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    Thumbs up Gli articoli di Gilberto......

    ROMA (LADRONA) DOMA

    Garibaldi: «La corruzione nei plebisciti,
    nella Camera, nei ministeri, nei tribunali fu alzata a sistema di governo». E un giovane Mussolini scrisse: «Roma è il focolare d’infezione della vita politica nazionale. Basta con lo stupido pregiudizio unitario per cui tutto dev’essere concentrato in Roma»

    Dai giorni per qualcuno gloriosi del Risorgimento, la popolazione dello stivale è poco più che raddoppiata (di 2,24 volte). Nello stesso periodo, Napoli - che era a metà Ottocento la città più popolosa della penisola - aveva 416.000 abitanti: oggi (censimento 2001) ne ha 1.005.000 ed è perciò aumentata di 2,52 volte. Milano e Torino ne avevano rispettivamente 181.000 e 143.000 e oggi 1.302.000 e 905.000, con aumenti di 7,19 e di 6,33 volte. Nel 1853 Roma aveva 175.000 abitanti, oggi ne ha 2.460.000 ed è cresciuta di 14,05 volte, il doppio di Milano. Tutte le città si sono ingrandite molto più rapidamente in numero di abitanti rispetto alle percentuali complessive a causa del generalizzato inurbamento che ha caratterizzato la storia mondiale dell’ultimo secolo. Sembra fare eccezione Napoli che non ha particolari attrattive economiche, che è salassata dall’emigrazione e il cui aumento sembra solo frutto dell’esuberanza testosteronica (con una sola erre) di cui i partenopei vanno notoriamente molto orgogliosi. Milano e Torino sono invece cresciute grazie al loro prodigioso sviluppo economico e alla grande richiesta di forza lavoro che, l’industria prima e il terziario, poi hanno espresso.E Roma? A cosa deve la sua prodigiosa espansione? A Roma non ci sono industrie, non c’è offerta di lavoro (almeno nel senso stretto del termine), eppure la città è cresciuta più di tutte le altre e continua a farlo. Per secoli a Roma ci si andava solo a fare i chierichetti (i “cergeti” di un noto proverbio ligure), i preti e le “segnorine” necessarie per un pio ma esuberante mercato di singles. Oggi la professione dei chierichetti è molto decaduta, la vocazione a fare il prete è in rapido calo (a fronte del vorticoso aumento dei cardinali) e anche le fanciulle più generose hanno cambiato status e variegato le formule della loro offerta professionale. Così oggi a Roma si va per fare le veline, per zampettare in Rai, a Cinecittà o nell’Alitalia, si va per fare i giornalisti, i portavoce, i giocolieri, i consulenti e gli impiegati ai ministeri, cioè di tutto, salvo che lavorare. In generale l’essere capitale rende (anche più del capitale): è successo a Parigi e a Londra, e più recentemente a Brasilia, Islamabad, Abu Dhabi e a Bujumbura. Ma Roma è la sola città che ha l’eterna vocazione a fare la capitale: dell’Impero, dei Papi e della gaia Repubblica. La menata dura da 2.757 anni, e allegramente: la prima Roma aveva più di 200 giorni all’anno di feste, che non erano giorni di non-lavoro (cosa che non avrebbe costituito alcuna tangibile differenza) ma di distribuzione gratuita di grano e di gioiosi giochi circensi, molti dei quali non proprio commendevoli sul piano dei buoni rapporti col resto del mondo animale. Neanche i Papi della seconda Roma si tiravano indietro: feste in piazza Navona allagata, bisbocce sacre e profane, raffinato collezionismo artistico e antiquario. La terza Roma non ha giustamente voluto essere da meno: drena soldi da tutte le parti come le altre due, senza però graziosamente trasformarli in monumenti, eserciti, basiliche, giubilei e indulgenze. Se li mangia e basta, lasciando cadere qualche briciola verso Sud, giusto per tenere la gente tranquilla, come si usava al Colosseo.È una città che somiglia sempre solo a se stessa. Cambiano tempi e regimi ma lei resta un’efficiente idrovora di risorse che riesce a guastare tutto quello con cui viene in contatto. Tutti quelli, anche per bene, che ci sono caduti dentro - generali barbari, cardinali ispirati, riformatori politici - sono diventati romani: l’hanno scampata solo quelli (Lutero, San Carlo e pochi altri) che se la sono squagliata per tempo. Non si sono salvati i risorgimentalisti onesti, naufragati subito nella Banca Romana (Garibaldi ha scritto: «La corruzione dei pubblicisti, nei plebisciti, nei collegi elettorali, nella Camera, nei ministeri, nei tribunali (…) fu alzata a sistema di governo»), non i fascisti padani impaltati nel Tevere, non il Vento del Nord del 1945.Oggi qualcuno si scandalizza perché si parla di “Roma ladrona”. È un’accusa (quasi) trimillenaria giustificata da un fare (quasi) trimillenario, che suscita reazioni (quasi) trimillenarie: ve lo ricordate il “ratto delle Sabine”? Nel 968 Liutprando, vescovo di Cremona, spiegava all’imperatore Niceforo Foca come l’epiteto di “romano” fosse presso la sua gente il peggiore degli insulti, perché comprendeva «ogni idea di ignobiltà, avarizia, lussuria, menzogna e di ogni altro vizio» («quicquid ignobilitatis, quicquid avaritiae, quicquid luxuriae, quicquid mendacii, immo quicquid vitiorum est»). Non hanno detto di meglio Lutero (che la identificava con la Babilonia dell’Apocalisse) e i riformati (Ulrich van Hutten ha scritto nel suo Vadiscus che le sole ragioni per recarsi a Roma erano la vana curiosità, la lusinga del guadagno e il desiderio di condurre una vita licenziosa); Nathaniel Hawthorne ha descritto Roma come: «un luogo dove i delitti e le calamità secolari, le molte battaglie, il sangue versato con noncuranza e le miriadi di morti hanno corrotto tutto il suolo determinando un influsso che rende l’aria pestifera ai polmoni dell’uomo». Nel 1910, su Lotta di classe, l’ancora socialista Mussolini scriveva: «Roma, città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati, Roma - città senza proletariato degno di questo nome - non è il centro della vita politica nazionale, ma sibbene il centro e il focolare d’infezione della vita politica nazionale (…). Basta, dunque, con lo stupido pregiudizio unitario per cui tutto, tutto, tutto dev’essere concentrato in Roma - in questa enorme città-vampiro che succhia il miglior sangue della nazione».Sappiamo poi come è andata a finire (“Roma doma”): come tanti altri anche Mussolini, che pur veniva da un paese sano e ricco di anticorpi, è stato corroso dai miasmi dell’Urbe. Publio Fiori, Walter Veltroni e Francesco Rutelli ci sono nati.

    Gilberto Oneto 13 APRILE 2004 "Il Federalismo-Sole delle Alpi"
    La massoneria il vero nemico!

  2. #2
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    Predefinito 19 aprile 2004.............

