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    Predefinito 21 marzo (11 luglio) - S. Benedetto da Norcia



    S. Benedetto è morto in piedi. Lo racconta s. Gregorio Magno: quando è venuto il momento in cui ha sentito che Dio lo chiamava, si è fatto portare in chiesa, ha voluto che si celebrasse l'Eucaristia e ha detto ai suoi discepoli di tenerlo in piedi con le mani alzate, in modo da morire nello stesso atteggiamento con cui aveva cantato il Suscipe ("Prendimi, Signore, secondo la tua parola e avrò la vita"). Questa descrizione di s. Gregorio Magno è molto bella: s. Benedetto è un uomo che è morto sulla breccia, è morto in piedi. Che dire della sua eredità? S. Benedetto non ha pensato a una estensione articolata del suo Ordine e non ha pensato a una missione europea ma questa eredità è venuta tanto più ricca quanto meno l'aveva pensata. Per dimostrarlo bisognerebbe fare una rapida corsa attraverso la storia…
    Lasciate che evochi almeno quei tre grandi valori messi in luce da Paolo VI a Montecassino il 24 ottobre, quando dichiarò s. Benedetto "Patrono dell'Europa". Sono rappresentati da tre simboli: la Croce, il Libro, l'Aratro. La Croce evoca una dimensione divina: il Vangelo. Il Libro evoca, anzitutto, il Libro per eccellenza che è la Bibbia e, poi, gli altri libri, evoca la cultura spirituale e profana. L' Aratro è il simbolo del lavoro. Vangelo, Cultura, Lavoro: proprio su queste tre direttive si fonda l'eredità spirituale di s. Benedetto. Gli studi recenti, col catalogo generale dei monasteri benedettini, hanno messo in luce che in ogni regione italiana c'erano, facendo una media, più di duecento monasteri benedettini. Pensate un po' quale rete si era creata in tutta l'Italia. La situazione nel resto dell'Europa era sensibilmente analoga.
    Le abbazie erano diventate un po' come il tessuto connettivo, e non solo spirituale, della società civile. La storia dimostra che molti paesi e città, si potrebbe dire la maggior parte, sono nati intorno a un'abbazia. I contadini che si accostavano all'abbazia lavoravano con i monaci; hanno costruito, poi, le loro case intorno all'abbazia e così è nato il paese. L'Ordine monastico si presentava allora come un alveare ordinato, incentrato su queste tre coordinate: "Vangelo, cultura, lavoro" e, coprendo l'Europa di monasteri, senza accorgersene, l'ha fatta diventare cristiana. Per gli altri paesi d'Europa ciò che ha agito di più è la peregrinatio dei monaci. Il pellegrinaggio era un motivo ascetico che spingeva i monaci a staccarsi da un luogo per raggiungerne un altro, proprio perché intorno alla loro fama di santità si era raccolta molta gente. Spostandosi hanno finito per seminare il Vangelo con la loro testimonianza di vita e con la loro parola. La storia delle successive fondazioni monastiche segna la genesi dell'Europa cristiana e i monaci ne sono come l'innervatura.
    S. Benedetto questo non se l'era esplicitamente proposto, non l'aveva neanche programmato nella sua Regola, eppure ciò è avvenuto, proprio perché i suoi monaci hanno vissuto profondamente il Vangelo e, quindi, hanno portato l'attenzione ai problemi dell'uomo. Se guardiamo all'Europa di oggi, vien subito da dire che è un'Europa che cammina faticosamente verso l'unità in mezzo a mille difficoltà. E' un'Europa tecnicamente sempre più progredita ma spiritualmente sempre più povera. Pio XII diceva che l'Europa era tecnicamente gigante e spiritualmente atrofizzata; e quello che il grande Papa diceva ieri vale ancor più oggi. Perciò questa Europa, che ha rinnegato molti valori cristiani mediati da s. Benedetto, ha bisogno di riscoprirli per ritrovare la sua più profonda identità. E i valori essenziali sono la fede cristiana, il diritto e la ragione: Cristo ci ha dato la fede, che l'Europa ha ereditato dai monaci, Roma il diritto, la Grecia la ragione. Forse, mentre oggi crolla un mondo, un altro è in gestazione. Tutto sembra perduto ma vediamo anche tanti segni di speranza. E' un tempo chiaroscuro: non ci sono solo tenebre, ci sono pure punti luminosi. Bisogna ritornare a Cristo che è la speranza ed è il futuro dell'uomo. Sotto il segno di s. Benedetto l'Europa potrebbe veramente incamminarsi verso un mondo nuovo. Come tutti i grandi santi, s. Benedetto è una parola di Vangelo per tutti i tempi. Ci aiuta ad essere sempre uomini di speranza.

    + Mariano Magrassi – benedettino, arcivescovo emerito di Bari

  2. #2
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    Predefinito 11 luglio - S. Benedetto da Norcia

    In onore del Santo Patriarca del monachesimo d'Occidente apro questo thread.

    Augustinus

    *****
    dal sito SANTI E BEATI con mie modifiche:

    San Benedetto da Norcia Abate, patrono d'Europa

    11 luglio (e 21 marzo)

    Norcia (Perugia), ca. 480 - Montecassino (Frosinone), 21 marzo 543/560

    È il patriarca del monachesimo occidentale. Dopo un periodo di solitudine presso il sacro Speco di Subiaco, passò alla forma cenobitica prima a Subiaco, poi a Montecassino. La sua Regola, che riassume la tradizione monastica orientale adattandola con saggezza e discrezione al mondo latino, apre una via nuova alla civiltà europea dopo il declino di quella romana. In questa scuola di servizio del Signore hanno un ruolo determinante la lettura meditata della parola di Dio e la lode liturgica, alternata con i ritmi del lavoro in un clima intenso di carità fraterna e di servizio reciproco. Nel solco di San Benedetto sorsero nel continente europeo e nelle isole centri di preghiera, di cultura, di promozione umana, di ospitalità per i poveri e i pellegrini. Due secoli dopo la sua morte, saranno più di mille i monasteri guidati dalla sua Regola. Paolo VI lo proclamò patrono d'Europa (24 ottobre 1964). (Avvenire)

    E' il patriarca del monachesimo occidentale. Dopo un periodo di solitudine presso il sacro Speco di Subiaco, passò alla forma cenobitica prima a Subiaco, poi a Montecassino. la sua Regola, che riassume la tradizione monastica orientale adattandola con saggezza e discrezione al mondo latino, apre una via nuova alla civiltà europea dopo il declino di quella romana. In questa scuola di servizio del Signore hanno un ruolo determinante la lettura meditata della parola di Dio e la lode liturgica, alternata con i ritmi del lavoro in un clima intenso di carità fraterna e di servizio reciproco. Nel solco di San Benedetto sorsero nel continente europeo e nelle isole centri di preghiera, di cultura, di promozione umana, di ospitalità per i poveri e i pellegrini. Paolo VI lo proclamò patrono d'Europa (24 ottobre 1964). La sua memoria, a causa della Quaresima, è stata trasferita dalla data tradizionale del 21 marzo, ritenuto il giorno della sua morte, all'11 luglio, giorno in cui fin dall'alto Medioevo in alcuni luoghi si faceva un particolare ricordo del santo. (Mess. Rom.)

    Patronato: Europa, Monaci, Speleologi, Architetti, Ingegneri

    Etimologia: Benedetto = che augura il bene, dal latino

    Emblema: Bastone pastorale, Coppa, Corvo imperiale

    Martirologio Romano: Memoria di san Benedetto, abate, che, nato a Norcia in Umbria ed educato a Roma, iniziò a condurre vita eremitica nella regione di Subiaco, raccogliendo intorno a sé molti discepoli; spostatosi poi a Cassino, fondò qui il celebre monastero e scrisse la regola, che tanto si diffuse in ogni lugo da meritargli il titolo di patriarca dei monaci in Occidente. Si ritiene sia morto il 21 marzo.
    (21 marzo: A Montecassino, anniversario della morte di san Benedetto, abate, la cui memoria si celebra l’11 luglio).

    Martirologio tradizionale (21 marzo): A Montecassino il natale di san Benedetto Abate, il quale restaurò e meravigliosamente propagò nell’Occidente la disciplina monastica, che era quasi estinta. La sua vita, gloriosa per virtù e per miracoli, fu scritta dal beato Gregorio Papa.

    La sua nobile famiglia lo manda a Roma per gli studi, che lui non completerà mai. Lo attrae la vita monastica, ma i suoi progetti iniziali falliscono. Per certuni è un santo, ma c’è chi non lo capisce e lo combatte. Alcune canaglie in tonaca lo vogliono per abate e poi tentano di avvelenarlo. In Italia i Bizantini strappano ai Goti, con anni di guerra, una terra devastata da fame, malattie e terrore. Del resto, in Gallia le successioni al trono si risolvono in famiglia con l’omicidio.
    "Dovremmo domandarci a quali eccessi si sarebbe spinta la gente del Medioevo, se non si fosse levata questa voce grande e dolce". Lo dice nel XX secolo lo storico Jaques Le Goff. E la voce di Benedetto comincia a farsi sentire da Montecassino verso il 529. Ha creato un monastero con uomini in sintonia con lui, che rifanno vivibili quelle terre. Di anno in anno, ecco campi, frutteti, orti, il laboratorio... Qui si comincia a rinnovare il mondo: qui diventano uguali e fratelli “latini” e “barbari”, ex pagani ed ex ariani, antichi schiavi e antichi padroni di schiavi. Ora tutti sono una cosa sola, stessa legge, stessi diritti, stesso rispetto. Qui finisce l’antichità, per mano di Benedetto. Il suo monachesimo non fugge il mondo. Serve Dio e il mondo nella preghiera e nel lavoro.
    Irradia esempi tutt’intorno con il suo ordinamento interno fondato sui tre punti: la stabilità, per cui nei suoi cenobi si entra per restarci; il rispetto dell’orario (preghiera, lavoro, riposo), col quale Benedetto rivaluta il tempo come un bene da non sperperare mai. Lo spirito di fraternità, infine, incoraggia e rasserena l’ubbidienza: c’è l’autorità dell’abate, ma Benedetto, con la sua profonda conoscenza dell’uomo, insegna a esercitarla "con voce grande e dolce".
    Il fondatore ha dato ai tempi nuovi ciò che essi confusamente aspettavano. C’erano già tanti monasteri in Europa prima di lui. Ma con lui il monachesimo-rifugio diventerà monachesimo-azione. La sua Regola non rimane italiana: è subito europea, perché si adatta a tutti.
    Due secoli dopo la sua morte, saranno più di mille i monasteri guidati dalla sua Regola (ma non sappiamo con certezza se ne sia lui il primo autore. Così come continuiamo ad essere incerti sull’anno della sua morte a Montecassino). Papa Gregorio Magno gli ha dedicato un libro dei suoi Dialoghi, ma soltanto a scopo di edificazione, trascurando molti particolari importanti.
    Nel libro c’è però un’espressione ricorrente: i visitatori di Benedetto – re, monaci, contadini – lo trovano spesso "intento a leggere". Anche i suoi monaci studiano e imparano. Il cenobio non è un semplice sodalizio di eruditi per il recupero dei classici: lo studio è in funzione dell’evangelizzare. Ma quest’opera fa pure di esso un rifugio della cultura nel tempo del grande buio.

    Autore: Domenico Agasso






  3. #3
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    Predefinito Vita di San Benedetto, tratta dai Dialoghi di san Gregorio Magno.

    Vita S.Benedicti ex libris Dialogorum excerpta, capp.1.3.4.8.20.34. PL 66,128-129.134-135.140-142.152.170-172.198-200.

    Benedetto bramava sottoporsi a disagi e fatiche per amore di Dio piuttosto che farsi grande negli onori di questa vita. Risolse perciò di abbandonare la famiglia e nascostamente fuggì verso una località chiamata Subiaco. Questo posto solitario, distante da Roma circa quaranta miglia, era ricco di chiare e fresche acque raccolte in un vasto lago, prima di trasformarsi in fiume.

    Mentre Benedetto in fuga passava di la, incontrò un monaco di nome Romano, che gli chiese che cosa cercasse. Conosciuto il desiderio di Benedetto, mantenne il segreto e gli offri aiuto. Lo rivesti dell'abito monastico e lo servì in quanto pote.

    In quel deserto l'uomo di Dio si ritirò in una spelonca stretta e impervia. Vi rimase tre anni ignoto a tutti, tranne che a Romano. Questo monaco abitava in un monastero non lontano, retto dall'abate Adeodato.

    Con pie industrie, studiando il momento opportuno, Romano sottraeva una parte del suo cibo e nei giorni stabiliti lo portava a Benedetto. Tuttavia, dal monastero di Romano non era possibile arrivare allo speco, perché sopra di esso si stagliava un'altissima rupe. Dall'alto di essa Romano calava abilmente il pane con una lunghissima fune.

    Non molto distante dallo speco viveva una piccola comunità, il cui abate era morto da poco. Quei religiosi si presentarono da Benedetto, pregandolo con insistenza perché si mettesse a loro capo.

    Il santo uomo rifiutò a lungo con fermezza, convinto soprattutto che i loro costumi non si sarebbero potuti mai conciliare con le sue convizioni. Alla fine, vinto dalle loro suppliche, acconsenti.

    Quando Benedetto fu insediato nel monastero, con fermezza tenne all'osservanza regolare, per cui a nessuno era lecito come prima deviare a destra o a sinistra dalla regola.

    Quei fratelli cominciarono a dolersi di aver chiesto a un uomo simile di governarli e, stolti com'erano, se ne accusavano a vicenda. La loro condotta tortuosa cozzava infatti contro la ferma rettitudine di Benedetto.

    Quei fratelli si resero conto che l'illecito non era assolutamente permesso e, d'altro canto, non si sentivano di abbandonare le loro inveterate abitudini. E' difficile impegnare a nuovi sistemi gente dalla mentalità incallita e chi si comporta male trova sempre fastidiosa la vita dei buoni. Cosi quei malvagi si accordarono di cercare qualche mezzo per far perire Benedetto.

    Dopo aver tenuto consiglio, quei fratelli prepararono una mistura di vino e veleno. A mensa, secondo una loro usanza, presentarono all'abate per la benedizione il recipiente di vetro che conteneva la bevanda avvelenata.

    Benedetto alzò la mano e tracciò il segno di croce a una certa distanza: quel vaso di morte andò in frantumi come se invece di una benedizione fosse stata scagliata una pietra. L'uomo di Dio comprese subito che il vaso conteneva una bevanda mortifera, poiché non aveva potuto resistere al segno della vita.

    Benedetto si alzò all'istante, senza alterare minimamente la mitezza del volto e la serenità della mente, e disse semplicemente cosi: "Chiedo al Signore che vi perdoni, fratelli. Ma come vi è venuto in mente di macchinare questa trama contro di me? Non vi avevo detto che i nostri costumi non potevano andare d'accordo? Cercatevi un padre che condivida la vostra condotta e non trattenetemi più con voi

    Benedetto tornò alla grotta solitaria che tanto amava; e abitava la, solo con se stesso, sotto gli occhi del Testimone supremo.

