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Discussione: De’ja-vu

  1. #1
    Hanno assassinato Calipari
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    DE’JA-VU (28 maggio 2002)
    Ilan Pappe*


    Esaminando con attenzione gli ultimi avvenimenti in Palestina si prova un inquietante senso di déjà vu, che ci riporta a eventi lontani o più vicini nel tempo. La sensazione più forte è che si stia ripetendo la catastrofe del 1948, la Naqba.

    A distanza di cinquant’anni, si ha l’impressione, come allora, che il futuro della Palestina del Mandato non sia stato ancora deciso e che sarà determinato con la forza piuttosto che con il negoziato. Nel 2002, la questione ha dimensioni geografiche differenti. Il punto centrale riguarda chi controllerà l’esiguo 22% di Palestina che nel 1948 non entrò a far parte dello Stato di Israele. In quell’anno Israele fu costruito sul 56% della Palestina assegnatogli dall’Onu e su un ulteriore 22% che venne occupato con la forza. La maggior parte dei palestinesi che vivevano sul territorio del nuovo Stato, circa 900.000, furono espulsi con la violenza, i loro villaggi distrutti e i quartieri urbani vennero occupati da immigrati ebrei. La fondazione di Israele, quindi, fu resa possibile dalla forza militare, dalla pulizia etnica e dalla de-arabizzazione del paese.

    A partire dal 1967, e ancora di più dal 1987, il futuro del residuo 22% ha rappresentato il problema più importante all’ordine del giorno, sia a livello locale che in qualche misura regionale. Fino al 1993 i vari governi israeliani – in mancanza di una annessione formale – hanno puntato a stabilire un controllo totale su tutto il territorio, espandendo gli insediamenti ebraici e attuando una politica di lento trasferimento. Qualsiasi resistenza popolare o armata è stata brutalmente schiacciata, ma la prima Intifada ha indotto l’esecutivo israeliano, nel 1993, ad accontentarsi di esercitare un controllo diretto solo su una porzione di quel 22%, e a permettere la creazione di un bantustan nella parte rimanente.

    A Camp David, nell’estate del 2000, questo assetto, insieme alla richiesta di una rinuncia da parte palestinese al diritto al ritorno, è stato presentato sotto forma di diktat ad Arafat. Il suo rifiuto e una serie di eventi noti hanno condotto in seguito allo scoppio della seconda Intifada.
    La distanza fra ciò che a Camp David è stato offerto ad Arafat e la strategia di Ariel Sharon nel 2002 è minima. La differenza riguarda i chilometri quadrati che dovrebbero essere assegnati al bantustan, ma il principio che guida entrambi gli ex generali è identico, e mira alla creazione di un’entità politica palestinese priva di qualsiasi significativa sovranità o indipendenza, con una sistemazione post-bellica in cui i palestinesi rinuncino al proprio diritto al ritorno e abbandonino ogni aspirazione a Gerusalemme Est capitale. Sharon non è solo; egli può contare sul pieno appoggio del Partito laburista israeliano, non soltanto per quanto riguarda la sua strategia per il futuro, ma anche la tattica che ha adottato per raggiungere i suoi obiettivi. Attraverso la sua guerra contro l’Autorità nazionale palestinese e la creazione di quelle che egli definisce ‘zone di sicurezza’, Sharon vuole imporre con la forza un nuovo assetto di Palestina e Israele.

    Questo quadro dovrebbe garantire, come era nelle aspirazioni sioniste del 1948, il controllo israeliano sulla maggior parte di territorio possibile, con il minor numero possibile di palestinesi. Gli arresti di massa, le espulsioni e le intimidazioni sono stati e saranno utilizzati per ridisegnare la mappa di Israele. Anche il linguaggio ambiguo e il fallimento di qualsiasi reale opportunità di negoziato, nei pochi momenti di pausa dei combattimenti che hanno aperto spiragli in questo senso, fanno parte di questa strategia.

    È qui che avvertiamo il secondo e più recente déjà vu, quello del Libano nel 1982. È sempre lo stesso Sharon, convinto che l’imposizione di nuove realtà politiche rientri nelle sue prerogative. Allora era determinato a costruire ‘un nuovo Libano’, oggi ritiene di avere il potere di creare un nuovo assetto in Israele e Palestina, deportando una popolazione, uccidendo migliaia di persone e re-giudaizzando ulteriori regioni della Palestina.

    Ma quando la storia si ripete produce situazioni talora peggiori degli eventi originali, nonché esempi meno accettabili della follia e della crudeltà umane. Il potere di Israele e i mezzi a sua disposizione sono oggi assai più distruttivi che in passato. I sistemi per mobilitare l’opinione pubblica all’interno dello Stato ebraico risultano molto più sofisticati ed efficaci che in precedenza, e le voci di dissenso meno numerose e più deboli.

    L’America appoggia ancora Israele, come nel 1948 e nel 1982, ma non si può dire altrettanto almeno per parte dell’Europa. Il mondo arabo è impegnato, ma – come in passato – più con le parole che nei fatti. I palestinesi, fino a questo momento, sono soli contro un nemico che – come in passato – è pronto a distruggerli. I mezzi israeliani variano nel tempo, ma l’intento rimane sempre lo stesso. Tuttavia, molti ebrei in Israele sono ancora animati da nobili motivazioni, quali il desiderio di costruire una democrazia, sostenere un’economia molto modernizzata e diffondere gli splendori della cultura e del modo di vita ebraici. Ma queste aspirazioni vengono soffocate, e nei fatti sconfitte, dalla decisione di perseguire tali obiettivi a spese della popolazione originaria della Palestina, a qualsiasi costo.

    Se altri paesi avessero optato per una politica e una strategia di questo tipo sarebbero già stati definiti da tempo degli ‘Stati canaglia’. Ma il complesso di colpa degli europei (del tutto comprensibile in considerazione degli orrori dell’Olocausto) e la forte lobby ebraica statunitense hanno risparmiato finora a politici come Sharon un destino simile a quello di Slobodan Milosevic.
    Nelle ultime due settimane, la sorprendente immunità di Israele ha posto all’attenzione della società civile mondiale alcuni elementi che, per la prima volta, hanno messo in discussione lo status del tutto straordinario che viene di solito riservato a questo paese. E ciò anche prima che la reale portata delle iniziative devastanti dell’esercito israeliano (Israeli Defence Force, Idf), poco conosciuta a causa della mini-guerra scatenata dalle autorità israeliane contro la presenza degli operatori dei media nelle azioni dell’esercito israeliano in Cisgiordania, fosse apertamente denunciata.

    Nonostante i tentativi di occultamento, alcuni dati essenziali circa l’attività dell’Idf e la strategia di fondo di Sharon vengono in luce. L’Idf è determinato a distruggere non solo l’Autorità palestinese, ma anche l’infrastruttura necessaria a una indipendente, o anche autonoma, esistenza palestinese nella Cisgiordania. In tal modo si creerebbe un vuoto che Sharon intende riempire sommando due vecchie concezioni israeliane su come ‘governare’ le aree arabe: da un lato affidando ai militari israeliani il compito di controllare la vita nelle zone ritenute cruciali per Israele, dall’altro servendosi di una rete di collaborazionisti, sul modello delle ‘villages societies’, che già nel 1981 Sharon aveva tentato invano di sostituire alle strutture della Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Un simile regime può essere imposto in due modi: o attraverso la realizzazione di un accordo tra Sharon e una leadership palestinese locale – sponsorizzato da alcuni Stati arabi, dall’Europa e dagli Stati Uniti – o, più probabilmente, ricorrendo di nuovo alla forza, ma in maniera più sottile, al fine di ‘diluire’ (se vogliamo usare per un momento il nuovo vocabolario politico, inumano e disumanizzato, di Israele) la popolazione della Cisgiordania. Servendosi di qualsiasi mezzo a disposizione, il governo ‘incoraggerebbe’ lo spostamento di palestinesi verso Gaza e verso la Giordania.

    Sharon può contare su circa dieci ministri del suo governo apertamente favorevoli al piano, e su alcuni esponenti laburisti che esprimono implicitamente posizioni simili. Nel tempo, con l’approssimarsi delle elezioni politiche israeliane, il Labour Party potrebbe abbandonare l’esecutivo, probabilmente solo per rientrarvi in seguito, quale membro di un nuovo governo di unità. Ma ciò non dovrà farci chiudere gli occhi di fronte alle responsabilità dei leader laburisti nella distruzione dell’infrastruttura sociale, economica e politica palestinese nella Cisgiordania, e forse in futuro anche nella Striscia di Gaza. Una distruzione che è stata accompagnata da azioni umilianti e da violazioni di diritti umani, inflitte sia in misura imponente e su scala collettiva, sia – con un alto valore simbolico – ai leader palestinesi, fino al vertice, contro il presidente Arafat. Atti di umiliazione che sono stati spesso accompagnati da massacri e dalla distruzione di case e strade. Il tutto come parte di una missione punitiva mascherata da ‘guerra contro il terrorismo’.

