatici frangenti egli ha il timore che Dio gli impedisca il ritorno e "attribuì questo alla sua poca fede e alla mancanza di fiducia nella Provvidenza divina. D’altra parte lo confortavano le grazie che Dio gli aveva fatto, dandogli tanto grande vittoria, permettendogli di scoprire quello che aveva scoperto. [...] E che, come nel passato aveva posto il suo fine e indirizzato tutta la sua impresa a Dio e lo aveva ascoltato [...] doveva credere che gli darebbe compimento di quanto cominciato e lo porterebbe a salvamento" (22).

    Da buon capitano medievale Cristoforo Colombo si preoccupa "che si estraesse a sorte un pellegrino che andasse a Santa Maria di Guadalupe e portasse un cero di 5 libbre di cera", e la sorte designa proprio lui: a questo santuario dell’Estremadura condurrà di persona i primi indiani portati in Spagna a ricevere il battesimo.

    Poi viene deciso anche "di mandare un pellegrino a Santa Maria di Loreto, che è nella marca di Ancona, terra del Papa, che è una casa dove Nostra Signora ha fatto e fa molti e grandi miracoli"; "dopo di ciò l’Ammiraglio e tutto l’equipaggio fecero voto di andare, arrivando alla prima terra, tutti in camicia in processione a far preghiera in una chiesa che fosse dedicata a Nostra Signora" (23).

    Va inoltre ricordato che l’Ammiraglio tiene sempre presenti, anche nel corso delle sue esplorazioni, il calendario liturgico, le solennità ecclesiastiche e i misteri della Fede (24). Il 6 dicembre 1492, giorno della festività di san Nicola, chiama con quel nome il porto dell’isola Hispaniola — poi Haiti — in cui si trovava, come nel secondo viaggio un promontorio riceve il nome di Cabo Cruz il 3 maggio, giorno del rinvenimento della Croce.

    Cristoforo Colombo, il Santo Sepolcro e la Crociata

    Un motivo ricorrente nei testi di Cristoforo Colombo è quello della finalizzazione dei risultati della sua impresa alla liberazione del Santo Sepolcro.

    Nel Diario di bordo, dopo aver narrato la costruzione del primo insediamento, quello di Navidad — fondato il 25 dicembre del 1492, subito dopo il naufragio della Santa Maria. —, afferma che intende ritornare in un secondo viaggio dalla Castiglia e trovare oro e spezie "in tanta quantità che i re, prima di 3 anni, intraprendessero e preparassero [l’azione] per andare a conquistare la Casa Santa" confermando così l’impegno preso "con fermezza" con i sovrani prima della sua partenza, e cioè "che tutto il guadagno di questa mia impresa si spendesse nella riconquista di Gerusalemme". In quell’occasione — ricorda — i sovrani "sorrisero e dissero che piaceva loro e che [anche] senza questo avevano quel desiderio" (25).

    Nell’atto con cui istituisce il maggiorascato a favore di don Diego, il suo primogenito, Cristoforo Colombo ricorda nuovamente l’intenzione di spendere la rendita delle Indie "per la conquista di Gerusalemme" e impegna il figlio, o il suo erede, "ad andare con il Re Nostro Signore, se andrà a Gerusalemme a conquistarla, o anche solo, con la maggior forza possibile" (26).

    Dopo il terzo viaggio, fra il 1501 e il 1502, l’Ammiraglio, temporaneamente caduto in disgrazia presso i sovrani, pone mano al Libro de las Profecias, una raccolta di passi biblici, di Padri della Chiesa e di Seneca "circa materiam recuperande sancte civitatis et montis Dei Syon ac inventionis et conversionis insularum Indie et omnium gentium atque nationum ad reges nostros Hispanos", come suona il titolo del manoscritto conservato nella Biblioteca Colombina di Siviglia (27).

    Del resto, come orgogliosamente affermava, sempre nel 1501, in una lunga lettera ai Re Cattolici, non aveva forse scritto l’abate Gioacchino che "doveva uscire di Spagna chi avrebbe riedificato la casa del monte Sion" (28)?

    Nella stessa lettera, pur amareggiato, umiliato, deluso, afferma chiaramente di considerarsi il missionario predestinato a portare a Cristo gli abitanti delle terre da lui scoperte, in "pieno compimento di ciò che disse Isaia" e grazie a "un miracolo evidentissimo che volle fare Nostro Signore in questo affare del viaggio alle Indie" (29).

    E se indubbiamente il progetto crociato non fu realizzato, come dimenticare, comunque, che "l’oro del Nuovo Mondo servirà a finanziare eserciti e armadas contro i Turchi" (30)?

    Negli anni Ottanta è stato scoperto un libro copiador, cioè un quaderno copialettere, contenente nove lettere di Cristoforo Colombo, sette delle quali inedite (31).

    Alcune di esse, tutte indirizzate ai Re Cattolici e ricche di diverse informazioni nuove, confermano ulteriormente le profonde radici medievali e cristiane della personalità del navigatore e l’alta consapevolezza del significato storico dell’impresa compiuta. E ritorna, in una di esse, il tema del ricupero della "Casa Santa" di Gerusalemme.

    Cristoforo Colombo, il criptogramma e la devozione alla Santissima Trinità

    Geo Pistarino ha avanzato un’ipotesi interpretativa del famoso criptogramma o acronimo che Cristoforo Colombo crea probabilmente in occasione del secondo viaggio, di cui impone l’adozione ai suoi eredi nel testamento del 1498 e che adotta poi sistematicamente come firma, dopo aver pazientemente esaminato tutte le ipotesi, anche le più arbitrarie e strampalate, formulate nei secoli, con trascrizioni in ebraico o, addirittura, in linguaggio esoterico-massonico o pseudo-templare (32).

    Sulla base delle indicazioni date dall’Ammiraglio, bisogna ricercare la corretta interpretazione nell’ambito preciso della sua religiosità cattolica. Non a caso, a partire dal 1502, alla base del criptogramma egli pone, in sostituzione del precedente El Almirante, la spiegazione del significato del suo nome: Christo ferens, che porta a Cristo.

    Secondo l’ipotesi di lettura prospettata da Geo Pistarino le tre "S" del triangolo superiore andrebbero lette come una ripetuta e circolare invocazione allo Spirito Santo, al Sanctus Spiritus mentre le lettere inferiori rimanderebbero ai nomi Christus, Maria, Yesus, ricordando che nella scrittura spagnola dell’epoca "Y" e "J" si identificavano. La "A" starebbe per Altissimus. La forma generale, poi, richiamerebbe il triangolo trinitario.

    Senza esaminare questa ipotesi in tutti i suoi aspetti, compreso il problema dei rapporti fra Cristoforo Colombo ed eredità gioachimite, più o meno dirette, importa riprendere alcune osservazioni dell’autore su due cardini della spiritualità del genovese: la devozione mariana — si pensi ai toponimi da lui dati di Asunción, Concepción, Anunciación — e quella verso la Santissima Trinità.

    A questa, secondo quanto affermava in una lettera scritta dalla Niña il 15 febbraio 1493, tutta la Cristianità doveva dare "solenni grazie" con molte orazioni "per la grande esaltazione che avranno dall’accesso di tanti popoli alla nostra santa fede" (33). E "in nome della Santa Trinità" muove, in occasione del secondo viaggio, all’esplorazione di Cuba.