    Caso Sofri: più sei colto, più sei graziato... quando la legge è uguale “per tutti gli amici”
    Il laico Ramadan di Marco Pannella


    I Celti - si sa - non si sentivano secondi a nessuno e con il Divino avevano un rapporto quasi paritetico. E quando non erano d’accordo con le decisioni prese dal cielo, vi si opponevano: la sfida più classica ai poteri divini era costituita dal rifiuto del cibo e dalla conseguente morte. Morire per digiuno era una forma di forte protesta, un modo per sottolineare che la volontà umana poteva anche opporsi ai disegni celesti.
    In epoche più moderne i discendenti dei Celti hanno ripreso questo antico atto di sfida per farne la formidabile arma di lotta politica e identitaria che Bobby Sands e i suoi eroici compagni hanno portato fino alle conseguenze più coerenti ed estreme.
    Pannella Giacinto, detto Marco, da Teramo ha invece elaborato una versione più mediterranea e picaresca del digiuno come lotta. Ha inventato il digiuno a rate, una sorta di laico Ramadan mediatico: un giorno qui e l’altro là, ha accumulato un periodo di Quaresima che stroncherebbe orsi letargici, fachiri e dinosauri aerofagiti. Ma non lui, che ricompare ogni volta come un vispo giocoliere alle sagre di paese: non un “mangia-fuoco” ma un “rifiuta-acqua”, in una sua nuova strabiliante performance idrofobica.
    Per funzionare c’è bisogno di un pubblico numeroso e plaudente, servono giornalisti e televisioni che trasmettano il portento. Tutti si divertono facendo finta di credere al prodigio, ben sapendo che è un trucco. Per diventare credibile, Pannella Giacinto detto Marco dovrebbe fare l’unica cosa che non farebbe mai, cioè andare fino in fondo. A qualcuno spiacerebbe un po’ perdere la sua faccia simpatica da Jack La Cayenne, e in più la cosa non servirebbe a granché perché più nessuno saprebbe il motivo di cotanto sacrificio: Pannella Giacinto detto Marco ha digiunato per tutto e per il contrario di tutto, per sé e per conto terzi, e tutti hanno perso il filo del suo martirio mediatico.
    Non è neppure molto chiaro il motivo per cui si sia parzialmente disidratato l’ultima volta: i più l’hanno però interpretato come un invito a far liberare Sofri Adriano, il più illustre dei 55.571 ospiti delle prigioni della Repubblica. Come larga parte dei miei concittadini, non ho alcuna fiducia nell’italica giustizia, trovo perciò inutile perdere tempo a ragionare sugli otto gradi di giudizio e ritengo che la vera anomalia sia data dal fatto che Sofri sia stato condannato pur essendo di sinistra ed è forse per questo che tanti ne sono sbalorditi.
    Trovo poi orrido il motivo per cui tanti trepidano per lui, a differenza degli altri 55.570 galeotti per cui nessuno si illanguidisce, si indigna o rinuncia a grappini. Viene infatti detto che Sofri va graziato e liberato perché è un raffinato intellettuale. È una strana eccezione al tanto proclamato principio secondo cui “la legge è uguale per tutti”, ma anche alla sua italica versione secondo cui “è uguale per tutti gli amici”.
    La cosa introduce un interessante elemento di novità al diritto occidentale. Se uno è colto e - si presume - anche molto intelligente gli dovrebbero venire concesse attenuanti e franchigie che fino a oggi spettavano solo agli infermi di mente e agli incapaci di intendere e volere: un’intrigante equiparazione fra gli estremi della scala del quoziente di intelligenza. Si potrebbe istituzionalizzare la cosa inserendo nel Codice Penale (che si dice essere in fase di profonda revisione) le modalità con cui il principio deve essere applicato: a chi si laurea si potrebbe così permettere di strozzare il vicino di casa, con la laurea breve si potrà solo azzopparlo, ma se invece si merita anche la lode si potrà sopprimerne anche la consorte. Chi scrive un libro può fare fuori la suocera, chi scrive più libri può occuparsi della parentela meno simpatica. Chi prende il Nobel può annegare l’intera famiglia (ne conosciamo uno che farebbe bene a farlo anche senza la grazia presidenziale).
    Quando Sofri avrebbe fatto quello per cui l’hanno condannato era solo un giovinotto molto esuberante ma non si era ancora meritato la patente di colto intellettuale. Lo è diventato solo dopo. Si scopre così che questa indulgenza ha anche valore retroattivo, che è una cosa come il prestito d’onore che si concede a tanti altri volonterosi giovani meridionali. Nel caso specifico è addirittura una sorta di anticipo che gli viene dato alcuni decenni dopo: anche questa è un’affascinante innovazione da sottoporre ai più insigni giuristi. E poi si dice che in questo Paese le riforme non si fanno mai.
    A questo punto, per esaurimento fisico e prostrazione gonadica della gente migliore, o per sudditanza ai poteri forti di quella peggiore, temo che Sofri finirà per essere graziato. Bisogna però che tutti quelli che conservano un minimo di rispetto per il senso della giustizia, e un poco di discernimento fra il bene e il male, esigano che almeno sparisca dalla circolazione.
    Sofri libero ed eroicizzato sarebbe una catastrofe ecologica: ne farebbero un altro Nelson Mandela, Solgenitzin, Silvio Pellico o Papillon da far girare nei talk show con Platinette. Diventerebbe testimonial ed esperto su tutto: già lo fa oggi dall’interno di una cella senza finestre, come Oudini, figuriamoci dopo. Utilizzando una vaga somiglianza con Enzo Biagi (che non contribuisce ad accrescerne la simpatia) potrebbe prolungarne le gesta: l’idea di trovarci un altro sapüta in circolazione per i prossimi trent’anni atterrisce molto di più del buco nell’ozono. Potrebbe poi mettersi in politica, farsi eleggere in una lista Sofri (con slogan del genere: «Sofri con noi»), magari con Carra, Pillitteri e Cirino Pomicino. Sono prospettive agghiaccianti.
    Se lo slargano, venga dunque almeno accompagnato in un Paese molto, ma molto lontano e non si faccia più vedere o sentire. Pena la revoca della grazia. E che si porti dietro - come pena alternativa - anche Pannella. Giacinto detto Marco.

    Gilberto Oneto 19 Aprile 2004 "Il Federalismo-Sole delle Alpi"
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  3. #3
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    Predefinito 5 aprile 2004...

    TROPPO STATO, TROPPA ITALIA DA SUBIRE


    Statalismo e italianismo vivono in perfetta simbiosi parassitaria.
    Occorre combattere contro entrambe le espressioni dello stesso spirito oppressivo.


