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Discussione: VADEMECUM Repubblicano

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    VADEMECUM Repubblicano

    [mid]http://xoomer.virgilio.it/francesco.rinaldi29/KAR_ITALIANE/Baglioni/Baglioni_-_E_tu.mid[/mid]

    Il Vademecum del Buon Repubblicano

    Ho cercato piu' volte, meditando sulle variegate risposte che si alternano giornalmente sulle pagine del nostro Forum di discussione politica, come si possa riassumere in un vademecum o in una specie di decalogo una definizione di Buon Repubblicano che si attagli, per grosse linee, al di la' delle diverse concezioni personali e specifiche sulle varie tematiche politiche e sociali, a tutti coloro che si riconoscono appartenenti a quell'area laica e democratica, di scuola mazziniana, che si riassume nella parola "Repubblicanesimo".
    Vi sottopongo quanto i neuroni mi hanno fatto frullare per la testa, con la speranza che la decodifica, in parole scritte, di quanto pensato, non abbia snaturato di molto le idee da me ponderate e vagliate.

    Primariamente ritengo basilare per un buon repubblicano il ricorso perenne ed incessante al metodo democratico, nei rapporti politici e nella vita quotidiana, facendo di questo strumento di convivenza la base da cui possano prendere corpo valori complessivi validi e fecondi, nella ricerca esaltante della verita' comune, da cui possano avere scaturigine soluzioni valide per la Societa' nella sua intierezza.

    Nella ricerca di questa verita’ comune occorre avere sempre ben presente la possibilita’ che essa possa nascondersi ai piu’ ed apparire chiara ed esaltante a pochi ed occorre quindi mantenere, nei confronti di tutti, quella necessaria posizione di tolleranza e di rispetto delle idee altrui tale da favorire una comune crescita della propria e della altrui socialita’, allo scopo di favorire e partecipare alla costruzione del benessere collettivo dell’Umanita’.

    Questa tolleranza e questo rispetto verso le idee altrui deve essere anche stimolo e terreno per un nostro intimo miglioramento quale incessante conquista e progressione verso piu’ alti traguardi di dominio delle nostre capacita’ intellettive e del loro utilizzo.

    Nei rapporti con gli altri membri della realta’ sociale in cui operiamo dobbiamo portare testimonianza di saldi valori morali tali da innescare, per emulazione, desiderio di soddisfazione edonistica nelle altrui coscenze e porre termine allo scivolamento verso il basso delle istanze di socialita’ insite nella natura stessa dell’Uomo.

    A tale scopo dobbiamo riappropriarci del concetto di fratellanza universale di scuola mazziniana che solo puo’ stare alla base della creazione di un mondo tutto nuovo, in pacifica convivenza e con cancellazione degli squilibri e dislivelli sociali tra i vari popoli.

    Nel perseguire gli obiettivi della fratellanza universale dobbiamo sempre avere ben presente la nostra posizione nella realta’ in cui operiamo e le responsabilita’ che ne conseguono, piccole o grandi che siano, ed in ossequio ed ottemperanza agli ineliminabili doveri verso noi stessi, verso la Famiglia, verso la Patria, verso l’Umanita’ e verso Dio, come esemplarmente divulgato dal grande apostolo Mazzini attraverso i capitoli dei Doveri dell’Uomo e con l’incessante integrazione ed il necessario equilibrio con i diritti umani.

    Al fine di ricaricarci nella vigoria di un perseguimento di tali finalita’ occorre ricorrere al ricordo della tradizione nella ritualita’ del pensiero volto alla memoria di quanti hanno immolato la propria vita per i medesimi scopi e per gli stessi nobili obiettivi di miglioramento dell’Umanita’.

    Onde divulgare questi nostri principi di democrazia e di laicita’ dobbiamo essere costanti testimoni delle nostre idee, partecipando attivamente alla vita politica e sociale della realta’ in cui operiamo e testimoniando, con atti concreti, la bonta’ del concetto repubblicano di liberta’, opponendoci in ogni occasione alla violenza di qualunque tipo e di qualunque provenienza, portando agli altri il messaggio della nostra dottrina, interpretando l’evolversi dei tempi, incanalando il divenire umano verso mete socialmente migliori, favorendo l’adeguamento delle Istituzioni al mutare dei rapporti umani, operando la ricongiunzione tra materialita’ e spiritualita’ al fine di sopire quella nevrosi di modernismo che opacizza tantissime attivita’ umane, favorendo quella liberta’ di coscienza, basilare ad ogni altra liberta’ individuale e collettiva, e tale da impedire che l’Uomo diventi facile preda di trasversali messaggi mediatici ingannevoli e suggestivi.

    Spero di non avervi annoiato con quanto sopra scritto che, pur se succintamente, non vuole assolutamente avere valore di vangelo, anche se intitolato Vademecum del Buon Repubblicano, ma vuole essere semplicemente un piccolo contributo, non esaustivo, alla discussione ed al confronto tra tutti gli amici repubblicani, da farsi in armonia ed in assonanza di intenti e di propositi.

    Un fraterno abbraccio
    NUVOLAROSSA website

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    Questo “thread” appartiene ad una delle tante pagine che componevano la prima versione del Forum “Repubblicanesimo e Democrazia in Azione”, che e’ uscito dal web con la chiusura di Politica Online.com.

  2. #2
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    Questo “thread” appartiene ad una delle tante pagine che componevano la prima versione del Forum “Repubblicanesimo e Democrazia in Azione”, che e’ uscito dal web con la chiusura di Politica Online.com.
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    TEORIA REPUBBLICANA SULLA LIBERTA’ E SUL GOVERNO