    Di più: all’inizio dell’atto del maggiorascato del 1498, Cristoforo Colombo attribuisce alla Santissima Trinità l’idea prima — "ci ha messo in mente" — e poi la precisa concezione — "perfetta comprensione" — della possibilità di andare dalla Spagna alle Indie "passando il Mare Oceano a Ponente" (34). Nello stesso anno, nella lettera scritta dall’isola di Hispaniola ai Re Cattolici con la relazione del terzo viaggio, il richiamo alla Santa Trinità è continuo: Essa ha mosso i sovrani ad appoggiare l’impresa di cui era il messaggero; in Suo nome è partito ogni volta; con il Suo aiuto compirà gli ordini che gli verranno dati (35).

    Non santo ma defensor fidei

    Con quanto siamo venuti dicendo non intendiamo, certamente, proporre la causa di beatificazione di Cristoforo Colombo. Non mancano, del resto, nella sua vita aspetti sconcertanti, come la lunga convivenza more uxorio con Beatrice de Harana, o, pur comprensibili per gli usi della sua epoca, ma condannabili — e non approvati dalla regina Isabella —, come la riduzione in schiavitù di alcuni indigeni.

    Ma intendiamo, questo sì, ricondurne la figura e la personalità alle dimensioni cattoliche e medievali che, a nostro parere e seguendo rispettosamente le fonti, le caratterizzano.

    In questo senso ci pare efficace la formula di Paolo Emilio Taviani: "non santo, ma defensor fidei" (36).

    Ci sembra dunque giusto concludere riportando alcuni giudizi che sostanzialmente condividiamo.

    Secondo Samuel Eliot Morrison, se è vero che Cristoforo Colombo sembra spegnersi sotto il segno della sconfitta, senza aver trovato il Gran Khan, senza aver convertito moltitudini di pagani, senza aver riconquistato Gerusalemme, senza aver saputo assicurare un futuro ai propri familiari, senza la partecipazione di nessun membro della Corte ai suoi funerali a Valladolid, è anche vero che "la profonda convinzione che era in lui dell’immanenza, dell’onnipotenza e dell’infinita sapienza di Dio alleviò le sue pene ed esaltò i suoi trionfi. Non è quindi la pietà il sentimento che dobbiamo nutrire per l’Ammiraglio del Mare Oceano" (37).

    Secondo Jacques Heers, "[...] lo scopritore del Nuovo Mondo si presenta a noi come un uomo di grande fede, profondamente attaccato alle proprie convinzioni, compenetrato di religiosità, accanito nel difendere e nell’esaltare il cristianesimo ovunque, nel promuovere una riconquista o una conquista contro i nemici di Dio, gli infedeli o i pagani. È perfino il solo tratto della sua personalità che non ammette discussioni, che ci appaia chiaramente, mentre altri, sui quali si è tanto e gratuitamente ricamato, ci sfuggono quasi completamente" (38).

    E ancora: "Per Colombo ed altri, il viaggio, la peregrinazione, rimaneva, come ai tempi eroici dell’evangelizzazione dell’Europa, la virtù dei campioni di Dio, di coloro che abbandonano tutto per il suo servizio. Nuovi propagatori della fede, nuovi Crociati, questi capitani di mare e cavalieri di Cristo issano sempre il segno della croce sugli alberi delle loro caravelle" (39), e già durante il primo viaggio, come annota nel Diario di bordo, Cristoforo Colombo "in ogni posto dove sbarcava faceva innalzare una croce e ve la lasciava" (40).

    Insomma, alla domanda che oggi, con intenti spesso polemici, viene insistentemente ripetuta: "Fu vera gloria?" (41), riteniamo di dover rispondere affermativamente che sì, fu vera gloria.

    ***
    Note

    (1) Cfr. Giovanni Cantoni, URSS, agosto 1991: una tappa sulla strada del postcomunismo, in Cristianità, anno XIX, n. 197-198, settembre-ottobre 1991.

    (2) Franco Cardini, Dio salvi la regina Isabella, in il Giornale, 20-1-1992.

    (3) Giovanni Paolo II, Omelia a Salta, in Argentina, dell’8-4-1987, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. X, 1, p. 1178.

    (4) Esponenti del Movimiento Indianista sono giunti a dire che "al confronto di Colombo Hitler sembra un delinquente alle prime armi" (Felipe Fernandez-Armesto, In defence of Columbus. The trouble with Eden, in The Economist, 21-12-1991, p. 47).

    (5) Dalle Capitulaciones de Santa Fé, cioè dagli accordi con i Re Cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, il 17 aprile 1492, nel quartier generale dell’assedio di Granada, Cristoforo Colombo ha il titolo di Ammiraglio, trasmissibile per via ereditaria.

    (6) Cfr. Bartolomé Bennassar e Lucile Bennassar, 1492. Un monde nouveau?, Perrin, Parigi 1991, pp. 50-55.

    (7) Paolo Emilio Taviani, I viaggi di Colombo. La grande scoperta, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1984, 2° vol., p. 323.

    (8) Cfr. Pierre Chaunu, L’espansione europea dal XIII al XV secolo, trad. it., Mursia, Milano 1979.

    (9) A nostro parere la migliore, anche per l’inquadramento generale del periodo, resta quella di Jacques Heers, Cristoforo Colombo, trad. it., Rusconi, Milano 1983; per una lettura più rapida si raccomanda l’agile volumetto di Charles Verlinden, Cristoforo Colombo. Visione e perseveranza, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1985. Per la ricchezza di dati, e anche per le splendide illustrazioni, ricordiamo pure P. E. Taviani, Cristoforo Colombo. La genesi della grande scoperta, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1974, 2 voll.; Idem, I viaggi di Colombo. La grande scoperta, cit. A livello giornalistico, ci sono apparsi sostanzialmente buoni gli articoli pubblicati da Cesco Vian sul quotidiano Avvenire, del 5, 12, 19, 30-10 e 6 e 11-11-1991. La bibliografia su Cristoforo Colombo è sterminata: cfr. Simonetta Conti, Bibliografia colombiana, 1793-1990, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, Genova 1990, che elenca 8.409 titoli.

    (10) Cfr. Henry Vignaud, Le vrai Cristophe Colomb et la legende, Picard, Parigi 1921; Idem, Histoire critique de la grande entreprise de Cristophe Colomb, Welter, Parigi 1911, 2 voll.

    (11) Cfr. Salvador de Madariaga, Cristoforo Colombo, trad. it., Dall’Oglio, Milano 1985.

    (12) J. Heers, op. cit., p. 26; l’autore, ordinario di storia medievale alla Sorbona, è il maggior studioso contemporaneo della storia di Genova nel Quattrocento.

    (13) Ibid., pp. 27-28.

    (14) Cfr. B. Bennassar e L. Bennassar, op. cit., pp. 184-185.

    (15) Cfr. Simon Wiesenthal, Operazione Nuovo Mondo, trad. it., Garzanti, Milano 1991.

    (16) Relativamente alle grandi qualità marinare di Cristoforo Colombo, considerato dalla maggior parte degli storici uno dei più grandi navigatori di tutti i tempi, cfr. Samuel Eliot Morison, Cristoforo Colombo ammiraglio del Mare Oceano, trad. it., il Mulino, Bologna 1985; l’autore, un ammiraglio americano, all’inizio degli anni Quaranta condusse una serie di ricognizioni sulla scorta delle rotte colombiane.

    (17) P. Chaunu, op. cit., p. 292.

    (18) J. Heers, op. cit., p. 641.

    (19) Esso ci è giunto soltanto attraverso una riduzione fatta da Bartolomé de Las Casas. La migliore traduzione italiana è Cristoforo Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle Indie, a cura di Gaetano Ferro, Mursia, Milano 1985.

