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Sull'argomento FIAT vedi anche ---->
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Dalla crisi della FIAT al progetto Italia
La crisi della FIAT sta spingendo uomini politici e commentatori a sfornare ricette spesso inverosimili. Qualche volta ridicole, come la nazionalizzazione proposta da Fausto Bertinotti: che è peraltro una spia ulteriore della progressiva involuzione di gran parte della sinistra italiana. Incapace di confrontarsi con i problemi del mondo contemporaneo, dalla globalizzazione al terrorismo ai nuovi equilibri internazionali, un'area crescente della sinistra fa ricorso a vecchie ricette, dall'antiamericanismo in politica estera alle nazionalizzazioni in politica economica.
E invece bisogna dire con chiarezza che la crisi della FIAT è ormai irreversibile. Ha origini lontane, risale agli anni in cui si pensò - sbagliando - che sarebbe bastato il ricorso alla rottamazione per rilanciare l'azienda torinese. E invece la rottamazione servì solo a rinviare i problemi e, col tempo, ad aggravarli.
Oggi il governo e i vertici aziendali possono fare, cooperando tra loro, solo due cose: accelerare l'attuazione degli accordi con la General Motors e creare, nei limiti del possibile, un atterraggio morbido per chi perderà il posto di lavoro. Tutto il resto è fantasia o cattiva politica.
Ma il "caso FIAT" fornisce un insegnamento e impone una riflessione. Tra le cause della crisi dell'azienda torinese - che è soprattutto crisi di prodotto - possiamo annoverare tranquillamente la mancata ricerca e, di conseguenza, l'insufficiente innovazione di questi anni. Senza ricerca e senza innovazione, nell'economia globalizzata, non c'è futuro.
Il caso FIAT dovrebbe essere un avvertimento - forse il più evidente e forse anche l'ultimo - per chi continua a considerare la ricerca e l'innovazione un aspetto residuale e marginale del sistema-paese. Fu così, nel passato decennio, con i governi di centrosinistra, continua purtroppo ad essere così, almeno per ora, con il governo di centrodestra.
La riflessione riguarda il futuro dell'economia italiana. Che perde un altro dei suoi protagonisti, anzi il principale protagonista. La grande impresa italiana ha mancato le occasioni per internazionalizzarsi e riconvertirsi verso settori meno maturi. E oggi la crisi accelera tutto, le difficoltà delle aziende come i tempi per affrontarle.
Il sistema-paese è in affanno. C'è chi parla di declino industriale. E sicuramente l'Italia perde progressivamente posizioni sui mercati mondiali; ha realizzato negli ultimi dieci anni un incremento del prodotto interno lordo nettamente inferiore alla media europea e lontanissimo da quello degli Stati Uniti, e - quel che più conta - investe generalmente poco e non investe affatto sul futuro.
La condizione dell'Italia di oggi ricorda - per quanto possano valere i paragoni - quella della Gran Bretagna della fine degli anni settanta, prima che la rivoluzione tatcheriana ne modificasse in profondità, anche se con rudezza, le strutture: prigioniera delle corporazioni, con i settori tradizionali in declino, con una scarsa o insufficiente presenza in quelli innovativi. Il contrario della Gran Bretagna di oggi.
Serve una riconversione profonda. Il patto per l'Italia, anche se importante, rappresenta pur sempre un'intesa per gestire le risorse esistenti, che oltre tutto sono sempre più ridotte. Serve un progetto per il futuro, un'idea di quello che il nostro paese può e vuole essere nell'era della globalizzazione. Anche se questo progetto dovesse comportare l'abbandono di certezze acquisite (e confortanti) per imboccare strade meno note e più impervie. Altrimenti il declino sarà irreversibile.
Roma, 9 ottobre 2002
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tratto dal sito web del