    Si pensi a come ci si sente quando il proprio “stato del benessere” dipende dalle decisioni di altri e non e’ possibile reagire contro tali decisioni. Si e’ in una posizione nella quale si puo’ “affondare” o “galleggiare”, sulla base di una decisione che spetta ad altri. E non si ha nessun diritto di ricorso, psicologico o legale, nessuna possibilita’ di salvezza, anche se ci si trova in un consesso di amici che si aiutano, non si puo’ sovvertire nulla. In queste condizioni si e’ nelle mani degli altri, si e’ alla loro merce’.
    L’esperienza di dominazione (o supremazia) su di un altro assume diverse forme. Si pensi al bambino di un genitore emotivo e volubile; alla moglie di un marito occasionalmente violento; allo scolaro con un insegnante che, arbitrariamente apprezza o disapprezza. Si pensi all’impiegato, la cui sicurezza dipende dal mantenere buoni rapporti con il proprio padrone o manager; al debitore, la cui sorte dipende dal capriccio del prestatore di denaro o dal manager di banca; o al piccolo imprenditore, la cui sopravvivenza dipende dal modo di comportarsi di un grande concorrente o da chi gestisce un’associazione. Si pensi al destinatario di interventi di sostegno sociale la cui sorte puo’ mutare in base all’umore dell’impiegato-ragioniere che concede i contributi; all’immigrato o all’indigeno la cui condizione e’ vulnerabile, dipendendo dall’andamento erratico delle decisioni politiche e dei dibattiti radiofonici; o all’impiegato pubblico, la cui carriera dipende non dalle sue capacita’ ma dai collaboratori politici di cui un ambizioso ministro si circonda, perche’ li ritiene utili elettoralmente. Si pensi alla persona anziana che deve sottomettersi, sul piano culturale ed istituzionale, alle volonta’ sfrenate di una gang di giovani della sua area. O si pensi proprio al giovane delinquente la cui punizione dipende da come i politici e i giornali scelgono di stimolare in un dato momento la cultura della vendetta.
    In tutti questi casi qualcuno vive alla merce’ di altri. La persona e’ dominata da altre, nel senso che anche se queste non interferiscono direttamente nella sua vita, hanno la possibilita’ di poterlo fare: vi sono alcune restrizioni o dei “pesi” che frenano il suo comportamento. Se la persona “dominata” riesce ad evitare il trattamento malevolo, questo accade per concessione o il favore del “dominante”. La persona vive comunque sottomessa al suo potere o sotto il controllo di altri: questi ultimi occupano la posizione di un dominus (termine latino per indicare il capo) nella loro vita.
    Se si comprende l’esperienza dell’essere esposti e soggetti alla vulnerabilita’ di un altro – la situazione di dominazione – e se si puo’ osservare che cosa incute timore, allora si e’ sulla giusta strada per comprendere il Repubblicanesimo. Il tema centrale che ha coinvolto il Repubblicanesimo nel corso dei secoli – l’argomento che spiega tutte le altre tipologie di impegno – e’ stato il desiderio di predisporre le diverse situazioni in maniera tale che i cittadini non fossero sottoposti a dominazioni di nesun genere, non dovessero vivere, come usavano dire i Romani, in potestate domini, sotto al potere di un padrone. Questo interesse repubblicano e’ sempre stato espresso come un impegno per la liberta’, sin da quando la liberta’, secondo i canoni repubblicani, richiede espressamente l’assenza di dominazione. Per rispondere ai quesiti sottesi alla liberta’ repubblicana una persona deve essere un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi non abbiano un padrone o dominus che li tenga sotto il suo potere, in relazione ad alcun aspetto della loro vita.
    Il concetto della liberta’ repubblicana e’ piu’ rigido, quindi, del concetto di liberta’ inteso nel senso contemporaneo di “non interferenza”. Si potrebbe essere abbastanza fortunati o sufficientemente accorti da evitare interferenze di qualcuno, ma se poi si vive sotto lo spettro di un terzo, che potrebbe essere un datore di lavoro, uno sposo o uno sfruttatore locale, seguendo l’idea repubblicana non si e’ liberi in tali situazioni, anche prima che vi siano eventuali interferenze. La liberta’ richiede una sorta di immunita’ da interferenze che diano la possibilita’ di poter fissare chiunque altro negli occhi. Nessuno e’ libero se deve mantenere un occhio sempre vigile per i capricci di chi ha piu’ potere, e, all’occorrenza, adottare attitudini servili verso costoro, come farebbe una marionetta.
    UN VECCHIO TEMA
    I temi ai quali abbiamo fatto prima riferimento hanno una lunga storia, come ci hanno dimostrato studiosi quali Pocock, Skinner e Viroli che se ne sono occupati. La “fiamma” del Repubblicanesimo comincio’ a divampare nella Roma classica, dove Cicerone e altri pensatori si vantavano della indipendenza e della mancanza di sottomissione del cittadino romano. Si riaccese durante il Rinascimento quando i cittadini di citta’ italiane come Venezia e Firenze erano fieri del modo in cui potevano tenere alte le loro teste, senza dover elemosinare favori ad alcuno. Essi si sentivano cittadini “uguali” di una Repubblica, ed erano di una specie politica differente dai soggetti “intimiditi” della Roma papale o della corte francese.
    La fiamma repubblicana passo’ al popolo di lingua inglese nel diciassettesimo secolo quando la tradizione del commonwealth, che venne plasmata durante il periodo della guerra civile inglese, fisso’ e istituzionalizzo’ l’opinione secondo la quale il re e il popolo dovevano vivere seguendo una disciplina contenuta nella medesima legge. Secondo questa prima versione del Repubblicanesimo la Monarchia non andava abbandonata, ma doveva essere parte di un ordine costituzionale, e non poteva esserle concesso di diventare centro di un potere assoluto. Entusiasti all’idea di un commonwealth – termine inglese che significa “repubblica” – sostenevano che essendo protetti da una legge chiara, nessun inglese sarebbe dipeso dalla volonta’ arbitraria di un altro, nemmeno dalla volonta’ arbitraria del re; a differenza dei Francesi e degli Spagnoli, gli Inglesi erano una razza di vigorosi ed indipendenti - anche aspri e schietti – uomini liberi.
    Questo dibattito ebbe naturalmente delle ripercussioni sulla storia successiva degli Inglesi. Durante il diciottesimo secolo i coloni americani si persuasero che a loro stessi erano negate quelle liberta’ che invece erano dovute: ci si riferiva in particolare alla dipendenza dalla volonta’ arbitraria di un parlamento straniero. Forse dovevano pagare solamente un penny di tasse al governo londinese, come fece osservare uno scrittore contemporaneo, ma il governo che disponeva su di un penny aveva il potere di disporre anche su quello che rappresentava l’ultimo penny. Forse il padrone britannico era gentile e ben disposto, si adattava alle mutevoli esigenze, ma coloro che erano sottoposti al padrone gentile erano comunque dei sottoposti; non avevano l’immunita’ dal potere arbitrario che richiede la vera liberta’. I coloni americani pensarono di sfuggire alla dominazione britannica spezzando il loro legame con il paese da cui provenivano e diedero vita alla prima grande Repubblica del mondo costruita senza aiuto di alcuno.
    Il precedente americano, e certamente il modello inglese di monarchia costituzionale, aiutarono nel favorire la creazione nel 1790 della Repubblica francese. Questa seconda importante rivoluzione condusse, e’ noto, ad un regno di terrore ma nacque dallo stesso desiderio della cittadinanza di sentirsi liberi dal giogo a cui era sottoposta. La liberta’ intesa come non dominazione, quale risultava nella tradizione francese, richiedeva eguaglianza e fraternita’, e uno scenario nel quale ciascuno potesse camminare a testa alta, sicuro che nessuno fosse in grado di tiranneggiare su di lui. Ognuno poteva guardare i propri consimili negli occhi, osservare gli altri cittadini, e nessuno possedeva speciali privilegi. Nessuno doveva adulare o essere servile, nessuno doveva dipendere dalla grazia o dal favore di un altro.
    Ho osservato in precedenza che si e’ in grado di comprendere il Repubblicanesimo se si ha la cognizione di che cosa significa la dominazione e le ragioni per cui va considerata detestabile. Nella Roma classica, nel Rinascimento italiano, durante il diciassettesimo secolo in Inghilterra o nel diciottesimo in America e in Francia, tutti i repubblicani videro la dominazione come il piu’ grande pericolo da evitare organizzando una comunita’ e la vita sociale. Essi pensarono alla liberta’ come il non essere sottoposto a nessun altro, anche se persona benevola o despota “protettivo”.
    La liberta’ repubblicana assume questi significati: essere in grado di tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli occhi, e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza.
    DALLA LIBERTA’ REPUBBLICANA ALLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE
    Il Repubblicanesimo, secondo il significato romano o neo-romano che e’ andato ad assumere, si e’ distinto non solamente per l’importanza accordata alla liberta’ intesa come non-dipendenza, ma anche attraverso il genere delle istituzioni sociali e politiche che ha generalmente preferito. Vi sono due argomenti che meritano di essere richiamati: innanzitutto, la fiducia nella efficacia di dichiarare in maniera esplicita i fini che si intendono perseguire; in secondo luogo, l’opinione intorno alla necessita’ di porre dei limiti in modo chiaro al perseguimento di quegli stessi fini.
    Il Repubblicanesimo ha sempre affermato che lo stato e’ richiesto per promuovere la liberta’ intesa come non-dipendenza dei suoi cittadini, benche’ nell’antichita’ i cittadini fossero limitati nelle loro azioni, cosi’ come in ogni altra forma di espressione del pensiero, per mantenere la proprieta’ ai soli uomini. Di conseguenza essi hanno sempre considerato che lo stato e’ necessario per proteggere le persone da nemici esterni ed interni, e per assicurare contro l’abuso di ricchezze private o di autorita’: per esempio, assicurando una corretta distribuzione di terra o attraverso una legislazione contro certe forme di eccessiva ricchezza.
    Ma se i repubblicani hanno sempre difeso il ruolo dello stato in relazione al perseguimento di tali fini – fini derivanti, in definitiva, dall’obiettivo di promuovere la liberta’ delle persone – essi hanno ugualmente insistito sull’essere lo stato una specie di spada affilata a due lame. A meno che non venga ridimensionato istituzionalmente in vari modi, lo stato puo’ causare un pericolo peggiore per la liberta’ dei cittadini intesa come non-dipendenza piuttosto che adottando determinate decisioni contro un fine particolare. Se lo stato offre potere senza impedimenti a una singola persona, per esempio, come accade sotto a una monarchia assoluta o a una dittatura, allora quella persona sara’ in grado di interferire con la sua volonta’ sulle vite dei cittadini e dominera’ ciascuno e ognuno di essi. O se lo stato permette ad una particolare fazione o classe di controllare cosa e’ fatto in nome suo, allora lo stato avra’ lo stesso potere di dominare anche coloro che non appartengono a quella classe.
    La tesi repubblicana su questo fronte ha sempre chiaramente indicato che lo stato deve essere strutturato e obbligato in modo tale che possa agire promuovendo solo cio’ che conviene al pubblico interesse. Non deve essere libero di servire gli interessi di una particolare persona o famiglia o fazione a detrimento dell’interesse di altri. Se cosi’ fosse, allora rappresenterebbe un potere dominante nelle vite di altre persone. Lontano dal promuovere innanzitutto le loro liberta’ – benche’ debba fare qualcosa in questo senso – il suo effetto concreto sarebbe quello di ridurre la liberta’: di trasformare i cittadini in una classe sottomessa, sistematicamente vulnerabile.
    Che genere di limitazione ha generalmente favorito il Repubblicanesimo? La limitazione piu’ importante nell’antica Roma e nel periodo delle rivoluzioni americana e francese, e’ stata l’opposizione contro la monarchia: un rifiuto di tollerare l’idea di un diritto dinastico al supremo potere. L’importanza di questo rifiuto, sicuramente, spiega la ragione per la quale per molti il Repubblicanesimo significhi poco o nulla di piu’ di una posizione antimonarchica. Ma e’ necessario ricordare che c’era sempre piu’ che una visione repubblicana delle istituzioni, una ostilita’ verso la monarchia e, di sicuro, che questa ostilita’ scompare nella tradizione del commonwealth che prende forma nel tardo millesettecento in Gran Bretagna. La' l’idea repubblicana emerse, e venne generalmente accettata sotto altre forme, vale a dire che un monarca doveva essere costituzionalmente limitato, quindi la monarchia non era di per se’ riprovevole.
    Le limitazioni che sono state piu’ diffusamente associate con la teoria repubblicana dello stato sono ora, grazie anche all’influenza della tradizione, idee sicuramente piu’ chiare.
    Sette punti, in particolare, vanno messi in evidenza:
    1) l’importanza di avere una costituzione, scritta o non scritta, all’interno della quale ciascun governo deve operare.
    2) Il desiderio di un governo di essere selezionato – generalmente eletto – in modo che le differenti parti della popolazione abbiano i loro diversi interessi rappresentati.
    3) l’ideale di limitare la durata del mandato di coloro che prestano servizio nell’ufficio esecutivo, con la richiesta della loro selezione attraverso un rinnovamento regolare e la sottoposizione a periodiche elezioni.
    4) la necessita’ per il governo di governare attraverso la Legge, non caso per caso, e di assicurare che le leggi siano applicate nei confronti di ciascuno, legislatori inclusi, e siano generali, chiare, ben comprese e cosi’ via.
    5) la indispensabilita’ di separare i poteri, in modo che ciascuna autorita’ sia soggetta a controlli e valutazioni, e in particolare la indispensabilita’ di separare il potere giudiziario dal potere esecutivo e legislativo.
    6) la necessita’ che quando le decisioni sono prese dal governo siano ricondotte a ragioni che derivano chiaramente da interessi generali, in modo che la rilevanza e la solidita’ di quelle ragioni possa essere posta in discussione nell’ambito della legislatura, dei tribunali o in altri forum.
    7) la inevitabile fiducia dell’intero sistema sull’esistenza di un’attiva, partecipe cittadinanza che vigila sull’esercizio del potere di governo, mettendo in discussione i suoi abusi e facendolo condannare quando e’ necessario.
    -----------------------------------------------------------------
    CONCLUSIONI
    -----------------------------------------------------------------
    Per riassumere, quindi, il Repubblicanesimo e’ in primo luogo una teoria di liberta’ e, secondariamente, una teoria di governo. Equiparare la liberta’ con il godimento della non-dominazione, che possiamo esprimere in questo modo: vivere senza padrone la propria vita. Deriva dal valore di tale liberta’ sia cio’ che lo stato dovrebbe fare, sia come lo stato dovrebbe esserci costretto. Fornisce una base sulla quale elaborare sia una teoria sostanziale che una teoria costituzionale dello stato.

    Tratto dal Pensiero Mazziniano………traduzione a cura di Paola Morigi…testo di PHILIP PETTIT
    ----------------------------------------------------------------------------------
    Philip Pettit insegna “teoria politica e sociale” presso la Scuola di ricerca in Scienze Sociali della Australian National University di Canberra…il suo Libro Republicanism e’ stato pubblicato in Italia da Feltrinelli
    °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
    http://utenti.lycos.it/NUVOLA_ROSSA/index-12.html
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    °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
    I DOVERI DELL'UOMO DEL MAZZlNI
    E L' ALBA DEL MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA

