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    Post Il Volto Santo di Manoppello

    tratto dal sito: www.voltosanto.it

    Le varie tappe del Volto Santo prima del suo arrivo a Roma

    Prendendo le mosse dalla perfetta sovrapponibilità del volto della Sindone con il volto di Manoppello, si è indotti ad ammettere che sia l’immagine sul velo che quella sulla Sindone si siano formate nello stesso tempo.

    Ora non c’è altra possibilità di spiegazione delle tracce sulla Sindone, che fanno intravedere il corpo di un uomo crocifisso e morto secondo il racconto dei Vangeli, che non quella di ammettere che queste tracce si siano formate durante il soggiorno di questo corpo nella tomba. Allora anche il Volto Santo di Manoppello si è formato nella tomba di Gesù a Gerusalemme quando esso fu posto con tutta probabilità in fretta sopra la Sindone.




    Sul sottilissimo sudario con la finissima immagine, conservata oggi nel Santuario presso Manoppello, ritrovato nella tomba ormai vuota nella mattina di Pasqua, possiamo fare due ipotesi. La prima suppone che lo abbia avuto la Madre Maria, cui spettava quasi di diritto; lei, così possiamo pensare, lo portò con sé. Da lei sarebbe passato a Giovanni, quindi prima ad Efeso e poi in qualche altra località dell’Asia Minore. Oppure, seconda ipotesi, sarebbe rimasto unito alla Sindone, separato da essa in un tempo molto posteriore come io ho opinato nel mio libro “Das echte Christusbild”, del 1991. Se si segue la seconda ipotesi, allora, come scrive Giorgio Cedreno, nel 574 un’icona “acheiropoietos” viene trasportata da Camulia in Cappadocia a Costantinopoli. È un oggetto talmente simile che potrebbe trattarsi con grande probabilità dello stesso Velo che si conserva oggi nel Santuario abruzzese. Rimase a Costantinopoli fino al 705, quando l’immagine di Camulia sparì dalla capitale dell’Impero.
    L’immagine di Camulia è il primo oggetto che viene definita “acheiropoietos”, cioè non fatta da mani umane. In una poesia di lode del poeta Teofilatto Simocatta, scritta per la vittoria delle truppe bizantine nella battaglia presso il fiume Arzamon (586), ottenuta per la presenza dell’immagine, la descrive come “non dipinta, non tessuta, ma prodotta con arte divina”. Giorgio Piside lo chiama “prototipo scritto da Dio”. Ancora dopo la sparizione dell’immagine, Teofane (758-818) afferma che nessuna mano avrebbe disegnato quest’immagine, ma “la Parola creativa e formante tutte le cose ha prodotta la forma” di questa figura divino-umana.
    Tutte queste descrizioni dei poeti e storiografi bizantini si possono giustificare solo per la presenza di un unico oggetto: il Volto Santo di Manoppello. Anch’esso, come prima impressione, sembra essere una pittura, ma quando si esamina meglio, si scarta subito questa ipotesi.
    Allora essa potrebbe essere stata prodotta con la tecnica della tessitura, ma anche questa tesi non regge. Così si comprende la descrizione “non dipinta, non tessuta” dei poeti bizantini. Per una immagine come quella di Manoppello, che è totalmente trasparente e sparisce quasi del tutto quando viene posta contro il cielo, si deve escludere qualsiasi tecnica conosciuta per la produzione di un’opera artistica.
    L’immagine di Camulia, la prima “acheiropoietos” non sarebbe solo sparita da Costantinopoli, ma si sarebbe incamminata, via mare, verso la vecchia capitale dell’Impero, Roma.
    La gente a Costantinopoli raccontava che il Patriarca Germano avrebbe affidato l’immagine di Cristo alle onde del mare agli inizi dell’iconoclastia ed essa sarebbe giunta a Roma nel tempo del Papa Gregorio II.