    (20) Ibid., p. 46: Bartolomé de Las Casas trascrive testualmente il Diario, donde l’uso della prima persona; quando riassume utilizza la terza persona.

    (21) Ibid., p. 108.

    (22) Ibid., pp. 206-208.

    (23) Ibid., pp. 205-206.

    (24) Cfr. Geo Pistarino, Cristoforo Colombo: l’enigma del criptogramma, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 1990, p. 88.

    (25) C. Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle Indie, cit., p. 164. Su questa "idea fissa" dell’Ammiraglio, cfr. Juan Gil, Colón y la Casa Santa, in Historiografía y Bibliografía americanistas, XXI (1977), pp. 125-135.

    (26) Cristóbal Colón, Textos y documentos completos, a cura di Consuelo Varela, Alianza, Madrid 1982, p. 199.

    (27) Ibid., doc. L, p. 261.

    (28) Ibid., doc. XLIII, p. 256.

    (29) Ibidem.

    (30) J. Heers, op. cit., p. 684.

    (31) Cfr. C. Colón, Manuscripto del Libro Copiador de Cristóbal Colón, transcripción por Romeu de Armas, Collección Tabulae Americae, Ministerio de Cultura, Madrid 1989, 2 voll.

    (32) Cfr. G. Pistarino, Cristoforo Colombo: l’enigma del criptogramma, cit.

    (33) C. Colón, Textos y documentos completos, cit., p. 146, doc. V.

    (34) Ibid., doc. XX, p. 192.

    (35) Cfr. ibid., doc. XXV, pp. 204-223.

    (36) P. E. Taviani, I viaggi di Colombo. La grande scoperta, cit., p. 323; e ciò al di là delle riserve già espresse e di quelle relative a frasi che accompagnano la formula, come questa: "Fu fanatico, come oggi si direbbe integralista".

    (37) S. E. Morison, op. cit., p. 682.

    (38) J. Heers, op. cit., p. 641.

    (39) Ibid., p. 669.

    (40) Ibid., p. 672.

    (41) Cfr. il dibattito fra sei scrittori Disputa su Cristoforo Colombo. Fu vera gloria?, in Euros, I, 5/6, novembre-dicembre 1991.

    Fonte: Contro la leggenda nera

  6. #6
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    Predefinito Il Santuario del Pilar - galleria di immagini





    Ecco il santuario del Pilar a Saragozza, con le sue caratteristiche cupole

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    Vedute notturne della Basilica del Pilar



    Altre vedute della Basilica che si specchia nel fiume Ebro




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    Predefinito 12 ottobre - Nostra Signora del Pilar

    Dal sito SANTI E BEATI:

    Nostra Signora del Pilar

    12 ottobre

    Il più antico santuario della Spagna e forse della cristianità è quello della Beata Vergine del Pilar a Saragozza. In stile barocco, la costruzione è a forma rettangolare, divisa a tre navate e riccamente decorata e affrescata da Velázquez, Francisco de Goya, Ramon e Francisco Bayen. Lunga ben centotrentacinque metri e larga cinquantanove, ha quattro torri e undici cupole, di cui quella centrale, particolarmente imponente, svetta per ben ottanta metri.
    Secondo la leggenda, la cappella primitiva sarebbe stata costruita da S. Giacomo il Maggiore verso l’anno 40, in ricordo della prodigiosa “Venuta” della Vergine da Gerusalemme a Saragozza per confortare l'apostolo assai deluso dei risultati negativi della sua predicazione. Il “Pilar” è appunto la colonna di alabastro su cui la Vergine avrebbe posato i piedi.
    Alcuni mistici, come la venerabile Maria d’Agreda e Anna Caterina Emmerick,confermarono questa antichissima tradizione secondo le loro rivelazioni e visioni, ma già nel 1200 l’episodio è riportato in quello che è considerato il primo documento scritto sulla Madonna del Pilar.
    Bisogna anche dire, per amore di verità storica, che la chiesa di “Sancta Maria intra muros” a Saragozza esisteva ancor prima della invasione araba, avvenuta nel 711. Il monaco Aimoinus, giunto in Spagna nell’anno 855 alla ricerca delle reliquie di S. Vincenzo, scrisse che “la chiesa dedicata alla Vergine a Saragozza era la madre di tutte le chiese della città, e che S. Vincenzo vi aveva esercitato le funzioni di diacono al tempo del vescovo Valerio”.
    Nel 1118 Saragozza, liberata dal dominio dei musulmani, ritornò capitale del regno di Aragona e nel 1294 Santa Maria del Pilar venne restaurata per accogliere schiere sempre più numerose di pellegrini.
    Al tempo dell’unificazione della Spagna (sec. XV) per opera del re di Aragona Ferdinando il Cattolico e della regina Isabella di Castiglia, sua sposa, il culto della Madonna del Pilar si affermò in campo nazionale. Con la scoperta dell’America tale culto raggiunse anche il Nuovo Mondo: nell’anno 1492 avveniva la cacciata definitiva dei Saraceni dalla Spagna, Cristoforo Colombo partiva con tre caravelle, di cui una si chiamava per l’appunto “Santa Maria”, e – fatto abbastanza curioso, se non addirittura strabiliante – la data della scoperta del continente americano coincideva proprio con la data della festa del Pilar, il 12 ottobre.
    Forse per tutte queste circostanze, nel 1958, la festa “pilarica” del 12 ottobre fu dichiarata festa della hispanidad, cioè della Spagna e di tutte le nazioni di lingua e cultura spagnola.
    Ma nel 1640 un miracolo spettacolare doveva rendere ancora più celebre il santuario. Un giovane di diciassette anni, Miguel-Juan Pellicer di Calanda, conducendo un giorno un carro aggiogato a due muli, cadde dalla cavalcatura e andò a finire sotto una ruota del carro, che gli spezzò e gli schiacciò nel mezzo la tibia della gamba destra. Trasportato in ospedale per le cure del caso, si ritenne urgente amputargli la gamba a circa quattro dita dalla rotula.
    Prima dell’operazione, l’infelice si era recato al santuario del Pilar per farvi le sue devozioni e ricevervi i sacramenti. Dopo l'intervento, vi era tornato per ringraziare la Madonna di averlo conservato in vita. Ma,non potendo più lavorare, Miguel-Juan si era unito agli altri mendicanti che domandavano l’elemosina all’ingresso della basilica. Nel frattempo, ogni volta che veniva rinnovato l’olio delle 77 lampade d’argento, accese nella cappella della Vergine, egli vi strofinava le sue piaghe, benché il chirurgo glielo avesse sconsigliato in quanto l’olio ritardava la cicatrizzazione del moncherino.
    Tornato infine a Calanda, con la gamba di legno e una gruccia cominciò a mendicare spingendosi fino ai paesi vicini. Ma, il 29 marzo 1640, rientrò a casa sua e, a sera, dopo aver invocato, come al solito, la Vergine del Pilar, si addormentò. Al mattino, svegliandosi, si ritrovò con due gambe ed avvertì così i suoi genitori che la gamba destra, amputata da due anni e cinque mesi, era segnata al polpaccio dalle stesse cicatrici di prima dell’infortunio.
    Fu istituita subito una Commissione d’inchiesta, nominata dall’arcivescovo,e i suoi membri, nel corso di accurati accertamenti, con loro grande meraviglia non trovarono più la gamba di Miguel sepolta tempo prima nel cimitero dell’ospedale. La fama del miracolo corse per tutta la Spagna e fu la causa della realizzazione del grandioso santuario attuale, iniziato nel 1681 e consacrato il 10 ottobre 1872.
    Nel santuario, all’inizio della navata centrale è situata la “santa cappella”, dove si venera una piccola statua della Vergine col Bambino del secolo XIV, che poggia i piedi sul “Pilar” ricoperto di bronzo e argento, e che viene rivestita con manti diversi a seconda dei tempi liturgici e delle circostanze.
    Questa immagine fu incoronata il 20 maggio 1905, con una corona tempestata da circa diecimila perle preziose, e solennemente benedetta dal pontefice S. Pio X.
    La Madonna del Pilar, come Patrona della Spagna, da secoli attrae masse imponenti di pellegrini appartenenti a ogni classe sociale: dai più umili contadini ai più grandi re di Spagna, da Ferdinando il Cattolico a Juan Carlos, dal cardinale di Retz nel 1654 al papa Giovanni Paolo II nel 1982.
    I pellegrinaggi al santuario sono ininterrotti lungo tutto l’arco dell’anno e si svolgono con la partecipazione alla santa Messa, alla recita del Rosario, con canti mariani e con il bacio alla colonna sulla piccola parte scoperta, che, a causa di questa devozione, presenta un marcato solco prodotto proprio dall’usura.
    Molte famiglie spagnole danno il nome di Pilar alle loro bambine e tengono ad avere la sacra immagine in casa; numerosi altari e cappelle, dedicati alla Madonna del Pilar, si trovano nella Spagna e nell’America Latina. C’è a tal proposito un canto popolare spagnolo il cui ritornello a suon di nacchere ripete giustamente questa semplice verità: “Es la Virgen del Pilar, la que màs altares tiene, y no hay un buen español, que en su pecho no la lleve”: “È la Vergine del Pilar, quella che ha più altari, né si trova uno spagnolo, che non la porti nel cuore”.

