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    Mjollnir
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    Post La religione romana nella storiografia recente

    Tratto da: B. Di Dario, La via romana al Divino. Ar, Padova 2001. Appendice, pg. 147-154

    Ancor oggi la religione romana è tra quelle meno comprese e meno conosciute nei suoi caratteri essenziali
    (A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni. pg. 216)



    La storia della religione romana ha di che sorprendere un profano : così esordisce John Scheid nel suo studio sulla religione a Roma (1). Ed effettivamente sulla comprensione della religione romana hanno pesato a lungo e continuano talora a pesare, in particolar modo in Italia, gravi quanto obsoleti pregiudizi, inaspriti da un inveterato atteggiamento etnocentrico ma soprattutto cristianocentrico.
    Secondo l'interpretazione in auge fino agli inizi del Novecento, ma che è ancora possibile rinvenire in opere di consultazione, trattazioni manualistiche e testi scolastici, la religione dei Romani - che pure si proclamavano ed erano considerati il popolo più religioso della terra ! - si sarebbe risolta in un vuoto formalismo a base contrattuale, in una serie di celebrazioni scrupolose ed esterioristiche del tutto prive di "contenuto spirituale". Una simile religione, ignara della vera devozione, della religiosità interiore e del nesso mistico tra individuo e divinità, sarebbe poi stata caratterizzata da un animismo e da un naturalismo, con la conseguente personificazione o divinizzazione delle forze della natura. Ad essa per di più sarebbe mancato quel variopinto corredo di "favole" con cui la fantasia mitologizzante e affabulatrice dei Greci aveva saputo abbellire contenuti tanto aridi e spiritualmente poveri.
    Giustamente Scheid fa osservare che allo studioso toccava quasi scusare il proprio interessamento per questa non-religione. Ancora nel 1955 Bayet affermava che :

    Gli antichi Romani si vantavano di essere il popolo più religioso, ma noi stentiamo a crederlo e siamo addirittura indotti a ritenere che quello che ora , in un dato contesto, si chiama religione, ne meriterebbe a stento il nome altrove, in un contesto mutato. (2)

    Il pregiudizio cristianocentrico, dal canto suo, portando a non tenere conto del significato che il termine religione assume nel mondo romano, e paragonando questo termine a quello che è il sentimento religioso in un paese cristiano, assunto quale unico (e spesso "superiore") criterio di riferimento e di giudizio, ha fatto vedere nel ritualismo romano una carenza religiosa o quantomeno una mediocre realizzazione della vera religiosità. Scheid individua il nucleo del problema, osservando che

    Quando parliamo di religione a Roma, si tratta di qualcosa di deludente, per esempio per un occidentale cristiano, di qualcosa che si avvicina in un certo senso ad un comportamento scorretto (3).

    L'improprietà di simili approcci ha fatto sì che ancor oggi numerose trattazioni manualistiche si riducano ad una mera elencazione di divinità, riti e miti.
    Fortunatamente già intorno agli anni Trenta le ricerche dello studioso francese Georges Dumezil sono state in grado di imprimere un forte e positivo impulso allo studio ed alla reale comprensione delle caratteristiche proprie all'arcaica religiosità romana. La situazione in quegli anni era tale che nonostante una fiorente produzione, le ricerche relative agli avvii della religione romana si trovavano allora ad un punto morto (4). All'interno degli studi sulla religione romana si scontravano o convergevano allora 3 tendenze: quella storica, quella positiva e quella primitivista. La storia della religione romana restava legata ad un rigido e sprezzante positivismo, fortemente scettico riguardo alla produzione annalistica ed ai dati della tradizione. Un Piganiol - che tanta parte abbiamo visto ricoprire nella costruzione di Evola - ancora descrive la religione romana qualificando gli Dèi come energie e affermando che ogni attività ha il suo dio (5). Giustamente Scheid osserva che

    sotto questo linguaggio ingenuo e paternalista, si intuisce una forte irritazione ed insieme una certa induglenza verso questi Romani, certo pii ma senza una "vera" religione. Quel rozzo contadino rappresentava e doveva rappresentare, nella prospettiva esclusivamente evoluzionistica di allora, il sano e robusto terreno su cui il pensiero greco e poi la spiritualità cristiana avrebbero un giorno trapiantato le idee religiose o filosofiche dell'occidente moderno (6).