    Troppo Stato,troppa Italia. Dopo tanti anni di lotte autonomiste e padaniste ci troviamo oggi ad affrontare ancora e sempre gli stessi avversari. Abbiamo fatto tanta strada,abbiamo lottato, lavorato ma davanti a noi abbiamo sempre troppo Stato e troppa Italia.
    Lo Stato è dappertutto.Forse non fabbrica più in prima persona automobili o panettoni, ma ne condiziona diffusione,prezzo e qualità.Le Ferrovie non sono più dello Stato, ma è lo Stato che le gestisce,che assume (e non licenzia), che fissa le tariffe e tiene sporchi i cessi. E' sempre lo Stato che si occupa di pensioni, ospedali,scuole. Se ha ceduto qualcosa lo ha fatto solo a favore di carrozzoni pubblici (e monopolistici) o di altri enti pubblici,senza trasferire loro i soldi per gestirli.
    Se qualche baraccone non è più "statale" in senso lessicale,è comunque "pubblico". Poco importa al cittadino se il funzionario che lo assilla (dietro un vetro bisunto e spesso con l'unghia del mignolo a paletta) sia pagato dallo Stato,dalla Regione o da qualche altro marchingegno burocratico gestito da politicanti e da inamovibili maneghetta.
    Il cittadino padano è sempre solo quello che paga (sempre più) e riceve (sempre meno).
    Invece di venire semplificata (come promesso), la nostra vita di sudditi è sempre più complessa e vessata da sadismi micraniosi: il controllo della caldaia, il codice fiscale, il CIN, la DIA, il CAB,il RED, il modulo F24,l'ABI,il bollino blu,il giubbotto arancione....
    C'è dunque troppo Stato, ci sono troppi funzionari,troppe leggi, troppi uffici,troppi balzelli, troppi parassiti,troppi codici, troppi onorevoli ed eccellenze,troppe auto blu,troppo di tutto ciò che è pubblico e mantenuto. Ma c'è anche troppa Italia, con i suoi modi pelasgici, con i suoi funzioanri neghittosi e arroganti, con i suoi malavitosi, con le mazzette e le tangenti, con le mamme dei soldati e i mammasantissima, con televisioni piene di soap opere e poliziotti sanniti, con certi suoi giudici intoccabili e soubrettes.
    Ci sono troppe marcette patriottiche e bandiere difese dal Codice Rocco, ci sono troppi finti invalidi, cassintegrati a vita, statali dal posto fisso, lavoratori in nero,lavoratori socialmenti utili, lavoratori finti. Troppi guitti e registi saputa,attrici sbernardite, vulcani e smottamenti, politici mafiosi,mafiosi stallieri,faccendieri e agazioloieri.
    ITALIA E STATO STANN BENONE ASSIEME: è lo statalismo dei Mazzini e dei Liborio Romano che ha "inventato" l'Italia, è la struttura dello Stato unitario (con i suoi codici e i suoi sbirri) che ne ha permesso la sopravvivenza facendo da cane da guardia dell'amor di patria e impedendole di tornare alla sua natura di "espressione geografica", è l'Italia meditteranea ( ancora più che Cuba o la Corea) che ha elaborato la forma più appiccicosa e inefficiente di statalismo, quella che non potrebbe sopravvivere senza l'italianità.
    Non si combatte lo statalismo senza combattere l'italianità o - peggio - in nome dell'italianità come dicono di fare certe destre.
    .................................................. ..............................................
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    UNITA' D'ITALIA - 150 ANNI DI STORIA TAROCCATA

    Diceva Miglio che la dimensione degli Stati è inversamente proporzionale alla quantità di libertà che possono garantire. La storia gli dà ragione. Culla delle grandi libertà sono da sempre le piccole Comunità alpine, i Cantoni svizzeri, i Comuni padani, tutte quelle istituzioni che si trovano soprattutto concentrate nella cosiddetta Europa Lotaringia: la valle del Reno, le Alpi, la valle del Po e le rive dell’Adriatico. Gli esempi più entusiasmanti di democrazia partecipata, di libertà vere sono le piccole comunità autonome: l’oppressione si ritrova solo nei grandi Stati illiberali, centralisti e aggressivi.
    Più il potere è vicino alla gente, più è facile da controllare. Il principio vale se si ha a che fare con gente civile e responsabile, altrimenti diventa una cosca mafiosa. Per fortuna viviamo però in una parte di mondo dove almeno le premesse storiche ci sono tutte per assicurare uno scenario di libertà: dalle Tribù galliche alle Fare longobarde, dai Comuni medievali alle autonomie garantite della Serenissima, dalle Insorgenze alle Comunità di valle, la nostra terra padana è da sempre luogo di fortissime aspirazioni e pulsioni libertarie. Nel nostro caso possiamo semmai lamentare un eccesso di autonomismo che ci ha penalizzati rispetto - ad esempio - ai nostri vicini svizzeri, che hanno saputo contenere il naturale eccesso di individualità costruendo una duratura unità che ha garantito secoli di libertà e di autonomia. La piccola dimensione presenta anche un altro vantaggio: se una comunità è libera va tutto bene, se non è libera il danno è limitato. Infatti ci si può facilmente allontanare, fuggire nella valle di fianco, far funzionare quello che da sempre è il fondamentale e inalienabile diritto di asilo: in una chiesa, in convento, in una legazione straniera o più semplicemente al di là del confine. Miglio ha sempre esaltato la grandezza dell’Europa delle enclavi, dove un complesso sistema di autorità concomitanti, sovrapposte e contrapposte garantiva un collaudato sistema di protezione delle libertà individuali e comunitarie, e dove un fitto groviglio di confini lasciava filtrare merci, persone e idee, ma bloccava sbirri e mandati di cattura, e ingabbiava i germi dell’oppressione.
    In una situazione di quel genere si può sempre fuggire, trasferirsi, ricominciare da un’altra parte a costruire la propria libertà. Con gli Stati grandi tutto diventa più difficile: un solo grande e malefico potere può schiacciare grandi masse di persone, farne dei sudditi, seguirli ovunque come l’occhio malefico di Mordor. Quando ci sarà un solo Stato europeo o mondiale non ci sarà più dove scappare, non ci sarà più diritto di asilo perché non ci saranno più asili: squadre di sbirri o di inquisitori scorazzeranno ovunque a cercare spiriti liberi, a bruciare libri, ad arrestare dissenzienti. Anche un personaggio inquietante come Mazzini almeno un pregio l’aveva: esporre con chiarezza i suoi mortiferi progetti. Diceva che quello che lui chiamava, non senza sinistra ironia, il processo di emancipazione dell’umanità passava da tre fasi conseguenti: l’unità d’Italia, quella d’Europa e poi del Mondo. Per questo da noi la libertà ha tre nemici: la globalizzazione, l’Europa dei burocrati e l’Italia. È buona norma cominciare a combattere il male più vicino.

    Gilberto Oneto

    IL FEDERALISMO - 26/04/2004 Sole delle Alpi

    Èuna storia strabica, la nostra: da una parte soltanto eroi senza macchia e senza paura mentre l’altra parte è popolata unicamente da mariuoli con poco onore e troppa infamia. L’unità d’Italia è stata ottenuta da un re “galantuomo” contro un “Franceschiello” che aveva consentito al suo Regno di diventare “la negazione di Dio”. Con i buoni: l’eroe dei due mondi, il tessitore, l’ideologo e l’asceta con una compagnia di romantici disinteressati. Con i cattivi: il carceriere torturatore, il principe ladro, il giudice corrotto con un codazzo di arruffoni impegnati in malversazioni di ogni genere. Sarà per questo che borbonico è diventato sinonimo d’inefficienza burocratica e di ferocia amministrativa. Eppure, dopo un secolo e mezzo di storia taroccata, è forse il tempo di riequilibrare qualche giudizio elaborato con troppa superficialità e troppo interesse partigiano. Non per capovolgere i valori, beninteso, ma per raccontare il nostro passato in modo che la storia sia, contemporaneamente, accettata e condivisa.

    Lorenzo Del Boca*

    *Presidente nazionale Ordine dei Giornalisti
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    Post Legittima difesa - Chi viola i nostri beni compie un attentato alla libertà..03/05/04

    Legittima difesa - Chi viola i nostri beni compie un attentato alla libertà, commette una profanazione.

    Chi tocca i fili muore La proprietà privata è sacra.



