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    memoria storica di PoL
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    Predefinito A beneficio di chi in storia non ha la sufficienza…






    cari amici
    di recente Renato Mannheimer, per giustificare in qualche modo i sondaggi che segnalano anche in Italia una chiara maggioranza di opinioni ‘avverse’ ad Israele e alla sua etnia, ha scritto sul Corriere della Sera quanto segue…


    … l’antisemitismo può stimolare il giudizio negativo verso Israele [o viceversa] ma non lo spiega completamente. Agisce anche un altro fenomeno: l’ignoranza sulla reale natura e sulla storia delle ostilità tra israeliani e palestinesi. Soltanto un italiano su tre conosce le modalità di inizio del conflitto. Meno ancora sono coloro che sanno che lo stato palestinese non è per ora mai stato costituito. L’indice basato sulle risposte ad una pluralità di quesiti mostra come due terzi degli italiani [con una accentuazione al solito tra i più anziani, i meno scolarizzati e chi si dichiara ‘di destra’] non sanno nulla o quasi della storia del conflitto. Il che naturalmente non costituisce una colpa, dato che non si può essere informati di tutto. Ma proprio costoro, i meno informati, esprimono il loro giudizio verso lo stato ebraico [e verso gli ebrei in generale] in senso assai più critico degli altri. Insomma per buona parte l’orientamento negativo verso Israele non è formato sulla base di una valutazione della politica del suo governo [come potrebbe essere nei confronti di qualsiasi stato e ciò che di conseguenza non dovrebbe essere interpretato come espressione di antisemitismo] ma dipende principalmente da una errata o parziale conoscenza della dinamica del conflitto e/o dal pregiudizio antiebraico. I due fenomeni sono legati tra loro. La disinformazione sulla realtà degli avvenimenti e la conseguente maggiore disponibilità ad accettare le interpretazioni più semplicistiche appare anche dipendere dal sentimento antiebraico e a sua volta contribuisce a formarlo e a rafforzarlo. Per mutare una opinione tanto negativa e spesso poco fondata su Israele sarebbe dunque utile una maggiore diffusione delle conoscenze sulla sua storia

    ... parole sacrosante queste, ragione per la quale mi riprometto, nei limiti della mia pochezza s’intende, di cercare di porre rimedio a ciò e contribuire ad un salutare ‘chiarimento di idee’ per chi conosce poco gli avvenimenti che hanno finito per creare nel Medio Oriente la situazione che tutti conosciamo. Quello che mi pare particolarmente importante e un obiettivo sicuramente ambizioso è consentire al lettore di stabilire con certezza la verità circa un contenzioso che è stato aperto nei giorni scorsi in seguito alla gita del nostro vice-presidente del consiglio a Gerusalemme. In parole povere se fenomeni come il ‘razzismo’ ovvero ‘emarginazione delle minoranze’ ovvero ‘xenofobia’ [tra questi naturalmente rientra anche il tanto demonizzato 'antisemitismo'... ] siano da considerare ‘male assoluto’ , condannabile sempre e comunque perciò senza appello, ovvero come ‘male relativo’, condannabile cioè solo in caso di ‘eccesso’ e viceversa assai auspicabile se assunto in quantità ‘strettamente indispensabile’ ad una pura e semplice autodifesa. Senza voler peccare di modestia sono certo che alla fine di questo mio lavoro il lettore ‘non prevenuto e non sprovveduto’ non avrà più il minimo dubbio su quale sia delle due opzioni quella ‘da sposare’

    L’obiettivo che il sottoscritto di prefigge è la ricostruzione delle premesse storiche che hanno portato all’interminabile conflitto tra ebrei e palestinesi [o meglio più in generale tra ebrei ed arabi…] che tuttora costituisce ‘il più grave pericolo alla pace del mondo’. Diciamo che, non volendo andare troppo indietro nel tempo, l’inizio di questa serie di vicende può essere fatto risalire agli anni ’20, allorché la Palestina, allora sotto mandato della Gran Bretagna, cominciò ad essere interessata da forte immigrazione di ebrei sionisti, il cui scopo cioè era la ricostituzione di un ‘focolare ebraico’ in quella regione che 1900 anni prima era la loro patria. Naturalmente la scelta di una fonte storica il più possibile ‘attendibile’ su un argomento del genere costruisce un ‘imperativo inderogabile’ da parte mia al fine di mettermi al riparo da ‘certe critiche’ da parte di… sappiamo chi … L’autore perciò cui farò maggiormente riferimento [ma comunque non il solo] sarà Benny Morris, professore di storia all’Università ‘Ben Gurion’ di Haifa [sicuramente pertanto non solo ‘non antisemita’, ma neppure ‘non antisionista’ …], autore di un trattato sulle guerre arabo-israeliane dal titolo altamente significativo: Vittime [edito in Italia da Rizzoli]. Prima di incominciare la lettura del prossimo postato consiglio il gentile lettore di tornare sul mio thread Gli italiani hanno pagato già da tempo, signor Fini!... e leggere i post che riportano alcuni capitoli scritti da Lenny Brenner nel suo Zionism in the age of the dicators [http://www.politicaonline.net/forum/...&pagenumber=13].
    Lì si fa cenno più volte alla ‘ribellione araba’ che scoppiò in Palestina nella seconda metà degli anni ’30, evento che probabilmente è oggi poco conosciuto ma che ebbe forti ripercussioni sui successivi eventi della seconda guerra mondiale. Da lì si può dire cominciano le vicende storiche che ancora attendono la conclusione… buona lettura!…



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    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

  2. #2
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    Predefinito

    La ribellione araba

    [img]http://rds.yahoo.com/S=96062883/K=Izz+al-Din+al-Qassam/v=2/SID=e/TID=I051_83/l=IVS/SIG=12rkma99u/EXP=1124788206/*-http%3A//www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/images/People/al-qassam.jpg[/img]

