DE’JA-VU (28 maggio 2002)
Ilan Pappe*
Esaminando con attenzione gli ultimi avvenimenti in Palestina si prova un inquietante senso di déjà vu, che ci riporta a eventi lontani o più vicini nel tempo. La sensazione più forte è che si stia ripetendo la catastrofe del 1948, la Naqba.
A distanza di cinquant’anni, si ha l’impressione, come allora, che il futuro della Palestina del Mandato non sia stato ancora deciso e che sarà determinato con la forza piuttosto che con il negoziato. Nel 2002, la questione ha dimensioni geografiche differenti. Il punto centrale riguarda chi controllerà l’esiguo 22% di Palestina che nel 1948 non entrò a far parte dello Stato di Israele. In quell’anno Israele fu costruito sul 56% della Palestina assegnatogli dall’Onu e su un ulteriore 22% che venne occupato con la forza. La maggior parte dei palestinesi che vivevano sul territorio del nuovo Stato, circa 900.000, furono espulsi con la violenza, i loro villaggi distrutti e i quartieri urbani vennero occupati da immigrati ebrei. La fondazione di Israele, quindi, fu resa possibile dalla forza militare, dalla pulizia etnica e dalla de-arabizzazione del paese.
A partire dal 1967, e ancora di più dal 1987, il futuro del residuo 22% ha rappresentato il problema più importante all’ordine del giorno, sia a livello locale che in qualche misura regionale. Fino al 1993 i vari governi israeliani – in mancanza di una annessione formale – hanno puntato a stabilire un controllo totale su tutto il territorio, espandendo gli insediamenti ebraici e attuando una politica di lento trasferimento. Qualsiasi resistenza popolare o armata è stata brutalmente schiacciata, ma la prima Intifada ha indotto l’esecutivo israeliano, nel 1993, ad accontentarsi di esercitare un controllo diretto solo su una porzione di quel 22%, e a permettere la creazione di un bantustan nella parte rimanente.
A Camp David, nell’estate del 2000, questo assetto, insieme alla richiesta di una rinuncia da parte palestinese al diritto al ritorno, è stato presentato sotto forma di diktat ad Arafat. Il suo rifiuto e una serie di eventi noti hanno condotto in seguito allo scoppio della seconda Intifada.
La distanza fra ciò che a Camp David è stato offerto ad Arafat e la strategia di Ariel Sharon nel 2002 è minima. La differenza riguarda i chilometri quadrati che dovrebbero essere assegnati al bantustan, ma il principio che guida entrambi gli ex generali è identico, e mira alla creazione di un’entità politica palestinese priva di qualsiasi significativa sovranità o indipendenza, con una sistemazione post-bellica in cui i palestinesi rinuncino al proprio diritto al ritorno e abbandonino ogni aspirazione a Gerusalemme Est capitale. Sharon non è solo; egli può contare sul pieno appoggio del Partito laburista israeliano, non soltanto per quanto riguarda la sua strategia per il futuro, ma anche la tattica che ha adottato per raggiungere i suoi obiettivi. Attraverso la sua guerra contro l’Autorità nazionale palestinese e la creazione di quelle che egli definisce ‘zone di sicurezza’, Sharon vuole imporre con la forza un nuovo assetto di Palestina e Israele.
Questo quadro dovrebbe garantire, come era nelle aspirazioni sioniste del 1948, il controllo israeliano sulla maggior parte di territorio possibile, con il minor numero possibile di palestinesi. Gli arresti di massa, le espulsioni e le intimidazioni sono stati e saranno utilizzati per ridisegnare la mappa di Israele. Anche il linguaggio ambiguo e il fallimento di qualsiasi reale opportunità di negoziato, nei pochi momenti di pausa dei combattimenti che hanno aperto spiragli in questo senso, fanno parte di questa strategia.
È qui che avvertiamo il secondo e più recente déjà vu, quello del Libano nel 1982. È sempre lo stesso Sharon, convinto che l’imposizione di nuove realtà politiche rientri nelle sue prerogative. Allora era determinato a costruire ‘un nuovo Libano’, oggi ritiene di avere il potere di creare un nuovo assetto in Israele e Palestina, deportando una popolazione, uccidendo migliaia di persone e re-giudaizzando ulteriori regioni della Palestina.