    Nel testo del giuramento del Grütli, nell’agosto del 1271, si trova con grande chiarezza spiegato il motivo per cui dei pacifici e laboriosi montanari svizzeri si fossero dovuti unire in armi per combattere un nemico comune, e perché abbiano anche deciso di formare una lega tanto duratura ed efficace da essere arrivata fino a oggi garantendo per più di 700 anni, agli eredi di quei montanari libertà, prosperità e sicurezza.
    Vi si legge che si erano uniti «per esser meglio in grado di difendere e di conservare in buon stato sé, i loro beni e i loro diritti», cioè se stessi, le loro famiglie e la loro integrità fisica, il controllo dei beni costruiti con fatica e lavoro, e le loro inalienabili libertà di uomini civili. In quella frase c’è contenuta tutta l’eterna essenza della civiltà, sono condensati millenni di cultura e di lotta per la libertà. Le tre cose non possono sopravvivere che tutte assieme.
    Sembrerebbe esercizio di sano e comune buon senso, da applicare in ogni posto e tempo. Non è così: gli ultimi sono stati secoli devastati da ideologie (e da ubriacature collettive) che hanno negato queste cose: hanno tolto le libertà civili, religiose, economiche e politiche a milioni di individui e a comunità grandi e piccole; hanno negato il diritto non solo di difendere ma addirittura di disporre di una proprietà (inventandosi l’idiozia che la proprietà è un furto); hanno alla fine attentato al diritto alla vita ammazzando, annientando, imprigionando in carceri, gulag, ospedali psichiatrici o lager milioni e milioni di persone.
    La storia sembrerebbe essersi oggi liberata da queste mortifere presenze con fatica e con dolore, ma invece ci accorgiamo che anche nel cosiddetto mondo libero (e, si suppone, civile) gli eredi di quelle follie collettive sono ancora in circolazione, dispongono di mezzi di coercizione o di indottrinamento, sono in grado di condizionare le scelte di intere comunità e quindi di guastarne la vita e i rapporti sociali.
    Oggi, nella Repubblica italiana, stiamo vivendo il dramma di una criminalità sempre più feroce, e dell’impossibilità di essere difesi o di difendersi, e di essere criminalizzati e puniti se lo si fa. Un’aggressione, un furto, una rapina, uno stupro, una violenza sono cose da cui non ci si può riparare: a chi tocca, è costretto a subirle come un atto del destino, una sfigata occorrenza che è toccata a lui. Tutto questo dietro lo schermo di un buonismo becero, di stupidi sensi di colpa nei confronti di individui che ci vengono contrabbandati come disadattati, vittime delle ingiustizie sociali e delle truci imperfezioni della società, o di interi popoli o classi sociali che reagirebbero a oppressioni e sfruttamenti più o meno colonialisti. Oggi sentiamo dotte trattazioni sulla differenza fra i reati contro la persona (più gravi - si dice - ma, in ogni caso, inevitabile valvola di sfogo dei più miseri) e quelli contro le cose, nei quali i nipotini di Lenin continuano a vedere una sorta di vendetta di classe, di moralistica lotta contro quella sociale infamia che è la proprietà privata, considerata appunto un furto. Come a dire che: chi ruba ai ladri non fa reato. Ogni delinquente è perciò Robin Hood, chiunque possieda qualcosa che può essergli sottratto è assimilabile allo sceriffo di Sherwood che quei beni li ha maliziosamente sfilati a qualcuno. Tutti sembrano essere d’accordo sul condannare la legittima difesa (che è sempre “eccesso di legittima difesa”), gli uni perché è il reazionario atto di presidio di un privilegio (la proprietà tanto per cominciare, e poi la libertà e la vita stessa), gli altri perché ci deve pensare lo Stato, onnipresente moloch di fronte al quale l’individuo deve scomparire. È anche ignobile venirci a ricordare che i comportamenti truffaldini sono fisiologici, che da sempre è “normale” che ci siano ladri e strolighi che allungano le mani in casa altrui: oggi però l’invasione italiana ed extracomunitaria ha fatto saltare ogni statistica apportando, oltre a tutto, connotati di violenza e di brutalità che i “soliti ignoti” del passato disdegnavano quasi quale punto di onore.
    Sentiamo per contro parlare di ampliamento di poteri alle forze dell’ordine, di liberalizzazione del porto d’armi e di altre cose che potrebbero rivelarsi ancora più pericolose. Sarebbe - per cominciare - invece sufficiente stabilire un solo e semplice principio: che non può sussistere l’eccesso di legittima difesa all’interno di proprietà private recintate e chiuse; che la difesa è sempre legittima a casa propria; che chi entra in una proprietà privata non invitato, scavalcando un muro, forzando una porta, saltando un fossato, lo fa a proprio rischio e pericolo, e che chi agirà contro di lui lo farà in ogni caso in maniera totalmente giustificata. Non importa se chi entra di notte o di nascosto in casa altrui si ritrovi azzannato da un coccodrillo, irrorato di olio bollente o precipitato in una fossa irta di bambù modello viet-cong: peggio per lui! Se proprio si vuole manifestare un eccesso di garantismo, si potrà richiedere che il pericolo sia adeguatamente segnalato (con cartelli del tipo: la casa è munita di un dispositivo di difesa) e che la legge punisca i comportamenti sadici e truculenti o l’inganno. Se la banda bassotti entra in casa altrui sono fatti suoi, ma non si deve certamente farla entrare facendo finta di invitarla.
    A questo punto qualcuno - già lo sento - tirerà fuori la frusta immagine dell’Ok Corral, del Far West irrorato di sangue innocente o colpevole. Stupidaggini: al terzo o quarto ospite indesiderato che incorre negli effetti nella nuova disposizione, diminuirà drasticamente il numero dei ladri d’auto e d’appartamento, e degli svaligiatori di banche e di negozi.
    Un’incursione foresta nella proprietà privata è molto peggio di una semplice sottrazione di valori: è una violazione dell’intimità, è un’intrusione nella sacralità famigliare, è la profanazione della proprietà intesa come prolungamento della persona, è un attentato alla libertà. È una vigliaccata. È normale e giusto che abbia bisogno di una speciale forma di difesa e di dissuasione. Chi tocca i fili muore.

    Gilberto Oneto



    IL FEDERALISMO - 03/05/2004 Sole delle Alpi
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    Post I boia e gli impiccati elettorali

    I boia e gli impiccati elettorali

    Le sistemazioni di decoro degli spazi cittadini hanno sempre seguito una serie di linee guida: essere utili, abbellire o creare interesse. Intenti che sono stati indubbiamente disattesi con l’inutile e stupida provocazione di Piazza XXIV Maggio a Milano