    A Roma si parla di una “Acheropsita” che il Papa Stefano II avrebbe portato in processione quando il re longobardo Aistulfo assedia la città nel 753. Questa “Acheropsita” è il Volto Santo della Cappella Sancta Sanctorum del Palazzo lateranense dei Papi. È una icona sul cui volto si trovava incollata una tela dipinta con il volto di Cristo. L’ipotesi più attendibile è che il primo velo incollato fu proprio il Volto Santo di Manoppello.

    Non si poteva escogitare un miglior nascondiglio per un’immagine su un velo che sovrapporla ad un’icona. Così l’imperatore bizantino non avrebbe potuto mai scoprire il furto della sua “acheiropoietos” ed essa poteva sempre essere venerata nella liturgia pontificia. Quando gli imperatori bizantini persero pian piano il loro potere e il loro influsso sull’Italia, il Velo poté essere staccato di nuovo dalla sua icona, essere sostituito da un velo dipinto e trasportato nella cappella in San Pietro che il Papa Giovanni VII aveva fatto erigere poco dopo che l’immagine di Camulia sparì da Costantinopoli. Il primo Papa che non dovette più temere il potere dell’imperatore bizantino fu Innocenzo III. Egli promosse per la prima volta il culto e la venerazione del velo con l’immagine di Cristo, e questa volta il Velo fu chiamato “Veronica”, la vera icona di Cristo. Il titolo “Volto Santo” rimase all’icona lateranense.


    Questa è la storia più probabile del Volto Santo di Manoppello secondo le nostre conoscenze dei documenti e delle immagini acheropite. Rimane una questione aperta: come e quando i panni funebri, la Sindone e il velo di Manoppello, furono divisi.
    Come Mandilion di Edessa, la Sindone ha avuto il suo proprio percorso con il trasporto a Costantinopoli nel 944, il suo temporaneo smarrimento sin dalla crociata latina del 1204, e il suo riemergere dal buio dei tempi a Lirey, nella metà del Trecento.

    Il Volto Santo ha fatto il suo viaggio che noi abbiamo cercato di ricostruire da Gerusalemme a Efeso, da Efeso a Camulia in Cappadocia, da Camulia a Costantinopoli, da Costantinopoli alla Cappella Sancta Sanctorum del palazzo lateranense, da qui alla Cappella della Veronica in San Pietro in Vaticano, infine al Santuario di Manoppello. Durante questi viaggi lo stesso oggetto, sempre secondo la nostra ipotesi, ha cambiato nome diverse volte: da immagine “acheiropoietos” di Camulia, a “prototypos”, a “acheropsita” e “Volto Santo” della Cappella Sancta Sanctorum, a “Veronica” e finalmente di nuovo a “Volto Santo” in Manoppello. Questo percorso è una fondata ipotesi; l’identità del Volto Santo di Manoppello con la Veronica romana, però, è certezza.




