Vi posto un articolo del 2000. Tre anni fa tutti si bevevano le scemenze propagandistiche sulla "New Economy" e sulla fine dei cicli recessivi. Oggi, di New Economy non parla più nessuno.


NEW ECONOMY E VECCHIE ILLUSIONI
spunti per una critica dell’ideologia contemporanea
__________________________________________________ ______________

Vladimiro Giacchè (luglio 2000)




1. Le “nuove” tavole della legge dell’ideologia contemporanea

Evidentemente, ci eravamo distratti. Solo così si può spiegare il fatto di non esserci accorti della tremenda portata delle novità che la “new economy” ha implicato in ogni dimensione della nostra esistenza: nei rapporti sociali così come nella produttività del lavoro, nella redditività delle imprese come nel modo di produrre, e financo nelle leggi economiche.
Volendo recuperare il tempo perduto, abbiamo perciò deciso di annotare e sottoporre al lettore alcune delle “rivoluzionarie novità” che il magico mondo della new economy ci ha inavvertitamente recato. Siccome la new economy è per i suoi adepti oggetto di un vero e proprio culto religioso, ci è parso corretto definire “dogmi” i principali articoli di fede che la riguardano.

Dogma n.1. La New Economy è all’origine dell’attuale stato di salute dell’economia americana
L’economia americana sta indubbiamente beneficiando di un ciclo di crescita che dura ormai dal 1991 (nel 1999, il tasso di crescita del Pil ha superato per il terzo anno consecutivo il 4%). E questo in presenza di un tasso di disoccupazione al 5%, e di un’inflazione non solo assai contenuta, ma in calo. Soltanto negli anni Sessanta si erano avuti tassi di crescita superiori. Ma allora l’inflazione, al contrario, saliva. Per spiegare questo fenomeno si fa riferimento all’importanza crescente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) - di solito con esse è identificata la new economy nella pubblicistica corrente -, oltreché alla “globalizzazione”, ossia alla maggiore apertura dei mercati internazionali dei capitali, dei beni e dei servizi (e della forza-lavoro).
In sostanza, la crescita americana di questi anni sarebbe dovuta all’aumento della produttività derivante dalle Ict (computer, mezzi di telecomunicazione, Internet, ecc.) e dalla loro applicazione all’insieme dell’e_conomia, nel contesto di un’accentuata concorrenza a livello mondiale.
In realtà:
a) la crescita della produttività nell’insieme dell’economia americana negli ultimi 4 anni non supera che di un misero 0,29% la crescita registrata nel periodo 1972-1995; si tratta di un valore molto più basso di quelli registrati dal 1950 al 1972;
b) l’aumento della produttività è localizzabile esclusivamente all’interno dell’industria manifatturiera, e segnatamente nel settore dei beni durevoli;
c) a sua volta, questo aumento è dovuto pressoché per intero al settore che produce hardware per computer, che ha registrato - esso solo - tassi di crescita molto elevati della produttività (si giunge al 40% annuo).
Morale della favola: “non c’è stata alcuna accelerazione nella crescita della produttività nel 99% cento dell’economia, ad eccezione del settore che produce hardware per computer”. Al contrario, se si eccettua tale comparto, “il rallentamento della produttività nel settore manifatturiero è andato aggravandosi”. Insomma: per ora la crescita della produttività non si fa sentire su chi utilizza i computer, ma solo su chi li fabbrica.
