Da "Il Messaggero Veneto" del 9 aprile 2002
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MAZZINI BATTE MARX
di CARLO SGORLON
L’assassinio del professor Marco Biagi, ucciso per una folle utopia, ha riaperto molte piaghe nel nostro spirito. Anch’io mi sono sentito subito risucchiato dentro il burrone pauroso del lato assurdo del mondo.
Ho una piccola ragione in più per essere vittima di questa sensazione. Infatti l’assassinio di Marco Biagi presenta coincidenze impressionanti con quello di Massimo D’Antona. È stato ucciso per le medesime ragioni e perfino con la stessa pistola.
La sera del venti maggio 1999, al telegiornale delle diciannove, sullo schermo della terza rete vidi ciò che non mi sarei mai aspettato. Venne mostrata una lista di persone che il misterioso “Partito comunista combattente” aveva condannato a morte. In cima alla lista vi era il mio nome. Perché? Per il motivo che non appartengo al gruppo degli intellettuali progressisti? Perché non sono mai entrato nei territori della dogmatica marxista? Perché sono un uomo libero?
Il nuovo delitto delle Brigate rosse nasce da ragioni ben precise, lo scontro di due concezioni, quella vetero-comunista e quella liberista. Benché il comunismo rivoluzionario abbia assistito alla sua bancarotta e sia stato pressoché dissolto dalla storia, vi sono ancora pochi individui che sognano la grande utopia dell’uguaglianza totale e forzata, conseguita con la lotta di classe, lo scontro armato, la dittatura del proletariato, l’abolizione della proprietà privata, e così via. Di intesa tra “operai” e “imprenditori” proprio non ne vogliono sentir parlare. Ma anche nelle sinistre perfettamente democratiche vi sono ancora residui di schemi marxisti e concezioni che, secondo me e secondo molti, contribuiscono in modi determinanti a creare climi di tensione sociale e dispute esasperate e infinite, in cui la violenza finisce sempre per inserirsi, in un modo o nell’altro. Lo sfruttamento dell’operaio nel Settecento e nell’Ottocento era disumano. Le dottrine di Marx furono allora perfettamente giustificate da situazioni reali. Marx da giovane non si occupava nemmeno del problema sociale. Cominciò a farlo quando il suo giornale lo mandò a osservare il mondo dei minatori di ferro e di carbone nella Ruhr.
Ken Follett ce ne dà un’idea spaventosa nel romanzo Un luogo chiamato libertà. È vero che il libro è ambientato nel Settecento, ma un secolo dopo ancora quasi nulla era cambiato. Esule a Londra, Marx vide come venivano sfruttati nel lavoro bambini di sei o sette anni. Di orrori di quel genere vi è un riflesso non trascurabile anche in più romanzi di Dickens. Da queste esperienze scioccanti nacquero il Manifesto del Partito comunista (1848) e Il capitale (1863). Allora non si sarebbero potute formulare dottrine diverse dal marxismo, perché le ideologie nascono come reazione alla realtà.
La storia però è mutazione perenne. Oggi le cose sono molto cambiate e le condizioni dell’operaio sono radicalmente differenti. Oggi esiste in Italia una legislazione del lavoro dalla quale l’operaio è superprotetto. Non vorrei essere capito male. La protezione in linea teorica non è mai eccessiva. Ma sul piano pratico lo diventa quando essa frena pesantemente l’economia, e quindi si rovescia dannosamente contro i lavoratori medesimi, e quando va al di là delle possibilità economiche reali di una determinata società. A questo mondo non si può ragionare e decidere secondo principi astratti, ma sulla base di ciò che la situazione reale consente di fare.
Marx fu un grande pensatore, economista e sociologo, che costruì un’ideologia in difesa dell’uomo. Ma oggi non è più attuale. Per più di un secolo fu ritenuto un profeta dalle masse di tutto il pianeta. Oggi però nel mondo occidentale il suo pensiero è un meccanismo che perde i pezzi per la strada. Può essere ancora utilizzato nel Terzo mondo, dove, per esempio, il lavoro minorile avviene come nella Londra ottocentesca. Ma da noi il pensiero del grande di Treviri non riesce più a mordere la realtà. Non è più vero che operai e imprenditori debbano essere fatalmente nemici e affrontarsi in eterno. Sinceramente, provo un netto rifiuto spirituale per coloro che sostengono la necessità della lotta di classe.
Che quella capitalista e borghese sia una classe “maledetta”, condannata “ab aeterno”, e per essa non ci possa esistere redenzione è una sorta di assurdo calvinismo applicato alle cose sociali. Per esempio al film Teorema, di Pier Paolo Pasolini, dove i borghesi sono tutti condannati senza appello, e chi si salva è soltanto una mistica servetta popolana, ho sempre pensato con fastidio. Tra l’altro grandi o piccoli imprenditori sono quasi sempre ex operai più dotati degli altri, più ambiziosi e ricchi di idee.
Strano a dirsi: oggi, nella questione sociale, il vero profeta ottocentesco non appare più Marx, bensì Mazzini, che parlò non di “lotta” ma di “collaborazione” di classi. Nell’Ottocento, le polizie degli Stati assoluti, o assoluti a metà, temevano veramente non Marx, assai poco noto, bensì Mazzini. Il grande genovese era il nemico numero uno delle polizie ed era visto come temibile fomentatore di rivolte liberali. All’Internazionale socialista di Londra del 1864 Marx e Mazzini parteciparono entrambi. Si conobbero? Si parlarono? Polemizzarono tra di loro? Chi lo sa!
Ma è certo oggi che i problemi sociali vanno risolti nella linea mazziniana. Operai e imprenditori devono intendersi, sforzarsi di capire ciò che è il meglio per ambedue e quindi per la società universale. Chi vuol restare legato agli schemi marxisti e leninisti fatalmente è oggi tagliato fuori dalla storia. E coloro che credono alla lotta armata di classe, alla conquista violenta del potere e alla dittatura del proletariato sono individui persi nella palude dell’utopia. Non sono presi sul serio da nessuno. Per sentirsi ancor vivi e far ancora parlare di sé, devono mettere mano alle armi e spegnere, in forza di un’idea astratta, uomini di grande ingegno, e gettare nel lutto le loro famiglie e l’intera società.
Carlo Sgorlon
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Saluti
Roberto
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