    °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
    di Cesare Spellanzon

    I Doveri dell'Uomo del Mazzini, quest' operetta che è tra le
    più organiche e compiute uscite dalla penna di quel grande
    scrittore frammentario, non fu creata di getto, in un solo mo-
    mento della vita operosa dell'infaticabile apostolo dell'unità
    nazionale. I primi quattro Capitoli di essa furono scritti dal li
    gure nel 1841-42, e pubblicati in uno dei suoi giornali dalla
    breve vita, l'Apostolato Popolare (1), ch'egli fece uscire allora a
    Londra, dove trovavasi, con lo scopo preciso e dichiarato di at-
    trarre l'attenzione dell'elemento popolare e operaio sul fonda-
    mentale problema della libertà patria. «Abbiamo (scriveva il
    19 maggio 1840 all'amico e conterraneo Giuseppe Elia Benza)
    nel primo periodo della nostra vita lavorato pel Popolo, non
    col Popolo. Bisogna farlo ora, e per molte ragioni morali e poli-
    tiche... A questo fine ho tentato di scendere in una classe nu-
    merosa anche fuori, e negletta finora quella de' nostri operai.
    Ne ho trovato un nucleo, d'uomini di poche idee ma di vo-
    lontà buona e fermissima; poche parole hanno bastato a susci-
    tare in essi quel senso che dorme purtroppo anch' oggi in seno
    al nostro popolo, sol perchè noi non abbiamo ancora avuto fe-
    de sufficiente per meritare di suscitarlo... Si radunano settima-
    nalmente, e si quotizzano con una regolarità da far vergogna a
    noi letterati. Abbiamo già mandato operai per organizzare a
    Parigi e nel Belgio altre sezioni. Faremo lo stesso nella Svizzera
    e altrove. Avremo... un giornale d' Apostolato Popolare, soste-
    nuto con i loro fondi, chiesto da loro, e che scriveremo chiaro,
    elementare, unicamente per essi» (2). E quando il primo nu-
    mero del giornale uscì, il 10 novembre 1840, il primo articolo,
    naturalmente del Mazzini, era rivolto agli Italiani, e special-
    mente “agli operai italiani” (3).
    Quei primi capitoli dei Doveri dell'Uomo furono poi ripub-
    blicati, dopo accurata revisione, dallo stesso autore, in Pensiero
    ed Azione, rivista ,quindicinale di grande importanza nella sto-
    ria del giornalismo mazziniano, pubblicata a Londra negli an-
    ni 1858-59: e in essa il ligure annunziava il suo proposito di
    condurre a termine quel lavoro, incominciato e interrotto
    tant'anni prima. Avvenne così infatti: e nel periodo di tempo
    in cui Pensiero ed Azione uscì a Londra furono pubblicati, dopo
    quei primi quattro, i capitoli dal V al IX, il X fu pubblicato nel
    la stessa rivista trasferita a Lugano, l'XI vide la luce, quasi nello
    stesso tempo, a Genova, in Pensiero ed Azione, quivi ulterior-
    mente trasferita, e nel giornale mazziniano di nuova creazione
    L 'Unità Italiana, mentre il XII ultimo fu pubblicato, nel giu-
    gno del 1860, esclusivamente in quest'ultimo foglio, essendo
    stata nel frattempo sospesa la pubblicazione della rivista, allo
    scopo di concentrare sul giornale, ch'era il monitore più vivace
    e meglio informato della spediione garibaldina in Sicilia, tutte
    le forze finanziarie e intellettuali del Partito d' Azione, il Partito
    che voleva «I'Italia Una e Lira, per opera degli Italiani» (4).
    Non era ancora finita questa prima frammentaria pubblica-
    zione dei Doveri dell'Uomo, che già il Mazzini s'affrettava ad ac-
    cettare la proposta fattagli da un suo fedele discepolo, Giovan-
    ni Grilenzoni di Reggio Emilia, quella di pubblicare in volume
    l' operetta, che ormai era compiuta, e alla quale il Ligure avreb-
    be soltanto aggiunta la Dedica agli operai: ed egli pensava di i-
    niziare con essa una Biblioteca popolare, destinata a trattare e
    diffondere i principii della sua fede, maturata in oltre un tren-
    tennio di lotte, di prove perseveranti, di dedizione illimitata al-
    la causa d'Italia. «Se muoio (scriveva), farà la Biblioteca chi sa-
    prà: se non muoio seguirò io con altre pubblicazioni dello stes-
    so genere». Egli era evidentemente ansioso che la edizione si
    facesse al più presto, affinchè quei suoi pensieri, nei quali era-
    no racchiusi la sua mente e il suo cuore, potessero circolare in
    un tutto organico, e pervenire nelle mani di quegli operai ai
    quali erano indirizzati. Senonchè il Grilenzoni, dubitando egli
    che il volumetto potesse stamparsi in Italia, gli scritti mazzinia-
    ni essendo qui tuttavia riguardati con accigliato sospetto, ave-
    va deciso di ricorrere per la stampa ad una tipografia della
    Svizzera italiana: e il Mazzini, che ne temeva qualche più gra-
    ve intralcio alla diffusione del volumetto, non pose tempo in
    mezzo a negare l' opportunità di cosiffatta decisione, che dava
    modo al Governo monarchico, ove gli fosse venuto in mente
    di sequestrare l' edizione, di far ciò più agevolmente alla fron-
    tiera, al momento in cui i libretti sarebbero stati introdotti in I-
    talia, laddove un sequestro fatto all'interno del Regno, doven-
    do essere in ogni caso seguito da un processo, era assai meno
    probabile, anche se la natura dello scritto, lo che il Mazzini ne-
    gava recisamente, fosse stata tale da offrire qualche pretesto aI-
    la sospettosa malevolenza del regio fisco. Ma ormai era troppo
    tardi; questa prima edizione dei Doveri dell'Uomo fu stampata
    a Lugano con una falsa data di pubblicazione, Londra 1860. E
    perchè questa sua operetta potesse andare veramente nelle
    mani di tutti, e principalmente degli operai che disponevano
    di poco denaro per l'acquisto di libri, il Mazzini aveva anche
    insistito perchè il prezzo di vendita del volumetto fosse tenue
    quanto più possibile. «il libriccino è per gli operai. E' tra loro
    che deve avere il suo smercio» scriveva. Laonde dette la sua
    approvazione al prezzo di cinquanta centesimi. Dopo di allo-
    ra, i Doveri dell'Uomo furono ristampati innumerevoli altre vol-
    te: lo stesso Mazzini ne pubblicava un'altra edizione a Napoli,
    in quello stesso anno 1860 (5).
    Non v'ha dubbio, che il Ligure si proponesse, con questa
    pubblicazione, che in forma pacata e semplice si rivolgeva agli
    operai, e parlava loro di Dio, di Umanità, di Nazione, di Fami-
    glia, di Libertà, di Associazione, di lavorare pel Popolo, e col
    Popolo, così come aveva annunziato di voler fare nel 1840 con
    l' Apostolato Popolare, cosi come aveva fatto istituendo in Lon-
    dra quella sua scuola per gli operai italiani, che fu una delle
    più belle e proficue creazioni di quella grand'anima, nella qua-
    le la politica parlava con accenti poetici, e l'amor di patria con
    vibrazioni mestamente elegiache. Egli forse intuiva, che l'ope-
    raio italiano, impossibilitato fino a quel momento, dai Governi
    assoluti che dominavano su tanta parte della terra d'Italia, di
    far sentire i suoi bisogni e le sue esigenze, non avrebbe tardato
    ad affacciarsi sulla scena della vita politica nazionale, giovan-
    dosi della relativa libertà concessa ai cittadini dallo Statuto car-
    lalbertino, che stava per essere introdotto anche nelle nuove
    province recentemente aggiunte o prossime ad esserlo all'anti-
    co Regno sardo-ligure-piemontese: eppero’ si proponeva di pe-
    netrare con la sua parola nella coscienza di quelle vergini mol-
    titudini, per educarle, per illuminarle, per guadagnarle a' suoi
    disegni, per sottrarle alle suggestioni che certo non sarebbero
    mancate di un cieco e rabbioso clericalismo reazionario o di un
    pavido conservatorismo o di un audace socialismo eversore,
    ch'egli non avrebbe mai cessato di giudicare più che dannoso,
    esiziale al benessere materiale e morale della classe lavoratrice.
    Fino a quel momento infatti, soltanto negli Stati continentali
    del Regno sardo, e sotto l'egida di quella legge statutaria, era
    potuta nascere e svilupparsi, sia pure entro ristretti limiti, e
    prevalentemente nella sua forma più moderata, quella del mu-
    tuo soccorso, un qualche notevole accenno di movimento ope-
    raio. Mentre fra il 1850 e il 1853 s'erano costituite ottantacinque
    società operaie, esse nel 1859, e in tutto il Regno, sommavano a
    centotrentaquattro: e insieme col mutuo soccorso non era
    mancato qualche ardito tentativo di associazione cooperativa
    per la produzione e per il consumo; e anche qualche sporadico
    esperimento di resistenza alle eccessive esigenze del padrona-
    to industriale. Ed era così bene intesa la utilità di codeste asso-
    ciazioni, e la opportunità di approfondire il movimento ope-
    raio accrescendo la sfera della sua efficacia, che dal 1853 fino al
    1859 queste società liguri-piemontesi usavano riunirsi a con-
    gresso annuale, nei quali furono successivamente discussi talu-
    ni argomenti di fondamentale importanza per la elevazione
    dei lavoratori, e per la prosperità delle loro associazioni, così
    da far persuasi i più attenti osservatori, che il problema del la-
    voro non avrebbe troppo a lungo tardato ad imporsi alla co-
    scienza della universalità dei cittadini (6).
    Dopo i mutamenti politici avvenuti in Italia negli anni 1859
    e 1860, il movimento operaio non tardò a vivamente manife-
    starsi anche nelle altre regioni italiane, rimaste fino allora pres-
    sochè estranee, e indifferenti, dinanzi ai problemi del lavoro.
    Da un capo all'altro d’Italia si videro nascere le società di mu-
    tuo soccorso, le quali erano generalmente promosse o favorite,
    e in qualche caso aiutate finanziariamente, dagli elementi della
    borghesia locale militanti nel partito democratico o repubblica-
    no. E molte di queste associazioni usavano proclamar soci o-
    norari il generale Giuseppe Garibaldi o Giuseppe Mazzini o
    Aurelio Saffi o qualche altro eminente cittadino noto per le sue
    passate benemerenze patriottiche e civili. Alla fine del 1862, la
    statistica contava in Italia (Roma e la Venezia escluse) ben
    quattrocentoquarantacinque società operaie. Era naturale, che
    il pullulare delle associazioni operaie in ogni parte d’Italia de-
    terminasse la trasformazione dei congressi regionali liguri-pie-
    montesi in congressi nazionali: nel 1860 infatti un primo con-
    gresso operaio nazionale ebbe luogo a Milano, e nel 1861 un
    altro a Firenze, i quali entrambi furono caratterizzati dall'urto
    di due tendenze ,inconciliabili, quella delle società in prevalen-
    za piemontesi avverse ad ogni influsso mazziniano, e quella
    delle nuove società in prevalenza toscane emiliane e liguri fa-
    vorevoli ai concetti del Mazzini, il quale non sapeva capacitar-
    si che tali associazioni, le quali erano la naturale espressione
    del movimento operaio, si estraniassero dalle vitali questioni
    della politica nazionale, fossero condannate «ad essere associa-
    zioni di ciechi e meccanici strumenti di produzione». A Mila-
    no, le due opposte tendenze si scontrarono, essendo stata da
    alcuni congressisti sollecitato un voto a favore del suffragio u-
    rùversale; e a Firenze, qualche argomento di natura politica es-
    sendo stato riproposto dagli elementi mazziniani, ne seguì una
    netta scissione del congresso, dal quale una numerosa schiera
    di rappresentanti si staccarono, protestando con estrema viva-
    cità contro la decisione approvata a maggioranza, che le que-
    stioni politiche potessero essere prese in considerazione, quan-
    te volte i congressi le avessero riconosciute utili all'incremento
    e al consolidamento del movimento operaio. I secessionisti
    non esitarono allora a convocare un contro congresso in Asti, il
    quale s'affrettava a deliberare che lo scopo della società di mu-
    tuo soccorso non era la trattazione di materie politiche, e che
    anzi esse dovevano astenersene per la propria conservazione e
    l'incremento del bene popolare (7).
    A causa di questa divisione delle forze operaie organizzate,
    ai successivi congressi di Parma (1863) e di Napoli (1864) inter-
    vennero un più limitato numero di rappresentanti, e ciò sebbe-
    ne il movimento operaio continuasse a svilupparsi nell'Italia
    libera, essendo nel frattempo cresciuto il numero delle società
    di mutuo soccorso, qua e là avendo gli operai affrontato con
    intelligenza e fermezza i rischi connessi alla istituzione di coo-
    perative di produzione, il numero delle cooperative di consu-
    mo essendo ormai di gran lunga maggiore che non negli anni
    trascorsi, e avendo altresì in qualche occasione talune altre ca-
    tegorie di operai lottato con lo sciopero, sia per l'aumento de-
    gli scarsi salari, sia per la riduzione della giornata di lavoro,
    ch'era in realtà quasi dovunque eccessivamente lunga e mal
    retribuita. Ma in questi due ultimi congressi nazionali, il Maz-
    zini era riuscito a mezzo de' suoi amici a far prevalere il suo
    concetto, quello che fosse opportuno stringere in una grande
    organizzazione unitaria, estesa a tutta l’Italia redenta, le cento
    e cento associaziori operaie vecchie e nuove, che a quell'aria
    eccitante di vita rigenerata eran nate o cresciute nelle vecchie e
    nelle nuove province del Regno: a Parma era stato deciso che
    una commissione eletta a quest'uopo formulasse uno statuto
    federativo, che sur uno schema steso dallo stesso Mazzini, do-
    po laboriose discussioni, e non senza che fosse inteso anche il
    parere di Carlo Cattaneo, fu infatti approntato, e poi sottopo-
    sto all'approvazione del congresso riunito a Napoli l'anno se-