    Nella sua solitudine, Benedetto progrediva senza posa nella virtù e compiva miracoli. Attorno a lui si radunarono molti per il servizio di Dio, tanto che con l'aiuto dei Signore Gesù costruirono dodici monasteri di dodici monaci ognuno, a cui era preposto un abate.

    Benedetto trattenne con se alcuni pochi, ai quali credette opportuno dare personalmente una formazione più compiuta. Alcuni romani nobili e devoti cominciarono ad accorre da lui per affidargli i figli da educare al servizio di Dio. Vi furono tra questi Mauro, figlio di Equizio, e Placido, figlio del patrizio Tertullio, due ragazzi di belle speranze.

    Mauro, già adolescente e dagli atteggiamenti maturi, divenne subito l'aiutante del maestro. Placido invece era ancora un bambino, con tutte le connotazioni di quell'età.

    In uno dei monasteri costruiti all'intorno vi era un monaco incapace di perseverare nella preghiera. Tutte le volte che i fratelli si radunavano per l'orazione, quello usciva fuori e con la mente svagata si occupava in faccenduole di nessuna importanza.

    Un giorno Benedetto giunse in quel monastero e quando, al termine della salmodia, i monaci attesero all'orazione, osservò una specie di ragazzino piccolo e tenebroso che traeva fuori quel monaco incapace di stare in preghiera, tirandolo per il lembo della veste.

    Benedetto domandò discretamente all'abate del monastero e a Mauro: "Vi siete accorti chi è colui che tira fuori questo monaco?". Alla risposta negativa dei due, Benedetto soggiunse: "Preghiamo che anche voi possiate vedere a chi egli va dietro". Dopo due giorni di preghiera, Mauro lo vide, l'abate invece non scorse nulla. Passati alcuni giorni, all'uscita dall'oratorio dopo la preghiera, il servo di Dio incontrò il monaco che stava fuori e lo percosse con una verga, perché aveva il cuore indurito. Da allora il monaco non subi più l'influsso del piccolo tenebroso, ma perseverò raccolto in orazione.

    Il paese di Cassino è situato sul fianco di un alto monte, che aprendosi accoglie questa rocca come in una conca, e poi svetta ancora per tre miglia, slanciando un'alta cima verso il cielo. Lassù c'era un antichissimo tempio, dove la gente contadina, seguendo usi pagani, compiva riti superstiziosi in onore di Apollo. Attorno crescevano boschetti sacri ai demoni, a cui ancora a quel tempo infedeli fanatici empiamente sacrificavano.

    Appena l'uomo di Dio vi giunse, infranse l'idolo ribaltò l'altare, incendiò i boschetti. Dove sorgeva il tempio di Apollo eresse un oratorio in onore di san Martino e sul posto dell'altare costrui una cappella dedicata a san Giovanni Battista.

    Si rivolse poi alla gente dei dintorni e con assidua predicazione andava invitandola alla fede.

    Un giorno, dopo l'ora di vespro, il venerabile Padre prendeva un po' di cibo e un suo monaco, figlio di un avvocato, gli reggeva la lucerna davanti alla tavola.

    Mentre l'uomo di Dio mangiava e l'altro in piedi lo serviva facendogli lume, questi, taciturno com'era, cominciò a ruminare dentro pensieri di superbia, dicendo in cuor suo: "Chi è costui, perché io lo debba assistere mentre mangia, reggergli la lucerna e prestargli servizio? Sono proprio uno che deve fare il servo?".

    Voltatosi di scatto verso di lui, Benedetto cominciò a rimproverarlo vivamente: 'Fatti un segno di croce sul cuore, fratello! Che vai rimuginando nella mente? Fatti un segno di croce!".

    Chiamò altri monaci, ordinò che gli togliessero di mano il lume, perché costui desistesse dal servizio e si sedesse placidamente al suo posto. Interrogato dai fratelli in merito a che cosa avesse avuto in cuore, il monaco raccontò umilmente tutto ciò che in silenzio aveva formulato contro il servo di Dio.

    Apparve allora evidente che nulla si poteva nascondere al santo abate, perché ai suoi orecchi giungeva persino il suono di parole unicamente pensate.

    Mentre i discepoli dormivano ancora, l'uomo di Dio già vegliava, anticipando l'ora della preghiera notturna. In piedi davanti alla sua finestra, nel cuore della notte, pregava Iddio onnipotente, quando a un tratto vide sorgere a dissipare le tenebre una luce talmente fulgida da far impallidire lo splendore del giorno. Mentre Benedetto la fissava, successe qualcosa di straordinario: come egli raccontò più tardi, il mondo intero si raccolse davanti ai suoi occhi quasi racchiuso in un raggio di sole.

    Scrutando con occhio penetrante nell'abisso fulgente di quella luce, Benedetto vide l'anima di Germano, il vescovo di Capua, trasportata dagli angeli in cielo in un globo di fuoco.

    Appena infatti si intravede la luce di Dio, tutto ciò che è creato appare estremamente angusto. La luce della contemplazione interiore ingrandisce Fanima e questa, man mano che si dilata in Dio, travalica il mondo. Debbo dirlo? L'anima del contemplativo si eleva anche sopra di sé: rapita nella luce di Dio, si espande sopra di sé e guardando allora verso il basso, comprende quanto sia limitato ciò che sulla terra le sembrava senza confini.

    L'uomo di Dio, dunque, fissando lo sguardo sul globo di fuoco, vide gli angeli che risalivano al cielo. E' incontestabile che non potè avere quella visione se non nella luce di Dio.

  4. #4
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    Predefinito Dal Commento di san Beda Il Veneralbile al Vangelo di Marco

    In Marci evangelium expositio, I, 4, in PL 92, 172-174.

    L'uomo getta il chicco nel terreno, quando affida al suo cuore generose risoluzioni. Poi dorme, perché riposa già nella speranza di un'opera buona. Tuttavia, egli si alza di notte e di giorno, perché deve procedere in mezzo a circostanze felici o avverse.

    Il seme germoglia e viene su senza che egli sappia come, giacché la virtù, una volta concepita, progredisce senza che sia possibile misurarne l'avanzamento.

    La terra da se porta frutto, perché la grazia preveniente di Dio aiuta l'uomo a far spuntare buone opere.

    La terra dapprima produce erba, poi la spiga, e infine il grano pieno nella spiga. L'erba rappresenta i teneri inizi del bene; la spiga significa che la virtù concepita nell'animo sta facendo progressi; il grano maturo vuoi dire che l'impianto della virtù è abbastanza robusto per compiere un lavoro consistente e accurato.

    Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura.

    Allorché l'Onnipotente ha fatto maturare il grano, vale a dire quando dirige ognuno verso la sua perfezione, da mano alla falce, pronunziando il suo giudizio e mettendo termine alla vita mortale; poi miete per ammassare il frumento nei granai del cielo.

    Quando concepiamo buoni desideri, gettiamo in terra il chicco; dando inizio al bene, siamo erba; crescendo nelle buone opere diventiamo spiga, e consolidandoci nella perfezione arriviamo ad essere la spiga turgida di chicchi.

    Se dunque noti qualcuno ancora incerto nel bene, come grano in erba, non lo canzonare, perché in lui sta spuntando il frumento di Dio.Gesù dice ancora: A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso e come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra. e il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra.

    Il regno di Dio rappresenta la predicazione del vangelo e la conoscenza delle Scritture, che sono la via verso la vita. Gesù parlava di questo allorché affermò ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo: Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare (Mt 21,43). Il Regno è perciò davvero simile a un granellino di senapa che il seminatore getta nel suo campo.

    Solitamente si dice che il seminatore della parabola raffigura Cristo Salvatore, perché egli semina la salvezza nell'anima dei fedeli. Un'altra interpretazione vede nel seminatore l'uomo stesso che getta il chicco nel terreno del suo cuore.

    La nostra anima riceve il grano della predicazione, lo semina nel cuore, lo conserva in vita e lo fa moltiplicare grazie al calore della fede.

    Questo seme è il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra.

    La predicazione del vangelo è la più modesta di tutte le dottrine filosofiche. Essa annunzia lo scandalo della croce, e in priorità insegna la fede nella morte e nella risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, uomo e Dio.

    Se paragoni questa dottrina a quella dei filosofi, ai loro sistemi, al loro volumi, allo splendore dell'eloquenza e allo sfoggio di cultura dei loro discorsi, vedrai subito come il vangelo sia il più piccolo fra tutti i semi.

    Eppure tutte quelle dottrine non hanno nulla di vivo, di concreto o di essenziale, ma si esauriscono facilmente, diventando flaccide e marce come ortaggi e verdure che avvizziscono e sono gettati via.

    La predicazione evangelica, al contrario, pur sembrando minuscola in apertura, spuntando contemporaneamente nell'anima del fedele e nel mondo intero, non secca come l'erba ma cresce a misura di albero.

    Il chicco di senape, seminato in terra o nel campo del Signore, non da un ortaggio ma cresce e si trasforma in albero. Il suo sviluppo supera in altezza, dimensione e longevità tutte le piante ortofruttifere.

    L'albero della predicazione evangelica si pianta, elevando gli spiriti degli ascoltatori e facendo loro desiderare le realtà suprerme. Quest'albero stende lunghi rami, perché i predicatori annunziano il vangelo nel mondo intero. Esso eccelle per durata di vita, dato che la verità che i predicatori annunziano non avrà mai fine.

    Sotto la sua ombra nidificano gli uccelli del cielo, perché le anime dei fedeli sono avvezze a volare verso l'alto con il desiderio e a fissare lassù il cuore, dimentiche di quello che passa, secondo questa parola del salmista: Sotto le sue ali troverai rifugio (Sal 90,4).

    Lo stesso la sposa del Cantico dei cantici cioè la Chiesa, composta dalle anime dei santi proclama con fierezza: Alla sua ombra., cui anelavo mi siedo e dolce e il suo frutto al mio palato (Ct 2,3). Cio significa in altri termini: Abbandonando ogni consolazione, mi sono posta sotto la protezione di Dio che desideravo vedere. E' tale l'allegrezza di vederlo e la sua presenza è cosi dolce al mio cuore che forzatamente devo disprezzare, anzi rigettare, tutto quello che non è l'amato.

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    Predefinito Dalla «Regola» di san Benedetto, abate

    (Prologo 4-22; cap. 72, 1-12; CSEL 75, 2-5. 162-163)

    Prima di ogni altra cosa devi chiedere a Dio con insistenti preghiere che egli voglia condurre a termine le opere di bene da te incominciare, perché non debba rattristarsi delle nostre cattivi azioni dopo che si è degnato di chiamarci ad essere suoi figli. In cambio dei suoi doni, gli dobbiamo obbedienza continua. Se non faremo così, egli come padre sdegnato, sarà costretto a diseredare un giorno i suoi figli e, come Signore tremendo, irritato per le nostre colpe, condannerà alla pena eterna quei malvagi che non l'hanno voluto seguire alla gloria.
    Destiamoci, dunque, una buona volta al richiamo della Scrittura che dice: E' tempo ormai di levarci dal sonno (cfr. Rm 13, 11). Apriamo gli occhi alla luce divina, ascoltiamo attentamente la voce ammonitrice che Dio ci rivolge ogni giorno: «Oggi se udite la sua voce non indurite i vostri cuori» (Sal 94, 8). E ancora: «Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese» (Ap 2, 7).
    E che cosa dice? Venite, figli, ascoltate, vi insegnerò il timore del Signore. Camminate mentre avete la luce della vita, perché non vi sorprendono le tenebre della morte (cfr. Gv 12, 35).
    Il Signore cerca nella moltitudine del popolo il suo operaio e dice: C'è qualcuno che desidera la vita e brama trascorrere giorni felici? (cfr. Sal 33, 13). Se tu all'udire queste parole rispondi: Io lo voglio! Iddio ti dice: Se vuoi possedere la vera e perpetua vita, preserva la lingua dal male e le tue labbra non pronunzino menzogna: fuggi il male e fà il bene: cerca la pace e seguila (cfr. Sal 33, 14-15). E se farete questo, i miei occhi saranno sopra di voi e le mie orecchie saranno attente alle vostre preghiere: prima ancora che mi invochiate dirò: Eccomi.
    Che cosa vi è di più dolce, carissimi fratelli, di questa voce del Signore che ci invita? Ecco, poiché ci ama, ci mostra il cammino della vita.
    Perciò, cinti i fianchi di fede e della pratica di opere buone, con la guida del vangelo, inoltriamoci nelle sue vie, per meritare di vedere nel suo regno colui che ci ha chiamati. Ma se vogliamo abitare nei padiglioni del suo regno, persuadiamoci che non ci potremo arrivare, se non affrettandoci con le buone opere.
    Come vi è uno zelo cattivo e amaro che allontana da Dio e conduce all'inferno, così c'è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna. In questo zelo i monaci devono esercitarsi con amore vivissimo; e perciò si prevengano l'un l'altro nel rendersi onore, sopportino con somma pazienza le infermità fisiche e morali degli altri, si prestino a gara obbedienza reciproca. Nessuno cerchi il proprio utile, ma piuttosto quello degli altri, amino i fratelli con puro affetto, temano Dio, vogliano bene al proprio abate con sincera e umile carità.
    Nulla assolutamente anteponiamo a Cristo e così egli, in compenso, ci condurrà tutti alla vita eterna.


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    Predefinito

    LETTERA APOSTOLICA
    SANCTORUM ALTRIX
    DEL SOMMO PONTEFICE
    PAPA GIOVANNI PAOLO II
    PER IL XV CENTENARIO
    DELLA NASCITA DI S. BENEDETTO
    PATRONO D'EUROPA, MESSAGGERO DI PACE


    Ai diletti figli, Vittore Dammertz, abate primate dell'ordine di san Benedetto; Giacomo del Rio, maggiore della congregazione degli eremiti camaldolesi di Montecorona; Paolo Anania, abate generale della congregazione mechitarista di Venezia; Sigardo Klainer, abate generale dell'ordine cistercense; Ambrogio Southey, abate generale dell'ordine dei cistercensi riformati (trappisti) nel XV centenario della nascita di san Benedetto abate.

    Diletti figli, salute e apostolica benedizione.

    Nutrice di santi, la madre Chiesa presenta ai suoi figli, come maestri di vita, coloro che, con uno splendido esercizio di virtù, hanno seguito fedelmente Cristo, suo sposo, affinché imitando il loro esempio, possano pervenire ad una perfetta unione con Dio, pur tra le varie vicissitudini terrene, e raggiungere così il proprio fine. Quegli eccellenti uomini e donne, sebbene sottomessi nel corso della loro vita terrena alle particolari situazioni del loro tempo, specialmente culturali, tuttavia hanno fatto risplendere, con il loro modo di vivere e con la loro dottrina, un aspetto particolare del mistero di Cristo che, oltrepassando i limiti angusti del tempo, ancora oggi conserva la sua forza e il suo vigore.