    La Veronica e la Sindone

    Per quale motivo l’altro telo recante l’impronta di Gesù, un tempo esposto a milioni di credenti è oggi conservato in tanta segretezza?
    È ormai trascorso più di un secolo da quando Secondo Pia scattò la prima fotografia ufficiale della Santa Sindone di Torino il 28 maggio 1898. In diverse occasioni da quello storico momento milioni di persone hanno visto la Sindone da vicino, tutte lodevolmente e liberamente ammesse al cospetto di ciò che è indiscutibilmente l’oggetto più sacro di tutta la cristianità, il telo che ha avvolto Gesù nella tomba, recante le straordinarie tracce del suo corpo e del suo sangue, ed ogni qualvolta è stato concesso il permesso di scattare nuove fotografie e ne sono stati facilitati gli studi.
    Ma cosa ne è della Sacra Veronica di Roma, l’unica altra somma reliquia che, si dice, rechi i segni dell’impronta di Gesù, apparentemente creata dal Suo volto quando una donna di Gerusalemme ne asciugò il sudore e il sangue mentre Egli avanzava a fatica verso il calvario?
    Storicamente sappiamo che in epoca medievale e rinascimentale, ogni volta che veniva proclamato un Anno Santo (generalmente ogni 25 o 50 anni o al volgere del secolo), la Veronica veniva esposta a milioni di pellegrini convenuti a Roma per vederla, in modo molto simile a quanto avviene oggi con la periodica esposizione della Sacra Sindone per coloro che visitano la città di Torino.
    Nell'Anno Santo 1450, per esempio, il numero di pellegrini fu così elevato che centosettantadue persone morirono durante un episodio nel quale il controllo sulla folla fu disastroso. Durante l'Anno Santo 1575, mentre la grande cupola di Michelangelo per l'attuale Basilica di S. Pietro era ancora in costruzione, sappiamo di trentamila pellegrini convenuti in Piazza S. Pietro in attesa che le porte si aprissero per la contemplazione. In quell'occasione, molti tra i presenti avevano viaggiato per centinaia di miglia solo per avere il privilegio di vedere questo altro telo presumibilmente impresso delle “vere sembianze" di Gesù.
    Tuttavia per ragioni che non sono mai state del tutto chiarite, da quando la Veronica è stata trasferita nella sua attuale collocazione - il pilastro sud-occidentale che sostiene la cupola di San Pietro, in una speciale cappella immediatamente dietro la balconata che sovrasta la statua di Santa Veronica - la possibilità per essa di essere pubblicamente osservata in qualche misura da vicino è misteriosamente svanita. Eccezion fatta per il rinchiuso mondo “dietro le scene" controllato dai canonici di San Pietro e dal loro organico per diritto ereditario, i Sampietrini, la cappella della Veronica è rigorosamente “off-limits” per il comune pubblico. E sebbene si dica che il telo sia stato mostrato dalla sua balconata durante l'Anno Santo 1950, ciò non rese certamente possibile vedere nulla dell'impressione che il telo pretende di recare. A tutt’oggi non esistono fotografie di pubblico dominio della Veronica, né in bianco e nero e né a colori, ed anche le richieste più formali e di alto livello per ottenere il permesso di scattarne una vengono rifiutate o ignorate. A cosa si deve tutto questo riserbo per questo telo in particolare, quando fotografie in bianco e nero o a colori dell'assai più sacra “Santa Sindone" sono da lungo tempo liberamente permesse?
    Al mistero si aggiungono i conflitti tra le pitture e le incisioni medievali della Veronica, che indicano in maniera massiccia come essa recasse l'impressione delle sembianze di Gesù di sudore e sangue, nello stesso modo della Sindone, e le sporadiche descrizioni verbali sul suo aspetto che abbiamo dalle poche persone cui in questo secolo è stato accordato il privilegio di un'osservazione privata del telo; per esempio, allo studioso tedesco monsignor Joseph Wilpert, nel 1907, venne concesso non solo di vederlo, ma anche di rimuovere due lastre protettive di vetro per poterla studiare più distintamente. Riferisce di aver visto solo “una sezione quadrata di materiale di colore chiaro, piuttosto sbiadito dal tempo, che recava due indistinte macchie marrone-ruggine, collegate l’una all’altra".


    L’artista d'arte liturgica a noi contemporanea, lsabel Piczek di Los Angeles, a cui la Veronica venne mostrata nel 1950, mentre stava lavorando ad un affresco per l'Istituto Biblico Pontificio, me la descrisse allo stesso modo, aggiungendo risolutamente: “Non avresti potuto scorgere alcun volto o lineamento, nemmeno il più debole indizio”.
    Tuttavia, se osserviamo la migliore copia sopravvissuta della Veronica, storicamente nota per essere stata prodotta nel 1617 da Pietro Strozzi, canonico di S. Pietro, autenticata dall’allora papa Paolo V° e ora conservata a Vienna presso la Schatzkammer dei Tesori Sacri e Secolari del Palazzo di Hofburg, vi è su questa un volto chiaramente visibile. Inoltre la regina polacca dell’inizio del XVII secolo, Costanza d'Austria, che aveva ricevuto una simile copia di Strozzi l'anno precedente, rilevava che “vi riconosceva le stesse sembianze del Sacro Volto di Nostro Signore e Salvatore di quelle impresse nel telo preservato con la somma universale venerazione nella sabauda Torino”.