    I lavori più importanti dell'epoca, le cui impostazioni in una certa misura si differenziavano dalle tesi predominanti, erano quelli di Rose e Altheim, i quali tuttavia superavano di poco quanto fatto da Wissowa ad inizio secolo col suo Religion und Kultus der Römer (7). D'altro canto, se il primo avallava il primitivismo romano, Altheim ipotizzava una precoce nobilitazione greca. Per l'interpretazione religiosa vera e propria, entrambi si rifacevano poi a concezioni molto invecchiate. Così ad es. Altheim spiegava le strutture religiose con preistoriche elaborazioni sulla natura: Giove sarebbe stato il dio del Cielo e del Sole, Marte il dio-toro o il dio-lupo. Rose dal canto suo, identificando il numen al mana, prospettava una evoluzione dal numen al deus, per cui all'inizio Marte non sarebbe stato che una lancia "carica di mana". (8)

    Dopo i lavori di Dumezil, simili impostazioni non possono più trovare campo nella storia della religione romana. Piuttosto che ricercare l'origine del sentimento religioso o soffermarsi sull'esame di una singola divinità, fin dall'inizio egli ha individuato le rappresentazioni che strutturavano la sfera religiosa romana. Partendo dalla famosa considerazione che l'uomo, per primitivo che sembri, dal momento che pensa, pensa per sistemi e che ogni religione è in primo luogo un sistema, Dumezil è andato alla ricerca delle articolazioni fondamentali della religione romana, cercando di analizzare i rapporti fra i vari elementi del sistema (9). Dumezil traeva le sue ragioni in primo luogo dalle analoghe rappresentazioni di altre società indoeuropee. Applicando al contesto indoeuropeo il metodo comparativo, è riuscito a scoprire l'esistenza del famoso modello della tripartizione funzionale indoeuropea. Il mondo può "funzionare" solo quando queste 3 funzioni - la sovranità, nei 2 aspetti magico e giuridico, la forza guerriera e la fecondità e produzione materiale - collaborano strettamente ed armoniosamente. Una simile tripartizione, estendendosi anche al sacro, costituiva per Dumezil la stessa chiave di volta dell'architettura dei pantheon. In tal modo egli ha potuto applicarne il modello all'analisi della triade precapitolina, mostrando che gli Dèi che la compongono - Giove, Marte e Quirino - governano la loro zona rispettiva, ed esclusivamente quella, agendo in conformità alla loro funzione. (10)
    Con grande scandalo di filologi e storici, Dumezil trovava poi le proprie conferme anche in fonti diverse dai documenti propriamente religiosi, rivalutando ad esempio il mito, il rito e l'epopea. (11) Scheid ritiene che il merito principale di Dumezil sia stato quello di avere preso sul serio i Romani e di avere dimostrato come la loro religione costituisse, prima dell'ellenizzazione e della cristianizzazione, un sistema coerente. (12)

    In ogni caso, anche se oggi l'ideologia trifunzionale è famosa, ed è possibile ritrovarla in varie trattazioni manualistiche, molto meno noto è tuttavia il lavoro svolto da Dumezil nell'ambito della religione romana in generale (13).
    Un importante contributo alla storia della religione romana è venuto anche dall'Italia, grazie a studioso come Angelo Brelich, Dario Sabbatucci e Giulia Piccaluga, ed a una pubblicazione come Studi e materiali di storia delle religioni. (14) Al primo di questi autori si deve un approccio davvero innovativo nel campo degli studi sulla religione romana. Grazie alla sua impostazione, la stessa produzione annalistica è sottoposta ad una lettura storico-religiosa e l'accento viene posto sulla coincidenza del racconto mitico con quello storico. Nella 2° edizione del suo Tre variazioni romane sul tema delle origini, il quale costituisce anche il primo lavoro frutto del nuovo approccio, è presente una considerevole enunciazione di metodo (15). Brelich sottolinea la necessità di far uscire la religione romana dall'isolamento in cui è stata posta negli studi storico-religiosi, sottoponendola ad una + vasta comparazione, ma facendo al tempo stesso attenzione a mettere in rilievo quanto di essa sia specificamente romano. Lo scopo della comparazione dovrebbe essere proprio quello di enucleare e studiare l'unicità e l'originalità di questo elemento, delineando la specificità dell'idea romana del divino. (16)