Se questo è vero, resta ancora da spiegare il mistero della crescita americana. Che è dovuto al seguente concatenarsi di fattori:
a) una notevole espansione dei consumi delle famiglie americane (+3,2% annuo dal 1991 al 1999), alimentata dal maggior reddito disponibile, dal crollo del tasso di risparmio (dal 10% all’1% in sette anni) e dalla parallela crescita dell’indebitamento, sinora resa sostenibile dalla crescita dei corsi azionari (e dalle aspettative di una loro ulteriore crescita);
b) una crescita degli investimenti delle imprese (+ 7,5% in media, soprattutto in nuove tecnologie), che hanno visto anch’esse crescere anche il loro indebitamento (44% nel 1998);
c) un costo del lavoro tenuto basso anche grazie alle caratteristiche dei posti di lavoro creati negli ultimi anni (in gran parte nei servizi a basso valore aggiunto, e non - a differenza di quanto si propaganda - nelle imprese high-tech), oltreché attraverso la minaccia della disoccupazione, resa ancora più reale dai notevoli flussi di immigrati (la popolazione degli Usa dal 1991 al 1999 è cresciuta dell’8,2%);
d) una politica monetaria molto cauta, ma in ogni caso assai poco restrittiva (tassi d’interesse tenuti bassi per non colpire i corsi azionari, ma al tempo stesso gradualmente elevati per dare comunque segnali antinflazionistici);
e) la forza del dollaro, che consente di pagare poco le merci importate, combinata con il suo ruolo storico di valuta internazionale di riserva, che implica il “signoraggio” [v. dopo] sulle altre valute e consente di neutralizzare gli effetti del formidabile deficit della bilancia commerciale americana.

Dogma n.2. La New Economy determina la fine del ciclo economico e l’inizio dell’era dei rendimenti crescenti.
Questo secondo dogma dell’ideologia contemporanea non meriterebbe, per la verità, che scarsa attenzione. In effetti, alla luce di quanto precede, non solo il ciclo economico non è finito, ma la stessa crescita del_l’economia americana appare basata su un equilibrio assai instabile, che può essere pregiudicato dal venire meno anche di uno solo dei presupposti su cui poggia, con effetti a catena difficilmente governabili. Ad es., un ulteriore peggioramento del saldo negativo della bilancia commerciale potrebbe innescare una caduta del dollaro (generalmente considerato molto sopravvalutato rispetto all’euro); questa a sua volta potrebbe dare l’avvio ad un crollo dei corsi azionari, con conseguente insostenibilità dell’indebitamento di famiglie e delle imprese e caduta dei consumi, ecc.
Vista la frequenza con la quale quella curiosa “teoria” compare sui nostri giornali, vale però almeno la pena di spendere qualche parola sul “principio dei rendimenti crescenti”, che viene tirato in ballo con riferimento all’informazione in rete. L’idea è questa: quanto più crescono le connessioni sulla rete, tanto più cresce l’utilità marginale del fatto di essere connessi (quindi la domanda) e tan-to più diminuisce il costo della connessione (ma, nonostante ciò, anche l’offerta aumenta) [esemplare a tale riguardo M. Spallino, Internet rivoluziona le leggi economiche, in Il sole 24 ore, 14 giugno 2000, inserto New Economy]. Conclusione: i concetti di utilità marginale decrescente e di produttività marginale decrescente devono essere cancellati dai libri di economia.
A questo proposito va osservato innanzitutto che porre la connessione ad internet, o anche - più in generale - la condivisione e lo scambio di informazioni, come base per una nuova teoria economica è quantomeno limitativo (come la mettiamo con lo scambio di beni e servizi? e se il mio business è la vendita di frigoriferi anziché la fornitura di un accesso alla rete?).
Ma, anche concesso:
a) è semplicemente falso che il “rendimento” della connessione sia indefinitamente crescente per l’utente (ad es., il tempo che si passa nel cercare informazioni ha un costo, che oltre una certa soglia riduce drasticamente l’utilità marginale della connessione stessa);
b) il diminuire del costo dell’offerta di accesso alla rete non rende affatto felici i fornitori (che infatti, come vedremo, stringono alleanze per fornire contenuti e farli pagare, proprio per evitare drastici cali nei profitti);
c) non è scritto da nessuna parte che la concorrenza attuale tra operatori non possa sfociare in un oligopolio di fornitori di accessi alla rete (nel qual caso il costo della connessione tornerebbe ad aumentare).

Dogma n. 3. La “New Economy” è il regno della concorrenza, ed è per definizione nemica dei monopoli.