    guente. Questo statuto, che fu detto Atto di .fratellanza, aveva
    subito notevoli modificazioni da quello ch'era il progetto del
    Iigure ( «il tono caldo e ispirato dello statuto mazziniano ven-
    ne concretato, spianato, al contatto delle espressioni precise e
    dimesse del Cattaneo», scrisse lo storico di questi congressi):
    ma infine, il Mazzini si compiacque che fosse stato approvato,
    giacchè gli pareva che l'unione della più gran parte delle orga-
    nizzazioni operaie in un solo organismo, sul quale egli, a mez-
    zo de' suoi fedeli, pensava di poter efficacemente influire, po-
    tesse ormai ritenersi cosa possibile e di prossima realizzazione.
    Dopo l' approvazione, l' Atto di .fratellanza fu comunicato a tutte
    le società operaie, le quali furono così invitate a darvi la pro-
    pria adesione (8).
    Benchè, dopo il 1864, la serie dei congressi nazionali delle
    società operaie avesse subita una lunga sosta, e soltanto ses-
    santa di esse dessero la propria adesione aIl' Atto di .fratellanza,
    non per questo cessava lo sviluppo del movimento associativo
    operaio nel Regno, cosicchè le società di mutuo soccorso erano
    cinquecentosettantatrè nel 1867 , settecentosettantuno nel 1869 ,
    e quindi, entrate ormai Roma e la Venezia a far parte della
    nuova Italia, ottocentosettantotto nel 1870. Le preoccupazioni
    di carattere più direttamente politico, la guerra del 1866, il ten-
    tativo garibaldino infelicemente concluso a Mentana del 1867 ,
    le agitazioni suscitate dall'introduzione della tassa sul macina-
    to del 1868-69 , che dettero luogo a una serie di sanguinosi con-
    flitti in molte parti d'Italia, le complicazioni internazionali che
    sboccarono nella guerra franco-prussiana del 1870 e nella pre-
    sa di Roma da parte del Governo italiano, avevano in qualche
    modo distolto il Mazzini dall'agitare, con la stessa sollecitudi-
    ne degli anni immediatamente successivi al 1860, la questione
    operaia. Nè questo soltanto: nel 1864, qualche settimana avanti
    che il Congresso di Napoli si riunisse per deliberare l' Atto di
    fratellanza, s'era costituita a Londra l'Associazione internazionale
    dei Lavoratori, alla quale in un primo momento anche il Mazzi-
    ni e i suoi seguaci avevano dato la loro adesione, essendo per-
    suaso il Iigure, che quell'esperimento meritasse di essere ten-
    tato, e fiducioso di poter imprimere al neonato sodalizio il se-
    gno inconfondibile delle sue lungamente meditate convinzioni
    politiche, sociali e religiose. Invece l'Internazionale era ben pre-
    sto caduta sotto il ben diverso influsso di Carlo Marx, che a
    poco a poco era riuscito ad escludere dall'associazione tutto
    ciò che aveva sapore mazziniano, e a dare ad essa un indirizzo
    decisamente socialista, con l'affermazione del principio che l'e-
    mancipazione dei lavoratori doveva essere opera esclusiva dei
    lavoratori stessi, i quali erano sollecitati a reclamare la socializ-
    zazione dei mezzi di produzione, principio che così enunciato
    era nettamente antitetico al pensiero del ligure; questi infatti
    rifuggiva dalla lotta fra le classi, e, come appare dagli ultimi
    capitoli dei Doveri dell'Uomo, era contrario a tutto ciò che signi-
    ficasse menomazione del diritto di proprietà, che egli conside-
    rava uno degli elementi fondamentali della vita umana, al pari
    della religione, della libertà, dell'associazione.
    Il movimento operaio italiano, che già vedemmo in gran
    parte restio a condividere le vedute del partito mazziniano,
    nemmeno s'era lasciato facilmente attrarre nella scia del socia-
    lismo internazionale, quella parte di esso che vedeva nel Maz-
    zini il maestro d'ogni verità politica e sociale essendo tuttavia
    fedele al suo Credo civile ed educativo, e persuasa che gli scio-
    peri e la lotta di classe non fossero vantaggiosi mezzi di affer-
    mazione del buon diritto dei lavoratori, i quali invece avrebbe-
    ro dovuto conseguire la loro propria emancipazione con un'o-
    pera «indefessa concorde intelligente» , avente «per base la mo-
    ralità e per movente l'amore, l'amor fraterno» (9). Ma fin dal
    1864 era venuto a soggiornare in Italia, a Firenze prima, a Na-
    poli poi, il rivoluzionario russo Michele Bakounine, il quale
    s'era già precisamente inteso col Marx allo scopo di scalzare e
    di controbattere l'autorità del Mazzini in mezzo alle classi ope-
    raie italiane, e nel seno stesso di quel partito democratico d'a-
    vanguardia, che si diceva mazziniano per tradizione e consue-
    tudine, quantunque il Credo religioso del Ligure, ch'era in-
    dubbiamente al centro di tutta la sua concezione politica-socia-
    le, fosse stato sempre condiviso da un numero assai ristretto
    de' suoi adepti. Fu così che gli operai italiani, attratti nelle as-
    sociazioni di mutuo soccorso e di resistenza, che ogni di più
    andavano nascendo nella Penisola, dai naturali bisogni della
    loro povera vita di lavoratori sottoposti a una dura eccessiva
    fatica inadeguatamente compensata, e da un'irresistibile bra-
    ma di cose nuove e migliori, che riusciva spesso a soverchiare
    le trepide paure dell'egoismo borghese, e le misure ostili del
    Governo monarchico; fu così che gli operai italiani cominciaro-
    no a balbettare i primi accenti di socialismo e di internazionale
    dei lavoratori, e che l'associazione marxista cominciò ad essere
    nota tra noi, e a guadagnare le prime adesioni di società ope-
    raie italiane. Cionondimeno, il Mazzini non scese subito in
    campo Contro l'Internazionale, quantunque la giudicasse ormai
    come uno strumento di perdizione della classe operaia, nell'a-
    nimo della quale egli si proponeva di coltivare quei principii
    di elevazione morale, che mentre avrebbero dovuto rigenerar-
    ne la intima coscienza, dovevano nello stesso tempo esser
    mezzo (mezzo, non fine) a quei miglioramenti materiali, dei
    quali egli pure riconosceva l'urgente necessità. La voce del Li-
    gure s'alzò veemente, pur nella sua austera compostezza, solo
    dopo il tragico episodio della Comune di Parigi, che segnò, co-
    sì come disse Benoit Malon, la terza sconfitta del proletariato
    di Francia. La lotta dei Comunardi parigini contro l' Assemblea
    di Versailles aveva suscitat9 in Italia, tra gli elementi mazzinia-
    ni e garibaldini, cui la conseguita unità della patria lasciava in-
    travedere un avvenire grigio modesto casalingo, a differenza
    di quel ch'era Stato il passato, avventurosamente intrarnezzato
    da cospirazioni persecuzioni e geste guerresche, che riempiva-
    no l'animo di quanti vi partecipavano di un'ebrezza travolgen-
    te, e davano la sensazione di una vita tutta passioni frementi e
    imprese gloriose; quella lotta fiera disperata gagliarda, in cui e-
    rano ad un tempo espressi amor di patria, odio contro l'inva-
    sore straniero, avversione contro la reazione clericomonarchi-
    ca, annidata nell'assemblea versagliese, ansioso desiderio di u-
    na più illuminata giustizia sociale, e come aveva ovunque spa-
    ventato la moltitudine delle anime timorate e della gente ricca
    ed agiata, aveva altresì commosso o entusiasmato buona parte
    del Ceto operaio italiano e di quella borghesia intellettuale de-
    mocratica già da tempo assuefatta all'idea di una inevitabile ri-
    voluzione, che la stessa propaganda rnazziniana aveva accli-
    matato nella loro mente. Giuseppe Mazzini, a questo punto,
    scese decisamente in campo contro la Comune parigina, pur
    riconoscendo quel che di generoso e di ardito era in quel moto
    di popolo, «condotto con mirabile energia da uomini ignoti ie-
    ri, e che avevano saputo in pochi giorni e in una città esaurita
    dall’ assedio..., creare ordinatamente mezzi ed esercito» -ma al-
    l'infuori di ciò, il programma degli uomini della Comune era
    da lui giudicato con aperto sfavore, era da lui recisarnente con-
    dannato. Il Ligure vedeva in quel programma il trionfo del
    materialismo, la negazione assoluta della Nazione, la fine del
    sentimento di Patria, un decadimento generale del livello della
    cultura, l'impossibilità di ogni durevole progresso, e quindi l'i-
    nevitabile trionfo di anarchia e dispotismo. E lo disse, e lo ri-
    petè fermamente, in una aspra polemica lungamente durata
    con i fautori dell'Internazionale, e con lo stesso Bakounine, po-
    lemica che fu l'ultima sostenuta dal Mazzini con i suoi avver-
    sari, poco avanti la morte, che avvenne nei primi mesi dell'an-
    no seguente. Prima di morire, egli aveva visto riunirsi a Roma
    un dodicesimo congresso delle società operaie italiane, quelle
    che aderivano ai suoi concetti, non più di centotrentacinque
    tuttavia: e in esso aveva visto rinnovata l'approvazione del-
    l' Atto di fratellanza (salvo qualche leggera modificazione) già
    deliberato a Napoli nel 1864, Atto che fu la magna charta del
    movimento operaio mazziniano durato, prima più attivo, poi
    a poco a poco sempre più languido e stento, fino al 1893.
    In verità, data da allora il progressivo diffondersi del movi-
    mento socialista in Italia: il Mazzini aveva proclamato, nei Do-
    veri dell'Uomo e in altri suoi scritti, che gli operai dovevano cer-
    care e ottenere i necessari miglioramenti non come fine ma co-
    me mezzo, cercarli per senso di dovere non unicamente di di-
    ritto, per farsi migliori moralmente non solo per farsi material-
    mente felici; dovevano, affermava, educarsi ed educare, perfe-
    zionarsi e perfezionare, così da corrispondere alla Legge di
    Dio essendo necessario «tendere a fare dell'intera Umanità u-
    na famiglia, ogni membro della quale rappresentasse in sè, a
    beneficio degli altri, la Legge morale».
    Era una sublime riforma morale che il Mazzini suggeriva
    agli operai d’ltalia, tale che nemmeno il Cristianesimo era ve-
    ramente riuscito a far prevalere, nonostante il martirio dei suoi
    Apostoli e l'esempio suggestivo de' suoi Santi, nell'animo del-
    le moltitudini guadagnate alla sua dottrina lungo il corso dei
    secoli; era perciò ben difficile credere che essi avrebbero ascol-
    tato quella voce, e battuto quella via, mentre i bisogni materiali
    della loro vita erano cosi gravi ed urgenti, che rinviarne la sod-
    disfazione, quando s'apriva dinanzi a loro la strada più facile e
    attraente della lotta e della resistenza contro i datori di lavoro,
    sarebbe parso loro di tradire i compagni delle quotidiane fati-
    che, e le stesse loro famiglie, che chiedevano un po' più di pa-
    ne e un po' più di benessere materiale. Egli stesso, d'altronde,
    aveva riconosciuto, che «insegnare ad essi il dovere di progre-
    dire, parlar loro di vita intellettuale e morale, di diritti politici,
    di educazione, (era), nell'ordine sociale attuale, una vera iro-
    nia» (10). E se non propriamente un'ironia, un linguaggio
    troppo alto e difficile per gente così povera e bisognosa. Ra-
    gion per cui, i Doveri dell'Uomo, se conquistarono non più che
    una esile minoranza della classe artigiana alla quale erano di-
    retti, e per la quale erano stati pensati e scritti, sono pur sem-
    pre insigne documento del pensiero mazziniano, di quella
    grand'anima del Ugure, che visse veramente, con assoluta de-
    dizione di sè, quella che fu la teoria enunziata da lui nei suoi
    scritti, cosicchè anche i suoi più fieri avversari, lo stesso suo an-
    tagonista degli ultimi anni il russo Bakounine, dovettero rico-
    noscere la somma integrità morale dell'Uomo, la intima di-
    gnità della sua mente. «Pochi uomini (scrisse il Bakounine nel
    pieno della battaglia antimazziniana) sono capaci d'amare co-
    me Mazzini; chiunque ha avuto la fortuna di avvicinarlo per-
    sonalmente ha sentito gli effluvi di quella tenerezza infinita
    che sembra penetrare tutto il suo essere, si è scaldato l'anima al
    raggio di quella bontà indulgente che brilla nel suo sguardo
    nello stesso tempo così serio e dolce, nel suo sorriso melanco-
    nico e fine». E il libretto dei Doveri dell'uomo è altissima testi-
    monjanza della illimitata capacità di amore del grande Esule,
    di quanto amore egli sapesse circondare la poverissima di-
    menticata classe degli artigiani d’Ita1ia (11).
    °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
    (1) M. MENGHINI, introduzione, al voI. LXIX della Edi-
    zione Nazionale degli Scritti Editi ed Inediti di Giuseppe Mazzini,
    p. VII; (2) MAZZINI, Scritti, ed. cit., voI. XIX, p. 119; (3) L. RA-
    VENNA, il giornalismo azziniano, Firenze, 1939, p. 65; (4) ME-
    NEGHINI, Introduzione, cit., pp. XI segg; (6) N. ROSSELLI,
    Mazzini e Bakounine, Torino, 1927, pp. 30 segg; (7) L. MINUTI,
    il comune Artigiano di Firenze della Fratellanza Artigiana d'Italia,
    Firenze, 1911, pp. 35 segg. -ROSSELLI, op. cit., da p. 57 a p. 96;
    (8) ROSSELLI op. cit., pp. 108 segg; (9) MINUTI, op. cit., p. 64.
    -ROSSELLI, op. cit., pp. 189, 284 segg; (10) Dei doveri dell'uomo,
    cap. XI, § 1°; (11) il volume del Rosselli cit. è fondamentale per
    la storia di questo periodo della vita italiana, e del conflitto fra
    il Mazzini e il Bakounine. Gli ultimi scritti del Mazzini sull'In-
    temazionaIe, sulla Comune di Parigi, e sul Congresso di Roma
    sono riuniti nel volume XCII e XCIII della Edizione Nazionale
    degli Scritti editi e inediti del Ligure.
    °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