    Lo sceicco Izz al-Din al-Qassam


    Gli inizi, 1930-35

    Dopo i disordini del 1929 che Amin al-Husayni e altri avrebbero poi chiamato ‘rivolta’ la Palestina beneficiò di alcuni anni di calma apparente. Il conflitto arabo-ebraico si stava però cronicizzando e radicalizzando a causa delle rivalità interarabe, del crescente peso politico di Husayni e dei cambiamenti nella comunità ebraica, sempre più numerosa e influente. Gli arabi si sentivano sempre più minacciati mentre la yishuw si stava convincendo sempre più che alla fine l’assetto politico ed etnico della Palestina sarebbe stato deciso dall’uso della forza. La resa dei conti coincise con la rivolta del 1936-39, con la quale gli arabi cercarono di liberarsi del dominio britannico, o almeno di scuoterlo quanto bastava per cambiare l’atteggiamento di Londra verso la yishuw. Anche se per qualche tempo il secondo scopo fu raggiunto, la rivolta in realtà fu controproducente. La sua repressione indebolì molto gli arabi di Palestina mentre si avvicinava il momento dello scontro decisivo con la yishuw, che ebbe luogo nel 1948.
    I disordini del 1929 avevano scosso profondamente l’amministrazione del Mandato e convinto l’Alto Commissario che la Gran Bretagna avesse puntato sul cavallo sbagliato. Egli riesumò quindi la proposta di concedere l’autogoverno agli abitanti della regione sotto forma di un’assemblea legislativa locale. Nel marzo 1930 una delegazione guidata dal presidente dell’EAP Musa Qasim al-Husayn e comprendente Raghib Nashashibi e Hajj Amin al-Husayni partì per Londra per discutere questa possibilità. Sbilanciata in senso moderato [Musa Kazim, sentendosi minacciato dalla crescente influenza di suo cugino Hajj Amin, si era infatti schierato con l’Opposizione] la delegazione non chiese la piena indipendenza ma una forma di autogoverno della maggioranza sotto l’egida della Gran Bretagna. A sua volta Whitehall insistette sul mantenimento ‘dei poteri legati al Mandato e, almeno in parte, delle promesse fatte ai sionisti'. Così la delegazione tornò in Palestina a mani vuote.
    Nell’ottobre 1930 le speranze arabe erano state riaccese dal libro bianco Passfield e dal rapporto Hope-Simpson, ma la lettera di McDonald del febbraio 1931 aveva molto ridimensionato l’importanza di entrambi. Il 18 febbraio l’EAP rilasciò una ‘Dichiarazione alla nobile Nazione araba’ affermando: ‘Dobbiamo rinunciare a delegare al governo britannico la tutela della nostra esistenza nazionale ed economica perché quel governo è debole di fronte alle forze dell’ebraismo mondiale… Cerchiamo aiuto in noi stessi e nel mondo islamico… Il nuovo documento di McDonald ha distrutto il residuo rispetto che un arabo poteva provare per il governo della Gran Bretagna’.
    A partire dall’estate del 1931 il radicalismo salì dalle folle all’elite arabo-palestinese, aiutato da un aumento dell’immigrazione ebraica frutto a sua volta dell’ondata antisemita in Europa orientale e centrale e dal drastico calo dell’accoglienza di immigrati ebrei da parte degli Stati Uniti. Nel 1929-31 erano giunti in Palestina da 4000 a 5000 ebrei l’anno. Nel 1932 gli arrivi erano stati 9500. Nel 1933 30000. Nel 1934 42000. Nel 1935 62000. In seguito gli immigrati si stabilizzarono su di un livello più basso, 30000 nel 1936, 10000 nel 1937, 15000 nel 1938 e 31000 nel 1939. I timori degli arabi erano aggravati dal nuovo fenomeno dell’immigrazione illegale. Secondo voci per altro inesatte essa sarebbe stata perfino più ingente di quella legale.
    Per gli arabi le ripercussioni economiche furono gravi. Si doveva trovare un impiego a un numero sempre più grande di ebrei, la qual cosa spinse il segretario della federazione di Giaffa a dichirare nel 1937: ‘L’obiettivo fondamentale della Histadrut è la ‘conquista del lavoro’… non importa quanti arabi siano senza lavoro, essi non hanno diritto a nessun impiego che potrebbe essere svolto da un ebreo. Nessun arabo può vantare diritti sui posti di lavoro nelle imprese ebraiche. Se poi gli arabi possono essere sloggiati anche dagli altri impieghi meglio…’.
    Anche i cambiamenti nella società arabo-palestinese negli anni ’30 – urbanizzazione, industrializzazione su piccola scala e disoccupazione – contribuirono al crescente radicalismo. Le tradizionali elite moderate erano insidiate e talvolta emarginate da leader più giovani ed estremisti, spesso di origine ben più modesta. L’Agenzia ebraica, che nel 1929 aveva esteso la sua competenza agli ebrei non sionisti della Diaspora, disponeva di fondi molto maggiori per finanziare l’immigrazione in Palestina. Nel 1939 la regione era abitata da 1070000 arabi [tra essi 950000 musulmani] e 460000 ebrei. Gli arabi erano dunque passati dall’82% della popolazione nel 1931 a meno del 70% nel 1939. Il timore che gli israeliti diventassero prima o poi maggioranza non poteva che crescere in proporzione. Come Ben Gurion cominciava a dichirare apertamente: ‘C’è un contrasto fondamentale. Noi e loro vogliamo la stessa cosa. Vogliamo entrambi la Palestina…’. Spiegò poi, guardando per una volta le cose dal punto di vista dell’altra parte: ‘Se fossi arabo… insorgerei contro l’immigrazione che prima o poi finirà col mettere il paese nelle mani degli ebrei. Com’è possibile che non facciano un po’ di conti e non vedano che un tasso di immigrazione di 60000 persone l’anno significa uno stato ebraico grande quanto la Palestina?…’.
    Il periodo tra le due guerre mondiali vide un netto incremento dei terreni di proprietà degli ebrei. Negli anni ’20 la yishuw acquistò circa 533000 dunam. Negli anni ’30 altri 300000 dunam. Negli anni ’20 gli acquisti riguardavano proprietà ampie, in gran parte disabitate e incolte, vendute dagli effendi assenteisti. Negli anni ’30 d’altro canto cominciarono a cambiare padrone appezzamenti più piccoli, abitati da coloro che d a questi traevano il sostentamento. Forse anche per questo nel suddetto decennio la questione delle compravendite dei terreni e dell’espulsione dei fittavoli fu definita dagli arabi una questione non meno vitale dell’immigrazione ebraica. La domanda fece lievitare i prezzi, tentando i proprietari. Il prezzo medio per dunam balzò da 5.3 sterline palestinesi nel 1929 a 23.3 nel 1935 [il valore della sterlina palestinese era uguale a quello della sterlina britannica]. E’ stato calcolato che i prezzi dei terreni nel 1944 erano pari a 50 volte quelli del 1910. Il console tedesco a Gerusalemme dottor Heinrich Wolff, osservò mestamente che i nazionalisti arabi ‘di giorno protestano contro l’immigrazione ebraica e di notte vendono terreni agli ebrei’.
    Il danno arrecato dalle vendite alla società palestinese era materiale, psicologico e politico. Un rapporto arabo si sofferma sui metodi impiegati dagli ebrei e dai loro agenti arabi: ‘[I contadini arabi] della zona di Samak-Beisan… sanno che le persone semplici come Yusuf al-Irsan del [Bani] Saqr ricevono mensilmente sussidi dagli ebrei e sono intrattenuti con vino e donne a Tiberiade e Haifa [lo stesso Isran soffriva di una malattia venerea contratta approfittando di detta ospitalità]… gli agenti ebrei e arabi si lasciano allettare… manipolano i contadini con la corruzione e l’intimidazione, sempre con il fine ultimo dell’acquisto dei loro terreni…’.
    Ha scritto lo storico Yehoshua Porat: ‘E’ impossibile sopravvalutare gli effetti devastanti di queste vendite sul movimento nazionale arabo-palestinese’. I cambiamenti di proprietà causarono l’espulsione dalla campagna di migliaia di famiglie e il loro trasferimento nelle periferie delle città oppure in altre zone la loro discesa nella piramide sociale dal livello dei piccoli proprietari a quello dei fittavoli e dei lavoratori stagionali. Gli espulsi si aggiunsero alle migliaia che nel periodo 1880-1920 si erano trasferiti dalle zone rurali a città o altri villaggi a causa dei debiti, di frazionamenti di eredità, di carestie e di altre cause indipendenti dall’immigrazione ebraica. Tuttavia a urtare la sensibilità collettiva dei palestinesi era soprattutto la perdita di proprietà riconducibile al sionismo. Molti passavano direttamente dall’esperienza dell’esproprio alla militanza arabo-nazionalista. Gli storiografi hanno concluso che solo ‘alcune migliaia di famiglie’ furono spodestate a causa della vendita dei terreni agli ebrei tra gli anni ’80 del secolo XIX° e gli anni ’30 del secolo successivo. Agli arabi però sembrò di essere travolti da cambiamenti rapidi, minacciosi e incontrollabili. Gli effetti si aggravarono nei tardi anni ’20 e nei primi anni ’30, essendo cresciuti la consapevolezza politica e il livello di istruzione degli arabi, nonché la consistenza numerica della yishuw.
    La radicalizzazione dell’atteggiamento arabo ebbe un risvolto religioso. Sempre di più gli attriti con gli ebrei vertevano, o sembravano vertere, su simboli e valori legati al culto. Appollaiato sul suo scranno al consiglio supremo musulmano, Huisayni sapeva bene che come mettere la religione al servizio della politica. Alla fine del 1931 lui e Shawkat’Alì, un emittente musulmano indiano, organizzarono a Gerusalemme una conferenza islamica mondiale con 130 delegati in rappresentanza della maggior parte dei paesi musulmani. Essa ribadì la santità del Muro occidentale per l’Islam, condannò il sionismo e la vendita dei terreni agli ebrei ed elesse un comitato esecutivo presieduto da Hajj Amin. In effetti il pubblico evento fu una efficace dimostrazione del sostegno panislamico agli arabi di Palestina e rafforzò la diffidenza dei funzionari britannici nei confronti del sionismo. Le segreterie di stato dell’India, una colonia con una importante minoranza islamica, da quel momento assunsero quasi automaticamente un atteggiamento antisionista.
    Gli anni tra il 1930 e il 1935 furono contrassegnati dalla rivalità tra l’Opposizione e la famiglia Husayni. Nel 1934 l’Opposizione vinse le elezioni municipali a Giaffa e Gaza. A Gerusalemme invece vinse il candidato di Husayni, il dott. Husayni Fakhri al-Khalidi [paradossalmente anche grazie al sostegno degli ebrei, sia per le sue doti personali, sia perché il candidato dell’opposizione e sindaco in carica, Rhagib Nashashibi, aveva fatto parte della delegazione antisionista recatasi a Londra nel 1930]. Inoltre dal 1930 la giunta comunale era priva di rappresentati ebraici. L’Opposizione, fino a quel momento una debole coalizione di clan e gruppi di interesse, fondò verso la fine del 1934 il Partito della difesa nazionale. I suoi obiettivi ufficiali a lungo termine assomigliavano a quelli di Husayni, me nello stesso tempo [diversamente dagli Husayni] affermava di voler ‘collaborare’ col governo. In privato i suoi dirigenti erano molto più moderati. Incontravano i sionisti, respingevano gli appelli dei radicali a boicottare la yishuw e non escludevano compromessi che recepissero almeno una parte degli obiettivi a medio termine dei sionisti [proseguimento ancorchè limitato dell’immigrazione e così via]. In breve la facciata del partito era antisionista ma dietro le quinte i leader riconoscevano che essa era necessaria alla ricerca del consenso nel quadro della competizione con gli Husayni e accettavano occasionali sovvenzioni da parte dell’Agenzia ebraica per finanziare articoli di stampa e in iniziative propagandistiche. Un secondo partito legato all’Opposizione, il Partito riformista, venne fondato dalle famiglie gerosolimitane dei Khalidi e dei Budeiri nel maggio-giugno del 1935.
    Gli Husayni risposero ad alcune mosse dell’Opposizione fondando nel marzo 1935 il Partito arabo palestinese, nel cui programma rientrava il proposito d’impedire la nascita nella regione del previsto focolare nazionale ebraico. La sua organizzazione giovanile, detta al-Futuwwa [da una confraternita medioevale di cavalieri arabi] presentava evidenti affinità con la Gioventù hiltleriana, tanto che la denominazione di ‘scoutismo nazista’ le fu attribuita anche ufficialmente. All’inaugurazione, avvenuta l’11 febbraio 1936, Jamal al-Husayni, uno dei più stretti collaboratori di Hajj Amin, dichiarò che Hitler aveva cominciato con sei seguaci e ne aveva ormai 60 milioni. I primi 70 iscritti di al-Futuwwa pronunciarono il seguente giuramento: ‘La vita il mio diritto, l’indipendenza la mia aspirazione, l’arabismo il mio principio, la Palestina il mio paese e in esso non c’è posto che per gli arabi. In questo credo e Allah mi è testimone’.
    Il legame Husayni-nazismo sarebbe affiorato più volte negli anni ’30 e primi anni ’40, durante la lotta dei palestinesi contro il sionismo. Già il 31 marzo 1933, due mesi dopo l’ascesa al potere di Hitler, Amin al-Husayni aveva dichiarato al console tedesco a Gerusalemme che ‘i musulmani dentro e fuori la Palestina danno il benvenuto al nuovo regime tedesco e si augurano che il sistema di governo fascista e antidemocratico si affermi in altri paesi’. A nome degli arabi Husayni manifestò il desiderio di partecipare al boicottaggio nazista degli ebrei.
    Anche l’affermarsi di una elite araba più colta e politicamente consapevole contribuì alla radicalizzazione della comunità. Il subentrare della Gran Bretagna e del Mandato al tradizionale potere ottomano aveva mutato il clima politico dal dispotismo ad un colonialismo piuttosto tollerante e determinato un netto miglioramento del sistema scolastico. La stampa araba aveva conquistato decine di migliaia di giovani lettori e la comunità altrettanti potenziali attivisti. Mentre convinceva della propria moderazione una serie di Alti Commissari procurandosi così il loro sostegno politico e finanziario, Amin al-Husayni soffiava di nascosto sul fuoco della protesta nazionalista [anche tramite il suo giornale al-Jam’iat al-Arabyya]. Egli era cosciente del fatto che il movimento non era ancora abbastanza forte per sfidare apertamente il potere britannico con una ribellione armata. I quadri più giovani però, i quali qualche volta creavano organizzazioni autonome [come l’Associazione giovanile araba e l’Associazione patriottica araba di Nablus] premevano perché si compissero passi più radicali.
    La principale espressione politica di questa tendenza fu la costruzione, nell’agosto 1932, del partito Istiqlal [’indipendenza’], indipendentista panarabo [auspicava l’inclusione della Palestina in una Grande Siria] e ostile alla dichiarazione di Balfuor. Per circa un anno la Istiqlal fu l’espressione più eloquente dell’orientamento politico dei giovani radicali. Poi la sua influenza cominciò a diminuire. Il primo congresso nazionale della gioventù araba, svoltosi a Giaffa nel gennaio 1932, adottò una piattaforma ‘indipendentista’. Membri del partito pattugliavano le spiagge per impedire l’immigrazione illegale ed obbligavano i negozianti ad aderire agli scioperi politici.
    Nel 1930-31 i due Husayni, Amin e Musa Qasim, crearono un ‘Fondo nazionale’ a somiglianza del Fondo nazionale ebraico, per raccogliere fondi destinati ad attività nazionaliste. La maggior parte dei palestinesi però rifiutò di contribuire. Il fallimento dipese in parte dalla mentalità dei possidenti, vicini all’Opposizione, e forse in parte anche da quella degli arabi palestinesi in generale. Il loro senso di appartenenza era infatti rivolto in primo luogo alla famiglia, al clan e al villaggio. Un ‘fondo nazionale’ per impedire agli ebrei di acquistare terreni in qualche remoto angolo della Palestina oltrepassava l’orizzonte dei più.
    Non più tardi del 1933 tuttavia l’inarrestabile espansione delle proprietà fondiarie ebraiche era la prima preoccupazione dell’EAP. Circa 500 notabili urbani e sceicchi di villaggio si riunirono a Giaffa il 20 marzo e criticarono energicamente sia l’acquiescenza britannica nei confronti dell’immigrazione sionista, sia la vendita di terreni agli immigrati da parte degli arabi. Questi ultimi furono minacciati dui boicottaggio e qualche oratore accusò i membri dell’elite musulmana [soprattutto i Nasahashibi] di essere tra i venditori. Il 13 ottobre l’EAP organizzò uno sciopero generale di 24 ore e una manifestazione a Gerusalemme che fu dispersa con durezza [senza però morti o feriti gravi] dalle forze di sicurezza britanniche presso la Porta nuova della Città Vecchia. Una seconda dimostrazione però, organizzata il 27 ottobre a Giaffa dalla Istiqlal senza l’approvazione dell’EAP, finì con 26 morti tra i dimostranti e uno tra gli agenti di polizia. Furibonda l’EAP rispose con uno sciopero generale di una settimana e ulteriori dimostrazioni , mentre gli arrivi di ebrei continuavano senza sosta. La morte di Musa Qasim, il 26 marzo 1934, indebolì ulteriormente l’ala moderata dell’EAP. Le correnti nelle quali era divisa non riuscirono ad accordarsi sul successore e l’esecuitivo perse così anche il poco potere che aveva. Gli arabi si ritrovarono senza timoniere e divisi tra gli Husayni e l’Opposizione.
    Il radicalismo arabo degli anni ’30 si espresse anche in violenze clandestine. Furono costituite varie jihaddiyya [associazioni segrete di lotta]. Nella zona di Gerusalemme la Jihad al-Muqaddas [Società della guerra santa] era capeggiata da ‘Abd al-Qadir al-Huisayni, figlio di Musa Qasim. Basata su cellule di cinque membri, cominciò a raccogliere fondi e armi del 1934. Furono acquistati un centinaio tra fucili e pistole e addestrate altrettante reclute. Nel 1935 Amin al-Husayni assunse personalmente il controllo della formazione. Non è chiaro da quando abbia cominciato a colpire obiettivi britannici.
    Il più importante gruppo clandestino si formò dopo i disordini del 1929 ad Haifa e in Bassa Galilea intorno alla personalità carismatica di predicatore ed ecclesiastico, siriano di nascita ed egiziano di formazione: lo sceicco ‘Izz al-Din al-Qassam [1882-1935]. Nel 1920 egli era fuggito il Palestina dalla Siria, dove era stato condannato a morte in contumacia per attività sovversive antifrancesi. Stabilitosi ad Haifa predicava un islamismo fondamentalista e la jihad sia contro l’autorità del Mandato che contro la yishuw, attirando numerosi seguaci. I britannici lo consideravano uno ‘sceicco fanatico e un estremista religioso dei più temibili’. Fu tra i fondatori della succursale di Haifa dell’Associazione giovanile musulmana, della quale fu presidente nel 1934. Nel contempo egli organizzò la rete clandestina della ‘Mano nera’. In un sermone tenuto alla moschea Istiqlal di Haifa dichiarò: ‘Siete un popolo di conigli che teme la morte e il patibolo e perde il suo tempo in chiacchere. Sappiate che nulla potrà salvarci se non le nostre braccia’.
    Molti dei seguaci di al-Qassam erano contadini poveri e ignoranti. Alcuni avevano perso la terra o il lavoro a causa degli ebrei. Nel 1931-32 essi organizzarono sporadiche aggressioni a insediamenti e singoli lavoratori ebrei. Il 5 aprile 1931, durante le celebrazioni di Nabi Musa, essi assassinarono tre membri del kibbutz Yaqur mentre tornavano dai campi, e ne ferirono quattro. L’anno seguente furono uccisi due abitanti di insediamenti, uno di Balfouriya, l’altro di Kefar Chassidim. Il 23 dicembre 1932 una squadra penetrò nel moshav Nahalal, al limite occidentale della valle di Yezreel, e lanciò una bomba in una casa facendo due morti, padre e figlio. I colpevoli furono catturati e confessarono, cosicché l’organizzazione di al-Qassam venne per la prima volta alla luce, anche se il nome dello sceicco non fu rivelato da alcuno. Per quasi tre anni perciò egli tenne un basso profilo e non ordino altri atti terroristici.
    La tregua della ‘Mano nera’ durò fino al novembre 1935 quando probabilmente essa fu all’origine di quello che fu chiamato ‘incidente del cemento’. Il 16 ottobre un carico di ‘cemento’ giunto via mare al porto di Giaffa e destinato ad un imprenditore ebreo risultò consistere in 800 fucili e 400000 proiettili. Non avendo ottenuto l’appoggio di Hajj Amin né per atti terroristici né per una netta ribellione, al-Qassam si trasferì nella zona di Jenin per reclutare miliziani e iniziare le operazioni. Il 6 novembre il suo gruppo uccise un sergente di polizia ebreo nella zona di Gelboe, scatenando una massiccia caccia all’uomo. Il 21 novembre al-Qassam fu circondato da truppe britanniche presso Ya’bad e fu ucciso insieme con tre seguaci. David Bel Gurion chiamerà più tardi l’episodio ‘la loro Tel Hai’. Il funerale di al-Qassam a Balad al-Shaykh [un villaggio a sud-est di Haifa dove ancora oggi è la sua tomba] si trasformarono in una imponente manifestazione arabo-nazionalista. Le sue imprese e la sua morte catturarono la fantasia di un’intera generazione di palestinesi e contribuirono ad innescare la ribellione araba esplosa sei anni dopo. Alla fine degli anni ’80, durante l’insurrezione chiamata Intifada, il movimento integralista islamico Hamas chiamerà la sua ala militare-terrorista ‘Battaglione Izz al-Din al-Qassam’. I rapporti intercorsi tra il gruppo di al-Qassam e gli Husayni non sono chiari ancora oggi. Quasi certamente lo sceicco aderì al partito Istiqlal e in seguito è possibile abbia aderito al Partito arabo-palestinese degli Husayni.
    Anche tra gli ebrei la rivolta del 1929 rafforzò il radicalismo. I revisionisti la considerarono la conferma della loro tesi che il sionismo poteva vincere solo con la forza delle armi. Al contrario i fautori delle ‘due nazioni’ videro in essa la prova che la riconciliazione andava affrettata prima che la maggioranza araba travolgesse la yishuw. Il socialismo, maggioritario nel movimento sionista e in quel momento rappresentato dal Mapai [Mifleget Po’alei Erez Yisrael – Partito dei lavoratori della Terra di Israele] dovette infine riconoscere che la yishuw non aveva da fronteggiare pochi fanatici sanguinari o delle bande di teppisti ma un vero e proprio nazionalismo palestinese. L’ovvia conseguenza fu la crescente consapevolezza, di cui si fece portavoce Chaim Arlosoroff, direttore del dipartimento politico dell’Agenzia ebraica dal 1931 al 1933, che per raggiungere i suoi obiettivi il sionismo avrebbe dovuto usare la forza. Morto Arlosoroff, ucciso da ignoti a Tel Aviv nel 1933, Ben Gurion incontrò più volte Musa al-‘Alami, membro dell’EAP, sostenendo che il sionismo avrebbe promosso lo sviluppo del paese e il benessere sia degli arabi sia degli ebrei. Al-‘Alami gli rispose che preferiva che il paese restasse arretrato per altri cent’anni se il prezzo del progresso era il trionfo del sionismo. I contatti non portarono a nulla e prepararono lo scoppio della ribellione araba.
    Tra i fattori che fecero precipitare la crisi và menzionata l’incapacità britannica a impedire la conquista dell’Abissinia da parte di Mussolini nel 1935-36 e la rimilitarizzazione della Renania da parte di Hitler nel 1936. Simili segni di debolezza militare e irresolutezza politica non potevano essere sfuggiti a chi meditava di sfidare Londra . Un altro fattore fu la crisi economica in Palestina. Da prima l’ondata migratoria, accompagnata da afflusso di capitali, aveva prodotto una sensibile espansione economica. Gli anni tra il 1932 e il 1935 conobbero una prosperità senza precedenti, sia per gli arabi sia per gli ebrei. Quando però la Società delle Nazioni approvò le sanzioni economiche contro l’Italia i clienti delle banche corsero a ritirare i depositi, molte imprese dovettero chiudere e la disoccupazione dilagò. La yishuw cercò di limitare i danni e il ‘lavoro ebraico’ divenne la sua prima preoccupazione. Gli arabi venivano così licenziati e nessuno di loro riusciva a trovare lavoro. Il risentimento così cresceva, esaltato dall’incessante propaganda antibritannica dalla Libia, da oltre vent’anni colonia italiana. Come se non bastasse, tra il 1931 e il 1934 una prolungata siccità colpì la Palestina. Nel 1932 la produzione agricola del distretto settentrionale si ridusse nei casi migliori al 70% del normale, nei peggiori al 35%. A Gerusalemme e nel sud si assestò al 45%. Gli anni precedenti la rivolta videro il progressivo impoverimento dei villaggi e delle cittadine dell’entroterra collinoso e una forte emigrazione interna verso Haifa e Giaffa, intorno alle quali proliferarono baraccopoli.
    Nel frattempo il successo delle attività antimperialiste in stati vicini incoraggiava i palestinesi a scendere in piazza. La rivolta del novembre 1935 al Cairo fruttò agli egiziani un vantaggioso accordo con i britannici e in Siria all’inizio del 1936 uno sciopero generale di 50 giorni persuase i francesi a firmare un trattato con la popolazione locale.
    Dopo lo ‘incidente del comento’ si diffuse voce che le armi fossero destinate a un ‘massacro’, o almeno ad una guerra contro gli arabi. Fu indetto uno sciopero generale di 24 ore e un altro ebbe luogo il mese successivo. Il 25 novembre i cinque partito politici arabi inviarono una protesta congiunta all’Alto Commissario chiedendo ancora una volta il blocco dell’immigrazione e della vendita dei terreni agli ebrei, nonché l’insediamento di un governo democratico espressione della maggioranza araba. Gli sforzi britannici per dar vita ad un consiglio legislativo in cui Londra conservasse l’ultima parola non ottennero il consenso degli arabi né dei sionisti e furono definitivamente abbandonati dopo il parere negativo della Camera dei Comuni, che li giudicò in contrasto con lo spirito del Mandato. Successivi sterili negoziati furono interrotti nell’aprile del 1936 all’inizio dello sciopero generale che accompagnò la prima fase della rivolta.

