Mario Trombino


Sintesi del De Magistro di Agostino


Premessa

Il De Magistro è stato composto nel 389, dopo il ritorno a Tagaste, in Africa, poco dopo la conversione. E' quindi legato al momento in cui Agostino tenta di definire il rapporto tra fede e ragione, prima delle grandi opere del suo periodo più maturo. Il suo problema è individuare le condizioni che rendono possibile la comprensione razionale dei contenuti dottrinali del cristianesimo. [1]

Il De Magistro è uno degli ultimi scritti di Agostino in forma di dialogo: cioè una delle ultime occasioni in cui il metodo dialettico per la formazione della persona, di derivazione platonica, viene utilizzato.

I temi trattati sono due, strettamente connessi tra loro:

il rapporto tra i segni e i significati (un tema tipico di quella che oggi chiamiamo filosofia del linguaggio)
la natura dell'apprendere e dell'insegnare, e più esattamente chi può insegnare, chi è il maestro, e se si può apprendere da un altro (un tema chiaramente pedagogico).
I due temi sono solo apparentemente diversi. In realtà la questione è una sola: Agostino intende definire come e da chi l'uomo possa apprendere la verità che dà la felicità: dagli altri uomini attraverso i loro discorsi, le parole? Dalla esperienza sensibile? La risposta a queste ipotesi è negativa. Il maestro vero è soltanto quello interiore (Cristo/Logos in noi), la verità non può essere appresa dal mondo esterno, fatto di parole e di segni che rimandano sempre ad altre parole e ad altri segni, ma deve essere appresa dal mondo interiore. E questo richiede un approccio diverso rispetto all'universo dei segni che utilizziamo quando entriamo in relazione con altri uomini e con le cose.

I temi del De Magistro sono quindi sì temi appartenenti alla filosofia del linguaggio e alla pedagogia, ma sullo sfondo la questione è quella tipicamente platonica e neoplatonica: qual è la vera natura dell'anima, come essa possa partecipare della verità che, in sé, non appartiene affatto al mondo in cui viviamo. Come, insomma, la mente dell'uomo possa accedere alla più intima verità di se stesso, che in realtà lo trascende. Il maestro interiore - se siamo preparati a intendere l'illuminazione che esso consente - ci permette infatti la comprensione di noi stessi, ma questa via si dimostra in realtà una via verso Dio, perché in lui è la nostra verità: una via quindi che ci trascende. [2]

Gli interpreti si sono divisi nel valutare le diverse parti di cui è composto il dialogo [3], ma c'è sostanziale unità nel valutare come centrale in quest'opera la questione del maestro interiore e quindi dell'accordo tra fede e ragione che ci permette di superare la sfera della sensibilità e di compiere il salto verso una verità che è sì in noi, ma soltanto come apertura ad una realtà trascendente (secondo la celebre tesi: "nell'interiorità dell'uomo abita la verità")



Sintesi

Il dialogo si svolge tra Agostino e suo figlio Adeodato. E' possibile che si basi su un dialogo effettivamente avvenuto.

La prima parte (§ 1-18) si apre con la domanda di Agostino su quali siano le funzioni del linguaggio, e la risposta è che esse sono due: insegnare e far ricordare [si tratta di una ripresa di tesi stoiche]. E questo anche nel caso che si canti o si preghi:

nel canto, la bellezza della melodia non vuole certo né insegnare né far ricordare; tuttavia questa bellezza non appartiene al linguaggio in quanto tale, ma si aggiunge alle parole che usiamo;
nella preghiera, certo non vogliamo insegnare o far ricordare qualcosa a Dio, ma "le parole servono a spingere noi stessi a ricordare o a far sì che altri siano spinti a ricordare o siano istruiti per nostro mezzo". Dunque la tesi è molto netta: dove ci sono parole, c'è qualcuno che ha uno scopo, insegnare o far ricordare.
Ma le parole non sono altro che segni, e significano qualcosa soltanto se rimandano a un significato [quindi permettono di insegnare e far ricordare, in modo autentico, soltanto se consentono di passare dal segno al significato]. Agostino e Adeodato discutono allora a lungo sul passaggio dal segno al significato. In un lungo passo viene analizzato il significato delle singole parole del verso Si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui (è un verso di Virgilio, Eneide 2, 659). La questione più seria la pone la parola nihil, perché non si trova qualcosa che possa esistere e corrisponda a nihil: viene suggerita l'ipotesi che con questa parola "si indica forse la stessa disposizione della mente quando cerca qualcosa e scopre che non esiste". Tuttavia Agostino rimanda ad altro momento la discussione di questa questione, perché troppo complessa [nel De Magistro la questione non sarà ripresa].