  4. #4
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    Predefinito quanti VADEMECUM......in 100 volumi ?

    LE OPERE DI GIUSEPPE MAZZINI

    Qui si dà un cenno sommario sulle edizioni degli scritti di
    Mazzini. Una bibliografia esauriente pur nella sua incomple-
    tezza è in preparazione e di essa è parte un accurato lavoro di
    Terenzio Grandi sulla produzione straniera.
    La prima edizione degli Scritti editi e inediti di Giuseppe
    Mazzini fu incominciata nel 1861, e per i primi sei volumi,
    pubblicata con note autobiografiche del Mazzini stesso, in Mi-
    lano dall'editore G. Daelli; il VII volume fu pubblicato dall' A-
    gnelli di Milano; 1'VIll volume fu pubblicato da Levino Ro-
    becchi; gli altri volumi dal 1877 da una Società editrice nazio-
    nale - Commissione editrice degli Scritti di Giuseppe Mazzini -
    la quale affidò ad Aurelio Saffi la cura di ordinarne gli Scritti e
    di accompagnarli con cenni storici cui l'amico devoto attese
    con amore dal IX volume (1877) insino al XVIII (l'ultimo) usci-
    to ne11891.
    Nel 1905 fu deliberata l'edizione nazionale degli Scritti editi
    ed inediti. Vi presiedette una Commissione, ma all'immenso la-
    voro attese il prof. Mario Menghini.
    Erano stati preventivati 100 volumi, che uscirono tutti nel
    tempo fissato.

    I volumi sono cosi’ distinti:
    Politica, voI. 30 in 3 serie; Epistolario, voI. 48; Letteratura, voI.
    5; voI. 94° Letteratura e appendice agli scritti politici; Appendice al-
    l'epistolario, voI. 6.
    Ogni volume della «Politica» ha un' ampia introduzione
    storica e ogni volume dell'Epistolario l'indice dei nomi.
    Sono stati pubblicati anche quattro volumi del «Protocollo
    della Giovine Italia».
    Sono in gestazione gli indici ragionati per soggetto che
    Mario Menghini aveva già impiantato prima di morire.
    Mario Menghini ha anche curato, con note, la pubblicazio-
    ne di «Ricordi autobiografici» ai quali ha premesso un'intro-
    duzione (Imola, Galeati) e ha curato una raccolta di scritti sot-
    to il titolo «Italia ed Europa» con sua introduzione (ed. Co-
    lombo).
    Con queste notizie sulle edizioni di tutti gli scritti del Maz-
    zini, si soddisfa il desiderio di tanti studiosi. Non sarà fuori
    luogo avvertire che non mancano raccolte autologiche di scrit-
    ti politici, sociali, filosofici curate da J. W. Mario (ed. Sansoni),
    da Carlo Cantimori (ed. P. Vallardi), da Rosolino Guastalla
    (ed. Paravia), da Giovanni Conti (ed. libreria Politica Moder-
    na, che ha annunziato una nuova edizione con il vecchio tito-
    lo «I problemi dell'epoca» ).
    Tra le biografie si ricordano quella della J. W. Mario (ed.
    Sonzogno), del Bolton King (ed. Barbera), del Griffth (ed. La-
    terza), del Saponaro (ed. Garzanti).
    Sono state pubblicate importanti raccolte di lettere (com-
    prese poi nell'edizione nazionale): recente la raccolta di «Let-
    tere politiche» curata da Michele Saponaro (ed. Garzanti).

  5. #5
    Repubblicano (e basta)!
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    Predefinito

    I dieci comandamenti del buon repubblicano

    Gustavo ZAGREBELSKY

    Lasciamo da parte gli avvenimenti che portarono alla Repubblica, attraverso la sconfitta del fascismo, la resistenza e la guerra di liberazione, la messa in gioco delle responsabilità di Casa Savoia nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. E, con gli avvenimenti, lasciamo qui da parte anche le contese storiografiche su quel periodo della nostra storia, diventato negli ultimi anni oggetto di una lotta per la memoria il cui significato è nel George Orwell di 1984: "Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato". Intendo invece porre una duplice questione che può essere esaminata indipendentemente da quella controversia e dalle sue ipoteche ideologico-politiche: che cosa è la repubblica e come essere repubblicani. Una questione di "conoscenza pratica", in cui la definizione di un concetto ci suggerisce dettami su un modo d'essere e di agire. Tra le varie classiche partizioni delle forme di governo cui rivolgerci per mettere ordine in una selva piuttosto oscura, quella di Montesquieu è una delle meno ovvie e più illuminanti perché non si limita a elementi esteriori, come ad esempio il numero dei governanti (tutti, alcuni, uno, cui corrispondono, rispettivamente, democrazia, aristocrazia, monarchia ovvero demagogia, oligarchia, tirannia), o a pur importantissime regole procedurali (il voto, invece che la violenza, per cambiare i governanti, da cui i regimi della ragione o quelli della forza), ma penetra nel loro intimo, svelandone il principio etico o, secondo l'espressione ch'egli impiega, il ressort, cioè la molla che dà loro vita e movimento.

    Nel terzo libro dell'Esprit des lois, le forme di governo sono distinte in (a) dispotiche, (b) monarchiche e (c) repubblicane.

    (a) Il despota è colui che sta fuori della legge, anzi colui la cui volontà o arbitrio sono legge per gli altri. Il regime della prepotenza si tiene sulla paura. Alimenta scontento e indignazione e proprio per questo occorre che il terrore spenga il coraggio e prevenga ogni minima ambizione di libertà. Il dispotismo è il regime dell'insicurezza, delle delazioni, degli informatori e delle spie, del sospetto. Chi ha l'animo costantemente occupato dal timore primordiale di perdere la vita e i propri beni non può permettersi il lusso di alzare la testa e pretendere rispetto e libertà. Montesquieu scriveva nella metà del XVIII secolo e i suoi esempi erano i "despoti orientali" o i crudeli cesari di Roma, come Diocleziano. Noi possiamo guardare appena alle nostre spalle, ai regimi totalitari del XX secolo che, in maniera scientifica e pianificata, si sono retti sull'uguaglianza del terrore.

    (b) Della monarchia, la forza vitale sono gli onori: gli onori e i privilegi che il re distribuisce in cerchie concentriche per legare a sé i sudditi in un vincolo di fedeltà. La società è una gerarchia. Si sta in alto o si sta in basso a seconda degli onori ottenuti dalla fonte regale benefattrice. L'aspirazione al privilegio rafforza l'autorità del re e tanto più i privilegi sono estesi, ramificati e differenziati, tanto più saldo è il regno. Montesquieu aveva di fronte a sé l'esempio vivente di questo genere di società, la monarchia francese con le sue differenziazioni in "stati", "ordini" nobiliari ed ecclesiastici, in ceti professionali, in città che godevano di esenzioni più o meno ampie. E certamente non poteva non vedere - come vedevano i letterati del suo tempo - che gli onori alimentavano, in chi non ne godeva o ne godeva in misura minore di altri, un sentimento come l'invidia sociale che, raggiunto il limite di sopportazione del "terzo stato", avrebbe distrutto quella società.

    (c) Nello "stato popolare" o democrazia - che Montesquieu tratta come primo paradigma di stato repubblicano (nella sua classificazione, c'è posto anche per la repubblica aristocratica) - coloro che fanno le leggi, direttamente o tramite propri magistrati, sono gli stessi che le subiscono. Quest'identità comporta il rischio che le leggi siano influenzate da interessi particolari. Le leggi possono essere piegate al fine di sottrarsi ai doveri verso lo stato, di saccheggiare la ricchezza pubblica, di soddisfare il piacere e il lusso personale e anche, appena possibile, di obbedire allo spirito di fazione, origine dell'ingiustizia e dell'oppressione. Ecco allora che, in uno stato popolare, esposto al rischio di questa corruzione, occorre un principio etico in più, la virtù: una nozione che il repubblicanesimo giacobino ha reso sospetta, per il carattere intollerante che le ha conferito, e che quindi dobbiamo utilizzare con cautela, ma che, in una forma o in un'altra, inevitabilmente fa capolino in ogni discussione sulla democrazia. Quale sia il contenuto di questa virtù, possiamo cercare di ricavarlo, oltre che dagli esempi storici che Montesquieu trae dall'Inghilterra, da Roma, Atene o Cartagine, dai mali da cui la repubblica deve essere preservata. Innanzi tutto, per evitare che lo stato, che è bene di tutti, possa apparire un bottino allettante, la sobrietà degli stili di vita personali. Per garantire la forza dello stato, l'osservanza scrupolosa del dovere di contribuire con la propria opera e i propri beni alla sua prosperità. Per difendere la libertà pubblica e difendersi dall'ingiustizia e dall'oppressione, il senso dell'intangibilità della propria dignità e dei propri diritti. Per preservarsi dal male maggiore, il flagello delle fazioni, infine, l'amor di patria: un sentimento politico che supera le divisioni e impone la concordia in ciò che davvero è essenziale nella vita collettiva. Che cosa si deve intendere per patria, nel senso repubblicano? Se si considera che la repubblica è l'insieme degli apporti che ciascuno dà alla vita collettiva - i doveri - e dei benefici che ne trae - i diritti -, possiamo dire che la patria è un modo di stare insieme, una visione della convivenza, una specifica comunità di diritti che vengono riconosciuti in restituzione dei doveri. La patria, intesa come una concezione della vita collettiva, è certo il prodotto di una terra e di una storia comuni ma non è essa stessa terra, storia e, magari, sangue. L'idea repubblicana di patria appartiene alla cultura e non alla natura; è costruita sull'impegno degli uomini di ogni generazione che adempiono il dovere di trasmetterla migliore a quella successiva; è selettiva, perché impone di tenere le distanze verso chi abusa dei diritti che gli sono riconosciuti e viola o elude i doveri che deve adempiere; è inclusiva ed espansiva, perché permette di accogliere chi accetta la medesima concezione della vita, pur non venendo dalla stessa terra e dalla stessa storia; è aperta, perché si può combinare e allargare ad altre comunità di esseri umani in vista della costruzione di patrie più vaste. Il significato che può avere oggi quest'idea culturale di patria si comprende nel confronto con l'idea naturalistica, basata sulla comunanza di terra, stirpe, storia. Questa, al contrario di quella, è un dato che segna come un destino; comprende il buono, il meno buono e il peggio, tutto giustifica e tutti acquieta nell'accettazione passiva, insieme alle virtù, dei patri vizi; è chiusa su se stessa, ostacolando la costruzione di comunità umane progressivamente più vaste. Comporta infine un potenziale pericolo per la pacifica convivenza tra gli individui, i gruppi sociali e i popoli, data la carica di aggressività che essa contiene e legittima nei confronti di chi non appartiene alla stessa comunanza.