    [continua]

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    La prima fase

    La sera del 15 aprile 1936 una banda di arabi armati organizzò un posto di blocco su una strada tra le colline a est di Tulkarm. Agli altri arabi che la percorrevano essi estorcevano ‘contributi’ per armi e munizioni mentre tre ebrei furono raggiunti da colpi d’arma da fuoco. Uno morì all’istante, il secondo dopo cinque giorni, il terzo sopravvisse. Sarebbero state considerate le prime tre vittime della rivolta araba. Tre giorni dopo la rappresaglia della Irgun Beth. Membri di questa organizzazione penetrarono in una baracca vicino a Petach Tikvaq e uccisero due arabi.
    A Tel Aviv i funerali di uno dei due ebrei sfociarono in una violenta dimostrazione antiaraba e antibritannica. La storia ufficiale della Haganah ne incolpa alcuni ‘ebrei orientali [sanfrediti] impulsivi e disorganizzati’. Un passante arabo e un poliziotto intervenuto in sua difesa furono malmenati. Il giorno dopo furono aggrediti alcuni lustrascarpe e venditori ambulanti arabi. Reparti britannici affluirono a Tel Aviv quando era troppo tardi. Il 19 aprile folle di braccianti disoccupati e pendolari siriani sparsero la voce che una donna araba e tre lavoratori siriani erano stati uccisi a Tel Aviv. Poi si riversarono a Giaffa dove uccisero nove ebrei e ne ferirono una sessantina. Secondo alcune fonti furono incitati da giovani leader a’yan, tra i quali Fakhry Nashashibi, nipote e braccio destra del capo dell’Opposizione Raghib Nashashibi. Alcuni passanti ebrei furono salvati da civili arabi e un ufficiale di polizia britannico uccise due rivoltosi. Migliaia di ebrei residenti a Giaffa fuggirono a Tel Aviv. Ebrei e arabi dei dintorni di Giaffa e Tel Aviv si scontrarono per due giorni, bruciando botteghe e abitazioni. Altri otto ebrei e sei arabi persero la vita, i secondi per opera della polizia.
    I disordini si estesero rapidamente. Fin dal principio gli arabi la chiamarono thawra [rivolta] e ‘Grande ribellione araba’. Il pedagogo e di diarista di Gerusalemme Khalil al-Sakakini la chiamò ‘lotta per la vita o la morte’ e la fa iniziare nel suo diario il 21 aprile. Ebrei e britannici, con l’intenzione di essere più obiettivi, parlarono rispettivamente di ‘eventi’ e ‘disordini’. Il realtà le definizioni arabe sono più esatte. Si trattava degli esordi della più lunga ed estesa ribellione al dominio britannico verificatasi in Medio Oriente e della più significativa mobilitazione della storia palestinese prima della Intifada antiisaraeliana di mezzo secolo dopo. Inoltre, almeno in questa fase, si trattò di una rivolta popolare. Scrisse Ben Gurion: ‘Gli arabi lottano contro gli espropri… combattono una guerra che non si può ignorare. Scioperano, vengono uccisi, sono pronti a grandi sacrifici’. La rivolta però mise anche le profonde divisioni della società palestinese, che finirono per renderla dispersiva e inefficace: tra le famiglie degli a’yan, tra abitanti dei villaggi e cittadini, tra poveri e ricchi, tra musulmani e cristiani, tra abitanti di diversi distretti.
    Furono i giovani nazionalisti, gli shadab, a prendere le redini della rivolta, un’altra delle molte somiglianze con la Intifada. Gli anziani esitavano e il Gran Muftì Amin al-Husayni sembra aver cercato fino alla fine di giugno di distogliere la comunità da uno scontro frontale col governo del Mandato. I leader tradizionali furono risucchiati dagli eventi e un’organizzazione da loro dipendente si delineò fin dai primi giorni. Il 19 aprile fu costituito a Nablus un Comitato nazionale. Realtà analoghe, con rappresentanti delle principali fazioni, si formarono in altre città. Chiusure e scioperi si ebbero in numerose località. Era come se vi fosse stata legna da tempo rinsecchita e in attesa del fiammifero che avrebbe acceso il fuoco.
    Non è chiaro quanto lavoro preparatorio avessero alle spalle i Comitati nazionali e gli scioperi. Entrambi però comparvero molto presto e in luoghi diversi. A Giaffa scaricatori e bottegai si opposero ma furono intimiditi dagli attivisti nazionalisti. Nelle città con popolazione mista i militanti cercarono di impedire il commercio tra i settori arabi ed ebraici. Nella notte tra il 19 e il 20 aprile rappresentanti a livello nazionale delle famiglie arabe s’incontrarono a Nablus e decisero, ispirate dal leader locale della Istiqlal Akram Zu’aytir, d’indire uno sciopero generale di quattro giorni.
    Il 25 aprile i rappresentanti di varie fazioni si incontrarono a Gerusalemme e istituirono un direttivo super partes di otto membri, l’Alto comando arabo, che diventò l’erede dell’EAP e guidò la lotta degli arabi palestinesi nel 1939-39 e nel 1946-48. Amin al-Husayni, eletto presidente dell’Alto comitato, dichiarò che lo sciopero sarebbe finito solo quando il governo avesse fermato l’immigrazione e la compravendita dei terreni collegate con il sionismo e permesso la formazione di un’assemblea legislativa eletta dal popolo. Se le richieste non fossero state accettate entro il 15 maggio la comunità arabo-palestinese avrebbe dato inizio alla resistenza attiva, senza escludere il ricorso alla guerra armata. Lo sciopero ebbe efficacia limitata. I servizi cruciali come il porto di Haifa e le ferrovie continuarono a funzionare, i contadini continuarono a seminare e mietere, gli arabi in posti di responsabilità continuarono a svolgere i loro compiti. Ciò nonostante la sua risonanza politica fu enorme. Si trattò della più significativa dimostrazione di nazionalismo arabo-palestinese sino a quel momento e durò fino a metà ottobre.
    Paradossalmente, pur provocando carenza di prodotti agricoli e ritardi nell’edilizia, lo sciopero aiutò l’economia sionista a realizzare l’obiettivo del ‘lavoro ebraico’ perché in molti casi gli scioperanti furono rimpiazzati da lavoratori ebrei. La porzione ebraica dell’economia palestinese fu spinta verso l’autarchia. Per esempio la chiusura del porto di Giaffa portò in breve tempo alla nascita del porto ‘ebraico’ di Tel Aviv. Come osservò Ben Gurion, ‘la prima e principale lezione dei disordini… è che dobbiamo liberarci da ogni dipendenza economica nei confronti degli arabi… Non dobbiamo dare ai nostri nemici la possibilità di ridurci alla fame, bloccare i nostri accessi al mare, privarci di ghiaia e pietre da costruzione’.
    Le autorità del Mandato misero in allerta truppe egiziane di rinforzo e organizzarono posti di blocco, coprifuoco e pattugliamenti. Compirono però anche atti distensivi annunciando il 18 maggio l’introduzione di un tetto di immigrazione ebraica pari a 4500 persone per il semestre successivo. Con tutto ciò l’Alto comando arabo, che puntava al blocco completo dell’immigrazione, reagì estendendo lo sciopero e dando inizio al terrorismo urbano e alla rivolta armata nelle campagne. Ordigni furono fatti esplodere presso postazioni e uffici britannici e, in minor misura, vicino a obiettivi ebraici. Nella sola Giaffa in maggio esplosero 41 bombe, 35 ad Haifa. Il 16 maggio un arabo sparò sugli ebrei che uscivano da un cinematografo, uccidendone tre e ferendone due. Furono esposi colpi contro posti di polizia britannici. A Giaffa, con il suo intrico di viuzze, gli insorti ebbero per qualche tempo campo libero, specialmente di notte. I britannici reagirono distruggendo metodicamente con esplosivi varie parti della Città Vecchia. Complessivamente furono distrutte 220 abitazioni. Le forze del Mandato ripresero anche il controllo di Nablus. Gli ebrei di Hebron, tornati in quella città all’inizio degli anni ’30, dovettero però essere evacuati.
    L’Alto comitato e i Comitati nazionali locali cominciarono a incitare le campagne alla ribellione. Le modalità della mobilitazione sono accennate in un rapporto spionistico della Haganah su una manifestazione svoltasi a Masmiya al-Kibra il 1° giugno, con la partecipazione di delegazioni di 14 villaggi vicini. Dichiarò un delegato…

    Gli abitanti di Bayt Dajan si sono già ribellati al governo e agli ebrei sacrificandosi per la patria… Perché dovrei vedere i giovani di questo distretto che continuano a dormire come se temessero la morte o la prigione?… Se si continua a non far nulla la Palestina diverrà casa e patria per gli ebrei… [Dovete] combattere i nemici, nemici della vostra religione, che vogliono distruggere le moschee e cacciarvi dalla terra che vi appartiene…