“New Economy e concorrenza: un matrimonio spontaneo”: così il titolo - ma è solo un esempio tra i molti possibili - di un articolo del liberal-liberista A. De Nicola [in la Repubblica, 19 giugno 2000, inserto Affari e Finanza].
Se di matrimonio si tratta, è lecito ritenere che le pratiche per il divorzio siano già piuttosto avanzate: basta considerare che il 98% dei computer del mondo gira su sistemi operativi forniti da un’unica impresa... Ma questo non è che l’inizio: quanto è avvenuto nel comparto dei produttori di software prefigura ciò che avverrà nei prossimi anni nell’utilizzo commerciale di internet e più in generale nel settore delle telecomunicazioni. E, del resto, in tutto questo non c’è veramente niente di nuovo: si tratta esattamente di quella stessa dialet_tica di concorrenza e monopolio, scritta nel Dna dell’economia capitalistica e ben nota ai lettori di Marx, che condusse alla fine dell’Ottocento John Rockefeller a controllare oltre il 90% del mercato del petrolio negli Usa.
Semmai, è interessante notare come l’odierna pubblicistica ideologica “liberale” contemporanea affronta il problema: legittimando tra mille contorsioni il monopolio e le conseguenti rendite monopolistiche, salvo minimizzare la cosa sostenendo che tali posizioni sarebbero “necessariamente” temporanee a causa della rapidità dei mutamenti tecnologici.
Così, ad esempio, il Ministro del Tesoro americano Larry Summers: il monopolio (“temporaneo”, ovviamente) è la sola prospettiva in grado di scongiurare “il rischio di una spinta al ribasso del prezzo al costo marginale, che impedirebbe il recupero del forte investimento iniziale”. Insomma: non si può chiedere agli imprenditori di investire pesantemente in tecnologia sulla rete privandoli della possibilità di acquisire una rendita monopolistica! Francamente, se al cronista che riferisce questa geniale pensata tale pseudo-teoria appare “rivoluzionaria” (e come poteva essere altrimenti?), a noi fa l’effetto opposto: quanto è old questa new economy!
Proviamo a mettere in fila un po’ di elementi: il revival teorico del monopolio; la previsione della società di consulenza PriceWaterhouse & Coopers, secondo cui i 3/4 delle start up europee falliranno entro breve; la previsione di Lester Thurow, che vede nel futuro prossimo un intenso processo di concentrazione. Vuoi vedere che questo è il futuro che ci attende?
Non ci attende, per il semplice fatto che è già qui: il processo di concentrazione conosce già adesso, in tutti i settori, un’accelerazione che non teme confronti neppure con il processo analogo della fine dell’Ottocento (nel 1998 le fusioni e acquisizioni hanno raggiunto il valore senza precedenti di 2500 mrd $; nel 1990 erano appena un quinto). Nel campo dell’entertainment, che rappresenta uno degli sbocchi commercialmente più promettenti di internet, la concentrazione è già un fatto. E probabilmente la fusione tra l’internet provider America On Line e la storica major americana Time Warner ha già creato uno dei 3 o 4 grandi attori che si spartiranno il mercato mondiale nei prossimi decenni. Azzardiamo una conclusione: la new economy non soltanto non rappresenta un ritorno alla “fase eroica” del capitalismo concorrenziale, ma, al contrario, rappresenta una tappa decisiva nel processo di concentrazione del capitale.

Dogma n. 4. La “New Economy” è basata sulle idee e sul “capitale umano”, anziché, come la “Old Economy”, su materie prime e capitali.
Di questo dogma esistono due varianti principali:
a) il fattore produttivo decisivo della NE è rappresentato dall’“informazio-ne”, anziché da materie prime, lavoro e capitali. A questa pensata deve la sua notorietà il prof. Rœmer, della Stanford University. Per un marxista è evidente che attribuire capacità produttiva all’“informazione” in quanto tale (ossia a prescindere dal lavoro umano che la attiva, se ne appropria, la trasforma...) è una sciocchezza, esattamente come sostenere che i mezzi di produzione materiali (le macchine) abbiano capacità autonoma di creare valore.
b) il fattore produttivo decisivo della NE è rappresentato dal “capitale umano”, anziché da materie prime e capitali. Questa variante o è una tautologia, o esprime un concetto sbagliato e mistificatorio. È una tautologia se designa il fatto che al centro del processo di produzione del valore c’è il lavoro umano: “conservare valore aggiungendo valore - diceva già Marx - è una dote di natura della forza-lavoro in atto, del lavoro vivente” - e solo di esso [ivi].