    Celebrandosi ora solennemente il XV centenario della nascita di san Benedetto, si presenta l'occasione di ascoltare di nuovo il suo messaggio spirituale e sociale.

    1. In ogni religione vi sono sempre stati coloro che, «sforzandosi di venire incontro in vari modi alla inquietudine del cuore umano» («Nostra Aetate», 1), sono stati attratti in modo singolare verso l'assoluto e l'eterno. Tra questi, per quanto riguarda il cristianesimo, eccellono i monaci, che già nel secolo III e IV avevano istituito in alcune zone dell'oriente una propria forma di vita, protesi a realizzare per ispirazione divina, dietro l'esempio di Cristo «dedito alla contemplazione sul monte» («Lumen Gentium», 46), o una vita solitaria e nascosta, o la dedizione al servizio di Dio in una convivenza di carità fraterna.

    Dall'oriente, poi, la disciplina monastica penetrò in tutta la Chiesa e alimentò il salutare proposito di altri che, conservando le forme della vita religiosa, imitavano il Salvatore, «che annunciava alle turbe il regno di Dio e convertiva a vita migliore i peccatori»(«Lumen Gentium», 46).

    In un momento in cui, a causa di questo spirituale fermento, la Chiesa cresceva, e intanto la civiltà romana, ormai decrepita, decadeva - poco prima infatti era crollato l'impero d'occidente -, verso l'anno 480 nasceva a Norcia san Benedetto.

    «Benedetto, che era tale per grazia di Dio e non solo per nome, ebbe addirittura dagli anni della fanciullezza il senno di un anziano»; «desideroso di piacere soltanto a Dio» (S.Gregorii Magni «Dialogorum lib. II», Prolog.: PL 66,126), si mise in ascolto del Signore, che cercava il suo operaio (cfr. S. Benedicti «Regula», Prolog., 1.14), e vincendo, con la giuda del Vangelo, le esitazioni dell'animo sorte all'inizio, «attraverso difficoltà e asprezze» (S. Benedicti «Regula», 58,8) si incamminò «per la via stretta che porta alla vita» (cfr. Mt 7,14).

    Conducendo vita solitaria in diversi luoghi, e purificandosi attraverso la prova della tentazione, giunse ad aprire completamente il suo cuore a Dio. Spinto poi dall'amore divino, radunò altri uomini, con i quali, come padre, intraprese «la scuola del servizio del Signore» (S. Benedicti «Regula», Prolog., 45). Così, con l'uso sapiente degli «strumenti delle buone opere» (cfr. S. Benedicti «Regula», 4), congiunto con il senso del dovere, egli e i suoi discepoli costituirono una piccola città cristiana, «dove finalmente - come disse Paolo VI, predecessore nostro di recente memoria - regni l'amore l'obbedienza, l'innocenza, la libertà dalle cose e l'arte di bene usarle, il primato dello spirito, la pace, in una parola il Vangelo» (cfr. Pauli VI «Allocutio in Archicoenobio Casinensi habita», die 24 oct. 1964: «Insegnamenti di Paolo VI», II [1964] 604).

    Portando a compimento tutto ciò che di buono vi era nella tradizione ecclesiale dell'oriente e dell'occidente, il santo di Norcia si elevò alla considerazione dell'uomo nella sua totalità, e inculcò la sua dignità irripetibile come persona.

    Quando egli moriva nell'anno 547, già erano state gettate le solide fondamenta della disciplina monastica, la quale, specialmente dopo i sinodi dell'epoca carolingia, divenne il monachesimo occidentale. Questo, poi, attraverso le abbazie e le altre case benedettine, diffuse per ogni dove, costituì la struttura della nuova Europa, dell'Europa, diciamo, alle cui «popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall'Irlanda alle pianure della Polonia, egli principalmente e i suoi figli portarono con la croce, con il libro e con l'aratro, la civiltà cristiana» (cfr. Pauli VI «Pacis Nuntius»: AAS 56 [1964] 965).

    2. E' nostro intendimento oggi richiamare alla vostra mente tre caratteristiche fondamentali della vita benedettina: e cioè l'orazione, il lavoro, e l'esercizio paterno dell'autorità. E' utile per noi considerare in un più ampio quadro teologico ed umano questi tre elementi - in quanto emergono dalla vita e dal magistero di Benedetto, e principalmente dalla sua Regola -, per poterli comprendere più profondamente.

    La Regola benedettina, stando alle parole del suo santo Autore, vuol essere «una regola minima per principianti»; ma in realtà è un compendio molto ricco del Vangelo, tradotto in un genere di vita non comune. Infatti, avendo davanti agli occhi l'uomo e la sua sorte associata alla redenzione, essa propone alcuni principi di dottrina, ma specialmente una forma di vita. E sebbene tale metodo di vita sia proposto ai monaci - e per di più a monaci del secolo VI - tuttavia esso contiene e irradia ammaestramenti che riguardano anche il nostro tempo, e giovano a tutti quelli che sono rinati nel battesimo e cresciuti nella fede; a tutti coloro che per «l'inerzia della disobbedienza» si sono allontanati da Dio, e ora con l'obbedienza non sempre facile, della fede, si sforzano di tornare a lui (cfr. S. Benedicti «Regula», Prolog., 2).

    La vita benedettina appare nella Chiesa soprattutto come un'ardentissima ricerca di Dio, dalla quale, in qualche modo, è necessario che sia contraddistinto il corso della vita di ogni cristiano che tende alle «più alte vette di dottrina e di virtù» (S. Benedicti «Regula», 73,9; cfr. «Lumen Gentium», 9; «Unitatis Redintegratio», 2), finché arrivi alla patria celeste. Cammino che san Benedetto percorre con animo sollecito e commosso ed osserva, mostrando i non pochi impedimenti che lo rendono arduo, e i pericoli che sembra esso lo precludano e rendano vani tutti gli sforzi: poiché l'uomo è è schiavo di smodate cupidigie per le quali ora si gonfia di vana presunzione, ora è atterrito da uno sgomento che strema le forze (cfr. S. Benedicti «Regula», Prolog., 48).

    Ma questa «via di vita» (cfr. S. Benedicti «Regula», Prolog., 20) può essere percorsa soltanto a determinate condizioni: cioè nella misura in cui si ama Cristo con cuore indiviso, e si conserva una genuina umiltà. Allora il cristiano, cosciente della sua infermità e della sua indigenza, entra con l'aiuto di Dio nella vita spirituale, si libera da ciò che lo appesantisce, contempla più chiaramente la sua natura autentica come persona, e nelle profondità più intime della sua anima, scopre Dio presente. L'amore quindi e l'umiltà si fondono e muovono l'uomo a discendere, per poi ascendere più in alto. La nostra vita infatti è una scala «che per l'umiltà del cuore viene dal Signore drizzata verso il cielo» (S. Benedicti «Regula», 7,8).

    Orbene, una considerazione limitata all'aspetto esteriore della vita monastica può ingenerare l'opinione che il genere di vita benedettina favorisca soltanto l'utilità propria del monaco che la professa e lo induca a facile noncuranza degli altri, alienando perciò il suo animo dal senso sociale e dai problemi reali dell'umanità. Purtroppo, la vita condotta nella clausura monastica con la consuetudine dell'orazione, nella solitudine e nel silenzio, viene valutata in tal modo anche da taluni che appartengono alla comunità ecclesiale.

    In realtà, invece, quando il monaco raccoglie il suo spirito, o, come disse san Gregorio di san Benedetto da Norcia, abita con se stesso e attende diligentemente a se stesso attraverso la purificazione dell'ascesi penitenziale, fa questo anche per liberarsi dalla schiavitù della «volontà propria». Ma questa attenzione dello spirito che uno dirige verso se stesso è solo una condizione del tutto necessaria perché il suo animo si apra con più sincero anelito verso Dio e i fratelli. Sotto l'impulso di questa concezione benedettina della vita avviene che i singoli monaci vivano in comunità, e questa diventi una sede di accoglienza.

    San Benedetto percorre questa via maestra attraverso la quale, nell'ambito della famiglia monastica, si va a Dio. Ora, la convivenza monastica - chiamata dallo stesso santo ambito singolare nel quale i cuori di coloro che vi fanno parte si dilatano nell'esercizio della reciproca obbedienza - è mossa e stimolata da veemente amore del prossimo, per il quale ciascuno è spinto a dedicarsi al bene del fratello trascurando il proprio vantaggio.

    Quando l'uomo giorno per giorno si adopera perché l'esigenza insopprimibile del raccoglimento interiore e della modestia, e la partecipazione alla vita, altrettanto insopprimibile, vengano equamente contemperate, cresce in lui la capacità di attuarsi come persona autentica, che ha relazioni con gli altri, soprattutto con Dio, che è «l'assolutamente altro».

    Tuttavia, in questo modo di stimare gli uomini e le realtà sociali, che è proprio di san Benedetto e di tutta la tradizione che proviene da lui, le relazioni non sono circoscritte alla sola comunità monastica. La clausura separa invero il monaco dal secolo, e deve costituire contro ogni vuota dissipazione una specie di barriera che non è lecito oltrepassare. Ma questa non divide e non separa dall'amore; anzi, questa difesa quasi apre lo spazio necessario a una più ampia libertà, dove il monaco - ed in certo qual modo ogni uomo sollecito della sua «piccola clausura» - viva e cresca nell'amore; dove apra il suo cuore ai fratelli che desiderano condividere tutto ciò che egli sperimenta nella sua unione con Dio; dove felicemente avviene, che come rilevò sagacemente Paolo VI, che la sua sede sia «sempre più frequentata come casa di pace e di orazione, dove gli uomini ritrovino se stessi e Dio dentro di loro» (Pauli VI «Epistula ad Ioannem Carmelum Card. Heenan, Archiepiscopum Vestmonasteriensem: «Insegnamenti di Paolo VI», XIII [1975] 615). In altre parole, vi si deve costituire «la scuola del servizio del Signore», cioè «la scuola... della virtù e della contemplazione, che scaturisce abbondantemente da chiare e solide spiegazioni del Vangelo, della dottrina tradizionale, del magistero della Chiesa» (Pauli VI «Epistula ad Ioannem Carmelum Card. Heenan, Archiepiscopum Vestmonasteriensem: «Insegnamenti di Paolo VI», XIII [1975] 616); così che il monaco necessariamente raggiunga tutti i singoli, superando con la preghiera ogni confine di spazio e limite di tempo. Per tutte queste condizioni, il monaco di san Benedetto risulta fratello universale, evangelizzatore, messaggero di pace e di amore.

    3. Al tempo di san Benedetto la comunità ecclesiale e la società umana mostravano molte somiglianze con le condizioni attuali della vita umana. Gli sconvolgimenti della cosa pubblica e l'incertezza del futuro, a causa di guerre incombenti o già in atto, arrecavano mali che gettavano gli animi nel turbamento e nell'angoscia: fino al punto da ritenere la vita priva di ogni certo e valido significato.

    Intanto nell'ambito della Chiesa era in atto un'ardua e diuturna controversia per la quale uomini ardenti, investigavano, in modo piuttosto animoso i misteri di Dio, specialmente l'imperscrutabile verità della divinità del Figlio e della sua genuina umanità. Tutte queste cose risuonavano come un'eco nelle parole degne di eterna memoria di Leone Magno, successore del beato Pietro e Vescovo di Roma.

    San Benedetto, considerando attentamente questo stato di cose, chiese a Dio ed alla viva tradizione della Chiesa la luce e la via da seguire. La risoluzione da lui presa, pertanto, può essere considerata il paradigma del dovere cristiano nelle vicissitudini del pellegrinaggio terreno, anche se non offre a tutti un metodo di vita concretamente determinato.

    Gesù Cristo è il centro vitale, assolutamente necessario, a cui tutte le realtà e gli eventi devono essere riferiti, perché possano acquistare un senso e una solida consistenza. Richiamandosi a un pensiero di san Cipriano Vescovo di Cartagine, Benedetto con forza e gravità afferma che assolutamente «nulla deve essere anteposto all'amore di Cristo» (cfr. S. Benedicti «Regula», 4,21; 72,11).

    Negli uomini infatti e nelle realtà terrene vi è una forza ed una importanza in quanto sono connessi con Cristo; in questa luce devono essere considerati e stimati. Tutti coloro che si trovano nel monastero - dal superiore (che è il padre, l'abate) all'ospite ignoto e povero, dall'infermo al più piccolo dei fratelli - significano la viva presenza di Cristo. Anche i beni del monastero sono segni dell'amore di Dio verso le creature, o dell'amore che conduce l'uomo verso Dio; addirittura, gli strumenti e le attrezzature per il lavoro «vengono considerati come vasi sacri dell'altare» (cfr. S. Benedicti «Regula», 31,10).

    San Benedetto non propone una certa visione teologica astratta, ma partendo dalla verità delle cose, come è solito fare, inculca fortemente negli animi un modo di pensare e di agire, per il quale la teologia è trasferita nel vivere quotidiano. A lui non sta tanto a cuore di parlare delle verità di Cristo, quanto di vivere con piena verità il mistero di Cristo e il «cristocentrismo» che ne deriva.

    E' necessario che la priorità da attribuire alla visione soprannaturale delle vicissitudini quotidiane, concordi con la verità dell'incarnazione: non è lecito all'uomo fedele a Dio dimenticarsi di ciò che è umano; egli deve essere fedele anche all'uomo. Perciò il dovere che dobbiamo assolvere, come si usa dire, in senso «verticale», e che si traduce nella vita di preghiera, è rettamente ordinato quando si armonizza strettamente con gli impegni che provengono dalla considerazione «orizzontale» della realtà, il più importante dei quali è il lavoro.

    Nella convivenza monastica, quindi, sotto la guida di colui che «come si sa per fede, fa nel monastero le veci di Cristo» (S. Benedicti «Regula», 63,13; cfr. 2,2), san Benedetto indica la via da percorrere, via che si distingue per la grande discrezione ed equilibrio. Questa via, che associa solitudine e convivenza, preghiera e lavoro, deve essere percorsa anche da ogni uomo del nostro tempo - pur contemperando questi elementi in modo diverso secondo le condizioni di ognuno - perché possa attuare fedelmente la sua vocazione.

    4. L'amore vero ed assoluto verso Cristo si manifesta in modo significativo nell'orazione, che è come il cardine intorno al quale ruotano la giornata del monaco e tutta la vita benedettina.

    Ma il fondamento dell'orazione, secondo la dottrina di san Benedetto, è riposto nel fatto che l'uomo ascolti la parola: perché il Verbo incarnato, qui, oggi, ai singoli uomini, viventi nella presente non ripetibile condizione; lo fa attraverso le Scritture e la mediazione ministeriale della Chiesa; cosa che nel monastero si esercita anche attraverso le parole del padre e dei fratelli della comunità.