    Senza volerlo le autorità facilitarono l’incitamento alla rivolta mandando al confino gli attivisti urbani, i quali cominciarono a sobillare i contadini. In più dall’11 maggio i membri dell’Alto comitato iniziarono a loro volta a battere le campagne [nonostante l’ammonimento del governo a non lasciare le città] e a incitare alla ribellione. Il governo reagì allora arrestando ed esiliando alcuni dei giovani nazionalisti più in vista, tra i quali Akram Zu’aytir e Fakhri Nashashibi.
    Dal 1930 la Gran Bretagna schierava in Palestina una forza armata permanente di due battaglioni di fanteria e di un reparto di autoblindo della RAF. Essa però non aveva tenuto il passo con l’aumento effettivo della popolazione, nemmeno tendo conto del rafforzamento della polizia. Così nelle prime settimane della rivolta fu sopraffatta.
    All’inizio vi fu attività sporadica di cecchini contro veicoli e insediamenti degli ebrei ma, fatta eccezione per Giaffa, nessun attacco in grande stile. Gli ebrei cominciarono così a spostarsi in convogli e a blindare in modo artigianale camion e pullman. Furono numerose anche le distruzioni di orti e frutteti, una tattica che risaliva alla faida tra villaggi arabi. Si calcola che durante la rivolta siano stati abbattuti 200000 alberi ‘ebrei’. Vi furono anche isolate aggressioni con esito letale. Il 15 agosto furono uccise due infermiere ebree dell’ospedale governativo di Giaffa.
    All’inzio la reazione britannica ai disordini fu limitata. Le autorità speravano che essa si sarebbe esaurita spontaneamente senza ricorrere a misure che rischiavano di compromettere in modo definitivo i rapporti anglo-arabi. Silo il 7 settembre Whitehall proclamò la legge marziale e dichiarò di essere pronta a varare misure drastiche per mantenere ordine e legalità. Nel primo semestre di rivolta, durante il quale persero la vita 200 arabi, 80 ebrei e 28 britannici, nessuna condanna a morte fu inflitta dai tribunali. A partire da quella data ventimila uomini giunsero via mare dalla Gran Bretagna e dall’Egitto, 2700 poliziotti ebrei in soprannumero furono reclutati e organizzati militarmente, armi furono distribuite agli insediamenti ebraici isolati. Con pattuglie, perquisizioni e imboscate i britannici costrinsero i terroristi a lasciare le città. Nella Città Vecchia di Giaffa i britannici fecero esplodere dozzine di abitazioni per espellere i ribelli. Molti militanti così si trasferirono e presero a operare nelle campagne. Soprattutto nelle colline bande di ribelli cominciarono a tendere imboscate e ad attaccare basi militari e insediamenti ebraici. ‘Abd al-Qadir al-Husayni lasciò Gerusalemme e, passando di villaggio in villaggio, reclutò contadini per il suo gruppo Jihad al-Muqaddas. Jamal al-Husayni ordinò a un leader di Tulkarm di ‘organizzare bande in grado di uccidere, bruciare case e sdrardicare alberi. Se si perde questa occasione la sorte degli arabi sarà segnata’.
    Dalla metà di maggio del 1936 ‘il settore rurale diventò il baricentro della rivolta’. Il giugno le bande armate compirono scorrerie nelle regioni collinari della Giudea, Samaria e Galilea, nei monti di Gelboe e nella valle di Yezreel. Secondo un dispaccio britannico l’area di maggiore illegalità era la Samaria, con Nablus al centro. Tra capi e organizzatori primeggiavano i veterani di ‘Izz al-Din al-Qassam.
    Le campagne di reclutamento dei ribelli non ebbero un successo né immediato né uniforme. I contadini erano riluttanti ad affrontare i britannici, i quali non ostante la debolezza dimostrata in Abissinia e in Renania erano sempre militarmente temibili. Il precedente quindicennio di dominio britannico aveva inoltre mostrato i suoi aspetti positivi. Le tasse erano diminuite, il governo aveva varato norme antiesproprio e in alcun i casi concesso incentivi economici. Miglioramenti palpabili si erano avuti nella sicurezza, nella sanità e nella pubblica amministrazione.
    La siccità dei primi anni ’30 però, particolarmente sentita nei villaggi di collina, provocò un massiccio esodo dalle campagne verso le città. Ciò indebolì molto il tradizionale tessuto sociale, basato su figure di autorità stabili e ben definite. I giovani più esagitati si sottrassero al controllo dei capifamiglia e degli sceicchi. Questi sviluppi socio-economici spiegano in parte la comparsa delle bande rurali, anche se il principale storico della ribellione non lo ritiene affatto il principale motivo della mobilitazione contadina.
    Il maturare delle messi nella primavera-estate del 1936 ritardò la partecipazione dei contadini alla rivolta. Solo dopo il raccolto, da maggio a giugno inoltrato, l’insurrezione fece presa sui lavoratori agricoli. Tra l’altro nelle prime settimane di disordini questi erano privi di rappresentanza sia nell’Alto comitato sia nei Comitati nazionali [di carattere locale]. La guida del movimento fu assunta dagli attivisti urbani, con i contadini, politicamente più arretrati, nel ruolo di massa di manovra. Del resto gli abitanti dei villaggi erano abituati ad obbedire e a chiedere consiglio agli smaliziati a‘yan urbani.
    Al termine dell’estate del 1936 gran parte della campagna era in rivolta. Alla fine le motivazioni politiche dei fellahin non differivano da quelle dei ribelli urbani [insofferenza alla dominazione straniera, odio per gli infedeli, avversione e paura nei confronti degli ebrei]. Anche le tradizionali rivalità tra clan ebbero un ruolo. Nessun clan voleva apparire infatti meno patriottico degli altri. In agosto le bande ribelli compirono regolarmente atti di sabotaggio interrompendo linee telefoniche, danneggiando ponti stradali e ferroviari, attaccando con tecnica mordi-e-fuggi insediamenti ebraici e stazioni di polizia. All’inizio, portata a termine una missione, tornavano al lavoro dei campi. A poco a poco però si formarono unità di guerriglia a tempo pieno di 50-100 effettivi. Funzionari e poliziotti arabi fornivano loro informazioni riservate. Tra luglio e agosto queste unità cominciarono a coordinarsi.
    Fin dall’inizio l’Alto comitato negò ogni collegamento tanto con la ‘ribellione’ locale quanto col terrorismo urbano. E’ chiaro però che l’Alto comitato e i Comitati nazionali che da quello dipendevano ebbero un ruolo nell’organizzazione, nel finanziamento e nell’approvvigionamento sia delle bande rurali che del terrorismo urbano. I luogotenenti di Amin al-Husayni sostennero in seguito che egli aveva segretamente guidato la rivolta nei primi due mesi. Il suo CSM si guardò bene tuttavia dall’approvare pubblicamente i disordini o di dare loro una giustificazione religiosa. Anzi in quella fase il Muftì si dichiarò ‘contrario alla violenza, perché la violenza non serviva a nessuno scopo utile’. E’ probabile che stesse facendo il doppio gioco, come sostenuto da un osservatore inglese. In agosto però il CSM approvò esplicitamente la rivolta. Il quotidiano degli Husayni al-Liwa invitò i ribelli a battersi ‘finchè Dio non abbia pronunciato la sua sentenza’. Armi furono depositate nell’Haram al-Sharif e Husayni cominciò a raccogliere denaro e impartire direttive.
    Tuttavia, soprattutto a causa delle rivalità tra gli Husayni e i Nashashibi, l’Alto comitato non riuscì mai ad imporsi alla maggioranza delle formazioni guerrigliere. Il denaro raccolto in sostegno degli scioperanti fu dirottato da Amin al-Husayni ai gruppi armati. Accadeva anche che dei ricchi palestinesi aggirassero l’Alto comitato e fondassero o sovvenzionassero in modo autonomo bande locali [come nella zona di Nablus]. Inoltre molte bande si autofinanziavano estorcendo contributi sia con la forza sia con le minacce. Armi e munizioni affluivano in abbondanza dalla Siria e dalla Trangiordania, il più delle volte contrabbandate dai beduini sfuggendo il controllo dell’Alto comitato.
    E’ probabile che le bande, e in questa fase l’Alto comitato, abbiano ricevuto denaro anche dall’Italia, ai ferri corti con Londra sulla questione dell’Abissinia e desiderosa pertanto di crearle qualche problema nelle retrovie. Nel giugno 1936 il ministro degli esteri Anthony Eden scisse che ‘i disordini… sono stati alimentati in qualche misura da denaro e intrighi italiani’. Nel settembre 1940 il ministro degli esteri italiano conte Galeazzo Ciano parlò di ‘milioni versati al Muftì’. Il servizio segreto della Haganah trovò indizi del fatto che anche i tedeschi inviavano armi e capitali ai ribelli. La propaganda italiana e tedesca approvava la ribellione e attaccava violentemente il Mandato. A loro volta gli arabi, nelle parole di un commentatore, ‘danneggiati dalle pressioni e dalle manovre degli ebrei simpatizzavano con nazisti e fascisti, anch’essi alle prese con gravi problemi creati dalle trame ebraiche e dalle ingerenze della finanza internazionale [l’enfasi è aggiunta… - n.d.r.]’.
    Verso la fine dell’estate un gruppo di 200 volontari provenienti dall’Iraq, dalla Siria e dalla Trangiordania penetrò nel nord della Samaria. Erano guidati da Fai al-Qawuqji, ex-ufficiale ottomano che aveva avuto un ruolo di primo piano nella guerriglia antifrancese del regime damasceno di Faysal ed era stato consigliere militare di Ibn Sa’ud. Con il blando sostegno di Siria e Iraq egli fu riconosciuto quasi subito dai capi di alcune bande di insorti come ‘comandante in capo della rivolta di Palestina’ [o ‘Siria meridionale’ , come egli la chiamava]. Qawuqji era in buoni rapporti con Nashashibi, cosa che ben presto gli guastò quelli con gli Husayni. Inoltre fece di tutto per tenere a distanza l’Alto comitato e neppure la sua ‘usurpazione’ del ruolo di capo della guerriglia dovette piacere agli Husayni.
    L’Alto comitato organizzò imponenti campagne di propaganda e raccolta di fondi in Egitto, Siria e Iraq, tanto che Whitehall cominciò a temere che la situazione danneggiasse sia le relazioni anglo-arabe in genere, sia specifici interessi imperiali come il controllo della zona del Canale. Scioperi e manifestazioni in sostegno della rivolta arabo-palestinese in Trangiordania, Libano, Iraq e Siria furono seguiti da mediazioni dell’emiro ‘Abdallah di Transgiordania e del ministro degli esteri Nuri Sa’id tra l’alto comitato, la Gran Bretagna e la yishuw. L’obiettivo di ‘Abdallah era ‘tenere un piede in Palestina’, quelli di Sa’id far progredire la causa di una federazione hasc imita comprendente Iraq, Trangiordania e Palestina. La demarche di ‘Abdallah ebbe l’appoggio dei Nashashibi.
    L’asse ‘Abdallah-Nashashibi non fu affatto gradito agli Husayni, mentre l’Alto comitato era riluttante a fare concessioni ai britannici non ostante le correzioni ‘cosmetiche’ proposte a suo beneficio dai mediatori arabi. Gli Husayni radicalizzarono la loro intransigenza fino a far eliminare alcuni esponenti dell’Opposizione inclini al compromesso. Nel luglio 1937 il tentavo di assassinare Fakhri Nashashibi, compiuto a quanto pare da seguaci degli Huisayni, causò l’abbandono da parte dei Nashashibi dell’Alto comitato. Dalla metà di settembre del 1936 la realtà politica e militare impose una pausa alla ribellione. Il 16 settembre il quotidiano di Guiaffa Filastin chiese la fine dello sciopero, in atto ormai da cinque mesi. Giaffa era il centro della coltivazione degli agrumi e i frutti erano quasi maturi. Per gli arabi il costo economico delle agitazioni era stato elevato. Ora essi avevano assoluto bisogno di tornare a lavorare e riscuotere stipendi. Inoltre a settembre, in seguito all’arrivo del volontari di Qawuqji e al deterioramento dell’ordine pubblico nelle campagne, il governo britannico era passato dal contenimento della rivolta ad una vera e propria controinsurrezione, scatenando una controffensiva nell’entroterra collinoso. Abitazioni contadine erano fatte esplodere a scopo punitivo e di deterrenza, mentre una intera divisione si imbarcava alla volta della Palestina. L’aumento dell’impegno militare di Londra comportava per i guerriglieri il rischio della disfatta e contribuì così a far pendere la bilancia verso la pace.
    L’Alto comitato aprì allora con Londra un complesso negoziato che prevedeva un ‘appello’ ai palestinesi da parte die sovrani di Arabia, Yemen e Iraq e dell’emiro di Trangiordania affinché interrompessero lo sciopero. Finalmente l’apprllo che permetteva all’Alto comitato di revocare lo sciopero senza perdere la faccia [e forse di ottenere qualche concessione dai britannici] fu diffuso il 10 ottobre. I sovrani e l’emiro esortarono i ‘figli, gli arabi di Palestina’ a cesare ogni spargimento di sangue e a confidare nella ‘buona volontà dell’amica Gran Bretagna, che ha dichiarato di voler far giustizia’. Il giorno dopo l’alto comitato rispose con un pubblico appello alla nobile nazione araba di Palestina a placare la sua collera e mettere fine allo sciopero e ai disordini’.
    In segreto l’Alto comitato emise anche un proclama ai capi delle bande guerrigliere che dichiarava…

    … nobili fratelli!… eroi!… la nostra povera favella non può esprimere la forza dell’affetto, l’ammirazione e l’esultanza che celiamo nel cuore di fronte al vostro spirito di sacrificio e alla vostra pia guerra in difesa della fede, della patria e di tuuto ciò che è arabo. State certi che la vostra lotta è scolpita a lettere di fuoco nella cronaca della nazione. E ora… noi… vi chiediamo di fermare ogni attività fino a nuovo ordine. Risparmiate i proiettili e abbiatene cura. Comincia ora un periodo di speranza e attesa. Se la regia commissione sarà convocata giudicherà secondo giustizia e riconoscerà i nostri diritti. In caso contrario il campo di battaglia ci aspetta… esigiamo… autocontrollo e rispetto dell’armistizio fino a nuovo ordine…

    I britannici non avevano concesso il blocco dell’immigrazione ebraica ma avevano lasciato intendere che la regia commissione [promessa già in maggio] avrebbe esaminato le rimostranze degli arabi non appena le violenze fossero cessate. Le truppe del Mandato, che credevano di essere sul punto di sbaragliare i ribelli, accolsero la svolta con scarso entusiasmo. I membri della bande ebbero una settimana per disperdersi e tornare ai villaggi di origini, cosa che fecero con la sola eccezione degli uomini di Qawuqji. Alla fine questi ultimi furono circondati ma i britannici diedero loro la possibilità di attraversare il Giordano e proseguire verso l’Iraq.
    Ai primi di novembre la commissione Peel, incaricata di indagare sulle cause dei ‘disordini’, si imbarcò alla volta della Palestina. Così si concluse la prima fase della rivolta. In seguito i funzionari britannici sarebbero stati rimproverati per la ‘debolezza’ dimostrata in questi frangenti e per non aver schiacciato la serpe della violenza quando era nell’uovo.