Ma quando si parla di “capitale umano” si intende dire qualcosa di diverso. In genere due cose:
a) Che l’“idea imprenditoriale” e/o la “capacità manageriale” possiedono oggi una forza di attrazione di capitali sconosciuta in passato e rappresentano la vera ricchezza di una società, per il fatto di conquistare la “fiducia” degli investitori. Il ruolo della “fiducia” nel finanziamento delle imprese è così poco new da essere stato teorizzato, all’inizio del nostro secolo, da J.P. Morgan. La verità è molto più semplice: oggi esiste una maggiore disponibilità di capitali per avviamenti di nuove imprese nel settore Ict, trattandosi di un settore con margini di profitto (per il momento) elevati.
b) Che il “capitale umano qualificato”, in quanto detentore delle “competenze distintive” che rendono forte l’impresa, non può essere più assimilato alla forza-lavoro tradizionale.
Ora, se si afferma che tra la forza contrattuale di un ingegnere e quella di un operaio-massa esiste una differenza, si dice un’ovvietà. Il punto è però che a partire da questa ovvietà si conclude (del tutto arbitrariamente) che oggi non è più vero che un lavoratore venda come una merce l’uso della propria forza-lavoro [significativo in proposito l’articolo di S. Vaccà, New Economy, sindacato a una svolta, in Il sole 24 ore, 8 giugno 2000]. Il fatto di ostinarsi a negare l’evidenza su questo punto conduce a situazioni comiche. Come quando Giacomo Becattini si affanna a spiegare che “il cittadino-lavoratore che possiede capitale umano può cederne il servizio, ma non può esserne espropriato a meno di un ristabilimento della schiavitù”. Il “servizio” è per l’appunto l’uso della forza-lavoro, e in effetti il modo di produzione capitalistico è diverso dal modo di produzione schiavistico. E con questo?
Una novità, a volerla cercare, per la verità c’è: e consiste nel fatto che, a differenza di quanto accadeva nell’old capitalism, oggi un lavoratore assunto dalla Microsoft deve sottoscrivere una clausola con la quale si impegna, in caso di dimissioni o di licenziamento, a non accettare un posto di lavoro in una ditta concorrente per almeno un anno. Il capitale in questo modo non solo si appropria del valore d’uso della forza-lavoro, ma anche del diritto ad impedirne la libera disponibilità da parte del lavoratore dopo la cessazione del rapporto di lavoro e sino a quando il “capitale umano” perderà il suo valore.
Per il resto, se si esaminano i contratti di lavoro delle aziende della new economy, è tutto molto old, e sarebbe arduo sostenere che essi rispecchino una nuova centralità del “capitale umano”. Omnitel e Infostrada applicano il contratto dei metalmeccanici, lo stesso fa e.Biscom (che inoltre si giova di un numero imprecisato di “consulenti”, ossia “lavoratori atipici” e precari). Altri il contratto del commercio. Per non parlare delle newsletter e dei vari siti informativi sulla rete, che evitano sistematicamente di adottare il contratto dei giornalisti. Ma su questo tema varrà la pena di tornare in una futura occasione, anche alla luce del recentissimo contratto per le telecomunicazioni. Che, tanto per cominciare, ha ridotto i minimi salariali al livello del contratto dei metalmeccanici (più bassi, ad es., dei minimi praticati in Telecom).

Dogma n. 5. La capitalizzazione di borsa riflette le prospettive delle aziende della New Economy. Più in generale, i corsi azionari non sono sopravvalutati, ed anzi continueranno a crescere.