    Storicamente, quindi, sarebbe di grande utilità conoscere se il telo della Veronica conservato in San Pietro rechi ancora, sebbene ora in modo impercettibile, una qualche copia del volto visibile sulla Sindone. Se davvero si trattasse dello stesso telo per vedere il quale i pellegrini si calpestavano l’un l’altro in epoca medievale, non potrebbe essere che nel corso degli anni del 1600 la sua immagine sia semplicemente sbiadita fino a diventare quasi invisibile? E se, come ha affermato qualcuno, ci fosse stato qualche mutamento clandestino nel corso del XVI secolo, così che l’originale sia quel telo simile alla Veronica - ancora esistente - che apparve a quei tempi a Manoppello, e fosse stato lasciato nella teca della Veronica solo un indefinito tessuto qualsiasi?



    Sarebbe ancora utile avere qualche migliore indicazione in merito alle origini della Veronica. Sebbene molti cattolici ritengano che la storia di Santa Veronica compaia nei vangeli, in realtà, la sua forma “ricevuta" (per esempio come rappresentata nelle Stazioni della Via Crucis), non è databile a periodi anteriori al medioevo e non vi è alcuna testimonianza di un telo "Veronica" come quello di Roma fino al 1011. Deve essere assai probabile, perciò, che la Veronica fosse una copia d’artista della Santa Sindone che era recentemente giunta a Costantinopoli nelle sembianze dell'Immagine di Edessa, e che la Veronica (come “vera icona” delle “vere sembianze" di Gesù) sia stata inviata a Roma come regalo dell'imperatore di Bisanzio in un qualche momento verso la fine del X secolo o all'inizio dell'XI. Qualunque sia la realtà dei fatti, sono comunque possibili solo supposizioni fino a quando la Veronica rimarrà inaccessibile a qualunque forma di scrutinio pubblico.


    Se, per esempio, l'immagine che una volta recava è semplicemente diventata invisibile ad occhio nudo, potrebbe nondimeno essere ancora recuperabile per mezzo dei raggi ultravioletti o di simili prove non distruttive, motivo che rende auspicabile l'autorizzazione per sottoporre il telo ad uno di questi test; perché, se potesse venire confer_mato che si tratta di una copia del volto della Sindone dell'XI secolo d.C., allora questo potrebbe diventare un ulteriore fortissimo apporto alla discussione sul fatto che la Sindone risalga ad un periodo assai precedente alla datazione attribuitale dall’esame al radiocarbonio. Nessuno può affermare che questo particolare momento non sia opportuno per l’apertura della Veronica. Vi è una lunga tradizione dietro all'esposizione della Veronica in occasione degli Anni Santi e difficile è pensare ad una occasione migliore della fine di un millennio. Ma, nonostante sia prossima l'esposizione nel corso del 2000 della Sindone, nulla è stato dichiarato a proposito di un'equivalente esposizione della Veronica.




    Quali siano le attuali condizioni del telo, (ed è largamente accettato il fatto che possa essere troppo fragile per sopportare i rigori di una esposizione convenzionale), il mondo intero non ha ancora nessuna fotografia per mezzo della quale studiarla.
    All'inizio del terzo millennio d.C. può ancora esserci una buona scusa per questo? Se la risposta è no, allora, nel nome del generale diritto di conoscenza, qualcuno responsabile della Veronica e del suo segreto santuario, dovrebbe dare disposizione - e con sollecitudine - per quella da lungo attesa esposizione al pubblico scrutinio...