    Sono assai pochi coloro che in Israele offrono una interpretazione alternativa della ‘guerra contro il terrorismo’. Scioccati dalle bombe umane – che hanno prodotto un senso di insicurezza personale e un aumento del numero delle vittime – gli israeliani in generale sono incapaci o restii a prendere piena coscienza dei piani disastrosi dell’uomo che hanno democraticamente eletto con una maggioranza senza precedenti. Le sue posizioni, fra l’altro, assecondano anche le latenti tendenze razziste ed etnocentriche presenti nella maggior parte degli ebrei del paese, tendenze che negli anni sono state coltivate dai sistemi di istruzione e culturali del paese.
    Una coalizione di gruppi contrari alla guerra sta tentando di fornire una spiegazione alternativa alle bombe che esplodono nel paese e alla politica generale di Israele. Tale coalizione è formata da due blocchi; il principale è guidato da «Peace now» e ha scarsissime possibilità di offrire alternative significative. La posizione dei membri di questo raggruppamento, la loro sincera convinzione, è che Barak abbia fatto ai palestinesi un’offerta estremamente generosa, cui Arafat ha reagito in modo deludente. Il loro discorso più comune è che «nonostante l’imperdonabile condotta di Arafat, non resti altra scelta se non concludere la pace con quest’uomo tremendo». Essi credono ancora nell’equazione proposta da Barak tra il ritiro israeliano e la pace. Non hanno chiarito a se stessi né alla popolazione ebraica quale sia il vero significato della ‘pace’. Per quel che si può dedurre, essa non prevede una soluzione al problema dei rifugiati, né un cambiamento nello status della forte minoranza palestinese in Israele – un milione di persone, sul cui vasto appoggio essi confidano per le loro manifestazioni – né una piena sovranità per il futuro Stato palestinese. I mali dell’occupazione vengono riconosciuti, ma identificati principalmente nella corruzione della società ebraica, non nei crimini contro la popolazione locale, né assolutamente nel danno permanente che ha avuto origine con la pulizia etnica del 1948.

    Eppure questa è l’unica coalizione in grado di organizzare vaste manifestazioni volte a sollecitare pressioni esterne su Israele, affinché ponga fine alle operazioni militari in corso. L’importanza di questo tentativo non va sottovalutata, ma dubito che esso riuscirà a produrre nell’opinione pubblica ebraica quel cambiamento necessario ad aprire la strada della pace e della riconciliazione. Questa posizione all’interno della coalizione contraria alla guerra amplia lo spazio del dibattito pubblico in Israele, in un tempo in cui i media elettronici hanno imposto il silenzio su qualsiasi discorso o notizia che metta in discussione la politica del governo. E tuttavia, nonostante la sua presenza, i margini disponibili per un’azione a favore dei palestinesi, contro la loro grave situazione, e per i loro diritti, restano ancora molto limitati.

    Il gruppo più piccolo della coalizione non ha ottenuto neppure il riconoscimento della componente principale. La sua base è nelle organizzazioni ebraiche non sioniste e nella maggior parte dei partiti israelo-palestinesi; prospetta una visione veramente alternativa e una proposta per realizzarla, e tuttavia è emarginato e combattuto, non solo dall’establishment, ma anche dalla componente maggioritaria della nuova coalizione pacifista. La sua importanza è nella rete di contatti con organizzazioni regionali e internazionali, capaci di conferire – e ricevere – legittimità alle azioni locali o esterne contro l’occupazione e per la pace. Questa piccola formazione della scena pubblica israeliana potrà denunciare, finché non verrà completamente messa a tacere, una serie di elementi che costituiscono la natura oppressiva del sionismo e di Israele: le caratteristiche, proprie dell’apartheid, delle politiche verso la minoranza palestinese del paese; il contesto storico delle azioni di Israele contro i palestinesi dei territori occupati; la duplice esigenza della società ebraica, prima di riconoscere e poi di riconciliarsi con i crimini commessi, dalla pulizia etnica del 1948 fino alla recente operazione «Homat Magen» (muraglia di difesa).
    Questo nome dovrebbe ricordare l’operazione «Pace in Galilea» del 1982; si tratta in realtà di due eufemismi, utilizzati da Israele nelle guerre di distruzione scatenate contro il Libano e i palestinesi.

    Se mi è consentita un’osservazione più personale, aggiungerei un déjà vu di carattere privato. Come nel 1993, nei giorni d’oro di Oslo, anche oggi si percepisce la stessa disperante frustrazione rispetto al futuro. Sostenni allora, e sono ancora dello stesso avviso, che «Peace Now» condivida quella stessa visione sionista che non consente il riconoscimento delle ingiustizie commesse nel passato, né le esigenze di una futura reale riconciliazione con le vittime palestinesi del sionismo e di Israele. Sono convinto oggi, come ero convinto allora, che ciò può avvenire solo se nella società ebraica si verificherà un cambiamento molto più profondo e strutturale. Dieci anni fa dissi allarmato che non potevamo aspettare altri dieci anni, ché per noi erano in serbo altre tragedie. Ora si ripresenta, ancora più acuta, la sensazione che non vi sia più tempo per trasformazioni di lungo periodo. Il tempo a nostra disposizione è ormai agli sgoccioli, mentre il pericolo della deportazione, o addirittura del genocidio, incombe su di noi. C’è bisogno di un intervento e di una pressione internazionali forti, affinché lo Stato di Israele e la società ebraica comprendano il prezzo morale e politico che dovranno pagare per le scelte non compiute in passato e nella fase attuale.

    Le persone che all’estero leggono ciò che io – e gli amici che condividono il mio punto di vista – scriviamo, ritengono erroneamente che si tratti di analisi e previsioni imbastite con una certa leggerezza. È esattamente il contrario. Prima di essere formulate, le nostre posizioni conoscono un lungo processo di elaborazione, fatto di dubbi, scelte, articolazioni. Esse pongono colui, o colei, che sostiene tali idee in una situazione sociale molto precaria. Nel migliore dei casi veniamo trattati come dementi, nel peggiore come traditori, anche da coloro che si considerano difensori della libertà di parola e di opinione in Israele. Non sto analizzando questa posizione dal punto di vista del rischio o della riprovazione, ma da quello del realismo. In che modo persone come me – così alienate dalla società in cui vivono, che aborrono ciò che essa ha fatto in passato e ciò che il suo governo sta facendo oggi – possono determinare cambiamenti effettivi nell’opinione pubblica del proprio paese? L’impresa appare quanto meno donchisciottesca. Ma poi la mia mente corre a tutti gli ebrei che hanno aderito all’Anc [African National Congress, il movimento contro l’apartheid in Sudafrica (NdR)], al movimento per i diritti civili negli Usa e a quello anticolonialista in Francia. Ricordo gli italiani e gli spagnoli coraggiosi che non hanno ceduto alle promesse del fascismo, e da questi esempi traggo la forza per invitare, dall’interno, il mio popolo a infrangere lo specchio che lo ritrae come un’entità morale superiore, e a sostituirlo con uno che denunci i crimini che essi – o i leader e i governi che hanno agito in loro nome – hanno commesso contro l’umanità e il popolo palestinese.
    (Traduzione di Tiziana Antonelli.)


    note: * Ilan Pappe, professore di Scienze politiche all’Università israeliana di Haifa e direttore dell’Institute for Peace Research Givat Haviva, è autore di numerose opere, fra cui The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951 e A History of Modern Palestine and Israel.