“Credete di aver visto tutto? Ma nel futuro degli Stati Uniti c’è una crescita del 4% all’anno per i prossimi vent’anni; l’indice Dow Jones salirà dall’attuale livello di meno di 10 mila a 50 mila entro il 2010, e a 100 mila entro il 2020” [E. Sassoon, Siamo entrati nell’era della crescita illimitata, in Il sole 24 ore, 5 aprile 2000]. Sembra il delirio di un folle, e in effetti lo è. Chi parla, però, è un ascoltato guru della New Economy, il californiano Kevin Kelly, tra i fondatori della rivista Wired e autore del libro New Rules for the New Economy.
Proviamo a rispondere con l’aiuto di qualche cifra e di qualche fatto.
Il rapporto tra i prezzi delle azioni e gli utili delle imprese che compongono l’indice Standard & Poor’s, nel 1929, alla vigilia della Grande Crisi, aveva raggiunto quota 33. Nel marzo di quest’anno, prima della (prima) correzione dei prezzi delle azioni americane, era arrivato a quota 44. L’obiezione dei new economists, quando si citano queste cifre, è che i criteri tradizionali di valutazione delle imprese non valgono più nel mondo fatato della New Economy, ed in particolare dei titoli tecnologici: i prezzi di queste azioni, infatti, incorporerebbero le previsioni di strabilianti utili futuri. Più che di “previsioni” si potrebbe parlare di “scom_messa”, vista l’assenza del benché minimo accordo tra gli analisti sui parametri da utilizzare.
Così può succedere che un’impresa belga, nel prospetto informativo che accompagna la quotazione del titolo, scriva che “il prezzo di emissione non fa alcun riferimento a qualsivoglia valore”[!]. O che un’impresa americana si sia quotata al Nasdaq, e abbia avuto in quattro giorni una performance del 230%, semplicemente dichiarando nel proprio sito internet di essere “una società con tante idee e con l’intenzione di investire nella new economy e nella tecnologia”. In Italia l’ing. De Benedetti è riuscito in un’impresa simile quotando la sua Cdb Web Tech, come ben sanno i malcapitati risparmiatori che hanno visto scendere le quotazioni della società di oltre il 40% rispetto al prezzo di collocamento.
Il risultato di tutto questo è paradossale: nel 1999 a Wall Street le azioni delle aziende con un bilancio in perdita hanno avuto un rialzo medio del 52%, mentre quelle delle società con un bilancio in utile hanno subito un ribasso del 4%. Ancora: l’internet provider America On Line quota quanto l’intero settore dei trasporti americani (linee aeree, ferrovie, traghetti...) - ed è precisamente questa elevata capitalizzazione che gli ha consentito di acquisire la Time Warner - , il motore di ricerca Yahoo! più della General Motors.
Non c’è bisogno di aggiungere altro, per lasciare il signor Kelly alle sue farneticazioni. La bolla speculativa c’è, ed è ancora tale nonostante la correzione successiva ai massimi del marzo scorso. Il problema non è di sapere se scoppierà, ma di capire come e quando (gli uffici studi di molte banche questo problema se lo stanno ponendo molto concretamente ...). Una cosa è certa: gli effetti non saranno di poco conto. Basti pensare al fatto che oggi investe in borsa il 50% della popolazione americana. Nel 1929 era appena il 2% ...


2. Oltre lo specchio deformante dell’ideologia

Per un’analisi marxista della situazione economica attuale
I risultati della disamina che precede non sono confortanti. Ma in fondo non c’è di che meravigliarsi: ad ogni fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico è corrisposta una sua trasfigurazione ideologica. Il fatto grave è che questa ideologia sia stata acriticamente fatta propria dalla sinistra europea ed italiana, che non fa ormai il benché minimo tentativo di andare oltre la superficie dei fenomeni e di analizzare nel concreto le vere trasformazioni che avvengono sotto i suoi occhi. Con il risultato, per quanto riguarda in particolare il nostro Paese:
a) di coltivare l’impossibile sogno di riproporre il “modello americano” e di appiattire su questo obiettivo il proprio programma politico;
b) di sostituire il solidarismo cattolico nelle sue forme più retrive alla tradizione delle battaglie per l’egua_glianza, la carità per i “deboli” alla lotta per mutare i rapporti di forza tra le classi (vedi l’ingiuriosa trasformazione della Festa del Primo Maggio in una messa cantata);
c) e - last but non least - di appoggiare con esemplare metodicità, come ha fatto il governo D’Alema con la costante complicità della Banca d’Italia, i centri di potere più tradizionali del capitalismo italiano (un caso per tutti: la resurrezione di Mediobanca).