    Il Volto della Sindone

    Il Volto Santo di Manoppello

  2. #2
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    Relatione Historica
    di P. Donato da Bomba (1640)



    "Nel tempo di Giulio II, Pontefice Romano, circa gli anni del Signore 1506, di Massimiliano terzo di questo nome fra gli Imperatori Austriaci, e di Ferdinando re di Napoli, della Spagna citeriore e ulteriore (fuorché del regno di Portogallo con le sue Indie orientali) Imperatore e conquistatore delle Indie occidentali per mezzo di Cristoforo Colombo italiano e dell’inclita Città di Genova nativo nel 1492, e Avo dell’ invittissimo Imperatore Carlo V per via di Madre, la quale fu Giovanna unica figliola della Regina Isabella e moglie del già detto Ferdinando, maritata con Filippo d’Austria e Figlio soprannominato Massimiliano III: dal quale Carlo poi sono discesi tutti gli altri Filippi, come legittimi Re e veri Signori ed eredi di tutti li sopraddetti Stati, Regni e Imperi, e in particolare del nostro Regno di Napoli; viveva in Manoppello, terra molto civile e ben situata, di tutte le cose necessarie all’umano vivere ricca e opulenta, nell’Abruzzo Citeriore, provincia del regno di Napoli, Giacom’Antonio Leonelli, dottore fisico e molto famoso nell’astrologia e altre arti liberali, come fanno fede certe sue opere manoscritte in carta pergamena, ma molto più famoso era nelle virtù morali e in quelle cose che appartengono al culto divino.

    Se ne stava un giorno Giacom’Antonio Leonelli in pubblica piazza e quasi sulla porta della chiesa matrice il cui titolo è di S. Nicola di Bari, in onesta conversazione con altri suoi pari; nel più bello del discorso vi arrivò un pellegrino da nessuno conosciuto, d’aspetto religioso e molto venerando, il quale,