    Parlando del Brelich, bisogna anche accennare alla vexata quaestio dell'assenza o presenza del mito a Roma. In realtà, o in apparenza, Roma non sembra conoscere una mitologia. Questa presunta assenza è stata spiegata nei modi più diversi, prospettando la possibilità di una intenzionale, o anche - storicamente - col brusco passaggio alla civiltà urbana, in un periodo in cui, mancando di arte plastica e poesia, Roma non sarebbe stata in grado di fissare i propri miti. L-attività annalistica dei pontefici avrebbe dato precoce sistemazione al patrimonio romano, demitizzando il passato mitico, che veniva storificato e consegnato al presente. L'applicazione del metodo comparativo ha tuttavia offerto una risposta diversa a siffatta questione, mostrando come le narrazioni "fantastiche" comunque presenti nel patrimonio tradizionale romano (anche se ritenute "storiche") presentino tratti e tipologie riconducibili a modelli mitologici. Per via del suo polimorfismo, il mito assume la sua forma a Roma in rappresentazioni storico-nazionali. Abbiamo visto fra l'altro Dumezil applicare a questi racconti il modello dell'ideologia indoeuropea. (17) Ma è lo stesso Brelich a far notare che

    il politeismo, di per sé, non ha bisogno di miti: sono gli Dèi presenti, e non gli accadimenti primordiali a garantire e dar senso alla realtà. (18)

    Un interessante quanto sintetico contributo alla reale comprensione della religione romana è venuto ancora una volta dalla Francia, ad opera del già citato John Scheid, che con il suo La religione a Roma ha posto l'accento sulla religione romana quale religione dei cives romani. Il suo approccio storico-religioso rivolge l'attenzione alla comunità umana nella sua concreta e storica attività religiosa. É il romano, nella pratica della attività religiosa, a costituire il centro dell'interesse di Scheid. Egli ritiene la religione romana caratterizzata da 2 elementi:
    1. l'essere una religione sociale;
    2. l'essere una religione costituita da atti di culto.


    Quanto al primo elemento, essa è una religione sociale perchè, come numerose religioni del mondo antico, risulta praticata dall'uomo in quanto membro di una comunità e non in quanto singolo individuo. Una religione quindi etnica poiché non ci si converte ad essa, ma la si osserva in quanto si nasce "romani"; essa esiste pertanto solo a Roma o dove sono i Romani. La vita religiosa del romano si svolge nella famiglia, nell'associazione professionale o di culto, e soprattutto nella comunità politica. Già Boyancé aveva fatto notare che nella religione romana

    lo Stato è per l'individuo il tramite naturale tra sé stesso e le divinità (19).

    Per Scheid il punto fondamentale è che a Roma l'elemento religioso è consustanziale a quello politico, anche se su un piano gerarchico, il religioso viene prima del politico e lo fonda (20). Il senso predominante della devozione romana è del resto costituito dalla volontà di garantire la salvezza della res publica tramite la scrupolosa osservanza della tradizione, del mos, in quanto la civitas solo mostrandosi rispettosa verso gli Dèi può ritenere assicurata la propria fortuna. Ed è possibile anche il discorso inverso: la necessità e la legittimazione razionale della pratica religiosa vengono dedotte da un argomento storico ed immanente, la straordinaria potenza della pia Roma. La potenza storica di Roma è il segno tangibile che convalida la necessità dell'attività religiosa, il suo essere fas. (21)

    Il secondo elemento essenziale della religione romana individuato da Scheid, lo abbiamo visto, è il suo essere una religione costituita da atti di culto: egli vede questo carattere perfettamente esplicato dalla formula di Cicerone: religio, id est cultus deorum. Questo complesso di riti tramandato dalla tradizione è praticato e conservato scrupolosamente: l'errore religioso dell'individuo, che infrange i precetti del culto, comporta per la comunità, sempre che essa assuma pubblicamente un simile errore, la rottura della pax deorum. E ciò mette in luce un ulteriore aspetto: l'insieme dei riti e dei culti trasmesso dalla tradizione traduce per Scheid una visione del mondo, e permette al romano di aderire alle grandi rappresentazioni dei suoi significati; l'alterare o il disturbare in qualche modo lo svolgimento del rito, equivale ad interferire nella corretta espressione di questa visione del mondo.
    In ultima analisi, la religione romana tradizionale è

    un insieme coerente di riti accuratamente codificati, praticati su un piano strettamente comunitario, che traduce e suscita una visione globale del mondo (22)

  2. #2
    zilath mexl rasnal
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    Predefinito Sua cuique civitati religio

    da ARTHOS (n.s.) n. 10


    FRANCESCO SINI, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Giappichelli Torino 2001, pp. 356. Euro 30,99.