    [continua]

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    La Haganah [Difesa] venne fondata nel giugno del 1920 per decisione dei leader sionisti, i quali reputavano indispensabile disporre in Palestina di una forza armata del tutto indipendente dall'occupante britannico. Nel corso degli anni successivi, grazie ad un continuo rifornimento di armi, materiali e fimnanziamenti provenienti dall'Europa e a un intenso pèrogramma di addestramanto, crescerà continuamente fino a divenire nel 1936, allo scoppio della 'rivolta araba', un vero e proprio corpo militare. Nonostante l'amministrazione britannica non la riconoscesse ufficialmente, le forze di sicurezza britanniche cooperarono con la Haganah formando una milizia civile. Nell'estate del 1938 vennero costituite le Squadre Notturne Speciali [S.N.S.] sotto il comando del capitano Orde Wingate, il quale aveva combattutto in precedenza in Abissinia contro gli italiani


    La reazione ebraica

    Lo scoppio della rivolta scioccò la yishuw abituata da sempre ad un relativa tranquillità. L’atteggiamento pubblico dei leader sionisti era riassunto da Chaim Weizmann: ‘Da una lato si sono destate le forze della distruzione, le forze del deserto, dall’altro stanno ben salde le forze civili e costruttive. E’ la vecchia guerra del deserto contro la civiltà ma non permetteremo che il nostro cammino venga fermato’. Retorica a parte gli ebrei capirono che ormai erano seduti su un vulcano e che la crescita della yishuw non sarebbe stata più tollerata dalla popolazione locale. ‘Non c’è scelta’ [eyn bererah] affiorò come un surreale grido di guerra. Da quel momento gli ebrei avrebbero dovuto vivere con la pistola sotto il guanciale.
    Alcuni sionisti sembravano sorpresi. Erano venuti in Palestina con spirito pacifico, perché gli arabi reagivano in questo modo?… Come si leggeva si di un volantino del 1°maggio 1936 del Mapai [a oltre una settimana dall’inizio della rivolta] : ‘Solo un meschino sciovinismo reazionario può ignorare i benefici che la nostra impresa ha già apportato e continuerà ad apportare agli arabi e al paese’. Ancora una volta i disordini erano attribuiti ad una minoranza di ‘sobillatori’. Ancora una volta i mapainik cercarono di distinguere tra arabi ‘buoni’ e ‘cattivi’. Ancora una volta gli ebrei si sforzarono coscientemente di minimizzare quello che accadeva o stava per accadere e si parlò di pogrom, un termine che semplificava il problema, demonizzava gli arabi e paradossalmente confortava gli ebrei, occultando il fatto che essi non avevano a che fare con bande di cosacchi del deserto o teppisti di strada ma con un movimento nazionalista rivale. I commentatori che osavano parlare di ‘rivolta’ badavano bene di scrivere in termine tra virgolette, facendo capire che il suo uso era tutt’al più una discutibile metafora. Infine quando ammettevano l’esistenza di un movimento nazionalista arabo le fonti ebraiche tendevano e delegittimarlo definendolo immorale e terroristico o equiparandolo al fascismo e al nazismo. Scriveva per esempio Said Yizchaq Tabenkin, un ideologo del movimento del kibbutzim: ‘La svastica, agitata nella Germania di Hitler, e la bandiera verde, lo stendardo nazionale arabo, sono una sola bandiera, quella dell’odio nazionalista’.
    Alcuni sionisti, pur esprimendosi in modo analogo a beneficio del grosso pubblico e degli stati esteri, sapevano che la verità era ben diversa. Ben Gurion e Sharett non dubitavano della realtà della rivolta, né del fatto che i timori e le denunce del movimento arabo-nazionalista fossero comprensibili e talvolta legittimi. ‘Gli arabi temono che il nostro potere si consolidi – affermò Ben Gurion il 19 maggio 1936 – Rispetto a noi percepiscono la situazione in modo rovesciato. Essi vedono un’immigrazione si larga scala… gli ebrei che si rafforzano economicamente… le loro terre migliori finire in mano nostra. E vedono l’Inghilterra identificarsi con la causa sionista’.
    Gli arabi secondo Ben Gurion erano convinti di ‘lottare contro l’esproprio… Quello che li spaventa non è perdere questo o quell’appezzamento, ma una terra che è la dimora degli arabi e che altri vogliono trasformare in dimora per gli ebrei’.
    I britannici e la yishuw erano di fronte a una ‘ribellione’, forse ad un ‘conflitto sanguinoso’. ‘C’è un conflitto di fondo. Noi e loro vogliamo la stessa cosa. Vogliamo entrambi la Palestina…’ I nostri progressi, la nostra semplice presenza qui ha nutrito il movimento nazionalista arabo’. Sharett, successore di Arlosoroff al vertice del dipartimento politico dell’Agenzia ebraica, si esprimeva in modo molto simile: ‘La paura è il fattore principale della politica araba in Palestina… Non c’è arabo che non sia allarmato dall’arrivo degli ebrei nel paese’.
    I leader della yishuw capivano che era nel loro interesse mantenere un basso profilo e lasciare agli inglesi il compito di sconfiggere gli arabi. Fare di testa propria comportava il rischio che i britannici reagissero con un ‘vadano pure al diavolo entrambi’. La politica della havlagah [‘rinuncia ad agire’] fu presto adottata dai principali leader sionisti e per molti mesi fu seguita anche dai revisionisti. Fin dall’inizio era stata la linea di Ben Gurion…

    Coloro che oggi hanno ucciso dei nostri in una imboscata non intendevano solo eliminare degli ebrei… volevano anche provocarci… Da una svolta di questo tipo gli arabi avrebbero tutto da guadagnare. Vorrebbero che il paese vivesse in un pogrom perpetuo… Ulteriori spargimenti di sangue sarebbero utili agli arabi, dannosi a noi… La nostra forza sta nel limitarci a reagire… e questa forza ci darà la vittoria sul piano politico se l’Inghilterra e il mondo sapranno che non stiamo attaccando ma difendendoci

    Di lì a qualche mese però la havlagah si trasformò da pura e semplice difesa in rudi pattugliamenti e imboscate fuori dagli insediamenti, anche se gli obiettivi restavano i ‘malfattori’ e non gli innocui passanti arabi. Quanto ai musulmani all’inizio si limitarono agli incendi dolosi e al cecchinaggio nelle città, mentre nelle campagne cercavano di bruciare le messi e danneggiare alberi da frutta. Vennero poi gli attacchi agli agricoltori ebrei nei campi e ai loro veicoli in transito. Furono allora organizzati convogli con soldati e autoblindo britannici di scorta ai veicoli civili. I contadini ebrei andavano e tornavano dai lavori dei campi sempre in gruppo. Nelle città gli arabi cominciarono a lanciare bombe e granate contro le case e gli automezzi degli israeliti.
    La Haganah impiegava le sue forze soprattutto per pattugliare il perimetro dei quartieri ebraici delle città miste e il confine tra Tel Aviv e Giaffa. La Haganah e l’Irgun Beth [vicino ai revisionisti] non avevano raggiunto un accordo ufficiale, cosicché i comandanti regionali strinsero patti di collaborazione sul piano locale. Per mesi così l’Irgun Beth si attenne alla havlagah mentre la stampa revisionista si scagliava contro la Haganah perché faceva lo stesso. Solo a metà agosto, dopo l’assassinio di due infermiere a Giaffa, di quattro persone nei boschi del monte Carmelo e di un bambino a Tel Aviv [tutti ebrei] , la ‘Difesa’ rinunciò temporaneamente alla resistenza passiva. Alcune squadre varcarono la terra di nessuno, tirarono bombe e spararono colpi di fucile contro le case arabe del perimetro settentrionale di Giaffa, facendo alcuni morti. Un plotone della Haganah attaccò un accampamento beduino a Jamasin, a nord di Tel Aviv, e gruppi di miliziani di Haifa attaccarono alcuni passanti a Tira, al confine sud della città, uccidendo una donna e ferendo due uomini. Il 17 agosto l’Irgun Beth tese un’imboscata al treno per Giaffa, uccidendo un passeggero armeno e ferendo cinque arabi. Il giorno dopo membri della stessa organizzazione uccisero due arabi presso Petach Tiqvah. All’indomani di questi attacchi il comando della Haganah, dopo un infuocato dibattito, ribadì la politica esclusivamente difensiva e nessuna altra rappresaglia fu attuata nel 1936. Nelle campagne però l’Haganah tentò in varie occasioni di intercettare gli attaccanti prima che raggiungessero le case e i campi. Nel corridoio di Gerusalemme e altrove Yozchakn Sadeh, un veterano dell’Armata rossa, organizzò pattuglie [nodedot] per rendere sicuri i tratti di campagna tra gli insediamenti.

  5. #5
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    Lightbulb ... alcune riflessioni...

    cari amici
    dopo aver esaminato la prima fase della cosiddetta 'rivolta araba' che ebbe inzio nel 1936 e durerà fino al 1939 e prima di passare ad esamirare la seconda fase, già è possibile realizzare un punto essenziale: stabilire senza ombra di dubbio chi da sempre è stato l'aggressore e chi l'aggredito. Chi se la sente di dire la sua in proposito?...


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    Nobis ardua

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  6. #6
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    Predefinito ... risposta un poco difficile, eh?...

    cari amici
    vedendo che avete delle difficoltà a fornire una risposta proverò ad aiutarvi riportando un altro paragrafo dell'opera citata. In esso si narra dell'operato della 'commissione Peel', istituita dal governo britannico per far luce sulle cause dei disordini avvenutoi in Palestina nella primavera-estate 1936. La lettura è estremamente interessante in quanto mette il evidenza i precisi disegni che i sionisti avevano in mente già allora per la 'soluzione finale' del problema palestinese. Sono sicuro che dopo questa lettura le 'infami leggi razziali' che il regime fascista italiano varerà di lì a poco appariranno a più d'uno assai meno 'infami' ...

    A titolo di anticipazione ecco la definizione data dal leader sionista Weizmann al piano che contemplava il 'trasferimento coatto' di centinaia di migliaia di famiglie arabe fuori dal territorio destinato a formare il futuro stato di Israele...

    ... tentativo coraggioso, da statisti, di risolvere un problema che fin qui è stato affrontato in modo fiacco...

    Eccellente esempio di cosa significa avere le idee chiare!... del resto la medesima definzione si adatta a pennello... ad Auschwitz ...

    Buona lettura!...


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    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