    salutato che ebbe una così bella corona di cittadini, disse con termini di creanza e umanità al Dottor Giacom’Antonio Leonelli di dovergli parlare di una cosa segreta e a lui di molto gusto, utile e profitto. Tiratoselo cosi da parte sin dentro i liminari di essa chiesa di S. Nicola, gli diede un fardelletto e, senza svolgerlo, gli disse che si tenesse molto cara quella devozione, perché Dio gli avrebbe fatto molti favori e avrebbe sempre prosperato e nelle cose temporali e quelle spirituali. Preso Giacom’Antonio il fardelletto, appartatosi verso il fonte dell’acqua benedetta, cominciò ad aprirlo. Vista quella Sacratissima Immagine del Volto di Cristo Signore nostro, restò, a prima vista, alquanto spaventato, prorompendo in tenerissime lacrime che poi raffreddò per non apparire così ai suoi amici.
    Ringraziando Dio di un tanto dono, riavvolse l’immagine come era prima, si rivolse poi allo sconosciuto pellegrino per ringraziarlo e accoglierlo nella sua casa, ma non lo vide più. Spaventato, quasi balbettando, domandò agli amici, i quali affermarono di averlo veduto entrare con lui in chiesa, ma non averlo visto uscire da essa. Pieno di meraviglia, lo fece diligentemente cercare dentro e fuori di Manoppello, ma non fu possibile rintracciano, onde tutti giudicarono quell’uomo sotto l’aspetto di pellegrino essere un Angelo del cielo o altro Santo del Paradiso.
    Con questo fermo e vivo sentimento di un angelo mandato da Dio a fargli tale dono, ringraziando Dio, accompagnato dai sopraddetti amici, pieno di estrema allegrezza, tornava a casa, accorrendo ogni sorte di gente di detta terra di Manoppello per vedere miracolo sì bello.
    Per riverire poi sì bella e santa immagine e, per quanto possibile, rendersi grato a Dio del beneficio ricevuto, fece subito il Dottor Giacom’Antonio aprire nella propria camera e luogo di studio una finestra nel muro in forma di armadio con le sue porticine e chiavi ben aggiustate e ivi la pose e tenne con grandissima devozione e riverenza, facendovi ardere sempre di giorno e di notte una lampada; e con tanto gran zelo, acciò non gli fosse rubata, che mai vi faceva entrare persona alcuna, neanche la propria moglie e i figli se non quando vi era lui; e per meglio assicurarsene, uscendo di casa, serrava detta camera, e portava con se sempre le chiavi di quella. Lo stesso fecero poi i suoi eredi e discendenti per lo spazio di cent’anni e poco più. E fu cosa notata da tutti che, conforme alla promessa fatta dal pellegrino, o, per dir meglio, da quell’angelo del cielo o altro Santo del Paradiso, non solamente si mantenne in piedi quella famiglia di Leonelli conforme al suo grado, ma andò sempre crescendo in beni di fortuna e in favori spirituali. Accadde poi che i pronipoti di Giacom’Antonio, volendosi dividere i beni di quello, essendovi delle controversie, un certo soldato e uomo d’armi chiamato Pancrazio Petrucci, il quale aveva preso per moglie una donna discendente della famiglia Leonelli, chiamata Marzia, ancora vivente, prendendo come pretesto i diritti della moglie, entrò violentemente in casa Leonelli e prese la Ss. Immagine da lui tanto desiderata. E fu notato da tutti che, uscita la SS. Immagine dalla casa Leonelli, quella famiglia andò in rovina.
    Ma più in rovina andò il Pancrazio, forse non tanto perché l’aveva presa e con ragioni pretestuose, quanto perché non la tenne poi con quella devozione e decoro come doveva. Presa che l’ebbe, non la ripiegò con quella diligenza e devozione come si doveva a una cosa tanto miracolosa e divina, ma tutta strapazzata e malamente ripiegata se la portò nella propria casa, ivi tenendola con tanta poca riverenza e stima. Ciò nonostante si conservò tutta bella e intatta, benché molto aggninzita e denigrata; cosa che dovette molto dispiacere a Dio.
    Ma poiché le cose di questo mondo sono più variabili della luna, accadde che il detto Pancrazio che aveva sottratto la Ss. Immagine, nitrovandosi carcerato nella Regia Udienza della Città di Chieti, bisognoso di denari, scrisse alla moglie Marzia che vendesse o impegnasse qualsivoglia cosa di casa, in particolare gli accennò la Ss. Immagine (diceva questo perché sapeva che molti la desideravano), e gli mandasse denari per uscire dalle carceri. Andò dunque la buona e semplice donna al Dottor Donat’Antonio De Fabnitiis della medesima terra di Manoppello (uomo non meno dotato di religiosa pietà che il sopraddetto Giacom’Antonio Leonelli), e portandogli la Ss. Immagine lo pregò da parte di suo marito che se la comprasse, o se la pigliasse in pegno finché suo marito ritornasse, ponendo in sua podestà il prezzo e la quantità di ciò che dare gli voleva; il quale, desideroso di avere in casa sua sì grande e prezioso tesoro, diede alla Donna quattro scudi corrispondenti a circa lire venti correndo gli anni