Se tutto questo è vero, la priorità, per chiunque voglia mantenere un atteggiamento critico appena decente nei confronti dello “stato di cose esistente”, è certamente quella di non credere alle “favole”. Ma, al tempo stesso, di cercare di capire quali processi e mutamenti reali del modo di produzione capitalistico stiano avvenendo sotto i nostri occhi.
Quanto segue è un primo, sintetico e schematico contributo in questa direzione (è appena il caso di aggiungere che un’analisi approfondita della situazione economica attuale non potrà che essere il frutto di una riflessione collettiva e di lunga lena).
Proverò pertanto ad esporre per punti gli aspetti che a mio giudizio caratterizzano la situazione economica attuale (e le sue prospettive di breve-medio periodo), come determinata dagli sviluppi e dalle applicazioni delle Ict (oltreché dall’aumento dell’interscambio di beni e servizi a livello mondiale).

2.1. Abbattimento dei costi di circolazione
Sotto questo capitolo rientrano, a vario titolo:
2.1.1. l’enorme sviluppo delle transazioni finanziarie on-line.
Lo sviluppo dei sistemi elettronici di pagamento, del trading-on-line, l’effettuazione delle transazioni finanziarie in genere (flussi valutari, trasferimento e in titoli, ecc.) annulla potenzialmente, e già minimizza in misura considerevole, la variabile tempo nelle transazioni. In altri termini, viene abbreviato il tempo di circolazione del capitale.
2.1.2. l’accorciamento della catena distributiva nella fornitura di beni e servizi. Lo sviluppo delle vendite on-line, il cosiddetto settore del business-to-consumer, non si limita a creare canali distributivi alternativi a quelli tradizionali, ma accorcia oggettivamente, e in misura significativa, la catena degli intermediari. È questo un risultato immediato dell’automazione del processo distributivo (e talvolta dei prodotti stessi), che consente di realizzare direttamente e in via automatica un numero sempre maggiore di funzioni prima demandate ad intermediari.
Gli effetti più appariscenti riguardano già oggi i prodotti finanziari ed assicurativi: ad esempio, nei giorni scorsi la Lloyd 1885 (la società di vendita diretta della Ras assicurazioni) ha annunciato di aver superato i 100 mila clienti (via telefono o via internet); in precedenza queste polizze dovevano essere stipulate da un agente assicurativo. Ma è verosimile pensare che la crescita delle vendite on-line possa colpire pesantemente, in un futuro prossimo, anche altre categorie di intermediari: dal settore della distribuzione (non a caso alcune grandi catene distributive stanno giocando d’anticipo stabilendo partnership con siti di vendita on-line) a quello degli agenti immobiliari (un settore che in Italia è ancora molto frazionato), per finire ad alcune categorie di liberi professionisti (è presumibile, ad esempio, che i commercialisti si vedano sostituiti, per una parte della loro attività, da procedure automatizzate di calcolo, ecc.).
2.1.3. la regolazione con mezzi elettronici dei rapporti contrattuali tra produttori o subfornitori.