Ma quando la storia si ripete produce situazioni talora peggiori degli eventi originali, nonché esempi meno accettabili della follia e della crudeltà umane. Il potere di Israele e i mezzi a sua disposizione sono oggi assai più distruttivi che in passato. I sistemi per mobilitare l’opinione pubblica all’interno dello Stato ebraico risultano molto più sofisticati ed efficaci che in precedenza, e le voci di dissenso meno numerose e più deboli.
L’America appoggia ancora Israele, come nel 1948 e nel 1982, ma non si può dire altrettanto almeno per parte dell’Europa. Il mondo arabo è impegnato, ma – come in passato – più con le parole che nei fatti. I palestinesi, fino a questo momento, sono soli contro un nemico che – come in passato – è pronto a distruggerli. I mezzi israeliani variano nel tempo, ma l’intento rimane sempre lo stesso. Tuttavia, molti ebrei in Israele sono ancora animati da nobili motivazioni, quali il desiderio di costruire una democrazia, sostenere un’economia molto modernizzata e diffondere gli splendori della cultura e del modo di vita ebraici. Ma queste aspirazioni vengono soffocate, e nei fatti sconfitte, dalla decisione di perseguire tali obiettivi a spese della popolazione originaria della Palestina, a qualsiasi costo.
Se altri paesi avessero optato per una politica e una strategia di questo tipo sarebbero già stati definiti da tempo degli ‘Stati canaglia’. Ma il complesso di colpa degli europei (del tutto comprensibile in considerazione degli orrori dell’Olocausto) e la forte lobby ebraica statunitense hanno risparmiato finora a politici come Sharon un destino simile a quello di Slobodan Milosevic.
Nelle ultime due settimane, la sorprendente immunità di Israele ha posto all’attenzione della società civile mondiale alcuni elementi che, per la prima volta, hanno messo in discussione lo status del tutto straordinario che viene di solito riservato a questo paese. E ciò anche prima che la reale portata delle iniziative devastanti dell’esercito israeliano (Israeli Defence Force, Idf), poco conosciuta a causa della mini-guerra scatenata dalle autorità israeliane contro la presenza degli operatori dei media nelle azioni dell’esercito israeliano in Cisgiordania, fosse apertamente denunciata.
Nonostante i tentativi di occultamento, alcuni dati essenziali circa l’attività dell’Idf e la strategia di fondo di Sharon vengono in luce. L’Idf è determinato a distruggere non solo l’Autorità palestinese, ma anche l’infrastruttura necessaria a una indipendente, o anche autonoma, esistenza palestinese nella Cisgiordania. In tal modo si creerebbe un vuoto che Sharon intende riempire sommando due vecchie concezioni israeliane su come ‘governare’ le aree arabe: da un lato affidando ai militari israeliani il compito di controllare la vita nelle zone ritenute cruciali per Israele, dall’altro servendosi di una rete di collaborazionisti, sul modello delle ‘villages societies’, che già nel 1981 Sharon aveva tentato invano di sostituire alle strutture della Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Un simile regime può essere imposto in due modi: o attraverso la realizzazione di un accordo tra Sharon e una leadership palestinese locale – sponsorizzato da alcuni Stati arabi, dall’Europa e dagli Stati Uniti – o, più probabilmente, ricorrendo di nuovo alla forza, ma in maniera più sottile, al fine di ‘diluire’ (se vogliamo usare per un momento il nuovo vocabolario politico, inumano e disumanizzato, di Israele) la popolazione della Cisgiordania. Servendosi di qualsiasi mezzo a disposizione, il governo ‘incoraggerebbe’ lo spostamento di palestinesi verso Gaza e verso la Giordania.