    Ci sono autori del cosiddetto mondo accademico le cui opere i lettori della nostra rivista sarebbe bene che conoscessero ed i cui libri non dovrebbero mancare nelle biblioteche dei cultori della tradizione romana, uno di questi è senz’altro Francesco Sini. Autore del quale ci piace, tra gli altri, ricordare Documenti sacerdotali di Roma antica (Dessì, Sassari 1983, pp. 234) e Bellum nefandum. Virgilio e il problema del 'diritto internazionale antico' (Dessì, Sassari 1991, pp. 304). Sini(1), professore ordinario di Storia del diritto romano nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, benché sia uno specialista non è chiuso nel suo particolare né un arido citatore di “testi” ma, profondo conoscitore anche di autori come il comparatista Dumézil e storici delle religioni come Sabbatucci, Piccaluga e Montanari, riesce a vivificare la religione romana di propria luce tramite i documenti.
    Nel presente volume Sini raccoglie cinque dei suoi lavori più recenti - alcuni dei quali avevamo avuto il piacere di poter leggere come estratti dagli Atti dei relativi Seminari e che speravamo potessero avere un maggiore pubblico - dedicate a problematiche significative della religione romana e del diritto pubblico di Roma.
    Già nel titolo, citando Cicerone (Pro Flacco 28), l’Autore ha voluto ricordare che “il solo principio religioso accettato e rispettato dai Romani, e dalla maggior parte delle altre organizzazioni politiche del mondo antico, era il principio politeistico e multireligioso: sua cuique civitati religio, Laeli, est nostra nobis” (p. 4).
    “Per comprendere appieno la religione politeista romana, risultano del tutto inadeguati – afferma giustamente il Sini e non possiamo che sottoscrivere – concetti moderni come “ostilità naturale”, “libertà individuale”, “isolamento”, “laicizzazione”; né appare metodologicamente corretto assumere a parametri d’indagine categorie quali “tolleranza” o “intolleranza”, sebbene la dottrina più recente sostenga, quasi all’unanimità, la tesi che la religione romana sia stata nel complesso una religione tollerante. Era piuttosto la concezione teologica (e giuridica) di pax deorum a garantire di fatto la “libertà religiosa”: dovendosi salvaguardare il diritto di ciascun Dio ad avere il proprio culto, si legittimava contestualmente il diritto del singolo di adorare la divinità secondo la propria coscienza e nelle forme che a lui sembravano necessarie. Grazie a questa peculiare concezione della pax deorum, la religione politeista romana fu in grado di far coesistere nel suo ambito sia le esigenze cultuali particolaristiche del popolo romano (cioè, legate a tempi e luoghi determinati), sia le ten-sioni universalistiche della teologia sacerdotale e dello ius divinum” (pp. XI-XII).
    Il primo capitolo è dedicato ad universalismo e “tolleranza” nella religione romana: del resto il rispetto per gli Dèi di tutti i popoli del mondo era considerato una caratteristica peculiare della religione e dell’Impero romani. Non a caso “teologia e ius divinum spiegavano che la volontà degli dèi aveva concorso alla fondazione dell’Urbs Roma; ne aveva sostenuto la prodigiosa e costante “crescita” (….) infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la sua estensione sine fine (pp. 7-8).
    Tuttavia la tolleranza romana aveva un limite invalicabile nelle superstitiones: “Era superstitio ogni religione che implicasse un timore eccessivo degli dèi, particolarmente pericolosa poi se il culto suscitava forti emozioni (morbus animi) e se i fedeli si riunivano in privato o di notte” (pp. 60-61).