Lo sviluppo delle aste on-line, del settore del business-to-business, consen-te di effettuare direttamente transazioni tra produttori e subfornitori. Anche in questo caso, come nei precedenti, i tempi e i costi della circolazione sono abbattuti, talvolta in misura drastica. Questo abbrevia il processo di valorizzazione del capitale, realizzando una delle tendenze di fondo del modo di produzione capitalistico. In che rapporto sta l’abbattimento dei costi di circolazione con l’abbassamento dei costi di produzione? Vi è senz’altro un rapporto indiretto: se, attraverso un’asta on-line, la Gm riduce il costo di acquisto degli ammortizzatori del 15% (semplicemente approvvigionandosi da un subfornitore che pratica prezzi più bassi), così facendo sarà in grado di ridurre anche il costo di produzione dell’automobile assemblata. Saranno abbassati, in altri termini, quelli che Marx definisce come i “falsi costi di produzione”, ossia quei costi che derivano da diseconomie esterne all’impresa.
Tutto qui? Non sarebbe poco, ma forse non è sufficiente a spiegare i tassi di crescita attesi per il business-to-business (si parla di un fatturato di 1300 mrd $ nel 2003 contro i 43 del 1998). E neppure il susseguirsi di accordi ed iniziative in questo campo. Citerò tre esempi:
a) la piattaforma di commercio elettronico lanciata dalla Enron, una delle più grandi compagnie mondiali nel settore dell’energia.
b) l’accordo tra i leader del commercio siderurgico internazionale per sviluppare un mercato integrato dell’acciaio a livello mondiale attraverso internet;
c) il portale sviluppato da GM e Fiat per regolare via internet i rapporti con i fornitori.
Ad ognuno di questi modelli di business-to-business corrisponde un obiettivo differente:
a) nel caso della Enron si tratta semplicemente di diversificare le attività, spostandosi da un’attività che genera profitti decrescenti (il mercato dell’energia è, come si dice in gergo, “commoditizzato”) ad altre che promettono profitti maggiori.
b) il secondo caso si presenta all’apparenza come un tentativo di riduzione dei costi attraverso una standardizzazione (di procedure d’acquisto e vendita) a livello di comparto; ma, più probabilmente, si configura come un accordo di cartello, finalizzato, ad esempio, ad escludere nuovi competitori o ad assoggettare altri che già esistono.
c) il terzo caso rappresenta un tentativo di ridurre i costi di approvvigionamento, razionalizzando la gestione degli acquisti (che per la Fiat rappresentano il 60% dei costi di produzione) e selezionando i subfornitori. Risultato: i sub-fornitori che non riusciranno a reggere la competizione basata sul prezzo usciranno dal mercato e il mercato delle subforniture si concentrerà.
In tal modo sviluppo del business-to-business ci racconta probabilmente la vera storia, la storia esoterica della New Economy, ben diversa - se non di segno opposto - rispetto a quella essoterica che ci raccontano i giornali e la pubblicità.

2.2. Ristrutturazione produttiva e conseguente concentrazione
Attraverso l’“economia della rete” sta in effetti passando un gigantesco processo di ristrutturazione produttiva su scala mondiale.
Di questo processo fa certamente parte la
2.2.1. Riorganizzazione produttiva delle aziende e l’abbassamento dei costi di produzione
Questo è reso possibile dall’utilizzo di sistemi più efficienti di comunicazione all’interno delle aziende (Intranet aziendali), così come da forme di utilizzo della forza-lavoro che riducono l’impatto di esternalità negative e abbreviano il ciclo di produzione (pensiamo al telelavoro e alla riduzione delle diseconomie derivanti dal traffico nelle grandi città; o alla possibilità di lavorare a ciclo continuo grazie al collegamento in rete di stabilimenti collocati in diversi continenti). In generale, tutto il ciclo di progettazione-creazione-ven_dita dei nuovi prodotti potrà essere considerevolmente abbreviato (ferma restando la necessità, che troppo spesso i cantori della New Economy dimenticano, che la domanda di beni e servizi non conosca cadute ...).