Sharon può contare su circa dieci ministri del suo governo apertamente favorevoli al piano, e su alcuni esponenti laburisti che esprimono implicitamente posizioni simili. Nel tempo, con l’approssimarsi delle elezioni politiche israeliane, il Labour Party potrebbe abbandonare l’esecutivo, probabilmente solo per rientrarvi in seguito, quale membro di un nuovo governo di unità. Ma ciò non dovrà farci chiudere gli occhi di fronte alle responsabilità dei leader laburisti nella distruzione dell’infrastruttura sociale, economica e politica palestinese nella Cisgiordania, e forse in futuro anche nella Striscia di Gaza. Una distruzione che è stata accompagnata da azioni umilianti e da violazioni di diritti umani, inflitte sia in misura imponente e su scala collettiva, sia – con un alto valore simbolico – ai leader palestinesi, fino al vertice, contro il presidente Arafat. Atti di umiliazione che sono stati spesso accompagnati da massacri e dalla distruzione di case e strade. Il tutto come parte di una missione punitiva mascherata da ‘guerra contro il terrorismo’.
Sono assai pochi coloro che in Israele offrono una interpretazione alternativa della ‘guerra contro il terrorismo’. Scioccati dalle bombe umane – che hanno prodotto un senso di insicurezza personale e un aumento del numero delle vittime – gli israeliani in generale sono incapaci o restii a prendere piena coscienza dei piani disastrosi dell’uomo che hanno democraticamente eletto con una maggioranza senza precedenti. Le sue posizioni, fra l’altro, assecondano anche le latenti tendenze razziste ed etnocentriche presenti nella maggior parte degli ebrei del paese, tendenze che negli anni sono state coltivate dai sistemi di istruzione e culturali del paese.
Una coalizione di gruppi contrari alla guerra sta tentando di fornire una spiegazione alternativa alle bombe che esplodono nel paese e alla politica generale di Israele. Tale coalizione è formata da due blocchi; il principale è guidato da «Peace now» e ha scarsissime possibilità di offrire alternative significative. La posizione dei membri di questo raggruppamento, la loro sincera convinzione, è che Barak abbia fatto ai palestinesi un’offerta estremamente generosa, cui Arafat ha reagito in modo deludente. Il loro discorso più comune è che «nonostante l’imperdonabile condotta di Arafat, non resti altra scelta se non concludere la pace con quest’uomo tremendo». Essi credono ancora nell’equazione proposta da Barak tra il ritiro israeliano e la pace. Non hanno chiarito a se stessi né alla popolazione ebraica quale sia il vero significato della ‘pace’. Per quel che si può dedurre, essa non prevede una soluzione al problema dei rifugiati, né un cambiamento nello status della forte minoranza palestinese in Israele – un milione di persone, sul cui vasto appoggio essi confidano per le loro manifestazioni – né una piena sovranità per il futuro Stato palestinese. I mali dell’occupazione vengono riconosciuti, ma identificati principalmente nella corruzione della società ebraica, non nei crimini contro la popolazione locale, né assolutamente nel danno permanente che ha avuto origine con la pulizia etnica del 1948.
Eppure questa è l’unica coalizione in grado di organizzare vaste manifestazioni volte a sollecitare pressioni esterne su Israele, affinché ponga fine alle operazioni militari in corso. L’importanza di questo tentativo non va sottovalutata, ma dubito che esso riuscirà a produrre nell’opinione pubblica ebraica quel cambiamento necessario ad aprire la strada della pace e della riconciliazione. Questa posizione all’interno della coalizione contraria alla guerra amplia lo spazio del dibattito pubblico in Israele, in un tempo in cui i media elettronici hanno imposto il silenzio su qualsiasi discorso o notizia che metta in discussione la politica del governo. E tuttavia, nonostante la sua presenza, i margini disponibili per un’azione a favore dei palestinesi, contro la loro grave situazione, e per i loro diritti, restano ancora molto limitati.