    In una tale obbedienza di fede, la parola di Dio è accolta con umiltà e con gioia, che derivano dalla sua perenne novità che il tempo non diminuisce, ma anzi rende più vivida e di giorno in giorno più avvincente. La parola di Dio, pertanto, diviene fonte inesausta di orazione, poiché «Dio medesimo parla all'anima, suggerendole al tempo stesso la risposta che il suo cuore attende. Sarà una preghiera diffusa nei vari momenti della giornata e alimentante, come polla sotterranea, le attività quotidiane» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinas Antistitas», die 29 sept. 1976: «Insegnamenti di Paolo VI», XIV [1976] 771).

    Cos', attraverso la meditazione pacata e saporosa - che è una vera ruminazione spirituale - la parola di Dio eccita nell'animo di coloro che sono dediti all'orazione quegli acuti bagliori di luce che illuminano tutto il corso della giornata. Per dirla brevemente, questa è «l'orazione del cuore», quella «breve e pura orazione» (cfr. S.Benedicti «Regula», 20,4), per mezzo della quale rispondiamo agli impulsi divini, e insieme sollecitiamo il Signore a largirci il dono inesauribile della sua misericordia.

    L'anima dunque attende ogni giorno con amore alla parola di Dio, e la investiga con fervido impegno; tutto ciò attraverso un'applicazione vitale, frutto non di scienza umana ma di una sapienza che ha in sé qualcosa di divino; cioè non «per sapere di più», ma, se così si può dire, per «essere di più», per colloquiare con Dio, per rivolgere a lui la sua stessa parola, per pensare quello che egli stesso pensa, in una parola, per vivere la sua stessa vita.

    Il fedele, ascoltando la parola di Dio, è portato a capire il corso delle vicende e dei tempi che il Signore nella sua provvidenza ha disposto per l'umana famiglia, così che all'anima credente viene offerta una più ampia visione del più disegno divino di salvezza. In questa visione di fede giungiamo anche a percepire le opere mirabili di Dio con occhi aperti e «con orecchie attentissime» (cfr. S. Benedicti «Regula», Prolog., 9). La luce divinizzante della contemplazione eccita la fiamma, e sia il silenzio, congiunto con lo stupore, sia i canti di esultazione, sia l'alacre azione di grazia, donano a quella orazione un'indole particolare, mediante la quale i monaci celebrano cantando le lodi del Signore ogni giorno. Allora la preghiera diventa quasi la voce dell'intera creazione e in qualche modo anticipa l'eccelso canto della celeste Gerusalemme. La parola di Dio in questo pellegrinaggio terreno, ci fa sentire tutta la vita come aperta allo sguardo di colui che dall'alto vede ogni cosa. Così la preghiera rivolta al Padre, dà voce a quelli che ormai non hanno più voce; e in essa in qualche modo risuonano le gioie e le ansie, gli esiti favorevoli e le speranze deluse, e l'attesa di tempi migliori.

    San Benedetto è condotto, particolarmente nella sacra liturgia, da questa parola di Dio, non certo per ottenere che la comunità divenga soltanto un'assemblea che celebra con ardore i misteri divini, e nel canto corale esprima la comune esperienza attinta dallo Spirito; a lui infatti sta soprattutto a cuore che l'animo risponda più intimamente alla parola divina proclamata e cantata, e che «il nostro spirito concordi con la nostra voce» (S. Benedicti «Regula», 19,7). Le sacre scritture, conosciute e gustate in questo modo vitale, vengono lette con diletto quando allo stesso tempo ci si dedica intensamente all'orazione. Per impulso dell'amore, l'animo spesso si raccoglie davanti a Dio; nulla è anteposto all'opera di Dio (cfr. S. Benedicti «Regula», 4,55.56; 43,3); la preghiera fatta nella liturgia viene trasferita nella vita, e la stessa vita diventa preghiera. L'orazione, appena terminata la liturgia, quasi da quegli ampi spazi si riverbera in un ambito più ristretto e si prolunga nel raccoglimento e nel silenzio interiore. Così avviene che uno preghi per conto suo, e la preghiera continuata pervada le azioni e i momenti della giornata.

    San Benedetto, amante della parola di Dio, la legge non solo nelle sacre scritture, ma anche in quel grande libro che è la natura. L'uomo, contemplando la bellezza del creato, si commuove nel più intimo del suo animo, ed è portato ad elevare la sua mente a colui che ne è la fonte e l'origine; e allo stesso tempo è condotto a comportarsi quasi con riverenza verso la natura, a porne in luce le bellezze, rispettandone la verità.

    «Dove spira il silenzio, ivi parla la preghiera» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinos monachos», die 8 sept. 1971: «Insegnamenti di Paolo VI«, IX [1971] 756): nella solitudine infatti la preghiera si intensifica per una certa ricchezza personale; e questo vale tanto per quella valle incolta dell'Aniene nella quale Benedetto visse solo con Dio solo, quanto per la città sovrabbondante di prodotti della tecnica, ma alienante per gli animi, dove l'uomo del nostro tempo spesso resta emarginato, abbandonato a se stesso. E' necessario che lo spirito sperimenti un certo deserto, per poter condurre una vera vita spirituale; poiché questo preserva da parole vane, facilita un rapporto nuovo con Dio, con gli uomini e con le cose. Nel silenzio del deserto, le relazioni che la persona intrattiene con gli altri vengono ricondotte a ciò che è essenziale e primario, e acquistano una certa austerità; così il cuore si purifica, e si riscopre la pratica dell'orazione quotidiana che dall'intimo del cuore si eleva Dio. Tale preghiera non si perde in molte parole, ma si eleva «nella purezza del cuore pieno di fervore e nella compunzione delle lacrime» (cfr. S.Benedicti «Regula», 20,3; 52,4).

    5. Il volto dell'uomo spesso è rigato da lacrime, che, non sempre sgorgando da sincera compunzione o da gioia sovrabbondante, col loro prorompere spingono l'animo a pregare; spesso infatti le lacrime vengono sparse per dolore e angoscia da coloro che vedono calpestata la propria umana dignità e che non riescono a conseguire ciò a cui giustamente aspirano, né a ottenere un lavoro adeguato alle loro necessità e alle loro capacità.

    Anche san Benedetto viveva in una società sconvolta da ingiustizie, nella quale la persona spessissimo era tenuta in nessun conto o stimata solo come una cosa; in quel contesto sociale strutturato in vari ordini, i diseredati venivano emarginati e considerati di condizione servile, i poveri sprofondavano in una miseria sempre maggiore, i possidenti si arricchivano sempre più. Quell'uomo egregio, invece, volle che la comunità monastica poggiasse sul fondamento dei precetti del Vangelo. Egli restituisce l'uomo alla sua integrità, da qualsiasi ordine sociale provenga; provvede alle necessità di tutti secondo le norme di una sapiente giustizia distributiva; ai singoli assegna uffici complementari e tra loro saggiamente coordinati; ha cura delle infermità degli uni, senza indulgere in alcun modo alla pigrizia; dà spazio all'operosità degli altri affinché non si sentano coartati, ma stimolati ad esercitare le loro energie migliori. In tal modo egli toglie il pretesto anche alla pur leggera, e alle volte giusta, mormorazione, creando le condizioni per la pace.

    L'uomo, nella visione di san Benedetto, non può essere considerato una macchina anonima da sfruttare con l'unico intento di trarne i massimi profitti, affermando che l'operaio non merita alcuna considerazione morale e denegandogli la giusta mercede. Si deve infatti ricordare che in quel tempo il lavoro era fatto ordinariamente da schiavi ai quali non si riconosceva la dignità di persone umane. Ma san Benedetto ritiene il lavoro, per qualsiasi motivo esercitato, parte essenziale della vita, e obbliga ad esso ciascun monaco per dovere di coscienza. Il lavoro, poi, dovrà essere sostenuto «per motivo di obbedienza e di espiazione» (Pii XII «Fulgens Radiatur»: AAS 39 [1947] 154), giacché il dolore e il sudore sono inseparabili da qualsiasi sforzo veramente efficace. Questa fatica, pertanto, ha una forza redentrice in quanto purifica l'uomo dal peccato, e inoltre nobilita sia le realtà che sono oggetto dell'operosità umana, sia lo stesso ambiente nel quale essa si svolge.

    San Benedetto, trascorrendo una vita terrena, nella quale il lavoro e l'orazione sono convenientemente contemperati, e così inserendo felicemente il lavoro in una prospettiva soprannaturale della vita stessa, aiuta l'uomo a riconoscersi cooperatore di Dio e a diventarlo veramente, mentre la sua personalità, esprimendosi in una operosità creatrice, viene promossa nella sua totalità. Così l'azione umana diventa contemplativa e la contemplazione acquista una virtù dinamica che ha una sua importanza e illumina le finalità che essa si propone.

    Ciò non viene fatto soltanto perché si eviti l'ozio che ottunde lo spirito, ma anche e soprattutto per rendere l'uomo come persona cosciente dei suoi doveri e diligente, capace di crescere e di perfezionarsi nel loro compimento: perché dal profondo del suo animo si rivelino energie forse ancora sopite, il cui esercizio possa contribuire al bene comune, «affinché in tutto sia glorificato Dio» (1Pt 4,11).

    Con ciò il lavoro non è alleggerito dal grave dispendio di energie, ma ad esso viene aggiunto un nuovo impulso interiore. Il monaco infatti, non malgrado il lavoro che compie, ma anzi attraverso il lavoro stesso, si congiunge a Dio, poiché «mentre lavora con le mani o con la mente, si dirige sempre continuamente a Cristo» (cfr. Pii XII «Fulgens Radiatur»: AAS 39 [1947] 147).

    E così accade che il lavoro, anche se umile e poco apprezzato, tuttavia arricchito di una certa qual dignità, viene intrapreso e diventa parte vitale «di quella ricerca somma ed esclusiva di Dio nella solitudine e nel silenzio, nel lavoro umile e povero, per dare alla vita il significato di una orazione continuata, di un "sacrificium laudis", insieme celebrato, insieme consumato, nel respiro di una gaudiosa e fraterna carità» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinas Antistitas», die 28 oct. 1966: «Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 514).

    L'Europa è divenuta terra cristiana, specialmente perché i figli di san Benedetto hanno comunicato ai nostri antenati una istruzione che abbracciava tutto, insegnando appunto loro non solo le arti e il lavoro manuale, ma anche, specialmente, per infondendo in loro lo spirito evangelico, necessario per proteggere i tesori spirituali della persona umana.

    Il paganesimo, che in quel tempo da folte schiere di monaci missionari è stato trasformato in cristianesimo, torna oggi a propagarsi sempre più nel mondo occidentale, ponendosi come causa ed effetto di quella perduta maniera di considerare il lavoro e la sua dignità.

    Se Cristo non dà alla azione umana alto e perpetuo significato, colui che lavora diviene schiavo - nelle forma portate dai nuovi tempi - della sfrenata produzione che cerca solo il guadagno. Al contrario, san Benedetto afferma la necessità impellente di dare al lavoro un carattere spirituale, dilatando i confini dell'operosità umana, così che questa si preservi dall'esasperato esercizio della tecnica produttiva, e dalla cupidigia del privato guadagno.

    6. Nella compagine sociale, che si è instaurata nei nostri tempi, e che qua e là acquista l'aspetto di una «società senza padri», il santo di Norcia aiuta a ricuperare quella dimensione primaria - forse troppo trascurata da quelli che hanno autorità - che chiamiamo dimensione paterna.

    San Benedetto tra i suoi monaci fa le veci di Cristo, ed essi obbediscono a lui come al Signore, con i sentimenti che lo stesso Salvatore aveva per il Padre. A questa obbedienza-ascolto, propria dei figli, che in questo modo contribuiscono a configurare la figura del padre, risponde la penetrante considerazione che san Benedetto ha per tutti i monaci, avendo riguardo alla loro persona nella sua totalità. Questa attenzione lo stimola a curare diligentemente tutte le necessità della comunità.

    Colui che esercita l'autorità, pur non trascurando nulla di ciò che attiene all'ordinamento della famiglia monastica, né gli affari materiali, ha cura soprattutto della condizione spirituale di ciascuna persona, poiché questa deve essere preferita a tutte le cose terrene e transitorie.

    Nella considerazione di quegli elementi che nella vita terrena sono spirituali e fondamentali, l'abate è illuminato dal contatto che ha assiduamente con la parola di Dio, dalla quale attinge tesori nuovi e vecchi. A questa parola di Dio, il padre del monastero dovrà intimamente conformarsi, così che la sua azione divenga quasi un fermento della giustizia divina che si sparge nella mente dei figli.

    Nelle deliberazioni da tenersi nell'ambito della comunità, san Benedetto concede piena autorità all'abate; la sua decisione non potrà essere impugnata. Questo non deriva dal fatto che l'autorità sia quasi stimata una dominazione assoluta, poiché il padre prende consiglio da tutti i fratelli, e da alcuni di loro in privato, senza alcun pregiudizio, nella persuasione che anche nelle cose di grande importanza «spesso il Signore svela quello che è meglio al più giovane» (S. Benedicti «Regula», 3,3)).

    Nel colloquio fraterno, l'abate ascolta le richieste di coloro che interpella perché accettino un particolare ufficio; ma per il bene del singolo e della comunità deve essere fermo nell'ingiungere cose che alle volte potrebbero anche sembrare impossibili; a lui dovrà stare soprattutto a cuore la promozione dei singoli, perché si sviluppino meglio, e tutta la comunità ne tragga incremento e vigore.

    Il fine primario che deve prefiggersi il padre della comunità dovrà essere di aiutare i fratelli e guidarli con saggezza, in modo che appaia chiaramente che il primato è dato all'amore. Il padre, perciò, «faccia prevalere sempre la misericordia sulla giustizia» (S. Benedicti «Regula», 64,10; cfr. Gc 2,13), e cerchi più di farsi amare che temere, sapendo che egli «deve piuttosto giovare che comandare» (cfr. S. Benedicti «Regula», 64,14.8).

    Consapevole che dovrà render conto di tutti coloro che gli sono stati affidati, l'abate ama i fratelli; con essi e per essi, svolgendo il compito di buon pastore, fa ciò che è più utile al bene di tutti, ciò che più conviene e quello che giudica essere più salutare. «L'abate deve infatti preoccuparsi intensamente e adoperarsi con ogni premura, accortezza e zelo, per non perdere nessuna delle pecorelle che gli sono state affidate... E imiti l'esempio del buon pastore, che lasciò le novantanove pecorelle sui monti e andò a cercare l'unica che si era smarrita, provando tanta compassione per la sua debolezza, da degnarsi di porsela sulle sue sacre spalle e di riportarla così all'ovile» (S. Benedicti «Regula», 27,5.8-9). Il padre della comunità che deve guidare le anime, sappia che in questo ministero pastorale deve adattarsi alla diversa indole,di molti (cfr. S. Benedicti «Regula», 2,31); si conformi e si adatti ai singoli, affinché ad essi possa dare l'aiuto sicuro e preciso di cui hanno bisogno; sia paziente verso tutti, non tollerando tuttavia i peccati dei trasgressori; abbia in odio la prevaricazione, ma sia privo di risentimento e di zelo inopportuno e diriga i figli con magnanimità.