    Autore: Maria Di Lorenzo

    Francisco Goya y Lucientes, Vergine del Pilar, 1775-1780, Museo de Zaragoza, Saragozza

    Francisco Goya y Lucientes, Apparizione della Vergine del Pilar a San Giacomo ed ai discepoli, 1775-1780, Colección Rosillo, Madrid

    Francisco Goya y Lucientes, Apparizione della Vergine del Pilar a San Giacomo (Santiago) ed i suoi discepoli, 1780-85, Colección García Rodríguez, Valladolid

    Francisco Goya y Lucientes, Apparizione della Vergine del Pilar a San Giacomo (Santiago) ed i suoi discepoli, 1768-1769, Colección Pascual de Quinto, Saragozza

    Francisco Bayeu y Subias, Apparizione della Vergine del Pilar a San Giacomo (Santiago), 1760, National Gallery, Londra

    Antonio González Velásquez (attrib.), Visione di S. Giacomo della Vergine del Pilar, 1750-55, Art Institute, Chicago

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    Predefinito Da "La Mistica Città di Dio" della Ven. Suor Maria di Gesù Agreda

    Libro VII, Cap. 16, §§ 307-333

    CAPITOLO 16

    Maria beatissima viene a conoscere le risoluzioni prese dal diavolo per perseguitare la Chiesa, ne chiede rimedio alla presenza dell'Altissimo in cielo e ne informa gli apostoli; san Giacomo si reca a predicare in Spagna, dove una volta ella lo visita.


    307. Quando Lucifero e i suoi ministri, dopo la conversione di Paolo, stavano escogitando il modo di vendicarsi sulla nostra Signora e sui cristiani, non immaginavano che la sua vista penetrasse le oscure caverne infernali e quanto vi era di più occulto nei loro conciliaboli; in tale inganno, quei cruentissimi draghi si ripromettevano più sicura la vittoria e l'esecuzione dei loro decreti contro di lei e contro i discepoli. Ella, però, dal luogo del suo ritiro, scrutava con la chiarezza della sua scienza quello che i nemici della luce discutevano e decidevano, intendendo tutti i loro fini e i mezzi scelti per conseguirli, lo sdegno che nutrivano per l'Altissimo e per lei, nonché il loro feroce odio per gli apostoli e gli altri fedeli. Nella sua saggezza valutava altresì che, senza il permesso celeste, essi non possono realizzare niente di ciò che architettano nella loro malvagità; tuttavia, poiché nell'esistenza mortale la battaglia è inevitabile e le erano note la fragilità e l'ignoranza che gli uomini comunemente hanno della maliziosa astuzia con cui i demoni procurano la loro perdizione, provava grande dolore e apprensione nell'osservare piani tanto perfidi per rovinarli.

    308. Con queste eminentissime doti di carità e sapienza, a lei partecipate direttamente da quelle di Dio, le fu comunicata anche un'altra specie di attività infaticabile, simile a quella di lui, che sempre opera come atto purissimo. La vigilante Vergine aveva continuamente preoccupazione attuale della gloria dell'Onnipotente, come pure della salvezza e consolazione dei suoi figli; inoltre, nel suo intimo castissimo e prudente meditava eccelsi misteri, confrontando il passato con il presente e tutto questo con il futuro, che prevedeva con discrezione e lungimiranza sovrumane. L'acceso desiderio della felicità perenne dei membri della Chiesa, insieme alla compassione materna che sentiva delle loro tribolazioni e dei pericoli che li sovrastavano, la stimolavano a fare sue quelle pene. Per quanto dipendeva dal suo ardore, anelante a sopportarle per tutti nella propria persona, bramava che gli altri seguaci del Redentore si impegnassero con gioia e letizia, guadagnandosi la grazia e la vita senza fine, e che le sofferenze di tutti gravassero su lei sola. Anche se questo non era possibile nell'equità e provvidenza divina, si deve considerare un affetto tanto raro e meraviglioso, ed esserle grati che talvolta la volontà del supremo Re condiscendesse realmente ad esso per appagare la sua sete e darle ristoro nelle sue ansietà, consentendo che patisse per noi e ci meritasse enormi benefici.

    309. La Principessa, però, non capì nei dettagli quello che veniva stabilito contro di lei, ma solo in generale di essere oggetto della rabbia più furiosa dei principi delle tenebre. Ciò che determinavano di fare le fu parzialmente celato per disposizione superna, affinché successivamente fosse maggiore il trionfo che avrebbe ottenuto. In effetti, il preavviso delle tentazioni e persecuzioni che avrebbe dovuto sostenere non era per lei necessario come per gli altri, che non erano tanto nobili; delle loro difficoltà ebbe, dunque, cognizione più precisa. Dato che in tutto ricorreva all'orazione per consultare l'Eterno, come istruita dall'esempio e dall'insegnamento del Maestro, lo fece subito con diligenza, abbassandosi in disparte fino a terra come di consueto, e con mirabile fervore parlò così:

    310. «Immenso sovrano, perfetto e incomprensibile, ecco steso al vostro cospetto questo vile vermiciattolo. Per il vostro Unigenito e mio Signore, vi scongiuro di non rigettare le domande e i gemiti che presento al vostro sconfinato amore con quello che, uscito dall'incendio che divampa in voi, è stato riversato in questa semplice ancella. In nome dell'intera comunità ecclesiale, vi offro il sacrificio della passione di Cristo e quello del suo corpo consacrato, le preghiere a voi tanto gradite che egli vi ha innalzato mentre era nel mondo, la bontà che per il riscatto di tutti lo mosse ad incarnarsi nel mio grembo, dove l'ho portato per nove mesi, alimentandolo poi al mio seno; ponderate tutto, per concedermi licenza di implorare ciò che il mio cuore, aperto al vostro sguardo, sospira».