  2. #2
    Hanno assassinato Calipari
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    IL DECLINO E LA CADUTA DELLA SINISTRA ISRAELIANA


    Qualcuno visitando l'accademia israeliana nella metà degli anni '90 deve aver sentito una fresca aria di apertura e pluralismo che soffiava attraverso i corridoi di un fino ad allora stagnante establishment, dolorosamente leale all'ideologia sionista in ogni campo della ricerca che aveva interessato la realtà israeliana, passata o presente.
    La nuova atmosfera permise agli studenti di rivisitare la storia del 1948, ed accettare alcune delle rivendicazioni palestinesi su quella guerra. Esso produsse un sapere locale che aveva sfidato drammaticamente il quadro storiografico del primo periodo d'Israele. Nel nuovo ambiente di ricerca, l'Israele dell'epoca pre-1967 non era più un piccolo paese difensivo e l'unico stato democratico nel Medio Oriente, era dipinto ora come una struttura potente che aveva oppresso la minoranza Palestinese, aveva discriminato i suoi cittadini arabi e condotto un'aggressiva politica verso gli stati vicini nella regione.
    La critica accademica era scesa dalle torri d'avorio per raggiungere altri mezzi culturali, come il teatro, i film, la letteratura e la poesia ed anche i documentari TV e i libri di testo nel sistema ufficiale scolastico.
    Ci vorrebbe un visitatore proprio fantasioso e determinato oggigiorno per trovare una traccia di quell'apertura e pluralismo _ fra le conseguenze maggiori, o dovremmo dire le vittime, dell'ultima Intifada in Israele. Era una parte del declino di quella che una volta era chiamata la “sinistra israeliana” nelle immediate conseguenze dell'Intifada. La “sinistra” era quella parte dell'opinione pubblica ebraica che, con differenti gradi di convinzione ed onestà, aveva tenuto posizioni di pace sulla questione della Palestina. Dal 1967, i suoi membri avevano dichiarato la loro volontà a ritirarsi dai territori occupati, avevano accettato uno stato Palestinese con Gerusalemme Est come capitale vicino ad Israele, ed avevano parlato del bisogno di garantire pieni diritti civici alla minoranza nella stessa Israele.
    Una larga porzione di questo gruppo, all'inizio dell'attuale Intifada, pubblicamente e privatamente confessarono quanto avevano sbagliato a credere nei Palestinesi e senza esitazione votarono per Sharon nelle elezioni di Febbraio (o votando direttamente per lui o bloccando la via ad un terzo candidato al posto di Barak, che aveva promesso di invitare Sharon in un governo di unità dopo le elezioni).
    I principale "guru" e leader di questo gruppo espressero il loro disappunto con i Palestinesi cittadini di Israele _ con i quali, così essi affermavano, avevano concluso una “storica alleanza”. Il boicottaggio dei palestinesi di Israele alle elezioni del febbraio 2001 fu l'ultima goccia che fece traboccare il vaso di quello “storico patto.” La disidratazione della scena accademica, culturale, intellettuale israeliana e la scomparsa di un voce politica e morale che accettasse infine il diritto Palestinese all'autodeterminazione ed alla parità, se non il diritto al ritorno erano processi gemelli che camminavano ad un velocità sorprendente. Ci si sarebbe attesi, specialmente nei circoli della società più intellettuali ed eruditi, un lungo processo di riflessione e deduzione.
    Ma sembra che tutto quello che ha avuto luogo invece è stata una corsa frenetica, accompagnata da un forte sospiro di sollievo, a disfarsi dei pochi sottili strati di democrazia, moralità e pluralismo che avevano coperto l'ideologia e la prassi sionista attraverso gli anni. La rapida dissoluzione degli istituti che avevano sostenuto le politiche di pace e di compromessi, l'affrettata rimozione della terminologia pacifica e morale dai discorsi pubblici e la scomparsa di ogni visione alternativa allo sgradevole consenso sionista sulla questione Palestinese _ tutto testimonia della superficialità del discorso e del campo pacifista israeliano prima dell'Intifada.
    Gli analisti israeliani attribuiscono il fenomeno di cui siamo testimoni ad un trauma genuino. Lo shock è stato causato da tre fattori: l'insistenza di Arafat al diritto al ritorno, il rifiuto dell'ANP alle offerte generose di Barak a Camp David e la violenta rivolta. Ma queste sono false spiegazioni, così molti di coloro che le hanno pensate sarebbero i primi a riconoscere. Arafat non ha mai abbandonato il diritto al ritorno -- infatti, egli non poteva, anche se avesse voluto farlo. Ha apertamente e costantemente parlato di questo da Oslo in avanti. Così per la favola delle generose offerte fatte a Camp David, sembra che come recentemente Shlomo Ben Ami e Yossi Beilin hanno ammesso che tali offerte furono fatte solo a Taba _ e allora scherzosamente, poiché ogni interessato sapeva che Barak era un fallito (dato che stava per perdere le elezioni con Sharon N.d.T.) e non aveva il potere per renderle esecutive.
    Per di più, molti israeliani di “sinistra” lessero i rapporti USA da Camp David, tradotti in ebraico da Haaretz, e seppero che a Camp David ad Arafat fu presentato un diktat egli non avrebbe potuto accettare sotto quelle circostanze.
    Realmente li ha delusi non riuscendo a resistere alla rabbia popolare nei territori occupati e nel cul-de-sac nel quale entrambe le parti erano state spinte, e che per i Palestinesi significava la perpetuazione dell'occupazione? I grandi profeti di questo campo, A B Yehoshua e Amos Oz, avevano avvertito ben prima della rivolta che se la pace non fosse stata raggiunta in Camp David, la guerra avrebbe invece regnato. Non c'era nessun elemento di accenni di sorpresa alla delusione contenuta dal fatto che il popolo di sinistra si era mosso con piacere verso il centro e la destra, dove sono stati abbracciati come il figliolo prodigo che ritorna a casa da un lungo esilio, ancor prima di concederli il tempo di esaminare lo sviluppo. Sembra ora che coloro che, come lo scrivente, avevano avvertito che gli accordi di Oslo non erano più che altro un intesa politico-militare che significava sostituire l'occupazione israeliana con un'altra forma di controllo, avevano ragione.
    Oslo non ha provocato un cambio significativo nelle interpretazioni basiche israeliane (da sinistra a destra). La maggior parte della Palestina, nella visione sia di sinistra che di destra, era Israele e non c'era nessun diritto al ritorno _ poiché l'unica speranza degli Ebrei di sopravvivenza era all'interno di uno stato sionista, sopra quanta Palestina possibile, con così pochi Palestinesi possibile.
    La discussione era sulle tattiche non sugli obiettivi. La tattica “moderata” era stata presentata ai palestinesi ad Oslo con la proposizione “prendere o lasciare”, in cambio della quale dai Palestinesi ci si attendeva che cessassero tutti i tentativi di raggiungere più di quello che era stato offerto. Ciò non ha funzionato sebbene è sembrato per un po' che lo fosse. Questo fu dovuto al profondo coinvolgimento del Presidente Clinton, alle impressioni rese note dai leader palestinesi che questo davvero era un processo di pace, ed alla sonnolenza del mondo arabo. Israele raccolse i dividendi e non pagò niente in cambio. Il “campo pacifista” in Israele aveva nemici: quelli a destra, e specialmente i coloni, che avevano trovato anche quel tentativo superfluo. Nel nome di dio e della nazione, avevano preferito l'uso della forza pura per imporre la realtà sionista su tutta la Palestina. A causa di questi oppositori e della loro violenza, il campo di Oslo ha avuto un martire (Yitzhak Rabin); poiché hanno avuto delle vittime, erano convinti (i pacifisti N.d.T.) che stessero lottando per la pace. Infatti, quello per cui stavano combattendo era la creazione di un Bantustan, un protettorato sulla maggior parte della West Bank e della Striscia di Gaza. In cambio, avevano cercato di sollecitare ai Palestinesi una dichiarazione di “ fine del conflitto”. Questo non aveva bisogno di una nuova valutazione del ruolo di Israele nella, e la responsabilità per, la pulizia etnica compiuta nel 1948, una revisione delle politiche brutali nei Territori Occupati o una revisione del suo rifiuto a permettere ai Palestinesi uno stato pienamente sovrano su almeno il 22% della Palestina (la totalità della West Bank e della Striscia di Gaza).
    Ciò aveva anche condotto all'illusione che la sinistra israeliana aveva avuto successo nel “sionizzare” la minoranza Palestinese in Israele come parte di un accordo globale. Ci è voluto del tempo per la minoranza Palestinese e a suoi leader per capire che una mappa della pace finale includeva la continuazione, se non addirittura l'accentuazione, delle politiche e pratiche discriminatorie contro la minoranza nello stato ebraico.
    Come ai Palestinesi fu detto a Camp David di accettare la “madre di tutti gli accordi” _ volendo dire che da essi si attendeva che non avessero più posto ulteriori richieste in futuro _ cosi i cittadini palestinesi di Israele furono invitati ad abbandonare ogni aspirazione di vivere in uno stato per tutti i suoi cittadini come pure ogni speranza della sua de-sionizzazione.
    Quando l'Intifada scoppiò nei territori occupati e nella comunità palestinese dentro Israele, i limiti molto stretti del genuino campo pacifista ebraico furono smascherati. Erano sempre stati molto piccoli, ma con l'aiuto dei media internazionali, il discorso di pace americano ed il fanatismo della destra israeliano, erano apparsi abbastanza larghi per giustificare speranze per un comprensiva e giusta soluzione nell'intero medio Oriente. Fu una bolla che scoppiò. Ora il momento è venuto per riaggiustare, in una maniera molto più sobria e realistica, come il genuino mondo pacifista dentro la società ebraica possa raggrupparsi e impattare la questione palestinese.
    Si dovrebbe permettere ai pochi impegnati che rimangono di parlare più apertamente del loro sostegno alla lotta Palestinese per l'indipendenza _ anche se ora un tale sostegno pubblico è simile ad un tradimento agli occhi della maggior parte degli israeliani. Si dovrebbe introdurre la necessità di de-sionizzare Israele come unico mezzo per raggiungere la pace e la riconciliazione con il Popolo Palestinese.
    Si dovrebbe non solo appoggiare il diritto al ritorno Palestinese, si dovrebbero anche offrire modi pratici per implementarlo. Si dovrebbe abbandonare i piccoli dissensi e i conflitti che caratterizzano i movimenti di sinistra, e capire che il compito principale è di impedire attacco israeliano su i Palestinesi sia dei territori Occupati sia dentro Israele stesso.
    E infine, si dovrebbe produrre e pubblicizzare nuove coraggiose idee su come costruire una struttura politica nel futuro per una situazione che renda irrilevante l'idea dei due stati, data la distribuzione demografica dei Palestinesi e degli Ebrei fra il Giordano ed il Mediterraneo. Tali nuove strutture potrebbero prendere la forma di uno stato bi-nazionale o uno stato secolare democratico, o qualcosa di simile in questa direzione.
    Questo può mettere troppo alla prova ma quanto detto sopra è una priorità ed un lavoro di convincere quanti ebrei possibile per perseguire tali direzioni per ragioni sia funzionali sia morali che può essere solamente compiuto dall'interno della comunità ebraica. L'urgenza di alcuni pericoli che sono svianti è tale che, intanto, la sinistra israeliana non sionista dovrebbe spronare la comunità internazionale per interferire ed impedire i pericoli che affronta l'esistenza stessa dei palestinesi nei territori occupati e dentro Israele.
    Per il tempo che c'è, questo gruppo di persone, con tutta la loro buona volontà, non ha il potere per agire così.