    Fin qui, che cosa è la repubblica. Ora, che cosa implica, nel modo d'essere e di operare dei cittadini, quella virtù con la quale la repubblica vive e cresce, ma senza la quale muore.

    1. L'atteggiamento altruistico, come disponibilità a mettere in comune qualcosa di noi stessi, capacità, tempo, risorse materiali, per il bene di tutti: e in primo luogo per il bene di coloro che più hanno bisogno. E' contraria all'uguale appartenenza alla repubblica e dunque non è repubblicana l'idea di un darwinismo sociale che abbandona i deboli alla condanna della selezione naturale.

    2. La disponibilità all'accettazione nella comunità dei diritti di tutti coloro che lealmente si riconoscono nella comunità dei doveri, senza intolleranza nei confronti di quanti, per qualsiasi ragione storica, etnica, personale, possano apparire diversi. L'idea repubblicana ammette una sola ragione di diversità alla quale possa seguire un'esclusione: la violazione dei doveri che dei diritti rappresentano il corrispettivo.

    3. L'apprezzamento e la valorizzazione della pluralità delle opinioni, e quindi anche delle opinioni divergenti dalle proprie, come espressione di un atteggiamento che non si rassegna, contentandosi di quel che collettivamente siamo, ma promuove il miglioramento cercando di correggere i difetti.

    4. Lo spirito del dialogo, con ciò che ne discende nella pratica: procedure, istituzioni deliberative, tempo e anche frustrazioni e lentezze.

    5. Il rigetto della politica come dogma, ciò che, contrapponendo irrimediabilmente i cittadini tra loro, pregiudica l'unità, crea repubbliche (o meglio, chiese) che dividono la repubblica.

    6. La diffidenza verso le decisioni estreme e irretrattabili, non solo perché anch'esse dividono irrimediabilmente, ma anche perché contraddicono l'inesauribile diritto al libero confronto, essenza dello spirito repubblicano.

    7. La cura della propria personalità, il senso della dignità e la gelosa difesa dei propri diritti, a garanzia di beni che non sono solo individuali ma riguardano l'interesse di tutti.

    8. La sostituzione dell'idea lamentosa, molto nostrana ma poco patriottica, che tutto sia dovuto dall'alto, con l'idea opposta che, fin dove è possibile, ciascuno è responsabile della soluzione dei propri problemi, senza gravare sugli altri.

    9. La sperimentazione pratica di ciò che significa vivere repubblicanamente, prestandosi personalmente, fin dalla prima giovinezza, a svolgere attività nella politica e nel servizio sociale.

    Mi accorgo che inevitabilmente, dalla repubblica e dalle sue regole, mi sto spostando sul terreno contiguo della democrazia.

    Ma ancora un ultimo punto, per completare il decalogo e ricollegarlo all'inizio, dove si diceva della paura e dell'invidia come i tratti di psicologia collettiva che caratterizzano i dispotismi e le monarchie: due sentimenti tetri, avvilenti e distruttivi. Dello spirito repubblicano è propria invece l'allegria, che nasce dall'ottimismo, dalla fiducia reciproca e dallo spirito creativo che scaturisce dal coinvolgimento in imprese comuni, importanti per la vita di tutti.

    Così è in tutti i tipi di società umane, anche le più piccole e le più semplici: tra compagni di scuola, tra studenti e professori, tra professori tra loro e tra professori e preside, se manca l'allegria, manca lo spirito repubblicano. Vuol dire che, al posto, prevale lo spirito dispotico con le sue paure o lo spirito monarchico con la sua invidia.

    **********

    Saluti

    R.

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    Repubblicano (e basta)!
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    I dieci comandamenti del buon repubblicano

    Gustavo ZAGREBELSKY

    Lasciamo da parte gli avvenimenti che portarono alla Repubblica, attraverso la sconfitta del fascismo, la resistenza e la guerra di liberazione, la messa in gioco delle responsabilità di Casa Savoia nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. E, con gli avvenimenti, lasciamo qui da parte anche le contese storiografiche su quel periodo della nostra storia, diventato negli ultimi anni oggetto di una lotta per la memoria il cui significato è nel George Orwell di 1984: "Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato". Intendo invece porre una duplice questione che può essere esaminata indipendentemente da quella controversia e dalle sue ipoteche ideologico-politiche: che cosa è la repubblica e come essere repubblicani. Una questione di "conoscenza pratica", in cui la definizione di un concetto ci suggerisce dettami su un modo d'essere e di agire. Tra le varie classiche partizioni delle forme di governo cui rivolgerci per mettere ordine in una selva piuttosto oscura, quella di Montesquieu è una delle meno ovvie e più illuminanti perché non si limita a elementi esteriori, come ad esempio il numero dei governanti (tutti, alcuni, uno, cui corrispondono, rispettivamente, democrazia, aristocrazia, monarchia ovvero demagogia, oligarchia, tirannia), o a pur importantissime regole procedurali (il voto, invece che la violenza, per cambiare i governanti, da cui i regimi della ragione o quelli della forza), ma penetra nel loro intimo, svelandone il principio etico o, secondo l'espressione ch'egli impiega, il ressort, cioè la molla che dà loro vita e movimento.

    Nel terzo libro dell'Esprit des lois, le forme di governo sono distinte in (a) dispotiche, (b) monarchiche e (c) repubblicane.

    (a) Il despota è colui che sta fuori della legge, anzi colui la cui volontà o arbitrio sono legge per gli altri. Il regime della prepotenza si tiene sulla paura. Alimenta scontento e indignazione e proprio per questo occorre che il terrore spenga il coraggio e prevenga ogni minima ambizione di libertà. Il dispotismo è il regime dell'insicurezza, delle delazioni, degli informatori e delle spie, del sospetto. Chi ha l'animo costantemente occupato dal timore primordiale di perdere la vita e i propri beni non può permettersi il lusso di alzare la testa e pretendere rispetto e libertà. Montesquieu scriveva nella metà del XVIII secolo e i suoi esempi erano i "despoti orientali" o i crudeli cesari di Roma, come Diocleziano. Noi possiamo guardare appena alle nostre spalle, ai regimi totalitari del XX secolo che, in maniera scientifica e pianificata, si sono retti sull'uguaglianza del terrore.

    (b) Della monarchia, la forza vitale sono gli onori: gli onori e i privilegi che il re distribuisce in cerchie concentriche per legare a sé i sudditi in un vincolo di fedeltà. La società è una gerarchia. Si sta in alto o si sta in basso a seconda degli onori ottenuti dalla fonte regale benefattrice. L'aspirazione al privilegio rafforza l'autorità del re e tanto più i privilegi sono estesi, ramificati e differenziati, tanto più saldo è il regno. Montesquieu aveva di fronte a sé l'esempio vivente di questo genere di società, la monarchia francese con le sue differenziazioni in "stati", "ordini" nobiliari ed ecclesiastici, in ceti professionali, in città che godevano di esenzioni più o meno ampie. E certamente non poteva non vedere - come vedevano i letterati del suo tempo - che gli onori alimentavano, in chi non ne godeva o ne godeva in misura minore di altri, un sentimento come l'invidia sociale che, raggiunto il limite di sopportazione del "terzo stato", avrebbe distrutto quella società.

    (c) Nello "stato popolare" o democrazia - che Montesquieu tratta come primo paradigma di stato repubblicano (nella sua classificazione, c'è posto anche per la repubblica aristocratica) - coloro che fanno le leggi, direttamente o tramite propri magistrati, sono gli stessi che le subiscono. Quest'identità comporta il rischio che le leggi siano influenzate da interessi particolari. Le leggi possono essere piegate al fine di sottrarsi ai doveri verso lo stato, di saccheggiare la ricchezza pubblica, di soddisfare il piacere e il lusso personale e anche, appena possibile, di obbedire allo spirito di fazione, origine dell'ingiustizia e dell'oppressione. Ecco allora che, in uno stato popolare, esposto al rischio di questa corruzione, occorre un principio etico in più, la virtù: una nozione che il repubblicanesimo giacobino ha reso sospetta, per il carattere intollerante che le ha conferito, e che quindi dobbiamo utilizzare con cautela, ma che, in una forma o in un'altra, inevitabilmente fa capolino in ogni discussione sulla democrazia. Quale sia il contenuto di questa virtù, possiamo cercare di ricavarlo, oltre che dagli esempi storici che Montesquieu trae dall'Inghilterra, da Roma, Atene o Cartagine, dai mali da cui la repubblica deve essere preservata. Innanzi tutto, per evitare che lo stato, che è bene di tutti, possa apparire un bottino allettante, la sobrietà degli stili di vita personali. Per garantire la forza dello stato, l'osservanza scrupolosa del dovere di contribuire con la propria opera e i propri beni alla sua prosperità. Per difendere la libertà pubblica e difendersi dall'ingiustizia e dall'oppressione, il senso dell'intangibilità della propria dignità e dei propri diritti. Per preservarsi dal male maggiore, il flagello delle fazioni, infine, l'amor di patria: un sentimento politico che supera le divisioni e impone la concordia in ciò che davvero è essenziale nella vita collettiva. Che cosa si deve intendere per patria, nel senso repubblicano? Se si considera che la repubblica è l'insieme degli apporti che ciascuno dà alla vita collettiva - i doveri - e dei benefici che ne trae - i diritti -, possiamo dire che la patria è un modo di stare insieme, una visione della convivenza, una specifica comunità di diritti che vengono riconosciuti in restituzione dei doveri. La patria, intesa come una concezione della vita collettiva, è certo il prodotto di una terra e di una storia comuni ma non è essa stessa terra, storia e, magari, sangue. L'idea repubblicana di patria appartiene alla cultura e non alla natura; è costruita sull'impegno degli uomini di ogni generazione che adempiono il dovere di trasmetterla migliore a quella successiva; è selettiva, perché impone di tenere le distanze verso chi abusa dei diritti che gli sono riconosciuti e viola o elude i doveri che deve adempiere; è inclusiva ed espansiva, perché permette di accogliere chi accetta la medesima concezione della vita, pur non venendo dalla stessa terra e dalla stessa storia; è aperta, perché si può combinare e allargare ad altre comunità di esseri umani in vista della costruzione di patrie più vaste. Il significato che può avere oggi quest'idea culturale di patria si comprende nel confronto con l'idea naturalistica, basata sulla comunanza di terra, stirpe, storia. Questa, al contrario di quella, è un dato che segna come un destino; comprende il buono, il meno buono e il peggio, tutto giustifica e tutti acquieta nell'accettazione passiva, insieme alle virtù, dei patri vizi; è chiusa su se stessa, ostacolando la costruzione di comunità umane progressivamente più vaste. Comporta infine un potenziale pericolo per la pacifica convivenza tra gli individui, i gruppi sociali e i popoli, data la carica di aggressività che essa contiene e legittima nei confronti di chi non appartiene alla stessa comunanza.