L'analisi delle altre parole mostra poi con chiarezza che discutendo tra loro Agostino e Adeodato non stavano affatto passando dalla parola come segno al significato delle parole, ma stano semplicemente tentando di spiegare il significato di una parola con altre parole, sostituendo quindi parola a parola e restando sempre dentro un mondo di segni senza mai andare davvero al significato.

Adeodato si accorge addirittura che quando indichiamo qualcosa con il dito, per mostrare il significato di una parola che corrisponde ad una cosa presente, oppure quando dei mimi o dei sordomuti usano dei gesti per fare intendere un significato, senza usare parole, anche in questi casi non si fa altro che rimanere in un universo di segni, perché anche i gesti sono segni: lo è il dito che indica, lo è la posizione del corpo del mimo, il gesticolare del sordomuto. Si va da segno a segno, mai dal segno al significato.

E' allora possibile mostrare le cose, comunicare dei significati (e quindi insegnare e far ricordare in modo autentico), senza un sistema di segni, ma andando direttamente alle cose stesse? Sì, è possibile. Ma senza segni si possono mostrare soltanto "le azioni che possiamo fare dopo che ci siano state chieste": ad esempio metterci a camminare dopo che abbiamo usato la parola camminare. Tuttavia questo non riguarda il linguaggio in sé perché l'atto di camminare in quanto tale è del tutto separato dalla parola camminare: il legame tra la parola e la cosa non è diretto, e dunque non c'è passaggio tra segno e significato. C'è direttamente un significato mostrato senza segni.

Ha così termine la prima parte del De Magistro, caratterizzata da un esame della questione dei segni attraverso un fitto rapporto dialettico tra Agostino e Adeodato. E' da notare che si tratta di una ricerca in comune: il gioco dialettico non è usato da Agostino soltanto per educare il figlio, ma anche come metodo di ricerca; certo, la guida esperta è Agostino, ma il gioco dialettico è costruito in modo che Adeodato faccia da specchio alla ricerca di Agostino. Da qui la tortuosità del percorso, davvero complesso e contorto in alcuni casi. A conclusione di questa parte Agostino chiede ad Adeodato di fare una sintesi di quanto fin qui detto, e Adeodato svolge bene il suo compito.



La seconda parte del De Magistro (§ 19-31) inizia con una netta dichiarazione di Agostino: non stiamo facendo questa analisi dialettica per divertirci con argomenti futili, ma per una ragione precisa ed elevata: per "irrobustire le forze e lo sguardo della mente" in vista di un cammino che ci conduca "alla vita felice ed eterna", che dà la conoscenza della verità, e cioè di Dio, che è la verità stessa. Questo è dunque il vero scopo del lavoro dialettico che si sta compiendo.

Riprendendo l'argomento, Agostino e Adeodato, dopo un tortuoso percorso dialettico, giungono alla conclusione che il rimando dalle parole ad altre parole, e quindi da segni a segni, non permetterebbe affatto alcun tipo di comprensione se non vi fosse ad un certo punto un rimando a ciò che i segni significano, cioè al significato.

Ora, "le cose significate devono essere di maggior valore dei segni. Ciò che esiste in funzione di altro è necessariamente di valore inferiore rispetto a ciò per cui è". Su questo punto si accende nuovamente una discussione, ma la conclusione alla fine è chiara: "l'uso delle parole è più importante delle parole: le parole infatti esistono per essere usate e le usiamo per insegnare. (...) Ciò che viene insegnato vale assai più delle parole con cui viene insegnato". La conoscenza dei significati è più importante dei segni.

Tuttavia, è possibile insegnare senza ricorrere ai segni? [4]



Ha così inizio la terza parte e ultima parte del De Magistro (§ 32-46), caratterizzata dall'abbandono del metodo dialettico: adesso è Agostino che conduce da solo un lungo discorso. L'avvio è questo: sì, è possibile insegnare senza ricorrere ai segni, ma mostrando direttamente le cose stesse. Se uno non ha mai visto un uccellatore al lavoro, capirà il suo strano abbigliamento e il senso degli attrezzi che porta quando lo vedrà al lavoro mentre tende le sue trappole agli uccelli. E la cosa può essere estesa alla natura stessa: "non è forse vero che Dio e la natura pongono di fronte a chi guarda e mostrano direttamente in se stessi questo sole e la luce che diffondendosi riveste ogni cosa, la luna e le altre stelle, le terre, i mari e tutti gli innumerevoli esseri che vi nascono?"

Anzi, Agostino estende la sua tesi: "nulla si impara mediante i segni con cui viene indicato". Infatti io mi accorgo che un segno è segno di qualcosa perché conosco questo qualcosa, altrimenti non me ne accorgo. La parole capo per indicare la testa di un uomo mi è comprensibile come segno soltanto perché so che il suo significato è la testa di un uomo, altrimenti è per me soltanto un suono, non un segno. Quindi "è il segno ad essere imparato in seguito alla conoscenza della cosa, anziché la cosa in seguito all'osservazione del segno".