    La vicenda dei tre manichini impiccati a Porta Cicca ha scatenato le più variopinte reazioni e riflessioni che hanno però coinvolto solo due aspetti: quelli che hanno a che fare con i bambini e con l’arte moderna. Di bambini e di pedofili non m’intendo e in quanto all’arte moderna ho perso il filo dalle cataste di pattumiera di Schwitters e dalle scatolette di Manzoni. Credo valga perciò la pena di affrontare anche un altro aspetto non secondario e che interessa le vicende del paesaggio e dell’arredo urbano.
    Nella storia le sistemazioni di decoro (lasciando perdere l’abusatissimo termine di “arte”) degli spazi cittadini hanno sempre seguito una serie di linee guida: devono essere utili, devono costituire abbellimento estetico, devono portare vivacità e interesse, devono fornire valore simbolico, devono produrre “moralità” nel senso più ampio di espressione del potere e di insegnamento civico.
    La prima di tali esigenze produce belle pavimentazioni, panchine comode e vespasiani efficienti. La seconda richiede che si badi al colore degli edifici, alle modanature dei sottogronda e alla forma dei paracarri. La terza favorisce la costruzione di giochi d’acqua, di statue su cui ci si possa arrampicare, di piste di skate-board e di tabelloni didattici. Per la terza si dipingono santelle religiose, si marcano fatti e figure mitologiche, si ricordano particolari espressioni identitarie, oppure - nel peggiore dei casi - si fa della retorica di potere disseminando fasci e stelloni sulle facciate ed eroi a cavallo nelle piazze. L’ultima è quella che deriva dall’idea magnificamente espressa da studiosi come Sitte, Rudofsky o Halprin, che assimila il paesaggio urbano a uno spazio teatrale nel quale avviene la spontanea rappresentazione della vita di tutti i giorni o dove si organizzano spettacoli per particolari significanze: non è un caso che i primi teatri moderni siano stati strutturati proprio come riproduzioni di piazze o di incroci di strade (come l’Olimpico di Vicenza) e che molte commedie (da Shakespeare a Goldoni) abbiano come stage essenzialmente degli spazi pubblici. Le rappresentazioni spontanee comprendono mercati, risse di strada, rivolte, chiassose sarabande festaiole; quelle organizzate prevedono parate, cortei, processioni, comizi ma anche - almeno un tempo - le pubbliche esecuzioni e le esposizioni dei malfattori alla gogna da proporre al pubblico dileggio e monito.
    Faccio fatica a vedere nei tre bambini impiccati qualcosa di artistico, ludico, decorativo o di anche vagamente simbolico: i simboli devono evocare, non fare discutere e - meno che meno - scioccare. Faccio fatica a trovarci anche qualche barlume di obiettivo civile o politico: manca la retorica, spesso cretina, dei padri della patria con la spada sguainata o degli eroi nudi con l’elmetto e un bronzeo vessillo al posto della foglia di fico, e non ci trovo neppure riferimenti critici al patriottismo più becero. Si sarebbe potuto evocare, ad esempio, il lungo filo tricolore che collega la truce esposizione dell’impiccagione di briganti legittimisti, di guerriglieri libici, di partigiani e di gerarchi, fino a Calvi sotto il ponte dei Frati Neri: ma non era evidentemente questa l’intenzione del capolavoro.
    Qualche collegamento “morale” si può trovare solo con l’ostentazione dei cadaveri appesi che in epoche lontane era impiegata come monito per i cittadini riottosi o per gli aspiranti delinquenti. Ma perché mettere dei bambini? Perché sprecare la neppure tanto evidente abilità artistica del maestro in figure, che varranno forse miliardi, ma che sono del tutto identiche ai manichini delle vetrine dell’Upim. Facciamogli rifare l’opera con personaggi moralmente più significativi per la cittadinanza. Uno potrebbe essere (gli spetta di diritto, e poi gli fa sponda per la sua candidatura europea) l’Albertini, scrupolosamente in mutande, magari griffate Trussardi, così non va sprecata neanche la sponsorizzazione.
    L’altro potrebbe essere l’assessore al verde urbano De Corato, vestito da beduino per antiche affinità e recenti convergenze elettorali.
    Il terzo posto toccherebbe per logica all’assessore milanese alla kultura ma non va bene: due italiani su tre sarebbero troppi anche per la disastrata statistica di una città pur fortemente mediterraneizzata come Milano.
    Sembra invece fatto su misura per Sgarbi, da mettere in mezzo perché è sicuramente il più intelligente (e, a tratti, anche il meno antipatico) dei tre, ma anche il più alto (così la simmetria è salva), e poi perché così, agitandosi, li può prendere a calci entrambi con gran vantaggio per l’edificazione morale e la ricreazione del popolo. La sua presenza garantisce anche il rispetto della par conditio: lui può essere di destra e di sinistra, tutto e il contrario di tutto con lo stesso sacro vigore. Poi si risparmierebbe anche la fatica di appenderlo perché, pur di mettersi in mostra, il nostro è sicuramente disposto alla bisogna di mano sua, dando stura alla sua incontenibile vocazione a fare sia il boia che l’impiccato, purchè in prima serata.
    Soprattutto Sgarbi è uno che non si riesce proprio a fare stare zitto (e, di conseguenza, neppure il suo simulacro), così l’opera d’arte - oltre che essere moralmente istruttiva (la giusta punizione dei reprobi, sia pur solo in effigie) - diventa anche uno straordinario punto di attrazione, anche turistica. Una statua che si agita e urla in continuazione mescolando genialità, trivialità e tavanate, non si trova in nessun altro paesaggio al mondo. Anche gli automi di Hellbrunn sventolano le orecchie, spalancano la bocca e ruotano gli occhi ma sono desolatamente silenziosi. E il colosso di Memnone gorgheggiava e sifolava solo al sorgere del sole: un momento di scarsa audience.

    Gilberto Oneto



    IL FEDERALISMO - 10/05/2004 Sole delle Alpi
    La massoneria il vero nemico!

  7. #7
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    Quell’Islam cattivo come un’infestante

    L’invasione musulmana è una sorta di invasione di fameliche cavallette che divorano tutto... se avrà la meglio non solo perdiamo grappa e salame, ma vedremo la tavolozza del nostro mondo ridotta a un unico urfido colore. Perderemmo la libertà

    La vitalità della morte. Il Sycios angulatus è una pianta infestante che striscia, radica e si arrampica con devastante vitalità: dove si insedia uccide ogni altra presenza vegetale e ricopre tutto con un triste manto verdastro nei mesi caldi e con un groviglio di seccume nei periodi freddi. Non c’è verso di fermarla se non tagliandola o estirpandola sistematicamente, stagione dopo stagione. Dove questo non viene fatto, la mala pianta occupa e distrugge tutto: ci sono colline, edifici e paesaggi interi che ne vengono ricoperti e desertificati. Sparisce ogni differenza, ogni colore, ogni segno di vita e di vitalità.
    Dove arriva l’Islam fa lo stesso: distrugge ogni altra religione, cultura e identità, e ricopre tutto con il manto grigio e uniforme della mortifera osservanza coranica. In 14 secoli ha annientato civiltà antiche, ricche che erano stati straordinari capitoli della storia del mondo.
    Il paradigma del suo atteggiamento nei confronti della cultura e della libertà intellettuale (e della libertà tout court) si trova nella vicenda delle biblioteca di Alessandria, la più vasta raccolta di opere dell’antichità, completamente distrutta nel 646 dal califfo ’Amr ibn al-’Âs, sostenendo che dovessero essere eliminati tutti i libri, sia che dicessero cose diverse dal Corano (e perciò dannosi) o che contenessero cose coerenti col Corano (e perciò superflue). Se ne sono andati in fumo migliaia di volumi provocando il più grande danno mai fatto alla cultura universale.
    Non ci sembra che quel contegno sia mai cambiato. Per fortuna esso ha anche avuto un importante risvolto positivo: il rigetto di ogni volontà di progresso anche scientifico ha in passato condannato l’Islam a soccombere militarmente di fronte a società che non hanno mai smesso di cercare di progredire sul piano scientifico e culturale.
    Il confrontarsi dell’Islam col mondo si riflette anche nel suo atteggiamento verso l’aspetto fisico del mondo, che deve forzatamente essere triste, grigio e dimesso. Questo si vede nelle palandrane con cui avviluppano i loro corpi, nella sciatteria delle loro città e delle loro case (fa naturalmente eccezione lo sfarzo dei ricchi e dei potenti), nella pochezza della loro cucina che si è privata di tutti gli ingredienti che rendono piacevole la vita senza trasformarla in licenziosità. Il Pakistan e l’India sono - ad esempio - abitati da genti dalla stessa origine etnica ma passare dall’uno all’altra è come passare dal buio alla luce, dalla tristezza bisunta e piena di livore all’allegra confusione di colori, di figure, di aromi, di un’esplosione artistica figurativa. Oggi Bali è - per fare un altro esempio - una delle mete turistiche più ambite soprattutto per la bellezza delle sue architetture, per lo splendore dell’arte e del suo artigianato, per la sfolgorante gioiosità del suo folclore e dei suoi riti religiosi. Tutte le altre isole attorno hanno lo stesso clima e lo stesso mare ma sono state intristite dalla patina islamica che le ha ricoperte come uno spurgo petrolifero uccidendo ogni forma di vitalità. La tristezza del chador contro l’allegria del sari.
    L’Islam - si sa - condanna la riproduzione non solo di Dio ma delle figure umane, e spesso anche di quelle animali costringendo i pochi artisti sopravvissuti (e ortodossi) ai complessi virtuosismi di motivi geometrici e vegetali. Tutto il resto va distrutto sistematicamente. Questo vale per le cose più piccole come la santella della Madonna che un deficiente macedone ha di recente eliminato da una casa di Dosolo in provincia di Mantova, ai Buddha di Banyam, presi a cannonate dai guerrieri di Allah, dai monasteri ortodossi di Kossovo e Metochia, diroccati da prodi albanesi, alle migliaia di chiese, pagode, templi di qualsiasi religione che questi iconoclasti (che mostrano vitalità solo nel distruggere) hanno raso al suolo nel corso dei secoli. Costantinopoli era una delle città più belle, più ricche di opere d’arte e di architetture, era una sorta di straordinario museo del mondo: Istambul oggi è un luogo grigio e Santa Sofia - uno dei più radiosi edifici dell’umanità - è rimasta un involucro spelacchiato. La stessa sorte sarebbe toccata a Venezia, a Vienna e al resto d’Europa senza Marco d’Aviano, senza Lepanto, senza milioni di europei cristiani che proprio anche alla forza delle immagini hanno fatto simbolico ricorso.
    In realtà l’iconoclastia non è una malattia solo islamica: per un certo periodo ha guastato anche il Cristianesimo. Quello orientale se ne è liberato con sanguinose fatiche; quello occidentale ha dovuto subire le scelleratezze di puritani, anabattisti e altri trucidi personaggi prima di ritrovare serenità e ragionevolezza. Gente che aveva per antenati Celti e Germani (e il loro gusto per arte e colore) non poteva che soccombere alla forza delle origini: oggi molti dei più bei musei d’arte figurativa sono in Paesi protestanti.
    Si obietterà che anche taluni maomettani abbiano prodotto grandi esempi di arte figurativa: si ricordano i persiani e i moghul. I primi erano sciiti (che sono sempre stati un po’ più civili), e gli altri erano indiani fino al midollo e non potevano fare a meno di figure e colori. Sia persiani che indiani sono poi indoeuropei e ritorna il ragionamento delle origini. Si dice sempre che anche gli almoravidi di Spagna fossero colti e avessero sviluppato una raffinata arte figurativa: si trattava però solo di un sottile (e, fortunatamente, precario) strato islamico sopra celti, visigoti ed ebrei. Quasi tutti ebrei o armeni erano anche i grandi dotti del passato di cui ogni tanto l’Islam si fa vanto.
    L’Islam è una sorta di malattia, è una invasione di fameliche cavallette che divorano tutto, è il buio di Mordor che annienta, è il Syicios angulatus della cultura e della libertà.
    Se prevale, non perdiamo solo la grappa, il salame o i fumetti, non verranno solo distrutte chiese e musei, non vedremo solo la tavolozza del nostro mondo ridotta a un unico urfido colore. Se prevale, perdiamo la ricchezza della nostra civiltà, perdiamo la libertà. Perdiamo tutto.