    Fin qui, che cosa è la repubblica. Ora, che cosa implica, nel modo d'essere e di operare dei cittadini, quella virtù con la quale la repubblica vive e cresce, ma senza la quale muore.

    1. L'atteggiamento altruistico, come disponibilità a mettere in comune qualcosa di noi stessi, capacità, tempo, risorse materiali, per il bene di tutti: e in primo luogo per il bene di coloro che più hanno bisogno. E' contraria all'uguale appartenenza alla repubblica e dunque non è repubblicana l'idea di un darwinismo sociale che abbandona i deboli alla condanna della selezione naturale.

    2. La disponibilità all'accettazione nella comunità dei diritti di tutti coloro che lealmente si riconoscono nella comunità dei doveri, senza intolleranza nei confronti di quanti, per qualsiasi ragione storica, etnica, personale, possano apparire diversi. L'idea repubblicana ammette una sola ragione di diversità alla quale possa seguire un'esclusione: la violazione dei doveri che dei diritti rappresentano il corrispettivo.

    3. L'apprezzamento e la valorizzazione della pluralità delle opinioni, e quindi anche delle opinioni divergenti dalle proprie, come espressione di un atteggiamento che non si rassegna, contentandosi di quel che collettivamente siamo, ma promuove il miglioramento cercando di correggere i difetti.

    4. Lo spirito del dialogo, con ciò che ne discende nella pratica: procedure, istituzioni deliberative, tempo e anche frustrazioni e lentezze.

    5. Il rigetto della politica come dogma, ciò che, contrapponendo irrimediabilmente i cittadini tra loro, pregiudica l'unità, crea repubbliche (o meglio, chiese) che dividono la repubblica.

    6. La diffidenza verso le decisioni estreme e irretrattabili, non solo perché anch'esse dividono irrimediabilmente, ma anche perché contraddicono l'inesauribile diritto al libero confronto, essenza dello spirito repubblicano.

    7. La cura della propria personalità, il senso della dignità e la gelosa difesa dei propri diritti, a garanzia di beni che non sono solo individuali ma riguardano l'interesse di tutti.

    8. La sostituzione dell'idea lamentosa, molto nostrana ma poco patriottica, che tutto sia dovuto dall'alto, con l'idea opposta che, fin dove è possibile, ciascuno è responsabile della soluzione dei propri problemi, senza gravare sugli altri.

    9. La sperimentazione pratica di ciò che significa vivere repubblicanamente, prestandosi personalmente, fin dalla prima giovinezza, a svolgere attività nella politica e nel servizio sociale.

    Mi accorgo che inevitabilmente, dalla repubblica e dalle sue regole, mi sto spostando sul terreno contiguo della democrazia.

    Ma ancora un ultimo punto, per completare il decalogo e ricollegarlo all'inizio, dove si diceva della paura e dell'invidia come i tratti di psicologia collettiva che caratterizzano i dispotismi e le monarchie: due sentimenti tetri, avvilenti e distruttivi. Dello spirito repubblicano è propria invece l'allegria, che nasce dall'ottimismo, dalla fiducia reciproca e dallo spirito creativo che scaturisce dal coinvolgimento in imprese comuni, importanti per la vita di tutti.

    Così è in tutti i tipi di società umane, anche le più piccole e le più semplici: tra compagni di scuola, tra studenti e professori, tra professori tra loro e tra professori e preside, se manca l'allegria, manca lo spirito repubblicano. Vuol dire che, al posto, prevale lo spirito dispotico con le sue paure o lo spirito monarchico con la sua invidia.

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    Il repubblicanesimo
    Una teoria della libertà e del governo
    Philip Pettit
    Traduzione: Paolo Costa
    Collana: Campi del sapere
    Pagine: 384
    Prezzo: Euro 30,99
    -------------------------------------------------
    In breve

    Un ritratto sistematico di una delle prospettive politiche più originali di questi ultimi anni: la riscoperta dell'idea repubblicana di convivenza democratica. Non la sola eguaglianza, ma l'assenza di qualunque forma di dominio sull'altro, garantisce la piena libertà.

    Il libro

    Questo libro offre un quadro sistematico di una delle prospettive politiche più originali emerse dal dibattito politico di questi ultimi anni. Il repubblicanesimo, nella versione data da Pettit, ambisce infatti a costituire una "terza via" tra liberalismo e comunitarismo, le due teorie concorrenti che hanno dominato il panorama della filosofia politica degli anni ottanta. Muovendo da una concezione della libertà come assenza di dominio, Pettit offre una lettura delle società democratiche in cui risulta centrale l'idea del vivere insieme agli altri da pari, come individui pienamente garantiti nella propria indipendenza. L'idea di liberta come dominio ha affascinanti implicazioni istituzionali e il libro cerca di delineare gli insegnamenti più rilevanti che se ne possono trarre. Alcune di queste implicazioni presentano tratti caratteristicamente repubblicani, come il richiamo all'uguaglianza, alla comunità e alle virtù civiche; altre risultano più sorprendenti, come le tesi che riguardano quali politiche una repubblica dovrebbe perseguire e il tipo di democrazia che dovrebbe realizzare. La libertà come non dominio, scrive Pettit, promuove una concezione della democrazia in cui la contestabilità viene ad assumere il ruolo tradizionalmente assegnato al consenso: il governo deve fare ci" che la gente chiede ma, anche a costo dell'arbitrarietà, i cittadini devono poter contesttare ci" che il governo fa.

    Approfondimento

    Il repubblicanesimo (1997) è un'opera importantissima, già ampiamente citata nella letteratura filosofica, la cui traduzione è molto attesa. Con questo scritto Philip Pettit è riuscito nell'intento non agevole di offrire un ritratto sistematico di una delle prospettive politiche più originali di questi ultimi anni. Il repubblicanesimo, le cui radici affondano nell'antica Roma, ambisce a costituire una "terza via" tra liberalismo e comunitarismo, le due teorie concorrenti che hanno dominato il panorama della filosofia politica degli anni ottanta. Muovendo da una concezione della libertà come assenza di dominio, Pettit offre una lettura delle società democratiche in cui risulta centrale l'idea del vivere insieme agli altri da pari a pari, come individui pienamente garantiti nella propria indipendenza: essere liberi significa non essere soggetti all'arbitrio di un padrone, di un dittatore o di un qualsiasi controllore che, per quanto umano e gentile, può interferire nella nostra vita. Il libro si rivolge ovviamente agli studenti e agli specialisti delle discipline politico-sociali, ma è di sicuro interesse anche per tutti coloro che seguono i travagli e gli sforzi di rinnovamento delle società liberali contemporanee.
    -----------------------------------------------
    TRATTO DAL SITO DI

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    Predefinito la politica come religione civile, di Sauro Mattarelli

    La politica come religione civile: fu proprio questo il sottotitolo che proposi a Giuseppe Laterza e a Roland Sarti nel 2000, al momento della pubblicazione della traduzione italiana dell’ultima importante biografia di Mazzini, che era già uscita, nel 1997, da Praeger, negli Stati Uniti. Mi sembrava che quel messaggio, non apprezzato da tutta la critica, sintetizzasse bene una parte essenziale del pensiero mazziniano. Esso implica, infatti, un profondo coinvolgimento, responsabilità individuale, senso dell’associazione, a partire dalle microstrutture e fino all’unione dei popoli a livello planetario. È attraverso questi passaggi che si misura il progresso di una società che non può essere declinato solo in termini utilitaristici, attraverso un arido bilancio numerico tra costi e ricavi. Sono, al contrario, le relazioni umane a misurare la crescita effettiva di qualsiasi comunità, se non vogliamo che la teorica del “dovere” sia intesa come semplice imposizione dell’arbitrio del più forte sul più debole; o che l’associazionismo decada allo stato di semplice intesa “familistica”, anziché proiettarsi come formidabile strumento di coinvolgimento.
    La religione civile implica, naturalmente, che ognuno di noi si ponga di fronte alla “questione religiosa” tout court: anche i laici, soprattutto i laici. Gli agnostici prima ancora dei credenti e degli atei i quali, in fondo, sembrano aver risolto la faccenda una volta per tutte, con un “a priori” assoluto; come se la fede stessa non si dovesse vivificare ogni giorno, attraverso, almeno, l’incontro tra la teoria e la prassi o, come dicono i mazziniani, tra il pensiero e l’azione. Concetti, questi ultimi, che Mazzini volle riunire sotto forma di un “binomio” significativamente vicino a un altro binomio: “Dio e Popolo”. Mazzini fu però sempre attento che i rispettivi contenuti dei binomi non si fondessero ontologicamente e neppure formassero un unicum confuso, inutile e, anzi, dannoso per l’uomo, come avrebbero ben spiegato Salvemini e Croce in una limpida polemica con le teorie “ideazioniste” di Gentile.
    È all’insegna di questa riflessione, sicuramente schematica e troppo semplificata, che invitiamo i lettori a un approccio speciale con uno dei “fili conduttori” di questo numero. Tra i tanti stimolanti contributi molti scritti alludono infatti, direttamente o indirettamente, al tema della religione e della religiosità. A partire dall’intervento di Paolo Bonetti sulla religiosità di Bobbio, per proseguire con i saggi di Alberto Guasco, La religione come ideologia, l’ideologia come religione e di Antonio De Lauri, Mazzini nella critica di un giornale di “liberi pensatori” razionalisti, fino ai lavori di Claudia Farkas e, soprattutto, di Michel Ostenc che pongono il tema religioso nel vivo della dinamica storica del Novecento, con tutti i risvolti drammatici, noti e meno noti. Prospettive e interpretazioni diverse per chiedere ai lettori un esercizio di comprensione attraverso la lente del mazzinianesimo, capace di innestarsi nel neorepubblicanesimo. Su quest’ultimo filone siamo orgogliosi di proporre un saggio di uno dei massimi studiosi mondiali, James Bohman, un autore che viene per la prima volta tradotto in Italia.
    Sarà allora agevole cogliere la straordinaria contemporaneità di alcune concezioni: constatare, ad esempio, che la religione “vera”, così come la democrazia, non si esporta con la forza, né s’impone con le bombe, con gli eserciti o con il terrore. Può solo scaturire, come diceva Cattaneo, dalle “viscere dei popoli”, con processi che non possono essere determinati simultaneamente neppure nel tempo della realtà virtuale e della globalizzazione, se non vogliamo che la stessa democrazia perda completamente ogni sua connotazione e assuma la forma di un nuovo dispotismo. Attuale più che mai, dunque, il sogno kantiano, poi perfezionato proprio da Mazzini, dell’unione dei popoli, che non può certo avvenire, come abbiamo appena sottolineato, attraverso il postulato della presunta superiorità di una civiltà; e neppure grazie al dominio economico-militare di una minoranza ricca e “democratica”, su una grande maggioranza povera e sottomessa alla prima casta. Il “passaggio essenziale” riguarda dunque l’esercizio di una legge di giustizia mondiale attuabile, forse, pensando a una profonda riforma dell’ONU, a un cambiamento dell’architettura economica della Terra, all’individuazione, per dirla con Amartya Sen, “di un’istituzione sovranazionale in grado di garantirla”. Si presenta, in formato globale, l’esigenza di risolvere l’immenso problema da “sala della pallacorda”, cercando una adeguata rappresentanza per tutti i popoli del mondo. Certo, senza cadere dall’oligarchia dei detentori del potere economico-finanziario alla “dittatura del numero”, ma attraverso una sorta di “parlamento mondiale”, per cercare di riequilibrare una situazione in tutta evidenza iniqua e foriera di pericoli gravissimi a tutte le latitudini, rappresentati dalle guerre, dalle carestie, dal terrorismo.
    È attraverso queste considerazioni, con la declinazione, ovviamente “rischiosa” e provocatoria, di una utopia, che proponiamo il tema della “religione civile”: la saldatura “tra cielo e terra”, al di là dei panegirici di comodo, per sottoporre ogni fede alla prova della nostra intima coscienza, del nostro residuo desiderio di partecipazione e dei progetti per l’avvenire.