    http://www.tmcrew.org/int/palestina/ilanpappe.htm

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    La rivista del Manifesto, Maggio 2002
    LA DESTRA ISRAELIANA
    Paolo Di Motoli


    Per comprendere le idee che ispirano il Likud, maggiore partito di destra in Israele, bisogna analizzare le divisioni sorte in seno al movimento sionista negli anni del Mandato inglese.

    Nel settembre 1922 il governo britannico divise in due la Palestina, creando dal niente una nuova entità territoriale ad Est del fiume Giordano, la Transgiordania. La neo-costituita Società delle Nazioni il 24 luglio 1922 ratificò, di fatto, la nuova mappa geopolitica del Vicino Oriente, approvando l’istituzione Mandataria. Francia e Gran Bretagna avrebbero amministrato i territori assegnati dal Mandato, dovendo favorirne l’autogoverno per il futuro.

    Alcuni esponenti del movimento sionista rimasero profondamente delusi. La Palestina ‘storica’ rimaneva, secondo alcuni di loro, quella precedente la divisione ‘artificialmente’ operata da Churchill e corrispondente oggi ad un territorio che comprenderebbe Israele, Cisgiordania occupata e regno di Giordania.

    La politica dell’esecutivo sionista dell’epoca, guidata dal liberale Chaim Weizmann, moderato e pragmatico, era volta ad ottenere dai britannici la costituzione del «focolare ebraico», come promesso dalla Dichiarazione Balfour del 1917. I metodi per arrivare a questo obiettivo erano la pressione diplomatica e la colonizzazione della Palestina, operata con «piccoli passi».

    L’ascesa di Jabotinsky
    In contrasto radicale con il moderatismo di Weizmann e dell’esecutivo sionista un giovane ucraino di Odessa, di nome Vladimir Zeev Jabotinsky, fondò a Parigi nel 1925 un movimento politico denominato Unione dei sionisti revisionisti. Il manifesto del partito parlava di «revisione» della politica sionista dell’epoca, per un ritorno alla vera matrice herzliana del sionismo. La revisione quindi intendeva ritornare allo spirito del fondatore stesso del sionismo, Theodor Herzl, il cui spirito, secondo Jabotinsky, era tradito da Weizmann.

    Quello che la maggioranza dei sionisti dell’epoca si ostinava a non rivendicare era la costituzione di uno Stato ebraico, proprio come prescritto dal famoso libro di Herzl, Der Judenstaat. Le ragioni della mancata richiesta di uno Stato ebraico, che avverrà ufficialmente solo nel 1942, erano probabilmente tattiche. I sionisti non intendevano mettere in difficoltà i britannici e inasprire i rapporti con gli arabi di Palestina, già protagonisti di aggressioni violente ai danni della comunità ebraica palestinese.

    I capisaldi del pensiero del giovane letterato e giornalista Jabotinsky erano sostanzialmente quattro: a. la costituzione di una maggioranza ebraica in Palestina, necessaria a garantire uno Stato ebraico su ambedue le rive del fiume Giordano; b. il primato dell’idea nazionale su qualsiasi altro principio, con il rigetto delle divisioni di classe operate dai socialisti; c. il primato della politica sul metodo pratico inventato da Weizmann, che voleva comprare la Palestina «dunam per dunam». Primato della politica significava ottenere dagli inglesi un «regime di colonizzazione» tale da permettere di costituire sulla Palestina storica lo Stato di Israele; d. la necessità per gli ebrei di provvedere autonomamente alla loro autodifesa con la costituzione di legioni militari ebraiche.

    Nazionalismo risorgimentale e nazionalismo organicista
    Il pensiero di Jabotinsky era un intreccio di nazionalismo risorgimentale, ispirato dal razionalismo della Rivoluzione francese, e nazionalismo organicista, che vedeva la nazione come un organismo vivente, un fine morale presente in ogni individuo centrato sulla razza. Il laboratorio della nazione in fieri era il movimento giovanile Betar, che educava i giovani ebrei al rispetto della tradizione, alla disciplina, all’ordine, con una totale abnegazione verso l’ideale nazionale. Il Betar, fondato a Riga da giovani simpatizzanti di Jabotinsky nel 1923, era la metafora della nazione ebraica: e l’adesione ad esso era puramente volontaristica. Il Betar doveva essere secondo il leader ucraino come una macchina dotata di movimenti sincronizzati, un’orchestra con i suoi molteplici elementi, o la scacchiera, dove ogni pedina svolgeva il proprio compito in armonia con le altre.

    Nel pensiero nazionalista jabotinskiano convivevano due aspetti classici del nazionalismo, uno ‘scandaloso’, basato sul determinismo razziale tipico del nazionalismo organicista del Novecento, e l’altro di tipo volontaristico, affine a quello mazziniano. Questo pensiero oscillante ha spesso contribuito ad un dibattito storiografico sulla sua figura, che di volta in volta ne ha messo in luce gli aspetti liberali o autoritari ed estremi, avvicinandolo al fascismo.

    Il partito dei sionisti revisionisti è stato protagonista in Palestina di durissimi scontri con il filone maggioritario del sionismo, ispirato ad un socialismo nazionale e volontaristico. Gli scioperi del potente sindacato Histadruth venivano boicottati dagli uomini di Jabotinsky, che sostituivano gli scioperanti provocando violente reazioni.
    Il rifiuto della lotta di classe e il primato della nazione portarono Jabotinsky a postulare uno Stato di Israele, in cui i conflitti sociali fossero regolati dallo Stato tramite un Arbitrato nazionale. Lo Stato di Jabotinsky era ‘liberale’, poiché rispettava entro certi limiti la proprietà privata; ma era anche corporativo, con una Camera delle professioni, che si affiancasse al Parlamento politico, separando così la sfera economica da quella politica.
    Questa concezione dello Stato, insieme alla partecipazione di giovani simpatizzanti di Jabotinsky alla scuola marittima di Civitavecchia nell’Italia di Mussolini, indussero esponenti del sionismo socialista a vedere in lui un leader di tipo fascista. Il pessimismo antropologico e il realismo politico, di cui era dotato, resero le sue analisi sulla situazione palestinese molto più lucide di quelle di molti esponenti del sionismo laburista e spirituale. Jabotinsky aveva visto con chiarezza il nazionalismo arabo.