    311. La Regina, rapita in estasi, contemplò Gesù che seduto sul trono impetrava che fosse esaudita, in quanto lo aveva generato ed era in tutto bene accetta al Padre, il quale si dichiarava vincolato dalle invocazioni che ella gli aveva indirizzato e soddisfatto di esse e quindi, fissandola con infinita benevolenza, pronunciava le seguenti parole: «Maria, mia diletta, ascendi più su». Allora, venne dal cielo un'innumerevole moltitudine di angeli di diversi ordini, i quali, giunti dinanzi a lei, la sollevarono dal suolo, che toccava con la fronte. Immediatamente la condussero in anima e corpo all'empireo, presso la sede della Trinità, che le si rivelò con una visione sublime, benché non intuitivamente ma per specie. Costei, prostratasi, adorò Dio nelle tre Persone con incommensurabile umiltà e riverenza, e rese grazie al Salvatore per aver appoggiato la sua supplica, sollecitandolo a farlo ancora. Egli, che da dove era la riconosceva come sua degna madre, non dimenticò l'obbedienza che le aveva prestato; anzi, davanti a tutta la sua corte rinnovò questa dimostrazione di figlio e come tale raccomandò un'altra volta quello di cui ella aveva premura. L'Altissimo rispose:

    312. «Mio Unigenito, nel quale ho la pienezza del mio compiacimento, le mie orecchie sono attente a colei che vi ha fatto nascere e la mia clemenza è incline ad accontentarla in tutto». Poi, rivolto a lei proseguì: «Amica mia, prescelta da me tra migliaia, tu sei strumento della mia onnipotenza e deposito della mia carità. Abbi calma nei tuoi affanni ed esponimi ogni tuo bisogno, perché ascolterò le tue richieste, che sono sante ai miei occhi». Avuto questo beneplacito, ella disse: «Sommo Creatore, che a tutto date e sostenete l'esistenza, le mie aspirazioni riguardano la vostra Chiesa. Siate pietoso e abbiatene cura, perché è opera del Verbo fatto uomo, fondata ed acquistata con il suo sangue. Contro di essa tornano ad ergersi il serpente antico e i suoi alleati, pretendendo la rovina dei vostri fedeli, che sono il frutto della redenzione. Confondete le loro perverse deliberazioni e difendete gli apostoli, vostri ministri, e gli altri battezzati; affinché questi siano liberati dalla loro ira e dalle loro trame, le concentrino pure su di me, se è fattibile. Io sono una sola povera e i vostri servi sono molti; dunque, essi godano di tranquillità e dei vostri favori, così che possano dedicarsi alla vostra esaltazione, e sia io a sopportare quello che incombe su di loro. Combatterò contro satana e voi, con il vigore del vostro braccio, lo vincerete e sgomenterete nella sua crudeltà».

    313. Il nostro Re riprese: «Mia carissima, ti accordo quanto è possibile: proteggerò i miei devoti in ciò che sarà conveniente per la mia gloria e ti lascerò soffrire quello che sarà utile per la loro corona. Perché ti sia manifesto il segreto del mio giudizio, con il quale tutto questo va dispensato, sali al nostro seggio, dove il tuo ardore ti dà spazio nel nostro concistoro e nella singolare partecipazione dei nostri attributi. Vieni, ti saranno svelati tanti misteri in ordine alla guida della comunità dei credenti e al suo sviluppo. Eseguirai il tuo volere, che coinciderà con il nostro, come adesso ti illustreremo». Ella si accorse di essere alzata dalla forza di questa dolcissima voce e collocata alla destra di sua Maestà, con ammirazione e giubilo di tutti i beati, che capirono il discorso e la decisione del loro sovrano. Fu senza dubbio una novità tale da muoverli a meraviglia il vedere che una donna nella carne mortale era elevata e invitata al fianco della Trinità, per essere illuminata su verità relative alla direzione della Chiesa, che erano nascoste a tutti e racchiuse nelle profondità divine.

    314. Susciterebbe stupore se lo si facesse in qualche città, chiamandone una alle assemblee nelle quali si discute del governo pubblico, e ancor più se la si introducesse nelle sedute dei consigli supremi, dove si affrontano e risolvono le questioni di maggiore complessità ed importanza per i regni e la loro amministrazione. Si stimerebbe questa innovazione poco sicura, dato che Salomone afferma di essere andato in cerca della ragione e di aver trovato un uomo su mille che la possedeva, ma neppure una donna. Sono così rare quelle che l'hanno costante e retta, per la loro fragilità naturale, che normalmente essa non si presume in nessuna; se poi ce ne sono alcune, non fanno numero per occuparsi di affari ardui e dibattuti senza che abbiano un'altra luce oltre a quella comune. Questa legge non comprendeva Maria perché, se Eva nella sua ignoranza cominciò a distruggere la casa del mondo che il Signore aveva edificato, ella, che fu sapientissima e madre della sapienza, la rifabbricò e la trasformò con la sua incomparabile prudenza', che le ottenne di entrare in quel concistoro, nel quale si parlava di tale riparazione.

    315. Lì fu interrogata un'altra volta su che cosa volesse per sé e per tutti i cristiani, in particolare per i Dodici e i discepoli. La saggia Regina espresse ancora il suo fervoroso anelito alla magnificazione di Dio e al loro sollievo nella persecuzione che i nemici tramavano contro di essi. Anche se le tre Persone conoscevano tutto ciò, le comandarono di dichiararlo per dare la loro approvazione e compiacersene, e per renderla più istruita su nuovi arcani inerenti ai loro decreti e alla predestinazione degli eletti. Per spiegare quanto mi è stato rivelato su questo, asserisco che, essendo la volontà della Vergine perfetta ed in tutto straordinariamente giusta e gradita all'Altissimo, pare che questi non potesse desiderare nulla che fosse contrario ad essa. Egli era rivolto verso l'ineffabile santità di lei e come ferito dai capelli e dallo sguardo di una compagna tanto diletta, unica tra tutti. Il Padre la trattava come figlia, il Figlio come madre e lo Spirito come sposa, e tutti e tre le avevano affidato la Chiesa, ponendo in lei tutta la fiducia; per questo, non intendevano stabilire l'esecuzione di niente senza consultarla e ricevere in qualche modo il suo consenso.

    316. Perché il suo beneplacito e quello della Signora coincidessero in questo, l'Onnipotente dovette comunicarle ulteriormente la sua scienza e gli occulti disegni della provvidenza con la quale egli dispone con peso e misurar, nella maniera più equa e adeguata, ogni cosa concernente le sue creature, i loro fini e i loro mezzi. Dunque, in tale circostanza ella fu rischiarata mirabilmente su quello che era opportuno che il sommo potere operasse e ne penetrò le recondite motivazioni. Seppe quali e quanti apostoli era bene che patissero e perissero prima del suo passaggio da questa vita all'altra, quali sofferenze avrebbero sostenuto per il nome di Gesù, quali cause vi erano per ciò e per la necessità che fondassero la Chiesa spargendo il proprio sangue, come aveva fatto il loro Maestro. Inoltre, apprese che, per la cognizione di quanto avrebbero dovuto sopportare i seguaci del Redentore, avrebbe compensato con il proprio dolore il non subire ella stessa tutto quello che ambiva, poiché era inevitabile che affrontassero una tribolazione momentanea per arrivare al premio eterno pronto per loro. Affinché avesse materia più abbondante per questo tipo di merito, fu informata dell'ormai prossima uccisione di Giacomo e della prigionia di Pietro, ma non le fu detto che l'angelo l'avrebbe liberato, sciogliendo le sue catene. Le fu annunciato anche che a ciascuno sarebbe stato concesso il genere di pena e di martirio proporzionato alle forze della grazia e del suo spirito.