    Gilberto Oneto



    IL FEDERALISMO - 17/05/2004 Sole delle Alpi
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  8. #8
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    In pace a casa propria La lezione della Repubblica di Venezia

    I Lagunari tutelavano la libertà di movimento della Serenissima. Che si difendeva quando aggredita e che ben si guardava dal vendere armi agli islamici


    Nei giorni scorsi la triste vicenda del lagunare caduto ha bruscamente informato molti che la Padania non è stata trascinata dall’Italia nel tragico imbroglio iracheno solo con i suoi soldi e i suoi ragazzi, ma anche con alcuni dei suoi simboli più cari: sull’uniforme del caduto e dei suoi commilitoni c’è un Leone di San Marco. Cosa ci fa sulle rive dell’Eufrate? Qualche bello spirito tirerà forse anche in ballo qualche secolo di storia militare che ha visto il Leon in guerra contro Turchi e Saraceni. È del tutto improprio.
    Venezia ha tenacemente combattuto gli aggressori islamici per un millennio, ma non ha mai cercato di invaderne le terre, di conquistarne i territori, o di imporre i suoi modi di vita o il suo dominio politico. Venezia aveva costruito la sua potenza e la sua ricchezza sul commercio marittimo e aveva bisogno della massima libertà di movimento per le sue navi e per i suoi mercanti. Aveva costellato il Mediterraneo orientale di basi, di colonie commerciali, di fondachi e di depositi per le merci, di punti di convergenza di carovane, di porti sicuri di imbarco delle merci. Ogni volta che i suoi soldati sono intervenuti è stato solo per difendere queste basi commerciali e diplomatiche e per garantirsi la libertà di movimento. Quando ha occupato territori o isole di una certa consistenza (la Morea, Cipro, Candia o Negroponte) lo ha fatto per difendere i suoi interessi in qualche modo compromessi dal disfacimento dell’Impero d’Oriente e dall’inesorabile avanzata turca. Ogni volta che è stata attaccata si è difesa con energia e determinazione: tutte le sue guerre mediterranee sono state provocate da aggressioni musulmane alle sue basi o alla sua libertà di movimento.
    Salvo alcuni periodi limitati, Venezia non ha però mai smesso di intrattenere rapporti commerciali con tutti i possibili interlocutori, Turchi compresi. Proprio in virtù dell’energica difesa dei suoi interessi consolidati, la Serenissima ha potuto continuare a vendere, comperare e trasportare merci dall’Oriente all’Europa con grandi vantaggi per la sua economia ma anche di quella dei suoi partner, compresi quelli con cui spesso si prendeva a cannonate.
    In questo spirito non ha mai posto alcun limite all’intraprendenza della sua gente, né ai generi che venivano commerciati con una sola e significativa eccezione: non si potevano esportare agli islamici armi, tecnologie e materiali bellici. Il divieto era fatto rispettare con rigorosa severità: i segreti dell’Arsenale erano puntigliosamente difesi, ogni fuga di informazioni era punita con durezza, ogni contrabbando di armi costava carissimo a chi ci aveva provato. Anche questa severità ha contribuito a fare di Venezia una potenza militare di prim’ordine sia per l’abilità dei suoi soldati e marinai, che per la straordinaria qualità dei suoi armaioli e del prodigioso sviluppo tecnologico dei suoi laboratori.
    Questa sua attitudine alla difesa della sua libertà commerciale è testimoniata anche dal tipo di capacità militare degli uomini imbarcati sulle sue navi, proprio di quella “Fanteria di marina” da cui i Lagunari si vantano di discendere. Si trattava di soldati - in genere Schiavoni dalmati - abili sia nell’arte della navigazione che in quella delle armi (ma che non disdegnavano neppure di arrotondare la paga effettuando piccoli commerci in proprio), che combattevano sul mare, ma anche - all’occorrenza - sulla terra. Il termine stesso di “Fanteria di marina” è significativamente diverso dalla denominazione di “Fanteria da sbarco” che è invece caratteristica di altri corpi degli eserciti moderni, primi di tutti i famosi Marines (sia inglesi che americani), che sono essenzialmente impiegati come truppe d’assalto e di occupazione. Il mondo moderno e l’Europa in particolare non hanno saputo trarre beneficio dall’insegnamento storico veneziano e, invece di limitarsi a difendere la propria libertà di commercio, hanno cercato di occupare e appropriarsi delle fonti di ricchezza altrui. Ma hanno fatto di peggio: hanno venduto (quando non regalato) armi e tecnologia bellica ai musulmani. Due errori che stiamo tutti pagando molto caro. A questo punto, in un rigurgito di saggezza, l’Occidente (almeno quello europeo) dovrebbe cercare di riprodurre l’oculata politica veneziana nei confronti della mai sopita e ora rinnovata aggressività islamica: costruire una solida rete di rapporti economici e commerciali con i Paesi arabi ma evitare in maniera molto scrupolosa di mettere il naso nei loro affari e a casa loro e - ovviamente - impedire che loro lo facciano a casa nostra. Dovrebbe poi porre un rigidissimo embargo su tutti i prodotti bellici e strategici: oggi tutte le armi automatiche, i missili, i sistemi d’arma, gli esplosivi, i marchingegni elettronici che usano gli islamici sono importati da fuori. I Veneziani non hanno mai commesso errori del genere. I Veneziani non si sono poi neppure mai fatti invadere né violentemente, né pacificamente: con gli islamici intrattenevano rapporti, i loro mercanti venivano a Venezia e vi tenevano fondachi, ma non pretendevano di importare oltre alle merci, usi, leggi e religione. Ci stavano il tempo necessario per fare i loro affari e basta. Oggi, oltre agli altri guai, l’Occidente si è fatto invadere. Il primo passo intelligente potrebbe essere - per quanto riguarda la Repubblica italiana - di ritirare i suoi uomini dall’Iraq in cambio dello sgombero degli immigrati musulmani dal suo territorio, utilizzare i Lagunari per fare rispettare con fermezza le reciproche aree di sovranità e poi riprendere solidi rapporti economici, ma restando ognuno scrupolosamente a casa propria. A Venezia c’erano solo pochi discreti e sorvegliatissimi mercanti che evitavano di creare problemi di convivenza culturale. Otello è stata una esemplare eccezione.