    Vi erano due diritti contrapposti in Palestina e l’unica soluzione per il leader revisionista non era nemmeno troppo implicita: la guerra. Era inutile lo scambio culturale, il rapporto reciproco con l’altra etnia, lo studio dell’arabo nel circoscritto contesto palestinese. Gli arabi non si sarebbero mai accontentati di diventare una minoranza o di dividere la terra, che consideravano di loro proprietà, con un popolo diverso.
    La sue giovanili infatuazioni per il nazionalismo ucraino, ferocemente anticomunista e antisemita, e per quello polacco di Pilsudsky, lo resero odioso agli esponenti dell’ebraismo progressista. Jabotinsky non apprezzò mai le accuse di fascismo che Ben Gurion e altri militanti sionisti di sinistra gli mossero, preferendo definirsi un liberale rispettoso della democrazia e dei valori borghesi del XIX secolo.
    L’abbandono nel 1931 del Congresso sionista per il rigetto di una mozione che definiva lo scopo del sionismo come la costituzione di uno stato di Israele sulle due rive del Giordano, creò una spaccatura che avrebbe pesato a lungo nei rapporti tra la sinistra sionista e la destra rappresentata dai revisionisti.

    Jabotinsky ebbe l’idea di fondare nel 1935 una Nuova organizzazione sionista in concorrenza con quella storica, ormai guidata dal partito di ispirazione socialista Mapai di Ben Gurion.
    Le istituzioni dunque raddoppiarono, con la costituzione di due eserciti clandestini, l’Irgun di Jabotinsky e l’Haganà egemonizzata dai socialisti, e di due sindacati, l’Histadruth per i socialisti e l’Histadruth nazionale per i revisionisti.
    Per quanto riguarda l’attività militare bisogna segnalare gli atti di violenza terroristica sui civili arabi operati dall’Irgun, che inasprirono ancora di più i rapporti con la maggioranza dei sionisti guidata ormai saldamente dal futuro primo ministro di Israele Ben Gurion.

    Il filo-fascismo delle minoranze massimaliste
    Le ali estreme del sionismo revisionista erano intrise di nichilismo rivoluzionario, ispirato dal terrorismo russo di Volontà del popolo, nato dalla spaccatura del Partito socialista rivoluzionario di Russia, che organizzò l’uccisione dello zar Alessandro II. Questi sionisti massimalisti organizzarono una scissione dall’Irgun, dando origine nel 1940 al Gruppo Stern o Lehi, acronimo di Loamei Herut Israel (Combattenti per la libertà di Israele).
    Il Lehi era un movimento militare, intriso di idee rivoluzionarie antiborghesi e di simpatie fasciste. Il capo del movimento, Avraham Stern, propugnava alleanze ‘pericolose’. In nome della guerra contro gli inglesi per liberare la Palestina dal dominio coloniale, il piccolo ma agguerrito movimento tentò addirittura una improbabile alleanza con i nazisti.

    Il ‘contatto’ venne preso per il Lehi da Naftali Lubentchik, che nel 1941 ebbe un colloquio con due uomini del Terzo Reich, Rudolf Rozer e Otto Von Hentig, responsabile del dipartimento per l’Oriente del ministero per gli Affari esteri. Venne stilato anche un documento, che esponeva la «comunità di interessi tra il movimento e le potenze totalitarie europee per la creazione di un nuovo ordine europeo», e che annunciava «la fondazione di uno Stato storico ebraico su una base nazionale e totalitaria, legato con un trattato al Reich tedesco», volto a rafforzare la posizione della Germania nel Vicino Oriente. Le trattative con i nazisti si interruppero quando gli alleati catturarono, nel giugno del 1941, Lubentchik nell’ufficio dei servizi segreti a Damasco. La morte di Stern, ucciso dalla polizia britannica nel febbraio del 1942, segnò il tramonto della fase ‘messianica’ del movimento, che avrebbe elaborato in seguito una linea politica influenzata dal mito dell’Unione Sovietica, vincitrice della guerra e potenza anticoloniale e antiborghese.

    Ma il gruppo Lehi viene ricordato anche per l’assassinio di lord Moyne, ministro residente britannico al Cairo, avvenuto il 6 novembre del 1944, e per quello del conte Folke von Bernadotte, mediatore delle Nazioni Unite in Palestina, ‘colpevole’, secondo il Lehi, di aver proposto una spartizione della Palestina sfavorevole agli ebrei. Il gruppo di comando era in questi anni nelle mani di una specie di triumvirato composto da Yitzak Yzernitzky, detto Shamir, Israel Sheib e Yellin Mor, poi diventato pacifista.

    La morte di Vladimir Zeev Jabotinsky nel 1940 liberò in qualche modo tutti gli istinti più militaristici dei suoi uomini. Si inaugurava l’epoca del Sionismo militare, rivolto contro gli inglesi e i nemici arabi. Il ceto politico dei sionisti revisionisti venne in qualche modo scavalcato da quello militare, proveniente dall’Irgun, il cui comandate fu Menahem Begin dal 1944, e dal Lehi.

    La Polonia fu il grande serbatoio di militanti per l’Irgun e per i revisionisti in generale, forse perché l’ebraismo proveniente da quelle zone era stato maggiormente vessato. Si sbaglierebbe però nel proiettare su tutto il sionismo le infatuazioni del revisionismo jabotinskiano – o peggio del radicalismo del gruppetto militare del Lehi –, data la natura essenzialmente socialista della maggioranza dei consessi sionisti.

    Il migliore risultato elettorale ottenuto dalla Destra sionista furono i 52 deputati su 254 del 17° Congresso sionista del luglio 1931. Dopo quella data i risultati peggiorarono anche a causa di scissioni, nate da contrasti relativi alla costituzione della Nuova organizzazione sionista voluta da Jabotinsky.

    Begin fonda Herut il maggiore partito della destra israeliana
    L’eredità politica del revisionismo di Jabotinsky venne raccolta dopo la fondazione dello Stato di Israele da Menahem Begin, il vecchio comandante dell’Irgun, che nell’ottobre del 1948 fondò il partito Herut (in ebraico «libertà»).
    In Herut erano confluite tutte le anime del revisionismo, comprese le più radicali. Tra i protagonisti del massimalismo bisogna segnalare i due ucraini Abba Ahimeir e il poeta Uri Zvi Greenberg, che dopo la prima guerra mondiale erano stati i creatori di un piccolo gruppo massimalista, chiamato Birionim (briganti), di orientamento chiaramente fascista, in cui militò anche Ben Zion Netanyahu, padre del futuro primo ministro. Ahimeir stesso era un grande ammiratore di Mussolini e nel 1928 aveva pubblicato sul giornale «Doar Hayom» le Cronache di un fascista.

    Tutte queste infatuazioni gettano una luce inquietante sull’ala destra del sionismo, ma vanno lette e inserite nello spirito del tempo, in cui i fascismi avevano esercitato una considerevole influenza.
    Herut aveva notevoli svantaggi rispetto ai laburisti. Questi, infatti, avevano diretto e dirigevano ancora tutte le principali istituzioni sioniste, come l’Agenzia ebraica, che si occupava degli immigrati ebrei nel nuovo paese; il sindacato Histadruth, che, nonostante la scissione, raccoglieva l’85% dei lavoratori ebrei di Israele; e Tsahal, l’esercito in cui erano confluiti l’Haganà, che era il principale gruppo egemonizzato dalla sinistra, l’Irgun di Begin e il Lehi di Shamir.

    Il 25 gennaio del 1949 si tennero le elezioni e la percentuale di voti ottenuta da Herut fu dell’11,5%. Il risultato deluse molto le aspettative di Begin, che pensava di contare su un elettorato molto più consistente. I voti presi consentirono al partito di ottenere solo 14 dei 120 seggi della Knesset, il parlamento israeliano. Il Mapai di Ben Gurion prese 46 seggi, la sinistra radicale del Mapam espressione dei Kibbutzim 19, il blocco dei Sionisti religiosi 16.
    Il maggiore partito di governo della sinistra era all’epoca il Mapai di Ben Gurion, diventato primo ministro. Le accuse di Begin al suo avversario erano quelle di aver instaurato un regime di partito unico, che egemonizzava tutte le istituzioni e la società. La formula dei governi di sinistra che governarono Israele, inventata da Ben Gurion, era : «Senza Maki (il Partito comunista israeliano) e senza Herut». Il disprezzo tra i due leader era tale che Ben Gurion si rifiutava di chiamare per nome il fondatore di Herut rivolgendosi sempre «al vicino del deputato Bader».
    Herut era un blocco nazionalista e liberale, che chiedeva la nazionalizzazione delle industrie di base, un sistema di sicurezza sociale non legato al sindacato socialista Histadrut e una tassazione progressiva, che garantisse però la libertà di impresa. Nei suoi programmi si notavano riferimenti alla tradizione religiosa e l’attenzione al rispetto dello Shabbath, in aperto contrasto con il laicismo di Jabotinsky.
    Herut si dichiarava contemporaneamente anticomunista e antifascista. L’intento di Begin era quello di rappresentare l’elettorato delle classi medie non legate agli ideali del socialismo sionista, sicuramente più numeroso dei 50.000 che avevano votato per Herut.
    In Parlamento Begin accuserà il governo di essersi piegato servilmente agli inglesi e ai giordani, firmando accordi che riconoscevano la sovranità araba su una parte della patria ebraica. Questa visione territoriale dello Stato di Israele era figlia della vecchia idea jabotinskiana di Stato ebraico. Esisteva una clausola dello statuto di Herut, che continuava a vedere Israele come uno Stato, che avrebbe dovuto estendersi su «ambedue le rive del Giordano».