Il gruppo più piccolo della coalizione non ha ottenuto neppure il riconoscimento della componente principale. La sua base è nelle organizzazioni ebraiche non sioniste e nella maggior parte dei partiti israelo-palestinesi; prospetta una visione veramente alternativa e una proposta per realizzarla, e tuttavia è emarginato e combattuto, non solo dall’establishment, ma anche dalla componente maggioritaria della nuova coalizione pacifista. La sua importanza è nella rete di contatti con organizzazioni regionali e internazionali, capaci di conferire – e ricevere – legittimità alle azioni locali o esterne contro l’occupazione e per la pace. Questa piccola formazione della scena pubblica israeliana potrà denunciare, finché non verrà completamente messa a tacere, una serie di elementi che costituiscono la natura oppressiva del sionismo e di Israele: le caratteristiche, proprie dell’apartheid, delle politiche verso la minoranza palestinese del paese; il contesto storico delle azioni di Israele contro i palestinesi dei territori occupati; la duplice esigenza della società ebraica, prima di riconoscere e poi di riconciliarsi con i crimini commessi, dalla pulizia etnica del 1948 fino alla recente operazione «Homat Magen» (muraglia di difesa).
Questo nome dovrebbe ricordare l’operazione «Pace in Galilea» del 1982; si tratta in realtà di due eufemismi, utilizzati da Israele nelle guerre di distruzione scatenate contro il Libano e i palestinesi.
Se mi è consentita un’osservazione più personale, aggiungerei un déjà vu di carattere privato. Come nel 1993, nei giorni d’oro di Oslo, anche oggi si percepisce la stessa disperante frustrazione rispetto al futuro. Sostenni allora, e sono ancora dello stesso avviso, che «Peace Now» condivida quella stessa visione sionista che non consente il riconoscimento delle ingiustizie commesse nel passato, né le esigenze di una futura reale riconciliazione con le vittime palestinesi del sionismo e di Israele. Sono convinto oggi, come ero convinto allora, che ciò può avvenire solo se nella società ebraica si verificherà un cambiamento molto più profondo e strutturale. Dieci anni fa dissi allarmato che non potevamo aspettare altri dieci anni, ché per noi erano in serbo altre tragedie. Ora si ripresenta, ancora più acuta, la sensazione che non vi sia più tempo per trasformazioni di lungo periodo. Il tempo a nostra disposizione è ormai agli sgoccioli, mentre il pericolo della deportazione, o addirittura del genocidio, incombe su di noi. C’è bisogno di un intervento e di una pressione internazionali forti, affinché lo Stato di Israele e la società ebraica comprendano il prezzo morale e politico che dovranno pagare per le scelte non compiute in passato e nella fase attuale.
Le persone che all’estero leggono ciò che io – e gli amici che condividono il mio punto di vista – scriviamo, ritengono erroneamente che si tratti di analisi e previsioni imbastite con una certa leggerezza. È esattamente il contrario. Prima di essere formulate, le nostre posizioni conoscono un lungo processo di elaborazione, fatto di dubbi, scelte, articolazioni. Esse pongono colui, o colei, che sostiene tali idee in una situazione sociale molto precaria. Nel migliore dei casi veniamo trattati come dementi, nel peggiore come traditori, anche da coloro che si considerano difensori della libertà di parola e di opinione in Israele. Non sto analizzando questa posizione dal punto di vista del rischio o della riprovazione, ma da quello del realismo. In che modo persone come me – così alienate dalla società in cui vivono, che aborrono ciò che essa ha fatto in passato e ciò che il suo governo sta facendo oggi – possono determinare cambiamenti effettivi nell’opinione pubblica del proprio paese? L’impresa appare quanto meno donchisciottesca. Ma poi la mia mente corre a tutti gli ebrei che hanno aderito all’Anc [African National Congress, il movimento contro l’apartheid in Sudafrica (NdR)], al movimento per i diritti civili negli Usa e a quello anticolonialista in Francia. Ricordo gli italiani e gli spagnoli coraggiosi che non hanno ceduto alle promesse del fascismo, e da questi esempi traggo la forza per invitare, dall’interno, il mio popolo a infrangere lo specchio che lo ritrae come un’entità morale superiore, e a sostituirlo con uno che denunci i crimini che essi – o i leader e i governi che hanno agito in loro nome – hanno commesso contro l’umanità e il popolo palestinese.
(Traduzione di Tiziana Antonelli.)
note: * Ilan Pappe, professore di Scienze politiche all’Università israeliana di Haifa e direttore dell’Institute for Peace Research Givat Haviva, è autore di numerose opere, fra cui The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951 e A History of Modern Palestine and Israel.