    L’attendibilità e la rilevanza della tradizione documentaria degli archivi dei grandi collegi sacerdotali romani che costituiscono il nucleo più risalente e affidabile della storiografia latina, sono discusse nel secondo capitolo, dove sono ricordati i sacerdoti che “con prassi documentaristica costante e minuziosa registravano gli atti significativi del loro operare quotidiano, procedevano nel contempo all’aggiornamento linguistico dei testi riguardanti regole rituali e forme di culto. Così, di generazione in generazione, si vennero accumulando negli archivi sacerdotali numerosi documenti – per la maggior parte costituiti da decreta e responsa – che attraverso revisioni e sistemazioni periodiche pervennero sostanzialmente integri ai sacerdoti-giuristi e agli antiquari degli ultimi due secoli dell’età repubblicana” (pp. 82-83).
    L’importanza delle formule religiose nel mondo romano può essere riassunta con quanto è affermato del carmen Arvale(2): “Questo vetustissimo carmen, l’unico che, per una fortunata combinazione, siamo in grado di leggere in forma assai vicina a quella originaria, conferma l’antichità dell’impiego della scrittura a scopo rituale da parte dei sacerdoti romani; testimonia inoltre la persistenza tenace delle forme arcaiche, sia nelle pratiche cultuali, sia nel linguaggio religioso. La religione romana tradizionale, nel corso della sua storia secolare, ha sempre condizionato la validità di un rito, o l’efficacia di una formula, all’esatta pronuncia delle parole solenni, al preciso compimento degli atti prescritti. I sacerdoti, a differenza di antiquari e annalisti, in genere rifuggivano dall’attualizzare gli antichi documenti giuridico-religiosi nella forma linguistica; anche col rischio di non comprendere, come è stato già detto, gli antichissimi carmina che recitavano per i propri culti” (pp. 121-122).
    E proprio agli aspetti giuridici ed alle problematiche rituali della religione romana nonché alle interpretationes sacerdotali è dedicato il terzo capitolo. L’Autore parte dall’ultima codifica contro “de paganis sacrificiis et templis” promulgata da Giustiniano nel 534 dell’e. v. per affermare che “si tratta, a ben vedere, di una attestazione autorevolissima, quanto involontaria, della sotterranea e tenace resistenza di sentimenti religiosi popolari, che avevano bisogno per esprimersi delle pratiche cultuali elaborate dall’antica religione politeista romana” (p. 160).
    Questo, come il successivo quarto capitolo dedicato alla negazione di frase, che caratterizza in maniera tipica il linguaggio precettivo dei sacerdoti romani, sono talmente ricchi di materiale raccolto ed esaminato con la sua consueta abilità da Sini, che farne una cernita ci sembrava riduttivo, ma ne caldeggiamo la lettura diretta.
    Forse di contenuto più specialistico, ma di non meno utile lettura, è il quinto capitolo dedicato allo studio di alcune interpretazioni degli antichi giureconsulti romani intorno all’inviolabilità dei tribuni e degli edili della plebe; tema assai controverso e, tuttavia, cruciale per la comprensione della “divisione dei poteri” nel sistema giuridico-religioso romano.
    L’Autore, nella prefazione, è conscio di aver raccolto saggi che “risultano assai diversi per tempi di elaborazione e per occasioni di ricerca” (p. XVI); in qualche caso sono stati trattati i medesimi argomenti, ma mai come adesso troviamo giusto affermare: repetita iuvant. Senz’altro i risultati conseguiti hanno trasceso le esigenze contingenti che avevano determinato quelle occasioni di ricerca.


    MARIO ENZO MIGLIORI


    1 Per una completa biblio-biografia vedi in internet al seguente indirizzo: http://www.dirittoestoria.it/redazione/sini.htm.

    2 Su i fratelli Arvali vedi IDA PALADINO, Fratres Arvales. Storia di un collegio sacerdotale romano, “L’Erma” di Bretschneider, Roma 1988, cfr. anche RENATO DEL PONTE, «e nos Lases iuuate». I Lari nel sistema spazio-temporale romano, relazione presentata al XXII Seminario Inter-nazionale di Studi Storici “Da Roma alla terza Roma” (Campidoglio, 21-23 Aprile 2002), pubblicata nel presente numero di “Arthos”.

 

 

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