    In questo periodo Begin scrisse la sua versione della ribellione ebraica contro gli inglesi degli anni ‘40, dal titolo La rivolta. Il libro era in sostanza una glorificazione dell’operato dell’Irgun, di cui veniva evidenziato il carattere di esercito di liberazione nazionale, in contrasto con l’immagine di gruppo terrorista fornita dai media internazionali, dagli inglesi e dalla sinistra israeliana. Visitò anche piccoli gruppi che avevano sostenuto i Sionisti revisionisti in Europa, negli Stati Uniti e in America latina, dove ebbe un curioso incontro con Juan Perón.
    Le elezioni del 1951 segnarono una netta flessione elettorale per il partito di Begin, che prese il 6,6% dei voti. La protesta e lo scontento per il regime di austerità imposto dalla difficile situazione economica venne intercettato dai Sionisti generali, di orientamento liberale, che erano il partito di Weizmann, vecchio presidente dell’Organizzazione sionistica e primo presidente dello Stato di Israele. I Sionisti generali avevano preso 20 seggi, contro i 7 delle elezioni precedenti, diventando il primo partito della destra e superando largamente Herut.

    Migliaia di profughi ebrei, provenienti dai poco accoglienti paesi arabi e dall’Europa, vennero accolti negli anni ‘50 in Israele. I campi di raccolta erano poveri e tutto veniva razionato. Ben Gurion pensò che fosse venuto il momento di ottenere riparazioni dalla Repubblica federale tedesca del cancelliere Adenauer. Il dibattito in Parlamento e nel paese fu a dir poco infuocato e l’opposizione alle riparazioni, con cui non si poteva ripagare il sangue ebraico era trasversale. Gli oppositori erano il Mapam e alcuni esponenti del Mapai ma il partito più intransigente fu proprio Herut. Begin dichiarò alla Knesset: «Non c’è un tedesco che non abbia ucciso uno dei nostri padri! Ogni tedesco è un nazista! […] Adenauer è un assassino!». Mentre gli scontri imperversavano fuori del Parlamento, Begin dichiarò che la sinistra voleva far tornare tutti nei campi di concentramento e per la sua virulenza venne sospeso dall’aula. I voti favorevoli alla trattativa sulle «riparazioni di guerra» tedesche furono 61 contro 50.

    Le riparazioni, così violentemente osteggiate da Herut, consentirono allo Stato di Israele di dotarsi di infrastrutture fondamentali per la sua crescita futura. Herut rimase isolato dalla politica israeliana e Begin utilizzò questo periodo per scrivere le memorie della sua prigionia nelle carceri di Stalin, intitolate Notti bianche. Il leader di Herut, inoltre, fece nuovi viaggi non solo in Europa e in America, ma anche in Africa, dove incontrò il primo ministro sudafricano Daniel Malal, che pure si era rifiutato di aiutare i rifugiati ebrei durante la Shoà.
    Le elezioni del 26 luglio 1955 segnarono un miglioramento elettorale del partito di Begin, che passò da 8 seggi a 15, recuperando i voti persi a favore dei Sionisti generali, che videro la loro rappresentanza ridotta a 13 seggi.
    La lotta di questi anni per rappresentare gli ebrei sefarditi provenienti dal Marocco, che venivano fatti entrare in Israele in maniera selettiva, non sembrava dare i frutti sperati. Herut voleva aiutare i sefarditi ad entrare in massa in Israele, senza distinzione di età e sesso. Questi ebrei provenienti da Libia, Tunisia, Marocco e Algeria, assiepati in miseri campi di passaggio, in attesa di una sistemazione definitiva, rappresentavano l’83% dei nuovi entrati in Israele. I sefarditi, considerati da molti cittadini di serie B, in contrasto con la leadership rappresentata dagli ashkenaziti europei, erano vero e proprio materiale ‘infiammabile’, che gli esperti del governo vicini a Ben Gurion temevano potesse essere strumentalizzato dai comunisti o da Herut.

    Le elezioni del 3 novembre 1959 segnarono un nuovo miglioramento elettorale, portando Herut a 17 seggi e consolidando l’immagine di primo partito dell’opposizione.
    Begin si diede da fare per migliorare la propria immagine, evitando plateali comizi dai balconi e campagne elettorali condotte a bordo di Cadillac, seguite da cortei di biciclette, che davano un’immagine forse un po’ sudamericana e populista della sua persona. Le elezioni anticipate del 1961 confermarono a Herut i 17 seggi che, paragonati ai 59 ottenuti dal blocco delle sinistre, rimanevano esigui.
    Senza cambiamenti significativi la destra non avrebbe mai governato Israele; per ovviare a questa difficoltà elettorale del suo partito, Begin aveva iniziato difficili trattative con i Sionisti generali per la presentazione di liste comuni già nel 1955. L’obiettivo era quello di unire la destra radicale e quella moderata in una coalizione, dove Herut avrebbe ceduto la politica estera e la difesa agli esponenti moderati della coalizione. Le concezioni economiche e sociali dei due partiti erano vicine. Gli interessi dei piccoli artigiani, dei commercianti e delle classi medie erano difesi sia dai Sionisti generali sia da Herut e comune era stata l’opposizione all’indicizzazione dei prezzi e dei salari voluta dalla sinistra.

    Il problema di Herut restava quello dei confini di Israele e, per venire incontro alla moderazione dei Sionisti generali sulla questione, Begin modificò nel 1955 la piattaforma geopolitica del partito. L’unità di Eretz Israel sulle due rive del Giordano era diventata un principio e non più un obiettivo da raggiungere. Questo era il massimo delle concessioni che Begin era disposto a fare ai suoi interlocutori liberali.
    Il primo ministro laburista Levi Eshkol accolse, infine, la richiesta di Herut di accogliere in Israele le spoglie di Jabotinsky. Ben Gurion, infatti, aveva sempre rifiutato il simbolico gesto di riconciliazione nei confronti del fondatore del revisionismo.
    Nell’aprile del 1965 ci fu l’importante svolta politica. I Sionisti generali, diventati nel frattempo Partito liberale, si allearono con Herut dando origine alla coalizione denominata Gahal. Gli elementi più moderati dei liberali diedero vita a una scissione, rifiutando l’alleanza con il poco presentabile partito di Begin. I deputati del Gahal – dopo le elezioni del novembre 1965 – erano 26, meno dei 36 ottenuti dalle due formazioni separate nel 1961. La via era ormai aperta per la ‘nuova destra israeliana’. I liberali contribuirono a stemperare la tradizionale rabbia antisindacale dei seguaci di Begin, placando così l’ostilità dell’Histadrut. L’aumentare della tensione, che sfociò nella Guerra dei Sei giorni, favorì l’entrata di Begin e di un esponente liberale in un governo di unità nazionale con la sinistra, come ministri senza portafoglio. Begin stesso durante la crisi che precedette la guerra propose la conquista delle alture del Golan e della Città vecchia di Gerusalemme. Le elezioni del 1969 confermarono i 26 seggi per un partito, che con rigore ideologico vedeva i territori conquistati come terra liberata facente parte di Eretz Israel.

    Nasce il Likud
    Su iniziativa del generale Ariel Sharon, che tentò invano di farsi nominare capo di Stato maggiore, venne inaugurato per le elezioni del 1973 il nuovo polo di destra: il Likud, che comprendeva i liberali, in cui era entrato Sharon, Herut, seguaci di Ben Gurion decisi a spostarsi a destra, un gruppo di intellettuali che aveva dato vita al Movimento per il grande Israele, e altri dissidenti della destra decisi ad entrare nella coalizione. Il risultato delle elezioni portò al Likud 39 seggi contro i 51 del blocco laburista.
    La febbre nazionalista aveva ormai coinvolto anche la sinistra, che nelle sue frange più centriste coltivava disegni di aperta colonizzazione dei territori occupati con la guerra del 1967. La guerra dello Yom Kippur stava per esplodere.