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    Predefinito



    David Ben-Gurion

    La commissione Peel

    I dieci mesi tra la fine dello sciopero generale [ottobre 1936] e l’inizio della seconda fase della rivolta [settembre 1937] le due comunità si riorganizzarono per la ripresa delle ostilità attendendo nel frattempo i risultati della Regia commissione Peel, nominata ‘per accertare le… cause dei disordini… se tanto gli arabi quanto gli ebrei abboiano legittime ragioni di malcontento… e dare consigli sulla loro rimozione’. La commissione, presieduta da LordvWilliaqm Robert Peel, già segretario di stato per l’India, giunse in Palestina l’11 novembre 1936. L’Alto comitato arabo decise di boicottarla a meno che i britannici non accettassero di bloccare l’immigrazione. Questi abbassarono i limiti da 4500 a 1800 persone l’anno ma l’Alto comitato non fece sconti. Come tante altre volte gli arabi non si resero conto di segare il ramo su cui sedevano. Sir Gorge Rendel, capo del dipartimento orientale del Foreign Office, così riassunse la situazione: ‘Gli ebrei hanno giocato le loro carte nel modo migliore, mentre gli arabi hanno commesso errori così madornali che a volte mi chiedo se agenti ebrei non si siano infiltrati nel loro campo’. In dicembre pressioni arabe all’esterno della Palestina e l’opposizione interna dei Nashashibi costrinsero l’Alto comitato ad accettare di fornire dati precisi alla commissione e nel gennaio 1937 lo stesso Hajj Amin al-Husayni fu ascoltato come testimone.
    I commissari, riunitisi prima a Gerusalemme poi a Londra, subirono le pressioni di entrambe le lobby. Weizman e Ben Gurion premevano per la suddivisione del paese. Secondo Weizman: ‘Gli ebrei sarebbero pazzi a non accettarla anche se la loro parte fosse grande come una tovaglia’. Entrambe le comunità consideravano la divisione solo come punto di partenza per l’ulteriore espansione e la conquista finale dell’intera Palestina. Secondo alcuni Ben Gurion avrebbe affermato che ‘nessun sionista può rinunciare alla più piccola parte della Terra di Israele’. Di certo egli scrisse al figlio Amos: ‘Uno stato ebraico in una parte della Palestina non è il punto di arrivo, ma di partenza… Una zona in nostro totale possesso sarebbe importante non solo di per sé… essa ci renderebbe più forti e quello che ci rafforza è destinato a facilitare la conquista di tutto il paese. Fondare un piccolo stato… fornirà una leva al nostro tentativo storico di riscattare l’intera regione’.
    Non meno decisa era l’opposizione degli arabi a che una parte della Palestina, di cui si sentivano legittimi proprietari e che consideravano sacra come tutto il suolo musulmano, fosse consegnata agli ebrei. Inoltre essi temevano proprio quello che Ben Gurion si augurava, che un piccolo stato cioè potesse essere il punto di partenza di future ampie conquiste. Come disse Sa’id ‘Awni ‘Abd al-Hadi: ‘Combatteremo. Lotteremo contro la divisione del paese e l’immigrazione ebraica. Non ci sono vie di mezzo’.
    Il rapporto di 404 pagine stilato dalla commissione, pubblicato il 7 luglio 1937, si basava sulla premessa che il conflitto fosse ‘insopprimibile’ e insolubile nell’ambito di un solo stato e che il Mandato fosse inapplicabile. La principale raccomandazione era quindi la suddivisione del territorio. Agli ebrei ne sarebbe stato assegnato meno di un quinto, buona parte della Galilea, la valle di Yezreel e la pianura costiera fino a un limite meridionale corrispondente all’odierna Ashdod [in tutto circa 5-mila chilometri quadrati]. La parte araba, comprendente il Negev, la pianira costiera meridionale, la striscia di Gaza e l’attuale Cisgiordania, avrebbe formato con la Trangiordania un vasto ed indipendente stato arabo. Una piccola enclave comprendente Gerusalemme, Betlemme e un ‘corridoio’ verso il mare che attraverso Ramla e Lydda avrebbe raggiunto Giaffa, sarebbe rimasta sotto controllo britannico [come pure una striscia lungo il lato nord-occidentale del golfo di Aqaba e, forse, Nazareth e il mare di Galilea con le sue sponde]. La Gran Bretagna avrebbe conservato temporaneamente il controllo delle città miste di Haifa, Tiberiade, Acri e Safed.
    Peel rivolse una seconda raccomandazione come corollario della divisione: uno ‘scambio di popolazione’ che avrebbe coinvolto 225000 arabi e 1250 ebrei [và da sé l’evidente squilibrio numerico dello ‘scambio’, che non può ragionevolmente essere considerato ‘alla pari’…- n.d.r.]. In caso contrario lo stato ebraico avrebbe avuto una popolazione araba numerosa quasi quanto quella ebrea. La commissione pensava che lo ‘scambio’ avrebbe potuto realizzarsi in modo ‘consensuale’, indennizzando quanti avrebbero dovuto trasferirsi. Se gli arabi si fossero opposti il trasferimento avrebbe dovuto essere effettuato in modo coatto ‘come estrema misura’ [l’enfasi è aggiunta… - n.d.r.].
    In una lettera al figlio Ben Gurion sosteneva che l’assenso alla divisione del paese da parte degli ebrei, cioè l’accettazione di circa il 20% della Terra Promessa, giustificava il trasferimento. ‘Non abbiamo mai voluto espropriare gli arabi. Dal momento però che l’Inghilterra si accinge a destinare a uno stato arabo parte del territorio che ci aveva promesso, è sacrosanto che gli arabi presenti nel nostro stato siano trasferiti nella zona araba’. La contraddizione tra questo ragionamento e quello nel quale la nascita di uno stato ebraico in una parte di Palestina andava considerata solo una fase della conquista dell’intero paese non sembra averlo turbato.
    L’idea del trasferimento non era della commissione Peel. Risaliva ai padri del sionismo e, benché mai divulgata prima del 1937, era stata una delle principali componenti dell’ideologia sionista fin dalla nascita del movimento. I suoi ispiratori erano coscienti del fatto che uno stato ebraico non avrebbe potuto esistere senza una maggioranza ebraica. In teoria questo obiettivo si sarebbe potuto conseguire con una massiccia immigrazione, ma anche in tal caso gli arabi sarebbero rimasti una forte e minacciosa minoranza. Per questo motivo molti sionisti, in primo luogo Herzl, consideravano il trasferimento l’unica soluzione realistica. Tra il 1880 e il 1920 alcuni coltivarono la speranza che arabi ed ebrei potessero convivere pacificamente. Dopo il 1920 però, e più ancora dopo il 1929, la maggioranza degli ebrei si era convinta che una soluzione drammatica e radicale del conflitto era inevitabile. Dopo i fatti del 1936 nessun leader importante prendeva più in considerazione soluzioni che non implicassero una separazione fisica tra i due popoli, che si poteva ottenere solo con trasferimenti ed espulsioni. Il pubblico tutti continuavano a parlare di coesistenza e ad attribuire le violenze a piccole minoranze di estremisti e agitatori. Era però un atteggiamento ad esclusivo uso e consumo della pubblica opinione, destinato a placare l’angoscia della popolazione civile e dei sempre più preoccupati britannici. Parlare ad alta voce di spargimenti di sangue e di espulsioni avrebbe privato gli ebrei di una parte del sostegno interno e della simpatia internazionale.
    Il trasferimento era inoltre considerato moralmente accettabile. I dirigenti sionisti pensavano che il diritto degli ebrei a una terra capace di assorbire i futuri immigrati fosse più importante dei diritti degli arabi del luogo, strettamente affini agli arabi residenti ad est del Giordano e a nord del Litani e quindi in grado di ambientarsi in queste zone se fossero stati adeguatamente indennizzati e il trasferimento fosse stato ben organizzato. Inoltre gli stati arabi, in primo luogo Trangiordania, Siria e Iraq, possedevano vaste regioni poco e per nulla abitate e gli immigrati arabo-palestinesi sarebbero stati utili al loro sviluppo economico. In ogni caso la separazione era preferibile alla commissione, e soprattutto al bagno di sangue che questa rischiava di provocare.
    Il trasferimento avrebbe dovuto essere ‘volontario’, ma gli arabi di Palestina non desideravano lasciare la terra dei padri e questo lo avevano affermato innumerevoli volte. Inoltre né turchi né britannici capivano perché mai avrebbero dovuto trasferire arabi per far posto agli ebrei. Infine il problema aveva implicazioni etiche che licitavano dubbi e divisioni nella yishuw e rinforzavano l’opposizione al sionismo. Eppure il trasferimento, per quanto moralmente discutibile e forse crudele, rappresentava una via d’uscita al dilemma demografico. Era quasi impossibile perciò non tornare di tanto in tanto a prenderlo in considerazione. Israel Zangwill aveva dichirato nel 1905: ‘Dobbiamo essere pronti a cacciare con la spada le tribù in possesso [del territorio] così come fecero i nostri progenitori, pena dover affrontare il problema di una ingente popolazione estranea’. E 14 anni dopo scriveva: ‘Non possiamo permettere agli arabi di fermare un così prezioso processo di rinascita storica… Dobbiamo perciò persuaderli con le buone a ‘mettersi in marcia’. Dopo tutto hanno a disposizione l’intera Arabia con i suoi milioni di chilometri quadrati… Non c’è nessuna particolare ragione per cui debbano intestardirsi su pochi chilometri quadrati di Palestina. Levare le tende e partire in silenzio è un loro costume proverbiale. Facciamo in modo che ne diano ora un esempio’.
    Nel maggio 1911 Arthur Ruppin propose all’Esecutivo sionista un ‘trasferimento limitato di popolazione’. Un certo numero di contadini arabo-palestinesi avrebbe dovuto stabilirsi in Siria . Leon Motzkin, uno dei fondatori dell’Organizzazione sionista, affermò in un discorso del 1912: ‘Il fatto è che intorno alla Palestina vi sono ampie zone abitabili. Non dovrebbe essere difficile per gli arabi andarvi a vivere, grazie anche all’aiuto economico che gli ebrei possono dare loro’. Il problema del trasferimento affiorò nella conferenza dei dirigenti sionisti del dicembre 1918. Yitzhak Avidgor Wilansky, agronomo e consulente dell’ufficio palestinese di Giaffa, pensava che per ragioni pratiche fosse…

    … impossibile cacciare i fellahin anche se lo volessimo. Se però fosse possibile si commetterebbe un’ingiustizia nei confronti degli arabi. Alcuni di noi sono quindi contrari per motivi di giustizia e superiore moralità… Quando ci si stabilisce nel cuore della nazione araba e le si impedisce di unirsi anche così le si toglie la vita… Perché i moralisti non riflettono su questo punto?… Dobbiamo essere o vegetariani o carnivori. Non vegetariani a metà, per un terzo o per un quarto…

    Echi di questo dibattito giunsero fino agli arabi. All’incontro di Parigi tra Faysal e rappresentati della yishuw , il 15 aprile 1919, l’emiro parlò di un progetto di Zangwill per la ‘rimozione della popolazione araba palestinese con un massiccio esodo a dorso di cammello’. Gli ebrei assicurarono allora l’emiro che Zangwill era ‘del tutto estraneo al movimento sionista’. A quanto pare Faysal tenne per buona tale assicurazione.
    L’idea del trasferimento però restava nella mente di molti sionisti. Nel marzo 1930 Weizmann disse al dott Drummond Shiels, sottosegretario britannico alle colonie, che l’idea del trasferimento era un ‘tentativo coraggioso, da statisti, di risolvere un problema che fin qui è stato affrontato in modo fiacco… Una parte degli arabi ‘palestoinesi potrebbe migrare nei paesi confinanti e questo quasi-scambio di popolazione dovrebbe essere assistito e incoraggiato’. Weizmann propose di costituire una ‘società per lo sviluppo’ che acquistasse terreni in Transgiordania nei quali gli arabi della Palestina potessero trasferirsi. Menachem Ussishkin, uno dei padri fondatori del sionismo e presidente del Fondo nazionale ebraico, il 28 aprile 1930 disse senza perifrasi ad alcuni giornalisti: ‘Altri abitanti… devono essere trasferiti. La regione deve diventare nostra meta è più grande e nobile del semplice rispetto dei diritti di qualche centinaio di migliaia di fellahin arabi’. Nel marzo 1936 Moshed Belinson, un seguace del Mapai, propose di consultare la Gran Bretagna sui ‘massicci aiuti legati ad un grande progetto di sviluppo, che permetterebbe l’evacuazione di un’ampia porzione di territorio in vista della colonizzazione da parte nostra, tramite un accordo con i fellahin’.
    Con la pubblicazione del rapporto Peel l’idea acquistò in ‘legittimità’ e apparentemente in ‘fattibilità’. Restava un tema delicato ma finalmente fu discusso in modo approfondito ai più alti livelli del sionismo, il ventesimo congresso sionista e l’esecutivo della Agenzia ebraica. Già in ottobre e all’inizio di novembre del 1936, in vista dell’arrivo in Palestina della commissione Peel, l’esecutivo dell’Agenzia discusse il problema dei contadini arabi con e senza terreni di loro proprietà, raggiungendo il quasi consenso sul loro trasferimento oltre il fiume giordano. Osservò Ben Gurion…

    ..,. perché non possiamo acquistare là dei terreni per gli arabi che desiderano trasferirsi in Trangiordania?… se si può spostare un arabo dalla Galilea alla Giudea, perché non si può fare lo stesso da Hebron alla Transgiordania, che è molto più vicina?… In quella zona c’è terra in abbondanza, mentre qui in Palestina c’è sovrapopolazione… Attualmente è nostra intenzione creare in Palestina aree ad alta concentrazione di insediamenti, spostare in Transgiordania gli arabi che vendono i loro terreni e risolvere così il problema della concentrazione…

    Alla domanda del dirigente del partito Mizrahi e membro dell’esecutivo rabbino Yeruda Leib Fishmann: perché non trasferirli in Iraq?… Ben Gurion così rispose…

    … l’Iraq non è nel Mandato. Se re Ghazi [Ibn Faysal] è d’accordo neanche io ho nulla da obiettare… Perfino l’Alto commissario accetta il trasferimento purchè noi forniamo ai contadini la terra e il denaro necessari… Se la commissione Peel e il governo di Londra approveranno questa soluzione il problema potrà essere cancellato dalla nostra agenda…

    E’ ragionevole presumere che i vertici sionisti abbiano contribuito a persuadere la commissione Peel ad adottare la soluzione del trasferimento. Non per caso accolsero con entusiasmo il sostegno ch’essa finì col dare a quest’opzione. Tale atteggiamento non era però mostrato in pubblico perché avrebbe suscitato forte opposizione tra gli arabi e forse nella stessa Gran Bretagna. Il 12 luglio 1937 Ben Gurion confidava al suo diario…

    … il trasferimento obbligatorio degli arabi dalle valli del futuro stato ebraico ci darebbe qualcosa che non abbiamo mai avuto, neppure quando stavamo per contro nostro all’epoca del Primo e del Secondo Tempio… Ci è data un’occasione che non avremmo mai immaginato, nemmeno nei sogni più arditi. Qualcosa che è più di uno stato, di un governo, di una sovranità: il sorgere di una nazione in una patria libera…

    Ben Gurion intuiva che probabilmente si sarebbe dovuto ricorrere alla forza. E se non ci avessero pensato i britannici avrebbero dovuto provvedere gli ebrei. Nella sua mente espansionismo sionista e trasferimento coatto erano strettamente collegati [l’enfasi è aggiunta…-n.d.r.]. Egli non intendeva perciò accontentarsi dello stato in miniatura delineato da Peel. Anche il Negev e la Trangiordania sarebbero divenuti ebraici…

    … non potremo rassegnarci all’idea che grandi aree disabitate, in grado di accogliere decine di migliaia di ebrei, restino inutilizzate… E se dovremo usare la forza la useremo senza esitazione, purchè non ci siano alternative. Non vogliamo cacciare gli arabi e prendere il loro posto e non ne abbiamo bisogno. Tutte le nostre aspirazioni si basano sull’ipotesi, sempre confermata dall’esperienza sul posto, che nel paese ci sia spazio sia per noi sia per gli arabi. Se dovremo usare la forza, non per spogliare gli arabi del Negev e della Trangiordania ma per far valere il nostro diritto a stabilirci in quelle zone, allora la useremo…

    In queste righe Ben Gurion sembra dire una cosa e il suo contrario, ma è indubbio che egli fosse favorevole sia all’espansionismo sionista sia al trasferimento degli arabi. Nello stesso tempo lo stile involuto del brano può essere indizio della difficoltà a venire a capo di dilemmi morali legati ad entrambe le opzioni.
    La divisione della Palestina e lo spostamento di una parte dei suoi abitanti furono lungamente discussi al ventesimo Congresso sionista di Zurigo nell’agosto 1937. Una forte minoranza era per l’indivisibilità della Terra di Israele e contro le raccomandazioni del rapporto Peel. I delegati favorevoli alla divisione e al trasferimento erano però la maggioranza. Molti avvertivano l’urgenza di creare un rifugio in cui gli ebrei d’Europa potessero recarsi senza intralci di quote e limitazioni. La votazione finale vide 299 favorevoli al ‘pacchetto’ Peel contro 160. Almeno in parte fu la prospettiva del trasferimento a rendere accettabile quella della divisione. Il 7 agosto Ben Gurion disse ai delegati…

    … dobbiamo esaminare con cura la questione se il trasferimento sia possibile, necessario, moralmente accettabile e utile. Non vogliamo espropriare nessuno, ma trasferimenti di popolazioni si sono già effettuati nella valle di Yezreel, nello Sharon [la pianura costiera] e in altri luoghi. Siete senza dubbio al corrente delle attività del Fondo nazionale ebraico in questo campo. Ora si dovrà effettuare un trasferimento di ben altra portata. In molte parti del paese la creazione di nuovi insediamenti non sarà possibile senza spostare i fellahin arabi… è importante che questo piano venga dalla commissione e non da noi… Il trasferimento… permetterà di realizzare un grande programma di insediamenti. Fortunatamente il popolo arabo dispone di ampi spazi liberi. Anche la forza degli ebrei, che continua a crescere, aumenterà le possibilità di realizzare un trasferimento su larga scala. Non dimenticate che questa scelta risponde ad un importante ideale umano e sionista, permettere cioè il parziale ritorno di un popolo nella sua terra . Inoltre è nostra convinzione ch’essa avvicinerà anche un accordo con gli arabi…