    s.m.
    ............................
    tratto dal P.M. n.1 2004

  9. #9
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    Predefinito tratto da L'OPINIONE 9 marzo 2005

    Mazzini fu il primo neocon

    di Tommaso Ciuffoletti

    Caro Direttore,
    in occasione della visita italiana di Bill Kristol, avrei voluto suggerire al neocon DOCG di fare una visita a Genova come omaggio per il bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini, al quale proprio i neocon tanto devono, almeno per quanto riguarda la loro concezione della politica estera. Perché a ben vedere essi non hanno inventato niente di nuovo in materia, ma hanno invero avuto il merito di riprendere ciò che altrove si è colpevolmente fatto finta di dimenticare, piuttosto che rielaborare criticamente. Proprio in un recente libro del prof. Salvo Mastellone è infatti riportata un’interessantissima lettera aperta che Giuseppe Mazzini scrisse, nel luglio del 1845, al ministro dell’Interno Sir J. Graham in cui si legge come per l’esule italiano la politica di pace e la conservazione dello status quo in Europa, che il governo inglese perseguiva sulla scorta del Congresso di Vienna, cozzava con le dichiarazioni autorevoli e coraggiose del Duca di Wellington secondo cui la politica dell’Inghilterra aveva, per fine “non solamente di rimanere in pace con tutti, ma di mantenere pace per ogni dove, e promuovere l’indipendenza, la sicurezza e la prosperità di ogni altra terra nel mondo” (4 luglio 1844). Mazzini scrisse testualmente: “Accetto di buon grado una definizione siffatta e la credo migliore di tutte le teorie di non intervento che oggi cancellano il diritto internazionale e il progresso europeo. La dottrina assoluta del non intervento in politica corrisponde all’indifferenza in fatto di religione: è un mascherato ateismo, una negazione, senza la vitalità della ribellione, di ogni credenza, d’ogni principio generale, d’ogni missione a pro dell’umanità. Noi siamo tutti vincolati l’uno all’altro nel mondo, e a un intervento è dovuto quanto di buono, di grande, di progressivo ci addita la storia [...] Io non sono partigiano di quella massima gesuitica “il fine giustifica i mezzi”, ma devo confessare che mi sembra egualmente assurdo, egualmente ingiusto di esaltare fino al grado di assioma l’opinione che in ogni occasione e in ogni epoca condanna l’applicazione della forza fisica”.
    P.S. Considerato che dunque non occorre essere neocon per sostenere il “contagio democratico”, ne approfitto per aderire all’appello del vostro giornale per un Libano libero e indipendente.

    Tommaso Ciuffoletti
    Firenze
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    Il repubblicanesimo e la tradizione liberal-democratica: una questione culturale

    di Roberto Balzani*

    Se c’è una cosa che colpisce, nelle difficoltà in cui si agita l’area laica italiana in questo inizio di secolo, è l’impossibilità di trovare un posto dove stare . I “poli”, le grandi “case”, non convincono o non danno risposte accettabili; il notabilato politico, come affetto da un perenne ballo di S. Vito, si affanna a prender posizione, per mettere a frutto un minimo di rendita elettorale: ma, una volta raggiunto qualche successo, cede alla frustrazione generale e si chiede: “e ora?”. I partiti, destrutturati sotto il profilo ideologico, si sono trasformati in autobus: si può salire, scendere, prendere coincidenze, senza soluzione di continuità. Senza neppure bisogno di pause di riflessione, di attese che rendano plausibile un minimo non dico di contrizione, ma almeno di coscienza per ciò che si sta facendo o si è fatto.

    Intendiamoci: il buon tempo andato non era esente da pecche, anche colossali; e non è vero che il partito “ideologico”, che fidelizzava quadri e iscritti, fosse poi molto meglio: tant’è che – ad esempio – i partiti laici ne hanno sempre pesantemente criticato la natura di fondo autoritaria. Ora, però, siamo giunti all’opposto: la perdita di senso quasi completa delle organizzazioni extra-parlamentari della vita politica. La Repubblica dei partiti, affermatasi definitivamente nel 1953, dopo il fallimento della “legge truffa” (con la quale De Gasperi aveva cercato di salvaguardare le prerogative di una maggioranza parlamentare e di una premiership forte, senza dipendere eccessivamente dai partiti di massa), è entrata in crisi all’indomani del fallimento della solidarietà nazionale, nel 1979. Ha conosciuto poi un lungo declino – anche sotto il profilo morale -, e, fra il 1989 e il 1992, ha subito le ultime, decisive, fatali convulsioni. L’arrivo al Quirinale di un uomo non indicato dai partiti, nel 1992, è la testimonianza di questo passaggio decisivo.

    Bisogna chiedersi, a questo punto, se la forma-partito sia riproponibile nella sua struttura gerarchica tradizionale; se gli attuali partiti-comitati elettorali possano esserne surrogati efficienti; se, infine, la tradizione del repubblicanesimo e della liberal-democrazia contenga in sé, e non da oggi, gli strumenti per uscire da questo stallo, inoculando nel sistema una forte dose d’innovazione politica.

    Circa il primo punto, credo che la forma-partito gerarchica e “nazionale”, con la testa a Roma e gli arti in giro per l’Italia, sia ormai un ricordo del passato. E ciò per due ragioni: la prima è che gli interessi e le “domande” della società civile non sono più, salvo alcuni casi, filtrate direttamente dai partiti politici, come nella “Repubblica dei partiti”. I centri di spesa locali – comunali, provinciali e regionali – sono molto più importanti di vent’anni fa; inoltre, le associazioni di categoria, un tempo cinghie di trasmissione dei partiti medesimi, a partire dalla svolta del 1989-1992 hanno acquisito un’autonomia imprevista, ponendosi in prima battuta come interlocutori del “bisogno” di “risposte tecniche” da parte di cittadini/lavoratori (si pensi ai patronati dei sindacati) o delle piccole/medie imprese (si veda, in questo caso, a mo’ d’esempio, quanto i servizi reali resi alle imprese pesino sui bilanci di associazioni come Cna o Confartigianato). Le risorse controllate direttamente dal centro sono inferiori ad alcuni anni fa, e spesso predeterminate dalle grandi leggi finanziarie dello stato: di conseguenza, uno dei canali classici di sopravvivenza dei partiti politici strutturati al tempo della loro crisi appare largamente ostruito. Il partito-apparato “nazionale”, così come lo stato nazionale, è troppo costoso; sempre più difficile appare la collocazione di para-funzionari in organismi collaterali, la cui mission risulta via via più autonoma e indipendente; le cariche pubbliche, d’altra parte, selezionano fortemente il numero dei professionisti disponibili. Pensare, quindi, di rifare i partiti stile “Repubblica, 1953- 1992” risponde ad un ragionamento sostanzialmente errato.
    Secondo problema. I partiti-comitati elettorali sono surrogati efficienti? Lo sono, o possono esserlo, se – vedi riforma costituzionale in votazione – un enorme peso decisionale si sposta dal legislativo all’esecutivo; se, cioè, i partiti servono a garantire la maggioranza parlamentare da cui scaturisce l’autentica leadership del paese. In questo senso, l’articolazione di Forza Italia – un partito che in dieci anni non ha saputo produrre al proprio interno una vera classe dirigente “dal basso” - pare molto coerente con l’impianto che si vorrebbe dare alle nuove istituzioni; assai più confuso, invece, sembra il ruolo che il centro-sinistra attribuisce ai partiti, o alle coalizioni, nel proprio disegno finale (restaurazione pura e semplice? Ripristino di una “centralità” parlamentare? Premierato debole? Premierato forte?). In ogni caso, i partiti-comitati elettorali non possono surrogare una leadership , sia essa espressa da un “magnate dei media ”, da un “professore”, o altro. In altre parole, ai partiti-comitati elettorali non si può chiedere di produrre politica, giacché essi hanno un’altra funzione, quella di raccogliere voti .

    Terzo punto. Pensare, in questo quadro, ad un’ennesima riedizione, in salsa laica, o della forma-partito tradizionale o del partito-comitato elettorale, non ha alcun senso. O meglio: può avere un senso contingente in vista di una tornata elettorale, ma si tratta di un disegno di corto respiro, e comunque statisticamente votato al fallimento se concepito su scala nazionale; trascorse le elezioni, ci si scopre con un gruzzolo di consensi più piccolo da far pesare, la volta successiva, sul tavolo della politica. Di qui una considerazione: poiché, storicamente, il mondo laico-repubblicano è stato il prodotto di un aggregato di formazioni regionali o sub-regionali, guidate da un’élite intellettuale vivace e battagliera, perché non prendere atto che la struttura federativa è, di fatto, quella che oggi può impedire che le esplosioni, all’interno dell’atomo, continuino senza sosta? Perché non considerare la possibilità di un telaio leggero, di un Ufficio di coordinamento, che si posi sulle gambe di realtà locali autonome ancora decorosamente forti? In fondo, ci si provò già nel XIX secolo, al tempo del trasformismo. I democratici si scoprirono divisi e, per unirsi senza venir meno alle proprie peculiarità, si dotarono di un centro d’informazione nazionale che fungeva da “vigile” del dibattito interno e prendeva posizioni su alcuni temi condivisi: lo chiamavano “Comitato centrale di corrispondenza” ed era costituito da tre individui: Edoardo Pantano, Ernesto Nathan e Antonio Fratti. Finì male, è vero; ma finì male perché, allora, stava nascendo il partito di massa, un competitore troppo forte e troppo dinamico. Oggi siamo al termine di quella fase: il partito ideologico di massa, in Italia, è ormai defunto da dieci anni, e sono rimasti solo i suoi cascami, in preda a convulsioni permanenti.

    E’ chiaro che un telaio leggero non basta. E’ chiaro che una struttura del genere dev’essere il motore di un’innovazione profonda del linguaggio della politica, dei temi della politica. Se no, resterebbe la casa un po’ triste e polverosa di un manipolo di reduci. Ecco allora l’idea di collegare questa struttura democratica alla proposta liberal-democratica europea: come bacino cui attingere idee, opportunità di confronto, stimoli. Una dimensione internazionale forte, sotto il profilo intellettuale, è ciò che serve alla federazione inter-regionale per conquistare il suo spazio nel mondo democratico, anche italiano. Può farlo introducendo un “discorso pubblico” continentale, sprovincializzando l’asfittica politica autoreferenziale del nostro paese, anestetizzando un’opinione pubblica ipnotizzata dai bla bla inutili e inconcludenti dei talk shows . Dimostrando, in una parola, che è possibile disegnare un’idea di sviluppo moderno e razionale per il nostro paese.

    D’altronde, occorre ricordare che, per Mazzini, la nazione era solo una tessera del grande mosaico: l’unione democratica dell’Umanità. Il compito, in altre parole, non si esauriva con Roma capitale, ma continuava in Europa e in America. Come, non lo sapeva neppure lui di preciso. Ma forse è venuto il tempo di riprendere quel testimone.

    Roberto Balzani
    *Professore ordinario di Storia Contemporanea
    all’Università di Bologna

 

 
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