    Questo modo di guidare gli altri con autorità, rivela un ulteriore aspetto dell'ufficio del superiore: parliamo della discrezione, che è misura ed equilibrio nelle deliberazioni e nelle decisioni, affinché non sorgano inutili mormorazioni. I singoli pertanto, se obbediscono con umiltà, non solo sono aiutati a oltrepassare i limiti angusti di ciò che ritengono utile per loro in quel momento, ma si elevano ad una più ampia visione del bene e della vita sociale, cooperando per dovere di coscienza e così raggiungendo quella libertà interiore che è necessaria perché ognuno arrivi alla maturità personale.

    Le cose dette dell'abate che adempie il suo dovere come sapiente amministratore della casa del Signore, (cfr. S. Benedicti «Regula», 64,5; 72,3-8), sono il fondamento di una somma pace. Pace che è riposta nel fatto che i fratelli si accettino benevolmente e grandemente si stimino l'un l'altro, malgrado gli inevitabili difetti, e ciò permetta un modo del tutto proprio di espressione della persona di ognuno.

    Questa è la pace che deriva dal fatto che i singoli, umilmente e con la coscienza di un dovere, si obbligano con il legame di una tale società umana, dove la legge dello Spirito prevale sulla legge della materia, dove si instaura un giusto ordine, dove tutte le cose sono convenientemente disposte per l'incremento del regno di Dio.

    San Benedetto quest'anno è venuto in qualche modo di nuovo a farci visita, mostrandoci i modi di condurre la vita umana che si richiamano da vicino alla dottrina del Vangelo. Un simile progetto non può trovare il nostro spirito indifferente e neghittoso. Specialmente i suoi figli, fedeli all'esempio e alle istituzioni del padre, sono chiamati a raccolta, per dare viva testimonianza di una così eccelsa, e allo stesso tempo sicura e determinata forma di vita. Questa testimonianza muoverà anche i meno edotti e i duri di cuore, nell'animo dei quali le parole non hanno più risonanza.

    Il rinnovamento che ne deriverà, potrà fare in modo che il mondo acquisti un nuovo volto, più spirituale, più sincero, più umano. Tuttavia, colui che detiene l'autorità, in qualsiasi gruppo sociale, e di qualsiasi grado essa sia, dovrà sempre più promuovere e manifestare il dono della paternità, la quale è la sola che possa riuscire a tenere legati gli uomini con vincolo fraterno. Solo nella pace, infatti, essi edificheranno il mondo, e costituiranno la società nella quale, pregando e lavorando, l'uomo divenga cooperatore e interlocutore del Dio unico.

    Giova anche ricordare, in questa occasione, che da Paolo VI nostro predecessore, san Benedetto è stato dichiarato patrono d'Europa, la quale è nata dopo la caduta dell'impero romano, da quella faticosa gestazione a cui hanno partecipato anche i monaci, conservandone gli ordinamenti di vita. Questa silenziosa, costante, sapiente opera degli stessi monaci ebbe il merito di conservare e trasmettere il patrimonio della cultura antica ai popoli europei e a tutto il genere umano. Così lo «spirito benedettino», come già dicemmo il primo gennaio di quest'anno, «è totalmente contrario allo spirito di distruzione» (cfr. Ioannis Pauli PP. II «Homilia Calendis Ianuariis, in Patriarchali Basilica Vaticana habita». «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III,1 [1980] 5-6); e quindi questo «padre dell'Europa» (Pauli VI «Pacis Nuntius». AAS 56 [1964] 965) esorta tutti gli interessati a promuovere vigorosamente i beni che nutrono e nobilitano le menti, e a tener lontano con ogni forza tutto ciò che è distruzione e sovversione di questi stessi beni.

    San Benedetto, come «annunciatore di pace» (Pii XII «Homilia die 18 sept. 1974 habita»: AAS 39 [1974] 453), parla particolarmente alle genti d'Europa, intente al salutare progetto di costruire una loro unità. Una convivenza pacifica, da ricercare con tutte le forze, si deve fondare soprattutto sulla giustizia, sulla libertà autentica, sul mutuo consentimento, sul fraterno aiuto - cose tutte che sono conformi agli insegnamenti del Vangelo.

    Questo santo protegga e favorisca quindi i popoli di questo continente e l'umanità intera; e con la sua preghiera allontani le gravissime calamità che possono essere portate da armi funestissime e sommamente distruttive.

    Queste cose si agitano nel nostro cuore, mentre ci rivolgiamo, con il pensiero e con la preghiera, a questo eccelso uomo, romano ed europeo, gloria della Chiesa.

    A voi infine, diletti figli, e alle famiglie monastiche che sono in qualunque modo sotto la vostra giurisdizione, di cuore impartiamo la nostra apostolica benedizione, segno della nostra paterna benevolenza.

    Dato a Roma, da San Pietro, il giorno 11 del mese di luglio, nella festa di san Benedetto abate, nell'anno 1980, secondo del nostro Pontificato.

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    PIO XII
    LETTERA ENCICLICA
    FULGENS RADIATUR
    XIV CENTENARIO DELLA MORTE
    DI SAN BENEDETTO
    21 marzo 1947


    Ai venerabili fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi ed altri Ordinari locali in pace e comunione con la Sede Apostolica

    San Benedetto da Norcia fulgido risplende, come astro nelle tenebre della notte, gloria non solo d'Italia, ma anche di tutta la chiesa. Chi osserva la sua illustre vita e studia sui documenti della storia l'epoca tenebrosa in cui visse, sentirà senza dubbio la verità della divina parola con cui Cristo promise agli apostoli e alla società da lui fondata: «Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine dei secoli» (Mt 27,20). Questa parola e questa promessa non perdono certamente la loro efficacia in nessuna epoca, ma riguardano il corso di tutti i secoli che sono guidati dalla divina Provvidenza. Anzi, quando più furiosamente i nemici si scagliano contro il nome cristiano, quando la fatidica navicella di Pietro è agitata da più violente burrasche, quando infine sembra che tutto vada in rovina e non brilli più alcuna speranza di soccorso umano, allora ecco comparire Cristo, garante, consolatore, apportatore di forza soprannaturale, il quale suscita perciò i suoi nuovi atleti a difendere il mondo cattolico, a reintegrarlo, a risvegliare in esso, con l'ispirazione e il soccorso della grazia divina, sviluppi sempre più vasti.

    Nel numero di questi risplende di vivida luce il nostro santo «Benedetto e di grazia e di nome»,(2) il quale, per una speciale disposizione della divina Provvidenza, emerse dalle tenebre del secolo, quando le condizioni e il benessere non solo della chiesa, ma della stessa umana civiltà, correvano un grandissimo rischio. L'impero romano, che aveva toccato un vertice di altissima gloria e che con la sapiente moderazione ed equità del suo diritto si era così strettamente legati tanti popoli, razze e nazioni, «da potersi chiamare con maggiore verità un patronato sul mondo intero piuttosto che una sovranità»,(3) ormai, come tutte le cose di questa terra, era declinato al suo tramonto poiché, indebolito e guasto all'interno, infranto ai confini esterni dalle invasioni dei barbari che piombavano da settentrione, era stato schiacciato in occidente sotto la sua immane rovina. In una così fiera burrasca e in mezzo a disgrazie così gravi, donde rifulse all'umana società qualche speranza, donde le venne un aiuto e una difesa, con cui potesse salvare se stessa e qualche reliquia almeno della sua civiltà? Proprio dalla chiesa cattolica: poiché, mentre le imprese di questo mondo e tutte le istituzioni terrene, siccome sono solo sostenute dalla prudenza e dalla forza umana, l'una dopo l'altra col passare degli anni crescono, salgono al culmine della prosperità e poi per il loro stesso peso declinano, cadono e svaniscono; al contrario la società che il nostro divin Redentore ha stabilita ha il dono dal suo Fondatore di una vita soprannaturale e di una forza indefettibile col cui appoggio e nutrimento essa se ne esce vincitrice dagli assalti del tempo, degli eventi e degli uomini in modo tale, da potere far sorgere una età nuova e più felice dalle loro stesse perdite e rovine, da poter formare ed educare nella dottrina e nello spirito cristiano una nuova società di cittadini, di popoli e di nazioni.

    Orbene Ci piace, venerabili fratelli, accennare brevemente e per sommi capi quale parte abbia avuta san Benedetto in questa restaurazione e rinnovazione della società, dato che quest'anno sembra ricorrere il XIV secolo da che egli tramutò questo terreno esilio nella patria celeste, dopo aver compiute innumerabili imprese alla gloria di Dio e per la salvezza degli uomini.

    I.

    LA FIGURA STORICA DEL PATRIARCA


    Benedetto «nato di nobile stirpe dalla provincia di Norcia»,(4) «fu ripieno nel suo spirito di tutte le virtù»,(5) e sostenne in modo straordinario il mondo cristiano con il suo coraggio, con la sua prudenza e sapienza; infatti, mentre il mondo era invecchiato nei vizi, mentre l'Italia e l'Europa sembravano divenute un miserevolissimo teatro di popoli guerreggianti, e perfino le istituzioni monastiche, macchiate della polvere di questo mondo; erano meno forti di quanto sarebbe stato necessario per resistere e respingere le allettative della corruzione, Benedetto dimostrò con la sua eccellente attività e santità la perenne giovinezza della chiesa, rinnovò la severità dei costumi con la sua dottrina e col suo esempio, e cinse di leggi più sicure e più sante il raccoglimento della vita religiosa. Ma non basta: egli infatti di per sé e con i suoi seguaci ridusse quelle barbare genti dai loro costumi feroci ad abitudini civili e cristiane e, piegandole alla virtù, al lavoro e alle tranquille occupazioni delle arti e delle scienze, li strinse con vincoli di fraterno amore e carità.

    Sul fiore degli anni viene inviato a Roma per lo studio delle scienze;(6) ma si avvede con sommo dispiacere che ivi serpeggiano eresie ed errori di ogni genere che ingannano e guastano le menti di molti: vede i costumi privati e pubblici rovinare nel fango, vede moltissimi specialmente tra i giovani, tutti eleganti e agghindati, voltolarsi miseramente nel lezzo dei piaceri; sicché a ragione si poteva affermare della società romana: «Sta morendo e ride. E per questo in quasi tutte le parti del mondo le lacrime tengono dietro alle nostre risate».(7) Egli tuttavia, prevenuto dalla grazia di Dio, «non lasciò andare il suo cuore a nessun piacere... ma vedendo molti correre per la rovinosa via dei vizi, ritrasse indietro il suo piede, che già quasi aveva messo sulla soglia del mondo... Messi quindi da parte gli studi letterari, abbandonata la casa e i beni paterni, desiderando di piacere unicamente a Dio, cercò un genere santo di vita».(8)

    Diede quindi con tutto lo slancio l'addio alle agiatezze della vita e non solo alle lusinghe di un mondo corrotto, ma anche all'attrattiva della fortuna e delle cariche onorifiche a cui poteva aspirare; e, abbandonata Roma, si ritirò in regioni boscose e solitarie, dove gli fosse possibile attendere alla contemplazione delle cose celesti.. Giunse pertanto a Subiaco, dove, chiudendosi in una piccola grotta, cominciò a menar una vita più celeste che umana.

    Nascosto in Dio con Cristo (cf. Col 3,3), si sforzò ivi per tre anni di raggiungere quella perfezione evangelica e santità, alla quale si sentiva chiamato da una quasi divina attrattiva. Fu sua regola costante fuggire tutte le cose terrene, tendere con slancio unicamente a quelle celesti; conversare giorno e notte con Dio e innalzare a lui preghiere ferventissime per la salvezza sua e dei suoi prossimi; contenere e regolare il suo corpo con volontarie asprezze; frenare e rintuzzare i movimenti disordinati dei sensi. Da questo genere di vita e di condotta, egli assaporava nel suo animo tale dolcezza da avere in somma nausea e quasi perfino dimenticare quelle delizie che negli anni passati aveva gustate dalle ricchezze e comodità terrene. E poiché un giorno il nemico del genere umano lo eccitava con violenti stimoli della passione, egli, di spirito nobile e risoluto, resistette con tutta l'energia della sua volontà; e, buttandosi in mezzo a rovi spinosi e a ortiche pungenti, calmò e spense con queste asprezze abbracciate spontaneamente il fuoco interiore e così, uscito vincitore di se stesso, venne quasi, in premio, confermato nella grazia divina. «Da quel tempo poi, come egli stesso soleva raccontare ai suoi discepoli, fu così domata in lui la tentazione impura, da non provare in sé più nulla di tali cose... Libero così dal male della tentazione, a buon diritto ormai divenne maestro di virtù».(9)

    Il nostro santo adunque, nascosto nella grotta di Subiaco, durante questi anni di vita tranquilla e solitaria si andò santamente formando, fortificando e gettò quelle solide basi di cristiana perfezione, sulle quali avrebbe in seguito potuto innalzare una costruzione di straordinaria altezza. Come infatti ben sapete, venerabili fratelli, tutte le opere di intensa operosità e di santo apostolato riescono vane e infruttuose, se non provengono da un'anima arricchita di quelle doti cristiane, mediante le quali unicamente le umane intraprese possono, con l'aiuto della divina grazia, dirigersi per un retto sentiero alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime. Di questa verità Benedetto aveva una intima e profonda convinzione; perciò, prima di tentare l'attuazione e il compimento di quei disegni e propositi grandiosi a cui era chiamato dall'afflato dello Spirito Santo, si sforzò quanto più poteva, e impetrò da Dio con continue preghiere, di riprodurre in modo eccellente in sé quel tipo di santità, modellato sulla dottrina evangelica in tutta la sua integrità, che egli desiderava insegnare agli altri.