    Ben Gurion sospettava che i britannici non avrebbero attuato il trasferimento. Era evidente che in tal caso l’iniziativa sarebbe passata agli ebrei. Le sessioni planetarie del Congresso si svolgevano a porte chiuse e l’intero passa appena citato del discorso di Ben Gurion fu espunto dalle trascrizioni ufficiali. Lo stesso accadde del passo del discorso di Weizmann in cui egli [tornando alla sua idea del 1930] proponeva di creare un grande fondo per l’acquisto di terreni in Transgiordania in cui gli arabo-palestinesi da trasferire potessero stabilirsi. Weizmann pensava a un esodo graduale della popolazione araba, al ritmo di una decina di migliaia di persone l’anno.
    Nei mesi seguenti Whitehall prese gradualmente le distanze dal rapporto Peel. L’EAE però discusse l’idea del trasferimento nel giugno 1938. In una dichiarazione Ben Gurion, presidente dell’EAE, propose alcune linee-guida politiche, tra le quali la seguente…

    … lo stato ebraico discuterà con gli stati arabi confinanti la questione del trasferimento volontario di fittavoli, braccianti e fellahin arabi dallo stato ebraico negli stati confinanti…

    Vari leader presero ufficialmente posizione in favore del trasferimento. Ussishkin affermò:’Non possiamo fondare uno stato ebraico in cui metà della popolazione è araba. Uno stato simile non durerebbe mezz’ora’. Non vedeva nulla di immorale nel trasferimento di 60000 faniglie arabe: ‘E’ assolutamente morale… sono pronto a difendere quest’idea… di fronte all’Onnipotente…’. Ruppin: ‘Non credo nel trasferimento dei singoli. Credo nel trasferimento di interi villaggi’. Berl Katznelson, uno dei due dirigenti del Mapai insieme con Ben Gurion, sosteneva che il trasferimento andava concordato con la Gran Bretagna e gli stati arabi. ‘Ma attenendosi al principio che vi sia un massiccio trasferimento’. Riassumeva Ben Gurion: ‘Con il trasferimento coatto avremo a disposizione una vasta area pere gli insediamenti… Io sono per il trasferimento coatto, non ci vedo nulla di immorale’.
    Mentre l’esecutivo deliberava un comitato per il trasferimento formato da esperti affrontava gli aspetti pratici. Era presieduto da Jacob Thon, un veterano dell’acquisto di terre arabe specializzato nello sfratto di fittavoli arabi, allora al vertice della Compagnia di sviluppo immobiliare palestinese. Il comitato si sciolse nel giugno 1938 senza stilare un rapporto conclusivo. I membri non si erano messi d’accordo sulle questioni principali, come quanti arabi fossero da trasferire e in quali località. Giunta l’estate d4el 1938 la discussione era divenuta sterile poiché Whitehall aveva respinto le raccomandazioni del rapporto Peel e la possibilità che il trasferimento fosse operato dai britannici tramontata.

  8. #8
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    Predefinito ... gli inventori degli attacchi terroristici...

    cari amici
    vedo che nessuno ancora si azzarda a dare risposta alla domanda da me formulata, vale a dire chi sia stato l'aggressore e chi l'aggredito. Capisco che la cosa sia, soprattutto di questi tempi, un pochino imbarazzante e per agevolare il vostro auspicabile pronunciamento vi posterò un altro capitolo dell'opera di Benny Morris, là dove si parla della 'seconda fase' della rivolta araba. Il lettore sarà sicuramente sorpreso [positivamente o negativamente non so...] nell'apprendere chi siano stati i 'pionieri' nella realizzazione di attacchi terroristici contro civili inermi, che oggi sono ritenuti esclusivo appannagio dei terroristi di Hamas...

    Al solito... buona lettura!...


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    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

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    Cahrles Orde Wingate, con in mano le inseparabili opere di Platone e Aristotele, a colloquio con il colonnello della U.S. Army Air Force Cochran. Wingate fu l’organizzatore delle Special Night Squads, formazioni miste di britannici ed ebrei incaricate di operazioni terroristiche notturne contro gli arabi in Palestina nell’anno 1938-39.

    La seconda fase

    Nel luglio 1937 l’Alto comitato arabo respinse il rapporto Peel e nel modo più fermo l’idea della divisione. Gli arabi di Galilea furono particolarmente drastici, giudicando parimenti insopportabile sia restare subendo il predominio ebraico sia trasferirsi. Il commissario distrettuale britannico riferì quanto segue: ‘Che la popolazione araba sia disposta ad accettare un simile schema è, in tutta evidenza, più di quanto sia lecito sperare… Cristiani, musulmani, fellahin e proprietari terrieri sono più uniti nel respingere questa proposta di quanto non lo siano mai stati in passato. Il loro comune sentimento… è di essere stati traditi… Pensano di essere destinati a lasciare la loro terra e a perire in qualche ignoto deserto’. L’Opposizione, che all’inizio aveva approvato la divisione, fu costretta al voltafaccia dalla fortissima pressione popolare e condannò con forza il rapporto. Secondo i palestinesi lo schema di divisione assegnava agli ebrei le terre migliori e i sette ottavi degli agrumeti arabi. Era certo poi che una volta che il settore ebraico fosse divenuto sovrapopolato a causa dell’immigrazione senza restrizioni avrebbe cercato di espandersi a spese di quello arabo.
    In settembre la ribellione divampò nuovamente con vigore. I notabili contrari alla ripresa dello sciopero e delle violenze furono completamente emarginati. Alcuni, tra i quali Khalin Taha, un coltivatore di agrumi di Haifa che considerava una nuova rivolta economicamente dannosa per gli arabi, furono assassinati. L’infrastruttura della ribellione era rimasta sostanzialmente integra dal momento che i britannici non erano riusciti a disarmare le bande rurali durante la prima fase mentre altre armi e munizioni erano state contrabbandate nel paese durante la tregua.
    Non è chiaro se la decisione formale della ripresa della lotta sia stata presa dall’Alto comitato o da un altro organo dirigente arabo-palestinese. Probabilmente non occorreva altro che una scintilla e questa scoccò il 26 settembre, quando Lewis Andrews, commissario distrettuale provvisorio di Galilea, fu assassinato a Nazareth da sicari arabi. Ancora una volta l’Alto comitato fece sfoggio di moderazione condannando esplicitamente l’attentato., mentre il muftì lanciava dal Haram al-Sharif un pubblico appello all’autocontrollo e alla non violenza. Il 1° ottobre però il governo del Mandato dichiarò illegali l’Alto comitato e i Comitati nazionali regionali. Furono emessi ordini di arresto nei confronti di tutti i membri dell’Alto comitato e Amin al-Husayni fu destituito dalla presidenza del CSM. Quasi 200 personalità palestinesi furono incarcerate e una piccola minoranza fu condotta alle Seychelles. La notte del 12 ottobre al-Husayni, travestito da beduino [secondo altri da donna], si calò dal muro del Monte del Tempio, raggiunse la costa e riparò in Libano via mare. E’ possibile che poco prima di darsi alla fuga abbia riunito un gruppo di capi guerriglieri e impartito istruzioni per la campagna di terrore ch’ebbe inizio il 14 ottobre.
    Da quel momento i disordini proseguirono senza un comando unificato. I capi regionali e quelli delle singole bande strinsero alleanze locali e si comportarono come credevano. La seconda fase della rivolta fu decisamente rurale. La gran maggioranza degli attacchi si verificò in aperta campagna o lungo le strade tra le città, con occasionali sortite all’interno di queste ultime. Quasi tutti i capi ribelli erano abitanti di villaggi o beduini. Il numero di partecipanti attivi alla ribellione passò, secondo stime attendibili, dai 1000-3000 nel 1936 e inizio 1937, a 2500-7500 nel 1938, a cui si devono aggiungere 6000-15000 guerriglieri ‘a mezza giornata’. Nel 1938 le bande erano ‘centinaia’, in gran parte piccole [da 8 a 15 membri] e firmate da guerriglieri ‘a mezza giornata’. Molti arabi dei villaggi , specialmente nelle zone costiere e meridionali, non erano però entusiasti della ripresa della ribellione e rifiutarono di prendervi parte, soprattutto per ragioni economiche. Nel tardo 1938 alcuni leader ribelli arrivarono ad ammettere di fronte agli ebrei che ‘la maggior parte degli arabi palestinesi non voleva fastidi’.
    Complessivamente nel 1937 i ribelli lanciarono 438 attacchi, 109 contro la polizia e le truppe britanniche, 143 contro gli insediamenti ebraici e 109 contro abitazioni arabe. I morti furono 97, i feriti 149. I combattimenti si intensificarono nel 1938 ed ebbero strascichi fino all’aprile-maggio 1939 per spegnersi completamente in settembre. Il culmine fu toccato nell’estate e nell’autunno del 1938, quando ampie porzioni del territorio e diverse città furono per qualche tempo in mano ai ribelli. Più tempo però durava la lotta, più evidenti divenivano i suoi limiti, sia sul piano organizzativo sia dsu quello della mentalità. Le bande…

    … erano indebolite in misura crescente da contrasti politici, famigliari e regionali, oltre che da rivalità personali. Questi problemi si aggravarono col passare dei mesi e l’aumentare della pressione militare britannica. I servizi di informazione britannici [e in qualche misura quelli della Haganah] approfittarono della scarsa compattezza della società arabo-palestinese diffondendo false informazioni e aggravando i conflitti tra i ribelli, tra ribelli e villaggi e tra villaggi e città. I casi di fellahin che informavano le autorità sugli spostamenti dei ribelli diventarono così comuni che il quotidiano Jama’a al-Islamiyya li definì ‘uomini di aspetto ma bestie nei sentimenti, che si vendono l’anima come le meretrici vendono il copro, rettili nocivi e serpenti velenosi’…