    317. Per soddisfare completamente l'ardente carità della purissima Principessa, la Trinità le accordò di combattere ancora le sue battaglie contro i serpenti infernali e di conquistare le vittorie e i trionfi che gli altri non potevano conseguire, schiacciando loro la testa e confondendoli nella loro arroganza per indebolirli e fiaccarne le energie contro i fedeli. A questo scopo, le furono rinnovati tutti i doni e la partecipazione degli attributi divini, ed ognuna delle tre Persone la benedisse. Quindi, i custodi la riportarono all'oratorio del cenacolo nel medesimo modo in cui l'avevano condotta all'empireo. Appena uscì dall'estasi, si prostrò a terra in forma di croce e, stretta alla polvere, con incredibile umiltà e versando tenere lacrime ringraziò il Signore per il beneficio del quale l'aveva arricchita, senza che in esso ella avesse dimenticato di dare prova della sua sconfinata modestia. Si trattenne, poi, per un po' con gli esseri superni sui misteri e i bisogni della Chiesa, per accorrere attraverso il loro ministero dove c'era più urgenza. Le sembrò conveniente avvertire i Dodici di alcune cose e rinvigorirli, incoraggiandoli per le angustie che l'avversario comune avrebbe provocato loro, dato che essi erano quelli contro i quali lottava più duramente. Perciò, parlò a Pietro, a Giovanni e agli altri che erano con loro e li avvisò di molti fatti che sarebbero accaduti; inoltre, confermò la conversione di san Paolo, manifestando lo zelo con cui proclamava sua Maestà e la sua legge.

    318. Inviò dei messaggeri celesti agli apostoli che erano già fuori Gerusalemme ed anche ai discepoli, perché li preparassero ed esortassero con le stesse notizie che aveva trasmesso agli altri e li mettessero al corrente del mutamento avvenuto in Saulo; comandò in particolare ad uno di essi di palesare a quest'ultimo le trame che il demonio ordiva contro di lui, di animarlo e renderlo saldo nella speranza dell'aiuto di Dio nelle sue fatiche. Eseguirono ciò con la consueta velocità, obbedendo alla loro Regina, e comparvero a coloro ai quali erano stati indirizzati. Questo singolare favore colmò tutti di profonda consolazione e nuovo ardimento, e ciascuno rispose con rispettosa riconoscenza tramite gli stessi, promettendole di morire con letizia per l'onore del suo Unigenito. Pure il giovane di Tarso risaltò in questo, perché la sua devozione e la sua brama di vedere la propria salvatrice e di esserle grato lo spronavano a più evidenti dimostrazioni e a più grande sottomissione. Egli era allora a Damasco, dove evangelizzava e disputava con i membri di quelle sinagoghe, anche se subito dopo si trasferì in Arabia, facendo in seguito ritorno nel luogo dal quale era partito.

    319. San Giacomo il Maggiore era più lontano di tutti gli altri, poiché era uscito per primo dalla città per la missione e, trascorsi alcuni giorni nei dintorni, si era recato in Spagna. Si era imbarcato a Ioppe, l'attuale Giaffa, nel trentaquattro dopo Cristo, nel mese di agosto, che allora si chiamava sestile, un anno e cinque mesi dopo la passione, otto mesi dopo la lapidazione di Stefano e cinque mesi prima della conversione di Paolo, secondo quanto ho già scritto. Da lì, facendo scalo in Sardegna, era approdato al porto di Cartagena, nel quale aveva cominciato la predicazione; presto, diretto dallo Spirito, aveva preso il cammino per Granada, dove aveva capito che la messe era abbondante e l'occasione opportuna per soffrire per Gesù, come in effetti successe.

    320. Era tra i prediletti di Maria e tra coloro che ella assisteva di più, sebbene esteriormente non lo distinguesse molto, per l'uniformità con la quale prudentemente trattava tutti come pure perché egli era suo parente. Anche Giovanni, suo fratello, aveva lo stesso legame con lei, ma a suo vantaggio giocavano altre ragioni, perché tutto il collegio apostolico sapeva che il Maestro stesso dalla croce lo aveva dato come figlio a sua Madre e così, se questa lasciava trasparire il suo affetto, non c'erano gli inconvenienti che ci sarebbero stati se lo avesse fatto con Giacomo o con chiunque altro tra loro; intimamente, però, aveva un amore del tutto speciale per lui, e glielo rivelò sempre con grazie eccezionali. Egli le meritò con la riverenza e la venerazione in cui si segnalava ed ebbe necessità della sua difesa perché, essendo di cuore nobile e generoso e di animo ferventissimo, andava incontro alle tribolazioni e ai rischi con invincibile valore. Perciò, precedette i suoi compagni nell'avviarsi a portare l'annuncio e a subire il martirio. Nel tempo del suo peregrinare fu proprio un fulmine come figlio del tuono, giacché per questo ricevette tale nome quando si unì agli altri.

    321. In Spagna gli si presentarono inconcepibili difficoltà e persecuzioni mosse da satana per mezzo dei giudei. Non furono piccole neppure quelle che poi dovette sopportare in Italia e in Asia minore, da dove tornò a Gerusalemme a diffondere la lieta novella e ad affrontare il supplizio, dopo aver percorso in pochi anni province tanto distanti e nazioni tanto diverse. Poiché non appartiene al mio intento riferire tutto quello che sostenne in così vari viaggi, esporrò solo ciò che conviene a questa Storia. Quanto al resto, ho compreso che la nostra Signora ebbe cura di lui in modo eccezionale per i motivi da me addotti, e che attraverso i suoi angeli lo preservò da parecchi gravi pericoli e frequentemente lo confortò mandandoli a trovarlo e a dargli informazioni e consigli, perché ne aveva bisogno più degli altri, considerata la brevità della sua vita. Spesso il medesimo Redentore fece scendere dal cielo alcuni suoi servitori affinché lo proteggessero e lo trasportassero da una parte all'altra, guidandolo nei suoi spostamenti e nella sua opera.

    322. Nel periodo in cui dimorò in Spagna, tra gli altri benefici che gli furono elargiti dalla Vergine due furono assai considerevoli, perché ella stessa lo visitò e soccorse. Una di queste apparizioni, che si verificò a Saragozza, è tanto certa quanto celebrata nel mondo, e oggi non si potrebbe negarla senza distruggere una verità così pia, confermata e consolidata da mirabili prodigi e da testimonianze per più di milleseicento anni; accennerò ad essa nel prossimo capitolo. Dell'altra, che fu la prima, non mi è noto che si conservi memoria, poiché fu più nascosta. Secondo quello che mi è stato svelato, accadde a Granada, nella maniera che adesso spiegherò. Gli ebrei avevano lì delle sinagoghe fin dal momento del loro arrivo; la terra era fertile e la vicinanza ai porti del Mediterraneo consentiva loro di tenersi comodamente in contatto con la Palestina. Quando vi giunse Giacomo, avevano sentito parlare degli avvenimenti riguardanti sua Maestà: alcuni di essi ambivano di conoscere i suoi insegnamenti e il loro fondamento, ma nella maggioranza erano già stati preparati con un'empia incredulità da Lucifero a non accoglierli e a non permettere che fossero trasmessi agli altri, perché contrari ai loro riti e a Mosè; infatti, avevano paura che altrimenti i pagani avrebbero eliminato il giudaismo. Con tale diabolico inganno, impedivano la fede in costoro, che, constatando che Cristo era rigettato come impostore dal suo stesso popolo, non si persuadevano facilmente a seguirlo.