Si tratta di uno scenario realistico, anche se - come abbiamo visto esaminando l’economia americana - non riguarda tanto il presente, quanto piuttosto un (prossimo?) futuro. Ma non è e non sarà questa la forza trainante né il fattore decisivo della riorganizzazione della produzione su scala mondiale che è già in atto. Le sue componenti sono altre, e si chiamano:
2.2.2. Diversificazione produttiva
Imprese blasonate si spostano da settori in cui i margini di profitto sono ormai insufficienti, o a seguito della maturità del settore (vedi Enron), o a seguito di processi di concentrazione già avvenuti. È il caso della Fiat, che, persa la battaglia per una posizione non ancillare nella competizione tra i grandi produttori mondiali di automobili, mentre da un lato intende utilizzare le nuove tecnologie per risparmiare sui costi dei fornitori nel suo business tradizionale, dall’altro tenta di (ri-)entrare nelle telecomunicazioni.
2.2.3. Accordi di cartello attraverso la gestione di canali distributivi elettronici.
È il caso citato più sopra dei leader nel commercio siderurgico (qualcosa di simile sta accadendo probabilmente anche nel caso del mercato immobiliare italiano).
2.2.4. Concentrazione attraverso la riduzione del numero dei subfornitori.
“La catena dei fornitori viene sconvolta, ecco la conseguenza più grande che stiamo già osservando”: così G. Vickery, autore dell’ultimo rapporto Ocse sulla tecnologia dell’informazione [cit. in S. Cingolani, Dalla rete al baratto, in Corriere della Sera, 6.4.2000]. La dinamica è: dalla accentuata concorrenza basata sul prezzo alla riduzione del numero dei subfornitori (concentrazione dei mercati delle subforniture).
2.2.5. Concentrazione attraverso fusioni verticali.
Questo processo (l’acquisizione di subfornitori e/o di distributori) può ben rappresentare uno degli sbocchi del punto precedente. Non è diverso nella sostanza quanto sta avvenendo nel cuore della cosiddetta New Economy, ossia nelle filiere delle telecomunicazioni e degli internet service provider da un lato, dell’edu_tain_ment (educazione ed intrattenimento) dall’altro. L’acquisizione di Time Warner da parte di Aol rappresenta un caso di scuola da questo punto di vista: il fornitore di accessi alla rete si compra il produttore di contenuti, in vista della riduzione prospettica dei margini di profitto nel suo core business di partenza. In fondo, in piccolo, questo è il ragionamento che presiede anche alla fusione tra Tin.it e Seat nel nostro Paese. L’esito di questo processo condurrà presumibilmente ad un pugno di grandi corporation a livello mondiale, che forniranno accessi e contenuti in un contesto oligopolistico.
2.2.6. Concentrazione attraverso fusioni orizzontali.
In altri termini, acquisizioni dei diretti concorrenti: Vodafone-Airtouch-Mannesmann è il più rilevante esempio europeo a tale riguardo. Ma si tratta di un processo che è solo agli inizi, e che condurrà in tempi bre_vi poche imprese (in Europa presumibilmente 2 o 3) a spartirsi il gigantesco traffico delle comunicazioni a livello planetario. Un business dal valore astronomico, in quanto controllerà gli accessi e la trasmissione (voce, ma soprattutto dati) delle imprese su scala mondiale (per inciso, la telenovela dell’asta per le licenze Umts fa parte di questa partita).
A questo livello tornerà a farsi sentire, su scala assai più ampia, quell’imprescindibile necessità di economie di scala che nei primi decenni di questo secolo aveva reso necessari i “monopoli naturali” nella telefonia su scala nazionale, all’epoca esercitabili soltanto da società pubbliche. Con la differenza che oggi il capitale è sufficientemente forte da fare a meno del (benevolo) aiuto dello Stato, e le infrastrutture di questa nuova fase dell’economia se le costruisce da sé, o, per essere più precisi, con i capitali dei fondi pensione e dei fondi comuni di investimento.
Così il cerchio si chiude. Dal monopolio al monopolio, in un percorso su scala allargata che vede una sempre maggiore importanza, sia pure in forme nuove, del capitale finanziario. La fede nella “temporaneità" di queste nuove forme di rendita monopolistica da parte dei Moloch delle telecomunicazioni che si vanno creando, la lasciamo - per l’appunto - agli uomini di fede. Ossia agli adepti, vecchi e nuovi, della religione del mercato.