    Siccome poi la fama della sua straordinaria santità si spargeva tutto intorno e di giorno in giorno andava sempre più crescendo, non solo i monaci che dimoravano nelle vicinanze manifestarono il desiderio di affidarsi alla sua direzione, ma anche una grande folla di cittadini cominciò ad accorrere a lui, desiderosa di udire la sua voce soave, di ammirare la sua eccezionale virtù e di vedere quei prodigi che egli per dono di Dio non di rado operava. Anzi quella luce splendente che s'irradiava dalla oscura grotta di Subiaco si diffuse così largamente che raggiunse perfino lontane regioni. Perciò «fin d'allora cominciarono ad accorrere a lui nobili e religiosi della città di Roma e a darglisi come figli da nutrire per Dio».(10)

    Comprese allora quel santissimo uomo che era venuto il tempo fissato dalla divina Provvidenza per fondare una famiglia religiosa e condurla con ogni sforzo alla perfezione evangelica. Nei primi inizi la sua opera diede magnifiche speranze. Molti infatti «furono da lui in quel medesimo luogo radunati al servizio dell'onnipotente Dio...: così da potervi costruire con l'aiuto del sommo nostro Signore Gesù Cristo dodici monasteri, a ciascuno dei quali sotto determinati superiori assegnò dodici monaci tenendone con sé alcuni pochi che giudicò meglio venissero formati alla sua presenza».(11)

    Tuttavia mentre, come dicevamo, l'iniziativa procedeva felicemente e già cominciava a produrre abbondanti frutti di salute e più ancora ne prometteva per l'avvenire, il nostro santo vide con immensa tristezza del suo cuore innalzarsi sulle messi che andavano crescendo una nera tempesta, eccitata dalla sinistra invidia e alimentata da brame di terrene ambizioni. Ma poiché Benedetto era guidato dalla prudenza non umana, bensì divina, affinché quell'odio che era sorto specialmente contro di lui non venisse a ricadere miseramente in danno dei suoi figli, «cedette all'invidia e pose ordine in tutti gli oratori da lui fondati, sostituendo i primi superiori e aggiungendo nuovi confratelli; poi, presi con sé pochi monaci, mutò la sede della sua abitazione».(12) Fidente in Dio e appoggiato al suo validissimo aiuto, si spostò verso il mezzogiorno, e si fissò nella località «che si chiama Cassino, posto sul fianco di alta montagna..., dove era stato un antichissimo tempio, nel quale da uno stolto popolo di contadini era venerato Apollo con i riti degli antichi pagani. Tutt'intorno erano cresciuti boschetti sacri al culto del demonio, nei quali, ancora ai tempi di Benedetto, folle d'insensati idolatri si affaticavano in sacrileghi sacrifici. Appena arrivatovi, il servo di Dio, spezzò l'idolo, rovesciò l'altare, incendiò i boschetti sacri e sullo stesso tempio di Apollo innalzò la cappella di san Martino e dove sorgeva l'ara del medesimo Apollo costruì l'oratorio di san Giovanni; infine con la continua predicazione conduceva alla vera fede le popolazioni che dimoravano attorno».(13)

    Cassino, come tutti sanno, fu la principale sede del santo patriarca e la principale palestra delle sue virtù e santità. Dalla sommità di quel monte, mentre quasi tutt'intorno le tenebre dell'ignoranza e dei vizi si diffondevano nel tentativo di avvolgere e di rovinare ogni cosa, risplendette una luce nuova, la quale non solo alimentata dalla dottrina e civiltà degli antichi popoli, ma anche fomentata dalla dottrina cristiana, illuminò popoli e nazioni erranti fuori strada e li richiamò e guidò sulla via della verità e della rettitudine. A buon diritto si può dunque affermare che il sacro monastero ivi costruito divenne il rifugio e la difesa di tutte le più elette scienze e virtù, e in quei burrascosi secoli fu «quasi sostegno della chiesa e propugnacolo della fede».(14)

    In questo luogo Benedetto portò il regolamento della vita monastica a quel grado di perfezione cui già da molto tempo egli aveva mirato con le preghiere, con la meditazione e con l'esercizio della virtù. Questo veramente sembra sia stato lo speciale e principale compito affidatogli dalla divina Provvidenza: non tanto, cioè, di portare in occidente dall'oriente le regole della vita monastica, quanto di adattarle e proporzionarle genialmente alle inclinazioni, alle necessità, alle condizioni delle popolazioni dell'Italia e di tutta l'Europa. Ecco quindi per mezzo suo alla serenità della dottrina ascetica, che tanto rifioriva nei cenobi dell'oriente, accoppiarsi una instancabile attività, con cui diventa possibile, «comunicare agli altri le cose contemplate»(15) e non solo produrre messi abbondanti di spighe da terreni incolti, ma anche maturare con apostolico sudore frutti spirituali. Le asprezze proprie della vita solitaria, non adatte per tutti, e per non pochi anche nocive, vengono addolcite e temperate dalla fraterna coabitazione della dimora benedettina, dove, alternando preghiera, lavoro, studi sacri e profani, la vita beatamente tranquilla non conosce ozio né pigrizia; dove il lavoro esterno, nonché stancare l'anima e la mente, dissiparla o assorbirla in cose vane, piuttosto la rasserena, la fortifica, la solleva al cielo. Non vi è imposto un eccessivo rigore nella disciplina, non l'asprezza delle penitenze ma prima di tutto l'amore di Dio e una carità fraterna e operosa verso tutti. «Egli mitigò la sua Regola in modo tale che i coraggiosi desideravano fare di più e i deboli non rifuggivano dalla sua severità... Si studiava piuttosto di guidare i suoi con l'amore, più che governarli col timore».(16) Avendo quindi un giorno osservato un monaco che, per togliersi la possibilità di peccare e di ritornare alla vita mondana, si era chiuso in una spelonca legandosi strettamente, lo rimproverò dolcemente con queste parole: «Se sei servo di Dio non ti trattenga una catena di ferro, ma la catena di Cristo».(17)

    In questo modo, a quelle regole particolari della vita eremitica e a quelle speciali imposizioni, che prima per lo più non erano ben fissate e determinate, ma spesso dipendevano dal cenno dello stesso superiore del cenobio, successe la Regola monastica benedettina, celebre monumento di sapienza romana e cristiana, nella quale i diritti, i doveri e le occupazioni dei monaci sono temperati con benignità e carità evangelica, la quale fu ed è sempre così efficace per stimolare molti alla virtù e per farli crescere in santità. Nella Regola benedettina infatti una somma prudenza si unisce alla semplicità, l'umiltà cristiana si associa alla virtù piena di coraggio; la dolcezza mitiga la severità, un'equilibrata libertà nobilita la necessaria obbedienza. In essa la riprensione non manca di energia: la condiscendenza e la benignità è gradita per la sua soavità: i comandi conservano tutta la loro forza, ma l'obbedienza dà tranquillità al cuore, dà pace all'anima: il silenzio con la sua gravità è piacevole; ma la conversazione si orna di dolce finezza; infine viene esercitato il potere dell'autorità, ma la debolezza non è priva di aiuto.(18)

    Non c'è quindi da meravigliarsi se tutte le migliori intelligenze oggi ricolmano di lodi quella «Regola monastica che san Benedetto scrisse, eminente per discrezione e chiarissima per espressione»:(19) e che Ci piace qui commemorare brevemente in questo scritto, mettendo nella loro luce i suoi tratti essenziali, fiduciosi che ciò riuscirà gradito e utile non solamente alla numerosa famiglia del santo patriarca, ma anche a tutto il clero e al popolo cristiano.

    La comunità monastica è costituita e regolata in modo tale da rassomigliarsi a una famiglia cristiana, sulla quale l'abate, o cenobiarca; come padre di famiglia, governa e dalla cui paterna autorità tutti devono dipendere. «Abbiamo visto - così dice san Benedetto - che conviene per la conservazione della pace e della carità che il governo del monastero dipenda dalla volontà del suo abate».(20) Perciò a lui tutti e singoli per obbligo di coscienza devono religiosamente obbedire,(21) e riguardare e riverire nel medesimo la stessa divina autorità. Tuttavia colui che per incarico ricevuto prese a dirigere le anime dei monaci e a stimolarle verso la perfezione evangelica della vita, pensi e mediti con ogni diligenza che egli dovrà un giorno rendere conto delle medesime al Giudice supremo;(22) perciò in questo importantissimo obbligo si comporti in modo tale da meritarsi un giusto premio, «quando si farà la resa dei conti nel tremendo giudizio di Dio».(23) Inoltre tutte le volte che nel suo monastero dovranno decidersi affari di maggior importanza, raduni tutti i monaci e senta i loro pareri esposti liberamente e li prenda in serio esame prima di venire a quelle decisioni che sembreranno migliori.(24)

    Ma fin dal principio sorse una grave difficoltà e una scabrosa questione, quando si trattò dell'accettazione o del rimando dei candidati alla vita monastica. Confluivano infatti, per essere accettati nelle sacre mura, cittadini di ogni stirpe, nazione e ordine sociale: romani e barbari, liberi e schiavi, vinti e vincitori, e non pochi della nobiltà patrizia e dell'infima plebe. Benedetto sciolse e decise la delicata questione con animo generoso e fraterna carità: «Sia lo schiavo sia il libero - diceva - siamo in Cristo una cosa sola e sotto il medesimo Signore esercitiamo un eguale servizio militare... Quindi sia eguale... per tutti la carità; un medesimo ordine esteriore secondo i meriti si dimostri verso tutti».(25) A coloro che hanno abbracciato il suo istituto, comanda che «tutti i beni siano in comune per tutti»,(26) non per forza o per una certa costrizione, ma con spontanea e generosa volontà. Tutti inoltre siano trattenuti nella stabilità della vita religiosa tra le mura del monastero, in modo tale però da dover non solamente attendere alla divina salmodia e allo studio,(27) ma anche alla coltivazione dei campi,(28) ai mestieri manuali(29) e infine ai sacri lavori dell'apostolato. Infatti «l'ozio è il nemico dell'anima; e perciò in tempi determinati i fratelli devono essere occupati in lavori manuali...».(30) Tuttavia questa sia la prima legge per tutti, a questo si deve tendere con ogni cura e diligenza, che cioè «nulla sia anteposto alla lode divina».(31) Benché infatti «noi sappiamo che Dio è presente in ogni luogo.... tuttavia dobbiamo soprattutto credere questa verità senza il minimo dubbio quando stiamo compiendo il nostro lavoro della lode divina... Riflettiamo quindi in qual modo convenga stare al cospetto della Divinità e degli angeli, e rimaniamo a salmodiare in modo tale che la nostra mente accompagni la nostra voce».(32)

    In queste più importanti norme e sentenze, che Ci è parso bene in certo modo degustare dalla Regola benedettina, non solo Ci è dato di facilmente scorgere e apprezzare la prudenza della medesima regola monastica, la sua opportunità e quella mirabile corrispondenza e consonanza con la natura umana, ma anche la sua importanza e la sua somma elevatezza. Mentre in quel secolo barbaro e turbolento, la coltivazione dei campi, le arti meccaniche e nobili, gli studi delle scienze sacre e profane non godevano alcuna stima, ma erano da tutti deplorevolmente trascurati, nei monasteri benedettini andò crescendo una schiera quasi innumerevole di agricoltori, di artigiani e di uomini dotti che si sforzò secondo le sue possibilità non solo di conservare incolumi i prodotti della antica sapienza, ma richiamò anche alla pace, all'unione, a un'operosa attività popoli vecchi e giovani, spesso tra di sé belligeranti; e li ricoildusse felicemente dalla barbarie, che stava rinascendo, dalle devastazioni e dalle rapine a costumi di umana e cristiana mitezza, alla tolleranza della fatica, alla luce della verità e al rinnovamento della civiltà tra le nazioni, civiltà ispirata alla sapienza e all'amore.

    Ma ciò non è tutto: nell'Istituzione della vita benedettina è ordinato in primo luogo che ognuno, mentre con le mani o con la mente lavora, miri e tenda soprattutto a sollevarsi continuamente verso Cristo e ad infiammarsi del suo perfettissimo amore. Non possono infatti i beni di questo mondo, anche tutti insieme, saziare l'anima dell'uomo, che Dio ha creato per il suo conseguimento; ma essi hanno piuttosto dal loro Creatore la missione di muoverci e portarci, come gradini di una scala, al raggiungimento del medesimo Dio. Per questo è anzitutto indispensabile che «nulla venga preposto all'amore di Cristo»;(33) «che nulla si tenga più caro che Cristo»;(34) «che nulla assolutamente sia anteposto a Cristo, che ci conduce alla vita eterna».(35)

    A questa ardente carità verso il divin Redentore deve rispondere l'amore verso i prossimi, che dobbiamo abbracciare tutti come fratelli e con ogni mezzo aiutare. Mentre gli odi e le rivalità sollevano e spingono gli uomini gli uni contro gli altri; mentre rapine, stragi, infinite disgrazie e miserie profluiscono da quel torbido sconvolgimento di popoli e di eventi, Benedetto raccomanda ai suoi seguaci queste santissime leggi: «Si dimostri ogni cura e sollecitudine specialmente nell'ospitalità dei poveri e dei pellegrini, perché in essi maggiormente Cristo viene accolto».(36) «Tutti gli ospiti che arrivano siano accolti come Cristo, poiché egli un giorno dirà: Sono stato ospite e mi avete ricevuto».(37) «Prima di tutto e sopra tutto si deve avere cura dei malati, affinché così si serva ad essi, come si servirebbe allo stesso Cristo, poiché egli ha detto: sono stato infermo e mi avete visitato».(38) Così animato e sospinto da questa ardentissima carità verso Dio e il prossimo, condusse a termine e perfezionò la sua impresa; e quando già, pieno di gioia e di meriti, pregustava le aure celesti dell'eterna felicità, «il sesto giorno... prima del suo transito, si fece aprire la tomba. E assalito tosto dalla febbre, cominciò ad essere consumato da una ardente fiamma; aggravandosi di giorno in giorno questo languore, al sesto giorno si fece portare dai suoi discepoli nella chiesa, dove provvedutosi per il suo supremo viaggio col ricevere il corpo e il sangue del Signore, e sostenendo le affrante membra sulle braccia dei suoi figli, alzate le mani verso il cielo, stette immobile e mormorando ancora voci di preghiera emise l'ultimo respiro».(39)

    II.

    BENEMERENZE DI S. BENEDETTO
    E DEL SUO ORDINE PER LA CHIESA E LA CIVILTÀ


    Dopo che il santo patriarca con pio transito fu volato al cielo, l'ordine monastico che egli aveva fondato non solo non decadde né si sciolse, ma parve che, come era stato dal suo continuo esempio in ogni tempo nutrito, alimentato e formato, così anche ora fosse sorretto e fortificato dal suo celeste patrocinio, sì da prendere di anno in anno sempre maggiori sviluppi.

    Tutti coloro che studiano e giudicano gli avvenimenti umani con retto giudizio e non guidati da preconcetti, ma sui documenti della storia., devono riconoscere quanto grande sia stata l'efficacia e la forza esercitata dall'ordine benedettino in quella antica età, quanti e quanto grandi benefici siano derivati ai secoli che seguirono. Infatti i monaci benedettini oltre ad essere stati, come dicemmo, quasi gli unici in quell'oscuro periodo di storia, nell'ignoranza estrema degli uomini e nella rovina generale della società, a custodire intatti i codici delle scienze e delle lettere, a trascriverli con ogni diligenza e a commentarli, essi furono ancora dei primi ad esercitare e con ogni mezzo promuovere le arti, le scienze e l'insegnamento. Come la chiesa cattolica specialmente nei primi tre secoli della sua vita fu mirabilmente rafforzata e accresciuta col sangue sacro dei suoi martiri, e come nella medesima e susseguente epoca l'integrità della sua divina dottrina fu conservata pura e intatta contro le lotte e le perfidie degli eretici per la strenua e sapiente opera dei santi padri, così si può sicuramente affermare che l'ordine benedettino e i suoi fiorentissimi monasteri furono suscitati dalla sapienza e ispirazione divina precisamente perché, al crollo dell'impero romano e alle invasioni generali di popoli feroci spinti da furore guerresco, la cristianità potesse non solo riparare le sue perdite, ma anche, con un'operosità continua e instancabile, ricondurre nuovi popoli, mansuefatti dalla verità e dalla carità dell'evangelo, alla concordia fraterna, ad un lavoro redditizio, in una parola, alla virtù, che è regolata dagli insegnamenti del nostro Redentore e alimentata dalla sua grazia. Come invero nei secoli passati le legioni romane marciavano per le vie consolari per assoggettare all'impero di Roma tutte le nazioni, così ora numerose schiere di monaci, le cui armi «non sono carnali, ma potenti in Dio solo» (2Cor 10,4), sono inviate dal sommo pontefice, affinché dilatino felicemente il pacifico regno di Gesù Cristo fino agli estremi confini della terra, non con la spada, non con la forza, non con le stragi, ma con la croce e con l'aratro, con la verità e con l'amore.