    323. L'Apostolo entrò in città e, appena ebbe iniziato a predicare, si imbatté nella loro resistenza: lo facevano passare per un avventuriero, imbroglione, inventore di sette false, stregone ed ammaliatore. Egli aveva con sé dodici discepoli, ad imitazione del suo Signore, e, siccome perseveravano tutti nella proclamazione del Vangelo, cresceva l'odio contro di essi, tanto che fu presa la decisione di ucciderli; in effetti, ne fu assassinato immediatamente uno, che si era opposto con ardente zelo. Dato che, però, non temevano la morte ed anzi aspiravano a patire per Gesù, continuarono a proporre il loro messaggio ancor più intrepidamente. Dopo che ebbero faticato in questo per vari giorni ed ebbero convertito molti abitanti di quel luogo e della zona circostante, il furore dei giudei si accese maggiormente. Infine, questi li catturarono tutti e li trascinarono in catene fuori delle mura per ammazzarli, e appena furono in campagna legarono nuovamente i loro piedi affinché non fuggissero, perché li ritenevano maghi e incantatori. Mentre stavano per decapitarli, Giacomo non cessava di implorare il favore dell'Altissimo e della sua Regina. Le disse: «Santa Madre del mio Salvatore, assistete in quest'ora il vostro umile schiavo. Voi che siete clementissima, pregate per me e per questi confessori. Se è volontà dell'Onnipotente che periamo qui per la sua gloria, supplicatelo che riceva la mia anima alla sua presenza. Ricordatevi di me e beneditemi in nome di colui che vi ha scelto tra tutti. Accettate il sacrificio che faccio di non incontrare i vostri occhi misericordiosi in quest'ora, che per me deve essere l'ultima. O Maria, o Maria!».

    324. Ripeté tante volte l'invocazione finale, che ella ascoltò dal suo oratorio, da dove stava osservando distintamente tutto ciò che succedeva a quel suo amatissimo figlio. Allora, le sue viscere materne si mossero a tenera compassione per la tribolazione che egli sosteneva e nella quale le si rivolgeva, e ne provò particolare dolore pure per il fatto di essere così lontana anche se, avendo chiaro che niente era difficile al potere infinito, si inclinò a desiderare di aiutarlo in quel frangente; inoltre, tale pena aumentò in lei poiché aveva cognizione che sarebbe stato il primo a versare il proprio sangue. Comunque, non chiese a Dio o agli esseri celesti di portarla da lui, perché la trattenne dal farlo la sua eccezionale prudenza, con la quale intendeva che la provvidenza non avrebbe fatto mancare il necessario, e nel domandare queste grazie mentre viveva quaggiù si regolava sul beneplacito della Trinità, con eccellente discrezione e riguardo.

    325. Il suo Unigenito, che teneva l'attenzione fissa ai suoi aneliti come santi, giusti e pieni di pietà, dispose all'istante che i suoi mille custodi eseguissero quanto ella sospirava. Questi le si manifestarono in forma umana e, palesatole l'ordine che avevano avuto, senza alcun indugio la fecero salire su un trono formato da una bellissima nuvola e la condussero in Spagna, sul campo dove erano Giacomo e i suoi e dove i nemici che li avevano fatti prigionieri avevano già sguainato le scimitarre o sciabole. Solo l'Apostolo la vide sulla nube, dalla quale ella gli parlò con dolcezza: «Mio diletto, carissimo al Redentore, state di buon animo e siate benedetto eternamente da colui che vi ha creato e vi ha chiamato alla sua luce. Orsù, servitore fedele, alzatevi e siate sciolto dai ceppi». Egli si era prostrato come meglio aveva potuto. Alle parole della fortissima Principessa, le catene di tutti si aprirono in un attimo e si trovarono liberi. I giudei, che avevano le armi in pugno, caddero a terra e vi rimasero per alcune ore privi di sensi, mentre i demoni, che li appoggiavano e provocavano furono precipitati negli abissi infernali. Così, sua Maestà poté essere magnificato senza impedimenti da quei dodici e da Giacomo, e questi ringraziò la Vergine con incomparabile sottomissione e giubilo del suo intimo; gli altri, pur non potendola contemplare, dall'accaduto si resero conto del prodigio, e il loro maestro lo rivelò nella misura che gli parve conveniente per confermarli nella fede, nella speranza e nella devozione a lei.

    326. Tale singolare beneficio fu anche più mirabile perché la Signora non solo lo difese dalla morte affinché tutto quel regno traesse giovamento dalla sua predicazione, ma regolò anche i suoi spostamenti; ella, infatti, incaricò cento dei suoi angeli di accompagnarlo, guidandolo di paese in paese e proteggendolo dappertutto da ogni pericolo, e di indirizzarlo quindi verso Saragozza. Essi le obbedirono e gli altri la trasferirono al cenacolo. Con una simile scorta, Giacomo percorse quei territori più sicuro che gli israeliti nel deserto. Lasciò a Granada alcuni dei suoi, che poi vi subirono il martirio, e proseguì il viaggio in molte località dell'Andalusia con i rimanenti e con gli altri che accoglieva. Giunse a Toledo e di là passò in Portogallo, in Galizia e per Astorga; facendo delle deviazioni verso posti differenti, arrivò nella Rioja e da Logrono si recò a Tudela e, infine, a Saragozza. Nel suo peregrinare si separò via via da parecchi suoi discepoli, che designò come pastori di varie città, dove aveva piantato la Chiesa e il culto divino. In quelle regioni fece tanti e così straordinari miracoli che non devono sembrare incredibili quelli che si sanno, essendo ben più numerosi quelli che si ignorano. Il frutto che raccolse fu immenso, tenuto conto del tempo in cui vi dimorò. È stato un errore dire o pensare che convertì poche persone, perché ovunque andò stabilì la comunità, ordinando tanti vescovi per il governo dei figli che aveva generato in Cristo.

    327. Per terminare questo capitolo avverto che in molteplici maniere ho conosciuto le teorie opposte degli storici ecclesiastici su quanto sto scrivendo, cioè l'uscita degli apostoli da Gerusalemme allo scopo di evangelizzare, la distribuzione tra loro delle parti del mondo, la composizione del simbolo, la partenza di Giacomo e la sua uccisione. Riguardo a tutti questi avvenimenti ho compreso che dissentono considerevolmente nell'attribuire ad essi una datazione e nell'accordarli con i libri canonici. Il Signore, però, non mi ha comandato di chiarire questi ed altri dubbi, né di comporre queste controversie; anzi, fin dal principio ho riferito che egli mi ha ingiunto di stendere il presente racconto senza opinioni, affinché non le mescoli con la verità. Quando ciò che affermo è conseguente al testo sacro, non contrasta in niente con esso e corrisponde alla dignità della materia che tratto, non posso dare maggiore autorità alla narrazione, e neppure pretenderà di più la pietà cattolica. Potrà anche capitare che per tale strada si risolvano alcuni punti dibattuti, e questo lo faranno coloro che sono dotti e letterati.