    Nelle città i Nashashibi, che avevano rotto i legami con l’Alto comitato e gli Husayni nel luglio 1937, non parteciparono alla rivolta provocando un’ondata di attentati ai propri danni da parte degli Husayni e una lotta di potere senza esclusione di colpi [quasi una guerra civile strisciante nel campo arabo-palestinese] con la quale gli Husayni tentarono di assumere il controllo dell’intera comunità. La reazione dei Nashashibi e dei loro alleati consistette nell’avvicinarsi decisamente alla Gran Bretagna, mentre più fughe di notizie sui movimenti delle bande ribelli significavano più terrorismo contro i Nashashibi. ‘Ora una strascia di sangue divide le due fazioni’, scrisse nell’aprile 1939 Elias Sasson, alto funzionario del dipartimento politico dell’Agenzia ebraica.
    I sostenitori dell’Opposizione erano minacciati e malmenati. I moderati, coloro che vendevano terreni agli ebrei, gli informatori e i seguaci dei Nashashibi, tutti costoro diventarono bersagli dei sicari degli Husayni. Alcuni sospetti furono gettati in pozzi pieni di serpenti e scorpioni. Altri furono fustigati. Spesso i morti restavano insepolti per giorni. Famiglie ed ecclesiastici non osavano partecipare ai funerali.
    I membri dell’Alto comitato sfuggiti alla retata britannica e stabilitisi all’estero, come Amin e Jamal al-Husayni, cercarono di riprendere il controllo della rivolta, ma con scarso successo. Tramite un ‘Comitato centrale della jihad nazionale in Palestina’ con base a Damasco, essi tentarono più volte di nominare un ‘comandante in capo’ della ribellione, ma i dirigenti locali non riconobbero né l’autorità né gli ordini del comitato. Verso la fine dei disordini, quando le estorsioni e le violenze degli insorti erano diventate frequenti, il Comitato della jihad provò ad imporre la disciplina nelle bande e tra le bande, che spesso si combattevano reciprocamente. I ripetuti ordini di cessare la riscossione di ‘imposte’ e l’esecuzione di sospetti ‘miscredenti’ furono tuttavia ignorati, mentre i dissensi tra i comandanti ribelli resero vani tutti gli sforzi di creare un unico centro di comando.
    Verso la metà del 1938 il Comitato della jihad organizzò una sorta di rappresentanza dei principali comandanti ribelli, chiamata ‘Ufficio della ribellione araba in Palestina’, cui sarebbe spettata la supervisione di tutte le attività insurrezionali. Ancora una volta però la diversità di retroterra e di opinioni tra i membri dell’Ufficio e tra questo e i comandanti più indipendenti lasciò la rivolta prima di un efficace centro di comando.
    D’altra parte, nonostante la disorganizzazione, l’indisciplina e le faide interne, i disordini infersero un duro colpo al dominio britannico in Palestina. E’ probabile che in alcuni momenti, soprattutto nel 1938, Whitehall abbia temuto di perdere il controllo dell’intero paese. All’inizio dell’anno l’Alto commissario J. Arthur Wauchope, considerato fin dal 1936 un esponente delle ‘colombe’ riguardo alla maniera di contrastare i disordini, fu costretto a dimettersi. Un sua vece fu nominato Sir Harold MacMichael, arabista ed ex-governatore del Tanganika, il cui incarico divenne effettivo il 3 marzo 1938. La forze del Mandato ebbero, però un comandante in capo solo in ottobre, dopo che Monaco ebbe momentaneamente allontanato lo spettro di un conflitto in Europa e Londra si sentì libera di inviare rinforzi in Palestina e raccomandare una linea più dura.
    Frattanto i problemi dei britannici si erano aggravati per la comparsa del terrorismo ebraico. Fino alla metà del 1937 gli ebrei si erano attenuti rigidamente alla non-violenza ma il risorgere del terrorismo arabo nel 1937 era stato accompagnato da un’ondata di atti dinamitardi dell’Irgun contro luoghi affollati e mezzi di trasporto arabi, il che aveva alzato di colpo il livello del conflitto tra le due comunità. In precedenza era accaduto che gli arabi [più raramente gli ebrei, di solito per ritorsione] sparassero colpi di fucile contro passanti o automezzi. Nei casi più gravi si era giunti al lancio di bombe a mano, con il ferimento o l’uccisione di un numero limitato di persone per strada, su un automezzo o in un’abitazione. Ora invece potenti ordigni furono collocati in zone affollate, causando la morte o la mutilazione di dozzine di persone e per la prima volta gli arabi subirono perdite comparabili con le vittime ebree dei pogrom o delle rivolte del 1929 e del 1936. Il ‘salto di qualità’ dell’Irgun trovò subito imitatori in campo avversario, originando una sorta di sinistra ‘tradizione mediorientale’. Negli anni a venire mercati, stazioni di autobus e altri luoghi pubblici palestinesi [e poi israeliani] diventeranno obiettivi tipici, imprimendo al conflitto tra arabi ed ebrei un carattere particolarmente brutale.
    Le bombe dell’Irgun del 1937-38 seminarono il terrore tra la popolazione araba ed accrebbero pesantemente il suo bilancio di morti e feriti. Fino al 1937 questi erano stati causati in gran parte dalle forze di sicurezza di Londra [coadiuvate da riservisti ebrei a disposizione dei britannici] e consistevano quasi esclusivamente di ribelli. In seguito una parte consistente consisterà di civili uccisi a caso dagli ebrei [l’enfasi è aggiunta… - n.d.r.]. Non sembra che quegli attentati abbiano frenato in qualche modo il terrorismo arabo. Semmai essi contribuirono a convincere anche i moderati della necessità di mobilitarsi contro il sionismo e appoggiare la ribellione.
    Il primo attentato dell’Irgun ebbe luogo l’11 novembre 1937 in una autostazione a Gerusalemme vicino alla via per Giaffa. Essa causò la morte di due arabi e il ferimento di cinque. Tre giorni dopo, il 14 novembre, alcuni arabi furono uccisi in una serie di attentati dinamitardi nelle campagne. Questa data sarà in seguito commemorata dall’Irgun come il ‘giorno della fine dell’astensione [dalla violenza] [havlagah]. Il 6 luglio 1938 un militante dell’Irgun travestito da arabo collocò due grossi contenitori di latte pieni di tritolo e shrapnel nel mercato arabo al centro di Haifa. Le esplosioni fecero 21 morti e 52 feriti. Il 25 luglio 1938 un’altra bomba al mercato di Haifa [questa volta camuffata da grosso cesto pieno di cocomeri acerbi] uccide almeno 39 arabi e ne ferì almeno 70. Il 26 agosto una bomba al mercato ortofrutticolo di Giaffa uccise 24 arabi e ne ferì 39. Gli attentati furono condannati dall’Agenzia ebraica, dai partiti di centro e di sinistra della yishuw e dagli organi di stampa ad essi vicini. All’inizio tutti in quegli ambienti si rifiutarono di credere che i responsabili di simili atti potessero essere ebrei.
    La principale reazione ebraica alla ripresa della rivolta consistette però in un cambiamento di strategia e nella creazione di nuove unità della Haganah, sviluppi destinati ad avere importanti conseguenze nel conflitto tra le due comunità almeno fino al 1948. La ‘pura difesa’ fu giudicata ormai inadeguata alla protezione degli,insediamenti e dei contadini ebrei. Il comando della Haganah dispose quindi la creazione di ‘compagnie rurali’ la cui principale caratteristica era la mobilità e i cui compiti specifici il rapido soccorso degli insediamenti attaccati e il pattugliamento dei campi e delle strade. Yizchak Sadeh fu l’animatore propulsivo di queste unità, che dal punto di vista dottrinale derivavano dai suoi nodedot. Le compagnie furono addestrate in fretta ed entrarono in funzione nella primavera del 1938 agli ordini di comandanti distrettuali della Haganah e non dalle autorità degli insediamnti. Pattugliamenti e appostamenti erano eseguiti da singole squadre.
    All’inizio del 1939, per ordine di Ben Gurion, Sadeh creò tre unità top secret note come Pu’m [pe’luot maiyhchadot, ‘operazioni speciali’…] per le rappresaglie contro i villaggi e i terroristi arabi, gli attacchi alle installazioni britanniche e l’eliminazione degli informatori. Queste unità furono più volte impiegate negli ultimi mesi della rivolta araba e in quelli successivi. Ben Gurion controllava direttamente le Pu’m aggirando il quartier generale della Haganah.
    Un ruolo importante nel passaggio della Haganah alla dottrina della ‘difesa aggressiva’ fu svolto dal capitano Charles Orde Wingate, giovane ufficiale scozzese dell’intelligence inquadrato nella Quinta divisione britannica. I sionisti lo chiamavano in codice ‘l’Amico’ [haHedid]. Cristiano mistico e filosionista si immaginava un giorno al comando di un esercito ebraico ‘apocalittico’, persuase i propri superiori ad autorizzare la creazione di una forza mista di miliziani ebrei e NCO britannici , posta ai suoi ordini e incaricata di proteggere da attentati arabi l’oleodotto che dall’Iraq raggiungeva Haifa attraverso la valle di Yezreel. Circa 60 soldati britannici e un centinaio di ebrei, in gran parte poliziotti della riserva e membri della Haganah, entrarono nella forza mista. Le pattuglie, denominate Special Night Squads [SNS], entrarono in azione in Galilea e nella vallel di Yezreel partendo da tre kibbutz-base nel giugno 1938. Risulta che una volta Wingate abbia detto ai suoi uomini: ‘Gli arabi pensano che la notte è loro perché di notte truppe e polizia britanniche si chiudono in caserma, ma noi, gli ebrei [sic!!!…], mostreremo loro che possiamo mandare a monte i loro piani. Non desisteremo finchè non avranno paura di notte come ora ce l’hanno di giorno’.
    Nel solo primo mese di attività le SNS intercettarono e uccisero una sessantina di arabi, in qualche caso compiendo rappresaglie contro i villaggi usati come basi operative dalle bande ribelli. Wingate, che in una di quelle incursioni venne ferito, era instancabile. Addestrava, preparava piani, guidava le operazioni. Alla fine di quel periodo Sharret lo descrisse così: ‘Lo trovai esausto, con gli zigomi sporgenti e gli occhi di chi non dorme da giorni, ma la fiamma interiore dell’uomo straordinario ardeva con la forza di sempre’. Le SNS vennero sciolte l’estate seguente. Il seguito Wingate raggiungerà il grado di generale di divisione e perirà in un incidente aereo in Birmania, dove dirigeva la locale guerriglia Chindit contro i giapponesi.
    Sia tra i britannici sia tra gli ebrei vi era chi temeva che le operazioni delle SNS avrebbero peggiorato ulteriormente le relazioni con gli arabi e distrutto ogni rapporto di buon vicinato. E’ possibile che la tattica di Wingate abbia dato un contributo, ancorché marginale, alla crescita dell’antagonismo arabo-ebraico. Senz’altro più importante però fu l’effetto delle sue operazioni sull’evoluzione dottrinale della Haganah. A metà del 1939 per esempio una squadra della Haganah sequestrò e passò per le armi cinque arabi del villaggio di Balad al-Shayk, a sud-est di Haifa, dopo l’assassinio di un macchinista ebreo. Una settimana più tardi [20 giugno] in un secondo attacco le Pu’m, per vendicare l’assassinio di un membro del kibbutz Afikim, attaccarono una casa del vicino villaggio di Lubiya uccidendo tre arabi e ferendone altri tre. Questa strategia di rappresaglia avrebbe caratterizzato la Haganah fino alla fine del conflitto del 1948 e le forze armate israeliane nei decenni seguenti [l’enfasi è aggiunta… - n.d.r.].
    Risale al tempo della rivolta araba un altro importante cambiamento riguardante i servizi di informazione. I principali quartieri della Haganah [Tel Aviv e Haifa] avevano entrambi creato dei ‘servizi di informazione’ locali di modesta consistenza [a metà degli anni ’30 quello di Haifa consisteva in un uomo soltanto], affidando quasi tutta la raccolta di informazioni riservate al dipartimento politico dell’Agenzia ebraica. Ora il fulcro doveva spostarsi dall’intelligence politico a quello militare. Bisognava individuare gli autori degli attentati e ricostruire la catena di comando. C’era anche bisogno di diffondere false informazioni e raccogliere dati sul flusso di uomini e armi attraverso i confini.
    Mentre la commissione Peel stilava le sue conclusioni la divisione araba provvide a creare una rete di controllori ebrei e agenti arabi in tutto il paese. Furono reclutati mercanti, agricoltori, postini, corrieri, idraulici, camerieri, pastori, poliziotti e mercanti di bestiame. Si trattava di persone in contatto con i paesani e cittadini. A loro volta costoro reclutavano agenti arabi, di solito con promesse in denaro ma talvolta sfruttando le rivalità tra i clan e le debolezze personali. Gli organizzatori chiave furono Ezra Danin e Reuven Zaslani. Dopo la ribellione, nel 1940-41, la Haganah e la divisione araba riorganizzarono la rete d’informazioni su scala nazionale. Nacque così il Servizio informazioni [Sherut Yedi’ot o Shai]. Il dipartimento arabo della Shai si occupava degli arabi di Palestina, mentre il dipartimento interno sorvegliava i dissidenti ebrei, in particolare quelli legati all’Irgun, alla Leihi [o ‘Banda Stern’] e ai comunisti. Infine il dipartimento politico si occupava dei britannici e dell’intelligence politico.
    Dopo la fuga di Husayni dell’ottobre 1937 il baricentro della seconda fase della rivolta si spostò in Bassa Galilea e in Samaria orientale, cioè in zone abitate in maggioranza da ebrei o dove era stata attiva l’organizzazione di ‘Izz al-Din al-Qassam. Alcune bande ribelli furono sbaragliate, ma nell’agosto 1938 gli arabi controllavano ancora gran parte della regione collinosa e alcune città. Le bande disponevano di basi a Gerusalemme e a Giaffa e compivano periodiche incursioni nelle altre città. Secondo un rapporto britannico in settembre ‘la situazione era tale che l’amministrazione civile e il controllo del paese erano dal punto di vista pratico inesistenti’.
    Alcune bande prendevano di mira gli ebrei molto più che i britannici. Il 2 ottobre i ribelli attaccarono il quartiere di Kiryan Schmuel a Tiberiade uccidendo 19 ebrei [tra i quali 11 bambini], bruciando la sinagoga e assassinandone l’addetto. Dopo qualche settimana, il 27 ottobre, alcuni arabi uccisero Zaki Alhadif, sindaco ebreo di Tiberiade.
    Il 15 ottobre miliziani arabi penetrarono a Gerusalemme e occuparono l’intera Città Vecchia alzandole loro bandiere sulle mura. Le truppe regolari ripresero il controllo della zona entro il 20 ottobre, usando arabi del luogo come scudi umani.
    Come si è detto all’inizio del mese Whitehall aveva deciso di donare la rivolta ad ogni costo. Fu inviata un’intera brigata di rinforzo, portando il contingente britannico in Palestina a 17 battaglioni . Fu inoltre introdotta una serie di misure assai severe, talvolta al limite della brutalità. I villaggi sospettati di proteggere i ribelli erano puniti in vari modi. Le case che avevano ospitato i ribelli erano distrutte , così come vigneti e agrumeti se ce ne erano. Complessivamente più di 100 arabi furono impiccati nel periodo 1937-39 [la stessa sorte toccò ad un giovane ebreo che aveva sparato contro un autobus arabo, quantunque non avesse ucciso nessuno]. In qualche caso persone vicine ai rivoltosi furono legate alle locomotive per proteggere i treni dagli attentati. La popolazione araba fu costretta a portare contrassegni di identificazione [esattamente come gli ebrei in Germania nello stesso periodo…-n.d.r.], ogni loro spostamento era controllato e le esportazioni di agrumi limitate.
    Furomno prese anche misure di carattere specificatamente militare come l’apertura di nuove strade nelle zone collinose di Samaria e Giudea [per consentire alle unità corazzate di raggiungere anche i villaggi più remoti] e di percorsi di pattugliamento lungo il confine con il Libano. All’inizio l’esercito costrinse i fellahin a lavorare gratuitamente alla costruzione di queste strutture. Una barriera di filo spinato [il ‘muro di Tergat’] fu innalzata al confine tra siria e Libano per ostacolare le incursioni e il contrabbando d’armi.
    La crescente pressione militare britannica finì con l’ottenere significativi risultati, anche se gli ebrei continuavno a giudicarla insufficiente. Nelle città le truppe regolari avevano ripreso i quartieri caduti nelle mani dei ribelli. Nelle campagne la popolazione voltò gradualmente le spalle agli insorti. Il su malcontento era anche aggravao da cause naturali. Il periodo di siccità nell’inverno 1937-38 fu seguito da piogge eccessive all’inizio di primavera, con conseguenze drammatiche per l’agricoltura. La produzione cerealicola, pari a 76000 tonnellate nel 1936 e a 127000 tonnellate nel 1937, cadde a 50000 tonnellate nel 1938. Anche la produzione di frutta e verdura si ridusse in modo considerevole.
    Nella seconda metà del 1938 i britannici ricevettero un significativo aiuto dal servizio segreto dell’Haganah, che cominciò a passare informazioni sulle bande ribelli e i loro fiancheggiatori. Quell’anno si contarono 986 attacchi contro obiettivi britannici, militari e di polizia, 651 attacchi a obiettivi ebraici, 720 attacchi a linee telegrafiche e telefoniche. I morti furono 77 tra i britannici, 255 tra gli ebrei. Gli arabi persero un migliaio di uomini negli scontri diretti con ebrei e britannici, altri 2500 furono internati.

  10. #10
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    cari amici
    dopo la lunga parentesi festaiola spero di farvi cosa gradita continuando l'excursus storico destinato a chi, non per sua colpa, forse non conosce esattamente la sequenza di avvanimenti che ha portato alla situazione odierna in Medio Oriente. Oggi, sempre attraverso l'opera di Benny Morris, vedremo come ebrei e britannici, sfruttando secolari rivalità intestine degli arabi palestinesi e valendosi del sempre decisivo apporto del denaro, riuscirono nel 1939 a stroncare definitivamente la rivolta araba. Il tutto sarà, vi assicuro, assai istruttivo...


    --------------

    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

 

 
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