Le parole quindi "non possono mostrarci le cose per farcele conoscere", possono soltanto stimolarci alla loro ricerca: quindi o a ricordare ciò che sappiamo già o a ricercare qualcosa di nuovo. La conoscenza delle parole rimane solo conoscenza di parole, nulla più. Mi insegna invece qualcosa chi presenta ai miei sensi o alla mia mente le cose che desidero conoscere. E dunque:

per le cose esteriori la fonte dovranno essere i sensi;
per le cose interiori (e quindi per l'intero mondo non sensibile, per ciò che riguarda il mio intelletto) la fonte non potrà che essere nella mia interiorità: quella luce interiore, parallela alla luce esteriore che permette ai miei occhi di vedere, che abita dentro di noi: Scrive Agostino "Il Cristo, cioè l'immutabile Virtù di Dio e l'eterna Sapienza" [queste parole sono una citazione da San Paolo].
Dunque non si ha comprensione intellettuale perché qualcuno attraverso le parole ci insegna, ma perché vediamo in noi stessi la verità intellettuale. "Le parole possono soltanto aiutare a verificare se egli sia in grado di imparare nella propria interiorità". A questo servono quindi gli esercizi dialettici: avere degli stimoli per imparare come si fa a leggere nella propria interiorità, e verificare i risultati raggiunti.

Il De Magistro si conclude quindi con un ammonimento contro una sapienza fatta soltanto di parole: alle parole non va attribuita "più importanza di quanta sia opportuna; in tal modo (…) cominceremo anche a capire la verità di quanto è stato scritto per insegnamento divino, e cioè che nessuno dobbiamo considerare nostro maestro in terra, perché il solo maestro di tutti è in cielo" [queste parole sono una citazione dal Vangelo di Matteo]. Ma questo maestro è anche dentro di noi. Il Maestro interiore ci mostra direttamente la verità. "Per mezzo delle parole l'uomo è soltanto spinto a imparare".

La felicità è frutto della visione diretta della verità. Il percorso del De Magistro è quindi una preparazione a questa contemplazione [5]. Il nostro intelletto deve rendersi capace di sostenere la luce della verità che è in noi, luce abbagliante, bellezza pura.





Note

1) "Solo in virtù del rapporto di circolarità che la lega alla ragione, la fede può restituire l'esistenza umana al proprio statuto originario. Se infatti la fede escludesse la ragione, l'adesione a Cristo si ridurrebbe per l'uomo a un atto che contraddice la sua natura razionale. Inoltre gli precluderebbe la possibilità di aspirare a raggiungere la beatitudine e quindi la felicità, perché l'uomo sarebbe incapace di compiere l'atto intellettivo della ragione richiesto per raggiungere la visione di Dio. Una situazione analoga si determinerebbe se la fede non presupponesse la ragione; in tal caso infatti la fede in Cristo non avrebbe alcuna giustificazione e si risolverebbe in un atto semplicemente irrazionale, ovvero disumano" (A. Pieretti, Introduzione a Agostino, Il maestro, Edizioni Paoline, Milano 1990, pp. 14-15)

2) La verità, in quanto si identifica con Dio, è di per se stessa trascendente nei confronti dell'uomo e quindi inaccessibile al suo intelletto. Essa tuttavia si incarna nel Cristo perché, come insegnano anche i neoplatonici, Cristo è il Logos, il verbo divino, vale a dire la verità nel suo manifestarsi, nel suo aprirsi alla comprensione" (ib. p. 10)

3) Nella sintesi viene proposta una divisione del De Magistro in tre parti. E' la partizione più diffusa, ma non ne mancano diverse altre. Vedi la nota successiva.

4) Questa seconda parte è nettamente staccata dalla prima mediante i paragrafi in cui Adeodato propone una sintesi di quanto detto nella prima parte. Ma i temi trattati nella seconda parte si legano senza soluzione di continuità a quelli della prima. Alcuni interpreti dividono quindi il De Magistro in altro modo: considerano la prima e la seconda parte come un tutt'uno, e pongono invece l'accento sulla brusca cesura dell'ultima parte quando Agostino abbandona il metodo dialettico e fa un lungo discorso.

5) Da qui il senso dell'uso della dialettica, che la tradizione greca propone come via maestra per l'elevazione dello spirito alla comprensione di sé, in modo da essere capaci di vedere, come per illuminazione, la verità. Questo momento della visione è spesso descritto nella tradizione sia platonica che neoplatonica come improvviso, quasi inaspettato, al termine del lungo percorso dialettico.



fonte