    Il 1977 è l’anno della svolta per la politica israeliana. Il Likud guidato da Menahem Begin, diventato «un patriota amante della pace», vince le elezioni di maggio e il vecchio comandante dell’Irgun diventa primo ministro. Il voto degli ebrei sefarditi elegge il polacco Begin come legittimo rappresentante del settore di società ebraica più discriminato e più povero.
    Il paradosso è dato dal fatto che il partito di Begin è in maggioranza composto da polacchi, molto distanti per tradizioni e cultura dai fratelli provenienti dai paesi arabi. I seggi guadagnati dagli uomini di Begin sono 43 contro i 32 della sinistra. Il Likud venne votato dal 33,4% degli israeliani. Altri due seggi per lo schieramento di destra vennero dal nuovo partito di Ariel Sharon, Shlomzion: il generale, infatti, aveva rotto con il Partito liberale creandosi una sorta di partito personale. La campagna elettorale del Likud venne impostata sulla riconosciuta onestà di Begin, in contrapposizione alla corruzione della sinistra al governo da 29 anni. Artefice della campagna lo stratega Ezer Weizmann, futuro presidente di Israele, responsabile della propaganda per la destra. L’immagine di moderazione era stata favorita dal silenzio sul progetto di costituzione del Grande Israele, principio mai abbandonato da Begin e dai suoi uomini. Il partito di centro Dash, che aveva impostato una campagna sulle riforme istituzionali, guadagnò 15 seggi sottraendoli alla sinistra, che ne perse ben 19.

    Il discorso di investitura di Begin parlava di svolta per Israele, paragonabile a quella che ci fu quando Jabotinsky chiese la proclamazione dello Stato ebraico come obiettivo del sionismo. Due giorni dopo Begin inaugurava la sinagoga di Kaddoum, costruita in un campo militare in Cisgiordania dai coloni del Gush emunim (Blocco della fede). Il ministero degli Affari esteri venne affidato a Moshe Dayan, per segnare una sorta di continuità con il potere del passato, mentre al generale Sharon venne affidato il ministero dell’Agricoltura. I territori occupati per volontà di Begin sarebbero stati chiamati da quel momento «territori liberati» o Giudea e Samaria, il nome biblico della Cisgiordania. Iniziava così la grande colonizzazione ‘ideologica’ dei territori occupati nel 1967, principale problema per ogni trattativa di pace con gli arabi. La mentalità del primo ministro, la cui elezione era per il «Time» un chiaro esempio di come «il terrorismo paga e Arafat ne sarà incoraggiato», era quella della vittima. La vittima agisce sempre per difendersi e mai per opprimere. Il timore di un secondo Olocausto, perpetrato ai danni degli ebrei dal ‘nuovo Hitler’ Arafat, guiderà ossessivamente la condotta politica del vecchio capo dell’Irgun.

    Tra i risultati positivi del governo Begin si segnala la pace con l’Egitto e il ritiro totale dal Sinai occupato, che si contrapponeva ad un parallelo non-dialogo con i palestinesi e l’Olp. La colonizzazione e l’influenza dei partiti religiosi sul governo crebbe a dismisura. Tra il 1977 e il 1981, su impulso del ministro Sharon, vennero impiantate 64 nuove colonie agricole in Cisgiordania.
    I risultati economici furono disastrosi, con l’incremento spaventoso dell’inflazione e l’abbassamento delle tasse «senza copertura», che peserà notevolmente sul bilancio dello Stato. La città di Gerusalemme venne proclamata da una sorta di legge costituzionale «Capitale eterna» dello Stato ebraico, mentre le alture del Golan prese ai siriani vennero annesse al territorio israeliano con il via libera alla colonizzazione intensa.
    Alle elezioni del giugno 1981 Begin venne rieletto e il Likud prese 48 seggi contro i 47 dei laburisti. Begin venne proclamato dai sefarditi «re di Israele», e il suo seguito nei quartieri popolari era enorme, tanto che i candidati laburisti – espressione del potere ashkenazita – vennero presi a sassate. L’esiguo vantaggio sui laburisti rendeva necessario per il Likud l’appoggio di Tehiya, partito ultranazionalista guidato da Geulla Cohen, una fanatica sostenitrice della colonizzazione. Iniziava la guerra al Libano e l’inflazione superava il 400%! Begin lasciò il governo in seguito ai drammatici avvenimenti libanesi e alle imponenti manifestazioni pacifiste. La strada per la destra era ormai aperta, sarebbero seguiti negli anni governi di unità nazionale guidati a turno dalla sinistra e dal Likud, con il ritorno sulla scena di un personaggio oscuro e contestato come Shamir. A lui sarebbe succeduto ‘l’americano’ Benyamin (Bibi) Netanyahu, il modernizzatore del Likud.

    Il voto degli immigrati russi degli anni ‘90 premierà il dinamismo liberista di Netanyahu, modificando ancora una volta il serbatoio elettorale della destra israeliana. Il governo del Likud del 1996-1999 si segnalerà per l’ondata di privatizzazioni, volte a realizzare una ‘rivoluzione thatcheriana’ in Israele, scatenando le resistenze del sindacato e dei lavoratori del settore pubblico, che portarono circa 700.000 persone al memorabile sciopero del 28 settembre 1997.


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    Paolo Di Motoli,
    autore di «La destra sionista.Biografia di V.Z. Jabotinsky», insegna Storia dei movimenti e dei partiti politici presso la facoltà di Lingue dell’Università di Torino.

  3. #3
    Hanno assassinato Calipari
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    Sui regimi arabi:

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    L'ora dell'unità di Edward Said

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    Alla base di gran parte delle conclusioni del Rapporto sullo sviluppo umano nel mondo arabo per il 2002, a cura del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), c’è l’inaudita mancanza di coordinamento tra i paesi arabi. C’è una certa ironia nel fatto che in questo documento e altrove si par li degli arabi come di un gruppo, anche se raramente sembrano operare come tali – se non per aspetti negativi. Il rapporto è nel giusto quando fa notare che nel mondo arabo non c’è nessuna democrazia, che le donne sono ovunque una maggioranza oppressa e che, in materia di scienza e tecnologia, i paesi arabi sono rimasti indietro rispetto al resto del mondo. È altrettanto indiscutibile che nella sfera economica esiste poca cooperazione strategica tra i vari Stati della regione.

    Quanto a temi più specifici come la politica verso Israele, gli Stati Uniti e i palestinesi, malgrado un comune imbarazzo e una scandalosa impotenza, si avverte una timorosa determinazione innanzitutto a non offendere gli Stati Uniti, a non arrivare alla guerra né a una vera pace con Israele, a non pensare mai a un fronte comune arabo nemmeno su questioni che investono il futuro o la sicurezza di tutti i paesi della regione. Ma quando si tratta di perpetuare i loro regimi, le classi dirigenti arabe sono unite nell’obiettivo e nelle tecniche di sopravvivenza.

    Miscela confusionaria di inerzia e impotenza
    Questa miscela confusionaria di inerzia e impotenza è, ne sono convinto, un affronto verso ogni arabo. Ecco perché così tanti egiziani, siriani, giordani, marocchini e cittadini di altri paesi arabi sono scesi nelle strade per manifestare il loro sostegno al popolo palestinese sottoposto all’incubo dell’occupazione israeliana, mentre i loro leader sono rimasti a guardare senza far niente. Le manifestazioni di piazza non sono soltanto espressioni di sostegno alla Palestina, ma anche proteste contro gli effetti paralizzanti della divisione araba. Un segno ancor più eloquente del comune disincanto sono le ricorrenti, tristissime immagini televisive di una donna palestinese che osserva le rovine della sua casa, demolita dai bulldozer israeliani, e grida davanti a tutto il mondo “Ya Arab, ya Arab!”, “Oh voi arabi, voi arabi!”.

    Non c’è prova più eloquente del tradimento del popolo arabo da parte dei suoi leader – la maggior parte dei quali non eletti – di questa accusa, che equivale a dire: “Perché voi arabi non fate mai niente per aiutarci?”. Malgrado l’abbondanza di soldi e di petrolio, c’è solo il silenzio di pietra di uno spettatore indifferente. Anche a livello dei singoli paesi, purtroppo, la divisione e il frazionismo hanno paralizzato una lotta nazionale dopo l’altra.