    E dovunque ponevano il loro piede queste inermi schiere, formate di predicatori della dottrina cristiana, di artigiani, di agricoltori e di maestri di scienze umane e divine, ivi stesso le terre boscose e incolte erano solcate dall'aratro; sorgevano le sedi delle arti e delle scienze; gli abitanti dalla loro vita rozza e selvaggia erano educati alla convivenza e alla civiltà sociale, e si faceva brillare davanti a loro l'esempio della dottrina evangelica e la luce della virtù. Innumerevoli apostoli, accesi di soprannaturale carità, percorsero incognite e turbolente regioni d'Europa, le innaffiarono generosamente del loro sudore e del loro sangue, e ai popoli pacificati portarono la luce della cattolica verità e santità. Giustamente si può affermare che, per quanto Roma, adorna già di molte vittorie, avesse esteso la forza del suo dominio per terra e per mare, pure per mezzo di questi apostoli «fu meno quello che conquistò a Roma lo sforzo guerresco, di quello che le abbia assoggettato la pace cristiana».(40) Difatti non solo l'Inghilterra, la Francia, l'Olanda, la Frisia, la Danimarca, la Germania, la Scandinavia e l'Ungheria, ma anche non poche nazioni slaviche si vantano dell'apostolato di questi monaci e li annoverano tra le loro glorie e come gli illustri fondatori della loro civiltà. E dal loro ordine quanti vescovi sono usciti, i quali o ressero con sapiente governo diocesi già stabilite o non poche ne fondarono e fecondarono con le loro fatiche! Quanti maestri ed eccellenti dottori innalzarono famosissime cattedre di studi e di arti liberali, e non solo illuminarono le intelligenze di moltissimi, offuscate da errori, ma diedero ovunque forti impulsi alle scienze sacre e profane. Infine quanti santissimi uomini si segnalarono, i quali, aggregati alla famiglia, conquistarono con ogni sforzo la perfezione evangelica e con ogni industria propagarono il regno di Gesù Cristo, con l'esempio delle loro virtù, con la sacra predicazione e con mirabili prodigi che Dio concedeva loro di operare.

    Molti di questi monaci, come ben sapete, venerabili fratelli, o furono insigniti della dignità episcopale o anche rifulsero della maestà del sommo pontificato. I nomi di questi apostoli, vescovi, santi, sommi pontefici sono scritti a caratteri d'oro negli annali della chiesa e sarebbe lungo qui ricordarli ad uno ad uno; del resto, risplendono di sì vivida luce e hanno sì grande importanza nella storia da essere con ogni facilità conosciuti da tutti.

    III.

    INSEGNAMENTI DELLA «REGOLA BENEDETTINA»
    AL MONDO CONTEMPORANEO


    Stimiamo pertanto utili che questi pensieri, accennati appena alla sfuggita, siano durante queste commemorazioni secolari, meditati attentamente, e che tornino a brillare nella loro chiarissima luce davanti agli occhi del mondo, affinché tutti più facilmente imparino da essi non solo ad esaltare e lodare questi fasti gloriosi della chiesa, ma anche perché con volontà pronta e generosa si diano a seguire gli esempi e gli ammaestramenti di santità che da essi promanano.

    Non solamente le antiche età ebbero opportunità di ricevere infiniti vantaggi da questo grande patriarca e dal suo ordine, ma anche il nostro tempo deve imparare da lui molte e importanti lezioni. E primi di tutti - del che tuttavia non abbiamo il minimo dubbio - imparino i membri della sua numerosissima famiglia a seguirne le orme con impegno ogni giorno più intenso e a mettere in pratica nella propria vita la sua dottrina e gli esempi in virtù e in santità. Così sicuramente avverrà che, non solo corrispondano con animo generoso e con fertile operosità a quella voce celeste che, guidati da suprema vocazione, hanno seguìto quando abbracciarono la vita monastica e non solo si assicurino la serena pace della loro coscienza e soprattutto la loro eterna salvezza, ma seguirà pure che potranno impiegare con frutto abbondante le loro fatiche per il vantaggio generale del popolo cristiano e per la propagazione della gloria divina.

    Inoltre anche tutte le classi della società, se mireranno con sollecita e diligente attenzione alla vita di san Benedetto, ai suoi insegnamenti e ai suoi illustri esempi, si sentiranno certamente mosse dal suo spirito e dal suo impulso soavissimo e potentissimo; e riconosceranno facilmente che anche la nostra epoca, agitata e ansiosa per tante sì gravi rovine materiali e morali, per tanti pericoli e disastri, può da lui attendersi i necessari rimedi. Innanzi tutto, però, ricordino e considerino attentamente che le auguste basi della nostra religione e le norme di vita da essa dettate sono i più saldi e stabili fondamenti dell'umana società: se queste vengono sovvertite o indebolite, ne seguirà quasi necessariamente che tutto ciò che è ordine, pace, tranquillità di popoli e di nazioni vada gradatamente in rovina. Questa verità che la storia dell'ordine benedettino, come vedemmo, dimostra con tanta eloquenza, l'aveva compresa già nell'antichità pagana un sommo ingegno, quando preferiva questo giudizio: «Voi, pontefici ... con maggiore accortezza ... difendete la città con la religione, che non lo sia con le stesse mura».(41) E altrove il medesimo autore: «Tolta via (questa santità e religione), ne consegue disordine nella vita ed enorme confusione; e dubito fortemente che, dopo soppresso il rispetto verso gli dèi, non venga pure a scomparire la fedeltà e la convivenza dell'umana società e la più eccelsa di tutte le virtù, la giustizia».(42)

    Quindi il primo e principale dovere sia questo: rispettare il sommo Dio; osservare in pubblico e in privato le sue sante leggi: se queste saranno calpestate, non vi sarà più nessun potere al mondo che possegga tali freni con cui sufficientemente trattenere e moderare, secondo il diritto, le travolgenti bramosie dei popoli. La religione infatti è l'unica che abbia in sé le basi sicure della rettitudine e dell'onestà.

    Il nostro santo patriarca ci fornisce lezioni e stimoli anche in un'altra virtù di cui i nostri tempi sentono tanta necessità: che Dio, cioè, non solo deve essere onorato e adorato, ma anche con ardente carità amato come Padre. E poiché questa carità oggi si è miseramente intiepidita e illanguidita, ne consegue che moltissimi uomini cercano piuttosto i beni della terra che quelli del cielo; e questo con brama così violenta, che non di rado genera tumulti, semina rivalità e odi ferocissimi. Orbene, poiché Dio eterno è l'autore della nostra vita e da lui ci sono elargiti infiniti benefici, è stretto dovere per tutti l'amarlo con ardente carità e soprattutto dirigere e indirizzare a lui noi stessi e le nostre opere. Da questo divino amore deve nascere la fraterna carità verso i prossimi, i quali, di qualsiasi stirpe, nazione o classe siano, dobbiamo stimare tutti come fratelli in Gesù Cristo: cosicché di tutti i popoli e di tutte le classi della società si formi una sola famiglia cristiana, non divisa da un'esagerata ricerca della privata utilità, ma congiunta insieme amichevolmente dal vicendevole scambio di aiuti. Se questi insegnamenti, con i quali un tempo Benedetto illuminò, ristorò, rianimò e ridusse a migliori costumi la decadente e turbolenta società di quelle epoche, oggi pure fossero universalmente applicati e fiorissero, allora anche il nostro secolo potrebbe riparare le sue rovine materiali e morali, e portare le sue profonde piaghe a una pronta e perfetta guarigione.

    Oltre a questo ancora, venerabili fratelli, il legislatore dell'ordine benedettino ci insegna una verità che oggi molto volentieri si proclama altamente, ma troppo spesso non si pratica rettamente, come sarebbe conveniente e doveroso: che cioè il lavoro umano non è qualche cosa di ignobile, di odioso e molesto, ma che deve essere amato, come cosa dignitosa e gradita. Infatti la vita di lavoro, vissuta sia nel coltivare i campi, sia negli impieghi delle officine, sia anche nelle occupazioni intellettuali, non avvilisce gli animi, ma li nobilita; non li rende schiavi, ma giustamente li rende padroni e plasmatori di quelle sostanze che ci circondano e che faticosamente si maneggiano. Gesù stesso nella sua gioventù, quando ancora stava nascosto tra le mura domestiche, non disdegnò di esercitare il mestiere di falegname nell'officina del suo padre putativo e volle col suo sudore divino consacrare il lavoro umano. Quindi non solo coloro che attendono agli studi delle lettere e delle scienze, ma anche coloro che stanno sudando nei mestieri manuali per potersi guadagnare il loro pane quotidiano, riflettano che esercitano una cosa nobilissima, con cui sono in grado di provvedere al benessere di tutta la società civile. Questo lavoro tuttavia lo esercitino, come ci insegna il santo patriarca Benedetto, con la mente e con il cuore elevati verso il cielo; lo compiano non per forza, ma per amore; e infine anche quando difendono i loro legittimi diritti, lo facciano con maniere giuste e pacifiche, non con l'invidia alla fortuna altrui, non in modo scomposto e turbolento. Ricordino quella divina sentenza: «Mangerai il pane nel sudore della tua fronte» (Gn 3,19); questo comando dev'essere osservato da tutti gli uomini in spirito di obbedienza e di espiazione.

    Ma soprattutto non si dimentichino di questo: che noi dobbiamo, con uno sforzo sempre più intenso, dalle cose terrene e caduche, siano esse elaborate o scoperte con l'acume dell'ingegno, siano esse plasmate con arte faticosa, sollevarci a quei beni celesti e immortali; conquistati i quali potremo allora solamente godere vera pace, sereno riposo ed eterna felicità.

    IV.

    LA RICOSTRUZIONE DEL MONASTERO DI MONTECASSINO,
    DOVEROSO TRIBUTO DI RICONOSCENZA


    La guerra, quando nella recente conflagrazione raggiunse le spiagge della Campania e del Lazio, colpì in modo compassionevole, come ben sapete, venerabili fratelli, anche la sacra sommità del Monte Cassino; e per quanto Noi con ogni Nostro potere, pregando, esortando e supplicando, nulla avessimo tralasciato affinché non si arrecasse una così enorme ingiuria alla nostra santa religione, alle arti e alla stessa umana civiltà, pur tuttavia essa ha distrutto e annientato quella preclara sede di studi e di pietà che, quasi luce vincitrice delle tenebre, era emersa dalle onde dei secoli. Mentre città, borghi e villaggi tutt'intorno venivano ridotti a cumuli di rovine, parve che anche l'Archicenobio Cassinese, casa madre dell'ordine benedettino, volesse in certo modo partecipare al lutto dei suoi figli e condividerne le disgrazie. Di esso quasi null'altro rimane incolume se non il venerabile ipogeo, dove con ogni devozione sono conservati i resti mortali del santo patriarca.

    Al presente, ove prima risplendevano artistici monumenti, vi sono mura pericolanti, macerie e rovine, che gli sterpi miseramente ricoprono e soltanto una piccola dimora per i monaci è stata recentemente costruita nelle vicinanze. Ma perché non sarà lecito sperare che, mentre si commemora il XIV centenario da che il nostro santo conquistò la felicità celeste, dopo aver cominciato e condotto a termine impresa così grandiosa, perché - diciamo - non possiamo sperare che con il concorso di tutti i buoni, e specialmente dei più facoltosi e più generosi, venga al più presto restituito al suo primitivo splendore questo antichissimo archicenobio? Un tale atto di generosità è certamente dovuto verso san Benedetto da parte del mondo civile, che deve attribuire in gran parte al santo e alla sua operosa famiglia, se oggi risplende tanta luce di dottrina e possiede antichi documenti letterari. Confidiamo perciò che l'esito risponda felicemente alla Nostra speranza e ai Nostri voti; e questa impresa sia non solamente un dovere di ricostruzione e di riparazione, ma un auspicio pure di tempi migliori nei quali lo spirito dell'ordine benedettino e i suoi quanto mai opportuni insegnamenti vengano di giorno in giorno sempre più a rifiorire.

    Con questa soavissima speranza, ad ognuno di voi, venerabili fratelli, e al gregge alle cure di ciascuno affidato, come pure a tutt'intera la famiglia dei monaci che si gloria di questo grande legislatore, maestro e padre, con tutta l'effusione dell'animo impartiamo la benedizione apostolica, auspicio delle celesti grazie e testimonio della Nostra benevolenza.

    Roma, presso la Basilica di San Pietro, il 21 marzo, nella festa di san Benedetto, anno 1947, IX del Nostro pontificato.

    PIUS XII

    --------------------------------------------------------------------------

    (1) PIUS PP. XII, Litt. enc. Fulgens radiatur decimoquarto exacto saeculo a pientissimo S. Benedicti obitu, 21 martii 1947: AAS 39(1947), pp.137-155.

    I. L'incomparabile figura storica del patriarca: origine e primi orientamenti di s. Benedetto; a Subiaco; a Montecassino; preghiera e lavoro; vita di famiglia; fratelli in Cristo; il monastero benedettino piccolo «regno di Dio»; il suo pio transito. - II. Eccelse benemerenze di s. Benedetto e del suo ordine per la chiesa e la civiltà. - III. Insegnamenti della «Regola benedettina» al mondo contemporaneo. IV. La ricostruzione del monastero di Montecassino doveroso e generale tributo di riconoscenza.

    (2) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, Prol.: PL 66, 126.

    (3) Cf. CIC., De Off., II, 8.

    (4) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, Prol.: PL 66, 126.

    (5) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 8: PL 66, 150.

    (6) Cf. S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, Prol.: PL 66, 126.

    (7) SALVIANUS, De gub. mundi, VII, 1: PL 53, 130.

    (8) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, Prol.: PL 66, 126.

    (9) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 3: PL 66, 132.

    (10) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II; 3: PL 66, 140.

    (11) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 3: PL 66, 140.

    (12) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 8: PL 66, 148.

    (13) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 8: PL 66, 152.

    (14) PIUS X, Litt. apost. Archicoenobium Casinense, 10 febr. 1913: AAS 5(1913), p. 113.

    (15) S. THOMAS, Summa theol., II-II, q. 188, a. 6.

    (16) MABILLON, Annales Ord. S. Bened., Lucae 1739, t. I, p. 107.

    (17) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., III, 16: PL 77, 261.

    (18) Cf. BOSSUET, Panégirique de S. Benoît: Oeuvres compl., vol. XII, Paris 1863, p. 165.