    Gilberto Oneto



    IL FEDERALISMO - 24/05/2004 Sole delle Alpi
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  9. #9
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    Post La terza vita di Pontida

    La terza vita di Pontida di G.Oneto

    A distanza di anni abbiamo ripetuto gli stessi errori: pensare che dialogando con il nemico si sarebbe ottenuto di più e facilmente. Ci siamo divisi, siamo scesi a patti con gente che non ha ideali e combatte la libertà. È tempo di cominciare un’altra fase

    I posti hanno un’anima. Non serve avere dimestichezza con pratiche geomantiche o con i lavori di Underwood per essere sicuri che ci siano angoli di mondo che emanano sacralità, influssi positivi o anche influssi negativi. A Gerusalemme sembra di essere più vicini al cielo, si ha sempre l’impressione - qualsiasi religione si professi - di calpestare pietre dove «è successo qualcosa». Analoghe benefiche sensazioni si provano a Tara o a Angkor. In altri posti si avverte invece una presenza maligna.
    Fra i luoghi che emanano una “voujure”, un soffio vitale positivo c’è sicuramente Pontida.
    È successo la prima volta in un’abbazia adagiata fra verdi colline e continua a farlo oggi, nel triste retro di un supermercato. Vuol dire che la sua forza positiva deve proprio essere grande.
    Il 7 aprile del 1167 i rappresentanti di Cremona, Bergamo, Mantova, Brescia e Ferrara vi hanno prestato il giuramento che avrebbe dato origine alla prima Lega Lombarda. Pontida è diventata allora una sorta di simbolico riassunto degli avvenimenti di quel periodo. Contro le angherie dei funzionari imperiali si era formata nell’aprile del 1164 la Lega Veronese con l’adesione di Verona, Padova e Vicenza, poi di Treviso e di Venezia. L’8 marzo del 1167 i delegati di Cremona, Mantova, Bergamo e di Brescia giuravano di difendersi a vicenda. Il patto aveva durata cinquantennale e coinvolgeva anche Milano. Il 4 aprile dello stesso anno milanesi e bergamaschi avevano firmato un accordo, cui aveva aderito anche Cremona, che prevedeva fra l’altro la ricostruzione delle mura di Milano: un atto simbolico di ritrovata concordia e una aperta sfida lanciata a Federico. Il 27 aprile infatti i milanesi rientravano nella loro città alla faccia degli ordini imperiali. Erano preceduti dalla bandiera di San Giorgio. Milano era l’antica capitale della Terra di Mezzo dei Celti, era molto di più della città più grande: era segno di unità contro il ritorno dell’oppressione di Roma, rappresentata da un imperatore tedesco di nascita, ma romano di nome.
    Quella volta, i rappresentanti di varie comunità padane si erano uniti per vincere una battaglia comune, consapevoli che nessuno di loro da solo ci sarebbe riuscito. Prima di allora i padani avevano trovato qualche forma di benefica unità solo contro i romani e con i longobardi. Cento anni dopo hanno ripetuto l’impresa contro l’odioso e arrogante nipote del Barbarossa, quel Federico II che aveva scritto di essere venuto in Padania (che allora si chiamava Lombardia) per «svellere i piantoni di empia libertà»: sono sue parole. Anche lui è finito male. Ma non sono purtroppo finiti molto meglio i nostri antenati che - passato il pericolo - hanno ripreso a dividersi e combattersi.
    Non molto lontano da Pontida, attorno agli stessi monti, si trova il prato di Grütli, sul quale nell’agosto del 1291 i rappresentanti di tre piccoli cantoni montanari hanno dato vita alla Confederazione elvetica: erano 33 robusti montanari di Svitto, Uri e Unterwaldo che hanno stipulato un patto di unità per combattere un nemico comune e - come è scritto nella dichiarazione di indipendenza della Svizzera - per «difendere e conservare in buono stato sé, i loro beni e i loro diritti». Dopo settecento e passa anni sono ancora lì, ciascheduno libero e autonomo a casa sua, ma tutti uniti nel difendere la più antica indipendenza d’Europa.
    Gli svizzeri hanno lo stesso sangue celta, ligure, retico e germanico dei padani, vivono sotto lo stesso cielo e bevono la stessa acqua, lo stesso vino e la stessa birra: cosa hanno in più di noi che gli ha permesso di restare liberi? Loro hanno saputo coniugare lo spirito di autonomia con quello di unità, hanno scoperto il magico e semplice uovo di Colombo che consiste nel rispetto di tutte le differenze e culture, nel comandare ciascuno a casa propria senza interferire con i fatti d’altri all’interno dell’unità ferrea delle varie autonomie, cementata dalla fermezza nel difendere le libertà di tutti. Solo uniti gli Svizzeri potevano difendere le loro differenze. Solo uniti le hanno difese e rafforzate.
    Per fortuna Pontida è uno di quei luoghi che conservano nel tempo la loro benefica valenza.
    Così, anni fa, ci siamo ritrovati sul grande prato dietro l’abbazia e abbiamo costruito una Lega che è temporaneamente riuscita a “svellere i piantoni di empia oppressione” dei nostri nemici e a risvegliare coscienze e voglia di libertà e di autodeterminazione. Questa volta tutto è successo più in fretta, ma abbiamo commesso gli stessi errori di 850 anni fa: abbiamo creduto che ragionando col nemico si sarebbe potuto ottenere di più e più facilmente che combattendolo, ci siamo divisi, siamo scesi a patti con gente che non ha onore, ideali né parola, si sono formate leghette e partitini in una frantumazione che pensavamo di avere eliminato dal nostro Dna. Abbiamo creduto di ottenere e difendere la nostra libertà patteggiandola come al mercato, ci siamo illusi che dal di dentro del palazzo si potesse combattere meglio e ne siamo solo rimasti inquinati. Molti di quelli che hanno cominciato accettando qualche compromesso hanno finito per accettarli tutti.
    Quelli che invece non ne hanno accettati sono ancora qui. Comincia un’altra fase della nostra antica ricerca di libertà: la terza vita di Pontida.
    Si dice che la storia sia maestra di vita ma anche che solo le esperienze personali possano avere valore. Entrambe le cose sono vere, ma forse la seconda è necessaria per far funzionare la prima, e la prima rende più leggibile la seconda. Noi oggi siamo arricchiti (o appesantiti) da entrambe le esperienze, quella del nostro lontano passato e quella del nostro più vicino presente: le due dicono che solo uniti si vince e che dagli avversari delle libertà non si può ottenere libertà.
    Dobbiamo ricominciare, anche se c’è stanchezza e disillusione, anche se ci siamo sbandati e divisi. Ma siamo pur sempre un popolo con i suoi ideali, le sue insegne, i suoi simboli, la sua vita, la sua identità, la sua aspirazione alla libertà. Le esperienze negative non devono servire per litigare o recriminare, ma per non ripetere gli errori. Tutto quello che non ci uccide ci rinforza. Noi siamo pesti ma vivi; abbiamo preso tante legnate che ci hanno stordito ma non finito: ne usciamo perciò rafforzati e anche molto, molto incazzati contro i nemici, i finti amici, i traditori.
    Oggi ci ritroviamo senza l’uomo che ci aveva convocato anni fa a quel primo Campo di maggio, che aveva fatto correre per valli e città il richiamo a un rinnovato Ver Sacrum della nostra gente. Utilizziamo il tempo dell’attesa del suo ritorno per spulciarci, ripulirci, riannodare le fila, rivedere l’organizzazione, affilare le armi, riempire i depositi, ricaricarci dentro. Forse per fare grandi cose funzionano meglio grandi paesaggi, servono scenari grandiosi, come la valle di Stirling, le Black Mountains, la piana di Poitiers o la Selva Litana. Il nostro prato è stato volutamente ridotto a un brandello lottizzato, a un deposito per carrelli di supermarket. Non è questo che ci ferma: è perfetto per buttare le immondizie e la zavorra che abbiamo accumulato, per lasciare tutti i detriti di cadreghe e poltrone vecchie che qualcuno di noi si è appiccicato alle chiappe. Ma tutto attorno c’è il grande palcoscenico padano, dal Monviso a Venezia, dalla Valle del Sole, all’Alpe della Luna. Quello è il vero scenario in cui dobbiamo combattere.
    È la terza vita di Pontida: i 40 anni nel deserto italiano li abbiamo abbondantemente purgati. Ci aspetta la terra promessa. L’indipendenza.