    Insegnamento della Regina del cielo

    328. Mia eletta, la meraviglia che hai qui esposto, cioè il mio innalzamento al trono regale di Dio perché egli potesse parlare con me dei decreti della sua provvidenza, è così particolare e grande che supera le facoltà dei viatori; solamente in patria, nella visione beatifica, essi capiranno siffatto mistero con speciale gaudio accidentale. Questa grazia eccezionale fu in qualche modo effetto e compenso dell'ardore con cui amavo ed amo il sommo Bene e dell'umiltà con cui mi confessavo sua ancella; furono queste virtù a sollevarmi lassù mentre vivevo nella carne. Allora, voglio che tu penetri profondamente un arcano che senz'altro fu uno dei più sublimi operati in me e uno di quelli che dettero più motivo di ammirazione ai ministri superni e ai santi. Bisogna che tu trasformi la cognizione che ne hai in una vigilantissima sollecitudine e in accesi desideri di imitarmi in ciò per cui meritai tali favori.

    329. Intendi dunque che non una volta sola, ma molte, fui elevata fino alla sede della Trinità nel periodo che trascorse tra la venuta dello Spirito e il giorno nel quale fui assunta, dopo il mio trapasso, per gioire perennemente. In quello che ti resta da dichiarare della mia vita, afferrerai altri segreti al riguardo; però, per quanto mi fu concesso dalla destra dell'Altissimo, ricevetti abbondantissimi doni, nelle diverse maniere che erano possibili alla sua potenza infinita e alla capacità che egli mi conferì per l'ineffabile e quasi immensa partecipazione delle sue perfezioni. Talora, elargendomeli, il Padre proclamava: «Sposa mia, il tuo affetto e la tua fedeltà, superiore a quella di tutti gli altri, ci vincolano e ci danno la pienezza di compiacimento che bramiamo. Ascendi presso di noi, per essere assorta nell'abisso della nostra divinità ed avere qui il quarto posto, nei limiti permessi a una semplice creatura. Prendi possesso della nostra gloria, i cui tesori mettiamo nelle tue mani. Tuoi sono il cielo, la terra e i mari; godi nella tua esistenza peritura dei privilegi della beatitudine al di sopra di ogni altro. Ti servano tutte le nazioni e tutti gli esseri, ti obbediscano le potestà e i supremi serafini, e tutte le nostre ricchezze siano in comune con te. Apprendi le decisioni della nostra sapienza ed abbi parte in esse, dato che sei assolutamente retta e irreprensibile. Addentrati nelle spiegazioni di quello che determiniamo con equità; il tuo volere sia uno con il nostro, ed uno il motivo in ciò che stabiliamo per la nostra Chiesa».

    330. Con questa benignità tanto ineffabile quanto singolare indirizzava la mia volontà per conformarla alla sua, affinché nella comunità ecclesiale non si facesse niente se non per mia disposizione, e questa fosse quella di lui stesso, le cui ragioni e convenienze conoscevo nel suo eterno consiglio. In esso vidi che per legge universale io non potevo sostenere tutte le pene di ognuno, principalmente degli apostoli; ma la mia aspirazione, benché irrealizzabile, non fu una deviazione dal beneplacito dell'eccelso sovrano, che la suscitò in me come indizio e testimonianza del mio amore sconfinato, dal momento che anelavo a questo appunto per il Signore stesso, che ha tanta tenerezza verso gli uomini. Io ero sincera e il mio cuore era pronto per quello che chiedevo; perciò egli lo gradì e mi premiò come se l'avessi eseguito, giacché mi causò molto dolore non poter soffrire per ciascuno. Da questo nasceva in me la compassione che avevo dei martiri e dei tormenti con i quali furono uccisi i Dodici e gli altri, poiché in tutti e con tutti ero afflitta e tribolata, e in un certo modo morivo con loro. Tale fu la mia affezione per i miei figli! E questa adesso, tranne che per il patire, è la medesima, anche se essi non sanno fin dove li obblighi la mia carità per esserne grati in misura adeguata.

    331. Questi inesprimibili benefici mi furono accordati mentre stavo accanto al mio Gesù, rapita in estasi, e mi dilettavo nelle sue prerogative ed eccellenze, per quanto potevano essere comunicate ad una semplice creatura. I disegni celesti erano manifestati innanzitutto all'umanità santissima di Cristo, nell'ordine mirabile che essa ha con la divinità alla quale è congiunta nel Verbo. Subito, tramite lui, erano trasmessi a me in un'altra maniera. L'unione della sua umanità con la persona del Verbo, infatti, è immediata, sostanziale e intrinseca, e quindi la partecipazione della divinità e dei suoi decreti è corrispondente e proporzionata; per me, invece, veniva seguito un altro ordine, stupendo e senza esempi, che aveva luogo in un essere non divino, ma somigliante all'umanità santissima e, dopo di essa, il più vicino a Dio stesso. Non potrai comprendere facilmente ciò, ma i beati lo hanno fatto ognuno nel grado di scienza a lui spettante, e tutti hanno inteso la mia conformità con il mio Unigenito, e pure la differenza. Questo li mosse e li muove ancora a comporre nuovi cantici a onore e lode dell'Onnipotente, perché fu uno dei più grandi prodigi che il suo braccio vigoroso fece in me.

    332. Affinché tu dilati maggiormente le tue energie e quelle della grazia in desideri e sentimenti pii, anche se questi riguardano quanto non puoi mettere in pratica, voglio svelarti un'altra cosa. Quando io scoprivo gli effetti della redenzione nella giustificazione delle anime, e gli aiuti che erano infusi ad esse per mondarle ed elevarle per mezzo della contrizione o del battesimo e di altri sacramenti, ne avevo stima fino a provarne quasi invidia. Non avevo colpe delle quali purificarmi e dunque questo non mi poteva essere concesso come ai peccatori, ma, poiché piansi il male che avevano compiuto più di tutti loro e mi mostrai riconoscente a sua Maestà per la sua liberale misericordia, ottenni più di quello che era necessario per la salvezza dell'intera discendenza di Adamo. Sino a tal punto l'Altissimo si riteneva impegnato dalle mie opere e tale fu la virtù che egli dette loro perché trovassero favore presso di lui!

    333. Considera quanto tu mi sia debitrice, ora che ti ho illuminato e istruito su realtà tanto venerabili; non tenere oziosi i tuoi talenti e non fare andare perduti tanti beni. Vieni dietro a me attraverso l'imitazione perfetta dei miei atti. Per infervorarti di più nell'amore di Dio, tieni continuamente a mente la brama che il Maestro ed io avevamo della beatitudine dei credenti e le nostre lacrime per la rovina definitiva che molti si procurano da soli con una falsa ed ingannevole allegrezza. Devi contraddistinguerti ed esercitarti parecchio in tale zelo, come sposa fedelissima di colui che per questo si abbandonò alla morte di croce, e come figlia e discepola mia; infatti, se la forza di un simile ardore non mi privò della vita fu perché questa mi fu conservata miracolosamente, ed essa mi meritò di avere un posto nel trono e nel consesso della Trinità. Se tu, amica, sarai così diligente nel modellarti su di me e così attenta nell'obbedirmi come io esigo da te, ti assicuro che sarai partecipe dei doni che io feci al mio servo Giacomo e che ti assisterò nei travagli e ti guiderò, secondo quello che ti ho promesso ripetutamente; inoltre, il Signore con te sarà tanto generoso che supererà ogni tua attesa.

 

 
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