    (19) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 36: PL 66, 200.

    (20) Reg. S. Benedicti, c. 65.

    (21) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 3.

    (22) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 2.

    (23) Reg. S. Benedicti, c. 2.

    (24) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 3.

    (25) Reg. S. Benedicti, c. 2.

    (26) Reg. S. Benedicti, c. 33.

    (27) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 48.

    (28) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 48.

    (29) Cf. Reg. S. Benedicti, c. 57.

    (30) Reg. S. Benedico, c. 48.

    (31) Reg. S. Benedicti, c. 43.

    (32) Reg. S. Benedico, c. 19.

    (33) Reg. S. Benedicti, c. 4.

    (34) Reg. S. Benedicti, c. 5.

    (35) Reg. S. Benedicti, c. 72.

    (36) Reg. S. Benedicti, c. 53.

    (37) Reg. S. Benedicti, c. 53.

    (38) Reg. S. Benedicti, c. 36.

    (39) S. GREGORIUS M., Lib. Dial., II, 37: PL 67, 202.

    (40) Cf. S. LEO M., Sermo I in natali Ap. Petri et Pauli: PL 54, 423.

    (41) CIC., De nat. Deor., II, c. 40.

    (42) CIC., De nat. Deor., I, c. 2.

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    Da dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, 868-872

    21 MARZO

    SAN BENEDETTO, ABATE


    Erano appena passati quaranta giorni da quando santa Scolastica volò nel più alto cielo, che Benedetto suo fratello saliva anche lui, per un luminoso cammino, al soggiorno che doveva riunirli per sempre. Il transito dell'uno e dell'altra alla patria celeste avvenne nel periodo che corrisponde, press'a poco ogni anno, al tempo di Quaresima; ma, mentre spesso capita che la festa della vergine Scolastica è già stata celebrata, quando comincia il corso della santa Quarantena, la solennità di Benedetto cade sempre nei giorni dedicati alla penitenza quaresimale. Il Signore, ch'è il maestro dei tempi, ha così voluto che i fedeli, durante gli esercizi della loro penitenza, avessero ogni anno sott'occhio un modello ed intercessore.

    Il Santo.

    Con quale profonda venerazione dobbiamo oggi avvicinarci a quest'uomo, del quale san Gregorio disse "che fu riempito dello spirito di tutti i giusti!" Se noi consideriamo le sue virtù, lo vediamo emulare tutto ciò che gli Annali della Chiesa ci mostrano di più santo: infatti la carità di Dio e del prossimo, l'umiltà, il dono della preghiera, il dominio su tutte le passioni ne fanno un capolavoro della grazia dello Spirito Santo. Segni prodigiosi infiorano l'intera sua vita: guarigioni dalle umane infermità, potere su tutte le forze della natura, impero sui demoni e persino la risurrezione dei morti. Lo Spirito profetico gli svela tutto l'avvenire, ed i pensieri più reconditi degli uomini nulla hanno da nascondere agli occhi del suo spirito. Ne vediamo l'impronta soprannaturale anche nella dolce maestà, nella serena gravità, in una carità compassionevole, che risplendono in ogni pagina della sua vita scritta da uno dei suoi discepoli il Papa san Gregorio Magno, che volle tramandare ai posteri tutto ciò che Dio si degnò profondere nel suo servo san Benedetto.

    Il Padre dell'Europa.

    I posteri infatti avevano il diritto di conoscere la storia e le virtù d'uno degli uomini, la cui influenza sulla Chiesa e sulla società fu una delle più salutari nel corso dei secoli. Per narrare le gesta di Benedetto bisognerebbe sfogliare gli annali di tutti i popoli dell'Occidente, dal VI secolo fino all'età moderna. Benedetto è il padre di tutta l'Europa; fu lui che, per mezzo dei suoi figli, numerosi come le stelle del cielo e l'arena del mare, rialzò i resti della società romana schiacciata dall'invasione dei barbari; presiedette al restauro del diritto pubblico e privato delle nazioni che rinacquero dopo la conquista; portò il Vangelo e la civiltà nell'Inghilterra, nella Germania, nei paesi nordici e persino fra i popoli slavi; avviò l'agricoltura, abbatté lo schiavismo, salvò il tesoro delle lettere e delle arti dal naufragio che le doveva inghiottire irrimediabilmente ed abbandonare l'umanità in preda alle tenebre.

    La sua Regola.

    Tutte meraviglie che Benedetto operò per mezzo della sua Regola. Questo codice meraviglioso di perfezione cristiana e di moderazione disciplinò legioni di monaci, tramite i quali il santo Patriarca compì tutti quei prodigi che abbiamo enumerati. Prima della promulgazione di questo libretto, l'elemento monastico, in Occidente, serviva solo alla santificazione di poche anime; chi poteva immaginarsi che sarebbe diventato il principale strumento della rinascita cristiana e della civiltà di tanti popoli? Pubblicata tale Regola, tutte le altre a poco a poco scomparvero davanti a lei, come le stelle che impallidiscono in cielo all'apparir del sole. L'Occidente rigurgita di monasteri, e di lì si diffondono per tutta l'Europa tutti quegli aiuti che ne fanno la parte più eletta del globo.

    La sua posterità.

    Una schiera immensa di santi e di sante, che riconoscono in Benedetto il loro padre, purifica e santifica la società ancora semi_selvaggia; una lunga teoria di sommi Pontefici, forgiati nei chiostri benedettini, regge le sorti del mondo rinnovato e gli moltiplica le istituzioni fondate unicamente sulla legge morale e destinate a neutralizzare la forza bruta, che senza di quelle avrebbe potuto prevalere; innumerevoli vescovi, educati alla scuola di Benedetto, introducono nelle province e nei paesi queste salutari prescrizioni; Apostoli di venti barbare nazioni affrontano popoli rozzi e feroci, portando in una mano il Vangelo e nell'altra la Regola del loro padre; per molti secoli, i sapienti, i dottori, gli educatori dell'infanzia appartengono quasi esclusivamente alla famiglia del grande Patriarca che, per mezzo loro, diffonde sulle generazioni una purissima luce. Quale eletta schiera intorno ad un sol uomo! Quale esercito di eroi di tutte le virtù, di Pontefici, d'Apostoli, di Dottori, che si proclamano suoi discepoli, e che oggi, si uniscono alla Chiesa tutta per dar gloria al sommo Signore, che con tanto splendore di santità e di potenza rifulse nella vita e nelle opere di Benedetto!

    VITA. - San Benedetto nacque a Norcia, verso l'anno 480. Ancor giovane, abbandonò il mondo e gli studi, vivendo per molti anni nel romitaggio di Subiaco. La fama della santità gli procurò innumerevoli discepoli, per i quali costruì diversi monasteri. Gli ultimi suoi anni li trascorse in quello di Monte Cassino, ove scrisse una Regola subito universalmente adottata dai monaci d'Occidente. Celebre per i miracoli, per il dono della profezia ed una mirabile sapienza, s'addormentò nel Signore verso il 547. La sua vita fu scritta da san Gregorio Magno. Dal 703 il suo corpo riposa nella chiesa di Fleury-sur-Loire, presso Orléans.

    Lode.

    Ti salutiamo con amore, o Benedetto! Qual dei mortali fu destinato ad operare sulla terra le meraviglie che tu compisti? Gesù Cristo ti ha incoronato come uno dei suoi principali cooperatori nell'opera salvifica e santificatrice degli uomini. Chi potrebbe enumerare le migliaia d'anime che devono a te la loro beatitudine, o perché santificati nel chiostro dalla tua Regola, o perché trovarono nello zelo dei tuoi figli il mezzo per conoscere e servire il Signore che ti prescelse? Attorno a te, nello splendore della gloria, una schiera immensa di beati, dopo Dio, è a te che si riconoscono debitori della loro eterna felicità; e sulla terra sono intere nazioni che professano la vera fede perché evangelizzate dai tuoi discepoli.

    Preghiera per l'Europa ...

    O Padre di tanti popoli, rivolgi lo sguardo sulla tua eredità e degnati di benedire ancora questa ingrata Europa che ti deve tutto e ha quasi dimenticato il tuo nome. La luce portata dai tuoi figli è impallidita; l'ardore col quale vivificarono le società da essi fondate e civilizzate con la Croce, s'è quasi estinto; triboli coprono gran parte il suolo nel quale gettarono il seme della salvezza: soccorri l'opera tua e con le tue preghiere mantieni in vita ciò che sta per morire. Consolida ciò che è stato squassato e fa' che una nuova Europa cattolica presto s'innalzi in luogo di quella creata dalle eresie e da tutte le false dottrine.

    ... per l'Ordine.

    O Patriarca dei Servi di Dio, dall'alto del cielo guarda la Vigna piantata dalle tue mani, e vedi in quale stato di deperimento è caduta. Un tempo, in questo giorno, il tuo nome era lodato come quello di un Padre in trenta mila monasteri, dalle coste del Baltico alle rive della Siria, dalla verde Erin alle steppe della Polonia: adesso non risuonano più che radi e flebili concerti, che salgono a te dal seno dell'immenso patrimonio che la fede e la gratitudine dei popoli ti aveva consacrato. Il vento bruciante dell'eresia ha divorato parte della tua messe, il resto è stato divorato dalla cupidigia, e da alcuni secoli a questa parte non hanno mai cessato le spoliazioni, o perché hanno avuto un'alleata nella politica, o perché han fatto ricorso alla aperta violenza. Tu, o Benedetto, sei stato detronizzato da parecchi santuari che per tanto tempo furono il principale focolare di vita e di luce per i popoli; ed ora la progenie dei tuoi figli s'è quasi spenta. Veglia, o Padre, sui tuoi ultimi rampolli. Secondo un'antica tradizione, un giorno il Signore ti rivelò che la tua figliolanza doveva perdurare sino agli ultimi giorni del mondo, che i tuoi figli si sarebbero battuti per il trionfo della santa Romana Chiesa e che, nelle estreme lotte della Chiesa, essi avrebbero confermata in molti la fede; degnati col tuo potente braccio proteggere i superstiti della famiglia che ti chiamano ancora Padre. Risollevala, moltiplicala, santificala, e fa' fiorire in essa lo spirito che hai impresso nella santa Regola, mostrando col tuo intervento che sei pur sempre il benedetto del Signore.

    ... per la Chiesa.

    Sostieni la santa madre Chiesa, o Benedetto, con la tua potente intercessione! Assisti la Sede Apostolica, tante volte occupata da figli tuoi. O padre di tanti Pastori di popoli, concedici Vescovi simili a quelli che la tua Regola ha formati; o Padre di tanti Apostoli, ottieni ai paesi infedeli inviati evangelici che trionfino con la parola e col sangue, come quelli che già uscirono dai tuoi chiostri. Padre di tanti Dottori, prega, affinché la scienza delle sacre Lettere rinasca per sovvenire alla Chiesa e confondere l'errore. Padre di tanti Asceti, rinfervora lo zelo della cristiana perfezione, che sta languendo nelle moderne cristianità. Patriarca della Religione in Occidente, vivifica tutti gli Ordini Religiosi che lo Spirito Santo continuò a dare alla Chiesa. Tutti guardano a te con rispetto, come al loro venerabile antenato: spandi dunque su tutti loro l'influsso della tua paterna carità.

    ... per tutti i fedeli.

    Finalmente, o Benedetto, amico di Dio, prega per i fedeli di Cristo, in questi giorni votati ai sentimenti e alle opere di penitenza. Incoraggiali coi tuoi esempi ed i tuoi precetti; fa' ch'essi da te apprendano a vincere la carne e a sottometterla allo spirito, a cercare come te il ritiro, per meditarvi l'eternità, e a distaccare il cuore e la mente dalle gioie passeggere del mondo. La pietà cattolica t'invoca come uno dei patroni e dei modelli del cristiano morente, ricordandosi dello spettacolo che offristi, quando, ritto ai piedi dell'altare, sostenuto dalle braccia dei tuoi discepoli, coi piedi appena appoggiati alla terra, rendesti l'anima al Creatore, rassegnata e confidente. Ottieni anche a noi, o Benedetto, una morte tranquilla come la tua, allontanando in quel supremo istante tutte le insidie del nemico, visitandoci con la tua presenza e non lasciandoci sin che non abbiamo esalato lo spirito in seno a quel Dio che ti ha incoronato.

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    BENEDETTO XVI

    ANGELUS


    Domenica 10 luglio 2005

    Cari fratelli e sorelle!

    Domani ricorre la festa di San Benedetto Abate, Patrono d’Europa, un Santo a me particolarmente caro, come si può intuire dalla scelta che ho fatto del suo nome. Nato a Norcia intorno al 480, Benedetto compì i primi studi a Roma ma, deluso dalla vita della città, si ritirò a Subiaco, dove rimase per circa tre anni in una grotta - il celebre "sacro speco" – dedicandosi interamente a Dio. A Subiaco, avvalendosi dei ruderi di una ciclopica villa dell’imperatore Nerone, egli, insieme ai suoi primi discepoli, costruì alcuni monasteri dando vita ad una comunità fraterna fondata sul primato dell’amore di Cristo, nella quale la preghiera e il lavoro si alternavano armonicamente a lode di Dio. Alcuni anni dopo, a Montecassino, diede forma compiuta a questo progetto, e lo mise per iscritto nella "Regola", unica sua opera a noi pervenuta. Tra le ceneri dell’Impero Romano, Benedetto, cercando prima di tutto il Regno di Dio, gettò, forse senza neppure rendersene conto, il seme di una nuova civiltà che si sarebbe sviluppata, integrando i valori cristiani con l’eredità classica, da una parte, e le culture germanica e slava, dall’altra.

    C’è un aspetto tipico della sua spiritualità, che quest’oggi vorrei particolarmente sottolineare. Benedetto non fondò un’istituzione monastica finalizzata principalmente all’evangelizzazione dei popoli barbari, come altri grandi monaci missionari dell’epoca, ma indicò ai suoi seguaci come scopo fondamentale, anzi unico, dell’esistenza la ricerca di Dio: "Quaerere Deum". Egli sapeva, però, che quando il credente entra in relazione profonda con Dio non può accontentarsi di vivere in modo mediocre all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale. Si comprende, in questa luce, allora meglio l’espressione che Benedetto trasse da san Cipriano e che sintetizza nella sua Regola (IV, 21) il programma di vita dei monaci: "Nihil amori Christi praeponere", "Niente anteporre all’amore di Cristo". In questo consiste la santità, proposta valida per ogni cristiano e diventata una vera urgenza pastorale in questa nostra epoca in cui si avverte il bisogno di ancorare la vita e la storia a saldi riferimenti spirituali.

    Modello sublime e perfetto di santità è Maria Santissima, che ha vissuto in costante e profonda comunione con Cristo. Invochiamo la sua intercessione, insieme a quella di san Benedetto, perché il Signore moltiplichi anche nella nostra epoca uomini e donne che, attraverso una fede illuminata, testimoniata nella vita, siano in questo nuovo millennio sale della terra e luce del mondo.

 

 
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