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Franzele

Addio diritti civici. Quelle terre s'han da privatizzare
Un giurista*

Con l'interessato consenso di tutti o quasi i partiti, passa una legge che abolisce i «diritti delle comunità». I comuni potranno alienare terre (boschi da legna, pascoli) riservate tradizionalmente a usi comuni e spesso già occupate abusivamente Sarà discussa a giorni, presso le commissioni riunite giustizia e agricoltura del senato, la nuova legge in materia di usi civici, che porterà il nome del suo promotore - l'on. Magnalbò, ex liberale, confluito in Forza Italia - ma avrà il consenso di tutta la maggioranza e di buona parte dell'opposizione. Dopo un lunghissimo periodo, costellato di
discussioni e dibattiti, anche molto partecipati ma nel complesso inconcludenti, è giunto a quanto sembra il momento della decisione; i tempi stretti del dibattito e l'impermeabilità di tutti gli
schieramenti ad ogni critica men che marginale, non consentono infatti contributi propositivi.
Le note che seguono non possono pertanto che mettere in rilievo le innovazioni più importanti, maturate in un ambiente separato – quello del comitato ristretto, incaricato della redazione definitiva dell'articolato - e connotate da una spregiudicatezza che trova scarsi precedenti nella legislazione repubblicana.
Va sottolineata prima di tutto, in termini sintetici, la natura espropriativa delle misure escogitate e la loro complessiva illegittimità costituzionale per carenza di pubblico interesse e per la mancata previsione di una qualsiasi indennità d'esproprio a favore delle comunità espropriate (art. 43 Cost.); è prevista un'indennità monetaria a compenso degli usi civici minori, gravanti sui beni civici
privati, nulla invece per le ben più importanti e cospicue terre di demanio collettivo; va rilevato inoltre che il nuovo testo, sopprimendo la giurisdizione speciale prevista in materia, non vi
sostituisce alcuna diversa giurisdizione, e nega dunque una diretta tutela giurisdizionale ai diritti civici, in palese violazione dell'art. 24 Cost.
La legge, in verità, attribuisce ai Tar una sorta di giurisdizione esclusiva anche per i diritti civici, ma i Tribunali amministrativi si attiveranno necessariamente a seguito dell'iniziativa dei privati, che
rivendichino la proprietà civile dei terreni in loro possesso in conflitto con proprietà collettive eventualmente praticate dagli originari; non dunque sull'iniziativa delle collettività o degli
originari stessi, sia perché esse sono scomparse quasi dappertutto e nulla sanno dei propri diritti storici, sia perché in ogni caso originari o Comunità nulla possono rivendicare, fino a quando i loro
antichi diritti non siano stati riconosciuti dall'attuale ordinamento.
In considerazione di tale situazione sostanziale, il legislatore del 1927 aveva attribuito poteri di impulso processuale allo stesso giudice Commissariale, ma la nuova legge non prevede nessuna
legittimazione processuale sostitutiva e i diritti civici non potranno dunque più essere rivendicati da nessuno.
E' quasi un caso di scuola: con la nuova legge la soppressione del diritto civico passerà attraverso la soppressione di una sua autonoma tutela giudiziaria.
L'avversata soluzione ha trovato d'accordo, nel comitato ristretto che ha redatto l'articolato, sia la maggioranza che l'opposizione; essa consente a tutti, infatti, di appropriarsi delle terre civiche,
ciascuno in favore della propria clientela, con pari benefici elettorali.
Non è qui il caso di affrontare il problema in termini propositivi; ma è utile ricordare la soluzione adottata dalla repubblica francese con apposita legge del 1995, che trasformò i demani collettivi, anche là esistenti, in beni patrimoniali dei comuni, vincolandone però la gestione e l'utilizzo alle necessità e agli interessi delle comunità precedentemente proprietarie.
Con questo semplice strumento si ovviò al progressivo affievolimento delle comunità proprietarie di antico regime mediante la supplenza delle amministazioni comunali; si garantì la conservazione dei
patrimoni collettivi nella loro consistenza complessiva, contrastando le usurpazioni private altrimenti inevitabili; si mantenne in ogni caso la precedente finalizzazione dei possessi collettivi
all'interesse delle comunità stesse, cioè la ragione sostanziale del particolare regime cui sono assoggettate queste terre e che anche oggi le distingue dagli altri compendi immobiliari di carattere pubblico.
Una analoga soluzione potrebbe essere adottata anche in Italia ove la gestione dei demani fosse concentrata in aziende di gestione di livello nazionale o regionale, istituite allo scopo di promuovere gli accertamenti giudiziari ancora da attivare, di affidare gli appalti per gli interventi colturali necessari a garantire la conservazione dei terreni, ma soprattutto allo scopo di contrastare con ogni mezzo lecito le usurpazioni diffuse dalle quali oggi tali terre sono afflitte. Simili aziende dovrebbero naturalmente garantire alle Comunità proprietarie i proventi della gestione e utilizzare la
manodopera locale per tutti i lavori necessari, ristabilendo in questo modo l'interesse delle comunità locali alla conservazione del proprio patrimonio; esse potrebbero inoltre esercitare i necessari poteri di impulso processuale davanti al giudice ordinario, sulla falsariga di ogni altra azione di rivendica.
Il nostro legislatore ha preferito invece le affermazioni di principio - la tutela e la conservazione dell'ambiente - senza curarsi di apprestare alcuno strumento per l'accertamento e la tutela di quei
patrimoni che dai valori ambientali sono connotati.
A tal proposito, è bene porre subito una questione, che tormenterà la giurisprudenza nel futuro: come sarà possibile attivare la tutela sanzionatoria dei vincoli paesaggistici, connessi agli usi civici, se nessuno potrà accertare in modo vincolante la natura collettiva delle terre gravate e se, anzi, queste potranno o dovranno essere privatizzate, dietro compenso monetario, a domanda degli usurpatori?

*(l'articolo qui pubblicato è opera di un alto funzionario della magistratura)