    Gilberto Oneto 31/05/2004 "il Federalismo" Sole delle Alpi
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    Talking L’apparizione continua del “Socialista Boselli”

    L’apparizione continua del “Socialista Boselli”

    Un personaggio politico che spesso e volentieri compare fisso sullo schermo tv. Le sue uscite durano 10 secondi.

    Gettonatissimo, puntuale come il Big Ben, ma chi rappresenta? Non dice cose particolarmente originali, provocatorie o geniali. Ma forse proprio perché è tanto poco visibile da non dare fastidio. La coincidenza: un Paolo Boselli fu ministro ai tempi di Caporetto

    In un film di qualche anno addietro si vedeva un alieno misteriosamente comparso sulla terra che veniva ricoverato in un ospedale psichiatrico per le sue ingiustificabili stranezze, dove diventava una sorta di popolarissimo eroe. Tempo fa si è altrettanto misteriosamente materializzato nell’italica televisione (che è cosa molto simile a un centro psichiatrico) tale Boselli, anzi il “Socialista Boselli”, come viene sistematicamente denominato. Compare puntuale in tutti i telegiornali, appunto sempre presentato come il “Socialista Boselli”, dove dice la sua su qualsiasi argomento. Il suo è un intervento-spot di 10 secondi fissi, dove si mostra sempre con lo stesso abbigliamento, la stessa immutabile espressione e la stessa inquadratura. Come l’alieno caduto sulla terra, ha riscosso grande successo. Perché?
    Non rappresenta nessuno. Il suo partito prende lo zero virgola ma lui è sempre sui tiggì. Il Partito Umanista prende il doppio dei suoi voti ma non si è mai visto nessuno venircene a raccontare le meraviglie programmatiche. La Lega Autonomia Lumbarda è un colossale contenitore di consensi elettorali di fronte allo Sdi, eppure Elidio De Paoli in televisione non si è mai visto. Per sollievo delle nostre stanche budella e per la sua fortuna personale: è solo non facendosi vedere troppo che può sperare di farsi rieleggere.
    Il “Socialista Boselli” non ha un volto o dei modi che facciano spettacolo e audience. Non è né Sgarbi né Adel Smith. È del tutto anonimo, potrebbe essere un maneghetta del Credito Agricolo di Soriano sul Cimino. Parla sempre con lo stesso tono monotono e sommesso, guarda sempre dalla stessa parte verso il basso ed è immobile come uno stoccafisso.
    Non dice cose particolarmente originali, provocatorie o geniali. In realtà nessuno ricorda qualcosa che abbia detto o che abbia mai detto qualcosa da ricordare. Compare fisso sullo schermo e i suoi 10 secondi non lasciano segno.
    Eppure il “Socialista Boselli” è gettonatissimo, non manca mai, è puntuale come il Big Ben. Ma forse proprio per questo ha grande successo: è tanto poco visibile da non dare fastidio, è così anonimo da non guastare la cena delle famiglie italiane. Anzi è una sorta di blando digestivo, forse anche un po’ sedativo e - all’occorrenza - moderatamente diuretico.
    È tanto anonimo che quasi nessuno ne conosce il nome di battesimo, forse neppure i suoi famigliari più cari. Per tutti è solo il “Socialista Boselli” e se si ipotizza di usare l’articolo alla padana, come “il” Carlo Cudega o “la” Vanna Marchi, allora viene il sospetto (anche fondato) che Socialista sia il suo vero nome di battesimo. Nell’ambiente non sarebbe neppure una novità, come Odiolaguerra Rossi o Firmato Cadorna.
    Forse si chiama proprio così, Socialista. Chissà come lo chiamavano da piccolo o come lo chiamano gli intimi, forse solo Soc, cosa che - essendo bolognese - non può che procurargli imbarazzanti simpatie. Forse per questo tiene pudicamente lo sguardo ad alzo zero.
    Ai giornalisti va bene perché fa da riempitivo, non fa del bene ma neanche del male. Quando c’è un buco trasmettono la sua intervista di 10 secondi, magari anche sempre la stessa, tanto non se ne accorge nessuno. Hanno anche tentato di portarlo a qualche dibattito televisivo ma lì non funziona perché guarda sempre dentro alla stessa telecamera, e dopo 10 secondi si ferma e tocca farlo ripartire da capo.
    Perché vada bene ai suoi sodali politici resta un mistero. Forse ne fanno un uso apotropaico, come una sorta di parafulmine mediatico per le tempeste presenti e future. Il cognome è adatto: un Paolo Boselli era primo ministro del Regno nei giorni di Caporetto. In questo senso le physique du rôle è sinistramente perfetto.
    Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa il vecchio Nenni. Ha visto il Mancini, il De Michelis, l’Intini, la dinastia dei Craxi. Ne ha viste pover’uomo proprio di tutti i colori e si deve essere rivoltato tante di quelle volte da avere trasformato la sua tomba in una trivella per gallerie.
    Ma uno che di nome fa Socialista e ha la faccia da democristianetto non lo aveva mai visto. Fortuna che interviene solo per 10 secondi. Neanche il tempo di rivoltarsi su un fianco.

    Gilberto Oneto



    IL FEDERALISMO - 07/06/2004 Sole delle Alpi
    La massoneria il vero nemico!

 

 
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