    Si prenda l’esempio più triste di tutti, il caso del popolo palestinese. Ricordo che durante i giorni di Amman e Beirut mi chiedevo perché fossero necessarie dalle otto alle dodici fazioni, tutte intente a darsi battaglia su questioni ideologiche e organizzative inutilmente accademiche, mentre Israele e le milizie locali ci dissanguavano. Ripensando ai giorni libanesi, giunti a una terribile fine a Sabra e Shatila, a cosa è servito avere il Fronte popolare, al Fatah e il Fronte democratico – solo per citare tre fazioni – in lotta l’uno contro l’altro mentre Israele si alleava con le milizie della destra libanese per distruggere la presenza palestinese? E quale causa ha servito la tattica di Yasser Arafat di creare fazioni, sottogruppi e forze di sicurezza perché si combattessero a vicenda durante il processo di Oslo e lasciassero il popolo palestinese indifeso e impreparato davanti alla distruzione israeliana delle infrastrutture e la rioccupazione dell’Area A?

    Dispute avvilenti
    È sempre la stessa storia – frazionismo, divisione, assenza di un obiettivo comune – il motivo per cui alla fine i comuni cittadini pagano il prezzo in termini di sofferenze, sangue e perenne distruzione. Anche a livello di struttura sociale è quasi un luogo comune che gli arabi combattano tra loro più di quanto non lo facciano per un obiettivo condiviso. Siamo individualisti, si dice come giustificazione, ignorando il fatto che questa divisione e disorganizzazione interna alla fine danneggia la nostra stessa esistenza. Non c’è nulla di più avvilente delle dispute che affliggono le organizzazioni degli espatriati arabi, soprattutto in luoghi come gli Stati Uniti e l’Europa, dove comunità di emigrati relativamente piccole sono circondate da ambienti ostili e avversari agguerriti che non si fermano davanti a niente pur di screditare la lotta araba. Ma invece di cercare di unirsi e lavorare insieme, queste comunità sono dilaniate da battaglie ideologiche assolutamente inutili e settarie, che non hanno alcuna rilevanza immediata.

    Combattersi gli uni con gli altri
    Alcuni giorni fa sono rimasto sbigottito da un dibattito sulla rete televisiva al Jazira in cui i due partecipanti e un moderatore hanno discusso accanitamente dell’attivismo arabo-americano durante l’attuale crisi. Un uomo, un certo Dalbah vagamente identificato come “analista politico” di Washington (senza una chiara affiliazione né evidenti collegamenti istituzionali) non ha fatto che screditare un serio gruppo nazionale arabo-americano, il Comitato contro la discriminazione (Adc). Dalbah ha accusato l’Adc di incapacità e i suoi leader di egoismo, opportunismo e corruzione personale. L’altro gentiluomo, il cui nome non ho afferrato, ha ammesso di vivere negli Stati Uniti solo da pochi anni e non sembrava sapere molto di quel che succede, anche se sosteneva di avere idee migliori di tutti gli altri leader comunitari.

    Ho guardato solo l’inizio e la fine del programma, ma mi sono sentito totalmente deluso e perfino infamato dalla discussione. Mi sono chiesto quale fosse il punto della questione. Qual è l’utilità di demolire un’organizzazione che fa il lavoro di gran lunga migliore in un paese dove gli arabi non solo sono superati per numero e organizzazione da ciascuno dei numerosi gruppi sionisti – molto più grandi ed estremamente ben finanziati – ma anche dove la stessa società e i media sono così ostili agli arabi, all’islam e alle loro cause in generale? Inesistente, è chiaro.

    La trasmissione di al Jazira era solo un altro esempio di quel pernicioso frazionismo con cui, con regolarità quasi pavloviana, gli arabi cercano di danneggiarsi e ostacolarsi gli uni con gli altri anziché unirsi per perseguire un obiettivo comune. Perché se un simile comportamento è già scarsamente giustificato nei territori arabi, certamente lo è ancor di meno all’estero, dove le comunità e i cittadini arabi sono presi di mira e minacciati come alieni indesiderabili e terroristi.

    La perdita di un centro morale
    Forse il principale motivo del frazionismo arabo a ogni livello delle nostre società, in patria e all’estero, è l’assenza di ideali e di modelli di comportamento. Questa situazione risale alla morte di Abdel Nasser. Qualsiasi cosa si possa aver pensato di alcune delle sue politiche più disastrose, nessuna figura dopo Nasser ha catturato l’immaginazione araba o contribuito a definire una lotta di liberazione popolare. Basta osservare il disastro dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Dai giorni della sua vecchia gloria, si è ridotta a un uomo anziano con la barba non rasata, seduto a un tavolo traballante in una casa semidistrutta di Ramallah, che cerca di sopravvivere a ogni costo – che si tratti di vendersi, di dire sciocchezze o di non parlare affatto (a quanto pare, un paio di settimane fa Arafat ha detto che oggi accetterebbe il piano di Clinton del 2000. L’unico problema è che oggi siamo nel 2002 e Clinton non è più presidente).


    Sono anni che Arafat rappresenta il suo popolo, le sue sofferenze e la sua causa e, come i suoi omologhi arabi, resta al suo posto come un frutto troppo maturo senza un obiettivo concreto e un vero ruolo. Oggi, dunque, nel mondo arabo non esiste nessun forte centro morale.

    L’analisi attenta e la discussione razionale hanno ceduto il posto alla farneticazione fanatica, l’azione concertata in nome della liberazione si è ridotta agli attacchi suicidi e l’idea – se non la pratica – dell’integrità e dell’onestà come modello da seguire è semplicemente scomparsa. L’atmosfera che si respira nel mondo arabo è diventata così corruttrice che a stento si capisce perché alcune persone hanno successo mentre altre sono sbattute in prigione.

    Come esempio, pensiamo alla terribile sorte del sociologo egiziano Saadedine Ibrahim. Rilasciato da un tribunale civile alcuni mesi fa, è stato nuovamente processato, riconosciuto colpevole e condannato a una pena crudele e ingiustificata dal tribunale per la sicurezza dello Stato, esattamente per gli stessi “crimini” dai quali era stato precedentemente assolto. Dov’è la giustificazione morale per giocare in questo modo con la vita, la carriera e la reputazione di una persona?

    Non più di alcuni mesi fa era un fidato consigliere del governo e membro del consiglio di amministrazione di diversi istituti e progetti arabi; oggi è considerato un criminale da condannare a morte. Quali interessi legittimano la sua gratuita punizione? Quali motivi di unità nazionale, quale strategia, quale imperativo morale? Il risultato è solo più divisione, più paura e un dilagante senso di giustizia negata.

    Un miracolo collettivo
    Gli arabi sono stati privati così a lungo dai loro leader di un senso di partecipazione e cittadinanza che la maggior parte di essi ha perso la capacità di capire cosa sia la dedizione personale a una causa più grande. La lotta palestinese, il fatto che un popolo debba subire da Israele una crudeltà così incessante senza tuttavia arrendersi, è un miracolo collettivo; ma perché le lezioni di una resistenza vitale – opposta a quella suicida, nichilista – non sono pubblicizzate e indicate come un modello da seguire? È questo il vero problema: l’assenza in tutto il mondo arabo e all’estero di una leadership che parli agli individui. Non attraverso comunicati impersonali che esprimono solo un disinteresse sprezzante verso gli arabi come cittadini, ma con la pratica concreta dell’impegno rigoroso e dell’esempio personale.

    Incapaci di dissuadere gli Stati Uniti dal loro illegittimo sostegno ai crimini d’Israele, i leader arabi si limitano a lanciare una proposta di “pace” dopo l’altra (sempre la stessa), ognuna delle quali liquidata derisoriamente da Israele e dagli Stati Uniti. Bush e quel suo scagnozzo psicopatico di Rumsfeld continuano a diffondere notizie su un’imminente invasione dell’Iraq per ottenere un “cambiamento di regime”, ma gli arabi non hanno ancora espresso una posizione unitaria contro questa nuova follia americana. Quando individui e organizzazioni come l’Adc cercano di fare qualcosa in nome di una causa, sono attaccati da facinorosi che non sanno far altro che distruggere e ostacolare.

    Senza dubbio è arrivato il momento di cominciare a pensare a noi stessi come a un popolo con una storia e obiettivi comuni, non come a un gruppo di vili delinquenti. Ma questo spetta a ciascuno di noi. E non serve a niente stare a guardare e criticare “gli arabi”: dopo tutto, gli arabi siamo noi.

    Traduzione di Nazzareno Mataldi

 

 

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