del Signore 1618, e prese la Santissima Immagine senza vederla, né svolgenla. Partita poi la donna con i quattro scudi, e, disbnigato gli affari in cui era occupato nell’ora del contratto, tutto allegro e festoso l’avventurato Donat’Antonio per sì bella compra, spiegò l’Immagine la quale era nel mezzo di un velo quadrato e tutto trasparente per la rarità della tessitura, dalla grandezza di quattro palmi da ogni lato, trovò che il velo, per essere stato malamente tenuto e conservato, dopo che fu pigliato dalla casa Leonelli, era tutto stracciato, lacerato, e da tignole e tarli mangiato, totalmente corrotto, che quasi era ridotto tutto in polvere; e quelli pochi stracciarelli rimasti pendenti, non aspettando esser toccati, da se stessi cadevano in terra, fuorché la SS. Immagine, la quale sebbene era alquanto denigrata, e molto aggrinzata, era nondimeno nel resto tutta bella, intatta, e senza corruzione alcuna. Restò quasi attonito lo spirituale mercante a prima vista, e non poco nincrescimento ebbe per la perduta spesa dei quattro scudi che aveva fatto in cosa così corrotta e mal tenuta; e postala da parte, come cosa inutile e da niente, pensava (come se fosse stato burlato) di restituirla a chi venduta glie l’aveva, e riavere i suoi danani.
    Stando dunque in simili pensieri, vi capitò il Padre Presidente del convento dei PP. Cappuccini, che allora si fabbricava in detta terra di Manoppello, il P. Clemente da Castelvecchio Sacerdote, persona molto sagace e accorta, col quale dolendosi di sì bella mercanzia che fatto aveva, gli scoprì anche i pensieri che aveva di restituirla, per riavere i suoi denari. Il Padre, inteso il caso, e vista la bellezza e la qualità dell’Immagine s’intenerì tutto di dentro, s’inginocchiò, l’adonò, e con molta efficacia esortò Donat’Antonio a non restituirla, che se quella persona avesse voluto più denari più glie ne avesse dato, non trovandosi al mondo prezzo equivalente per pagana; e che il restar la Ss. Immagine così bella e dalla corruzione intatta era stata cosa miracolosa e particolare provvidenza d’Iddio. Per lo cui sano e spirituale consiglio, quietandosi il Dottore, si chiamò contento, e poco ancora gli parse il prezzo delli quattro scudi. Onde l’istesso P. Clemente, pigliate le forbici, tagliò via tutti quelli stracciarelli d’intorno, e punificando molto bene la SS. Immagine dalle polveri, tignuole e altre immondizie, la ridusse alla fine come adesso appunto si trova.
    Il sopraddetto Donat’Antonio, desideroso di godersi quella Ss. Immagine con maggior devozione la fece stendere in un telaio di legno, con cristalli dall’una e dall’altra parte, ornata con certe cornicette e lavori di noce da un nostro Frate Cappuccino chiamato Frate Remigio da Rapino (non fidandosi di altri maestri secolari).
    E qui mi occorre anche dire una cosa parimenti notata da tutti i più giudiziosi e vecchi di Manoppello, che come andò subito in rovina la Casa di Giacom’Antonio Leonelli, persa che ebbe la già detta SS. Immagine, con quella di Pancrazio Petrucci, che tolta e venduta l’aveva, cosi la casa del Dottor Donat’Antonio De Fabnitiis che la comprò, per averla tenuta con maggior devozione e fra le cose più care e preziose, prosperò sempre di bene in meglio. Considerando il pietoso e zelante Dottore Donat’Antonio che maggior decoro sarebbe stato della SS. Immagine restarsene in qualche devota chiesa, né resistendo a tale impulso celeste e divino (dopo aver chiuso l’orecchio alle richieste del clero e di altri religiosi di detta terra che con istanza la richiedevano), la diede al nostro convento dei cappuccini, ove se ne resta con molta devozione di quel popolo e gusto particolare di quei Padri che mai si saziano di riverinla"



    Invenzione e verità nella "Relatione historica" sul Velo di Manoppello
    di P. Heinrich Pfeiffer


    Uno dei Cappuccini, P. Donato da Bomba, avviò dal 1640 delle ricerche e compose una "Relatione historica" che viene conservata attualmente nell’Archivio Provinciale dei cappuccini nel Convento di Santa Chiara dell'Aquila.
    Sia il documento di donazione che la Relazione vennero autenticati per volere dei Cappuccini con lettura pubblica, nel municipio, da un notaio, nell’anno 1646.
    Questa Relazione riferisce che il Velo venne portato a Manoppello da uno sconosciuto nell’anno 1506 e consegnato ad un notabile del luogo, tal dottor Giacomo Antonio Leonelli. Si narra che quest’ultimo, nella chiesa di San Nicola, abbia aperto l'involto e trovato in esso il Velo. Fa per ringraziare lo sconosciuto, ma questi era sparito senza lasciare nessuna traccia. Il Velo con l’Immagine è stato per circa un secolo ereditato nella famiglia Leonelli, finché venne destinato come regalo di nozze ad una componente femminile della famiglia, Marzia Leonelli; ma non realmente donato.
    Nell’anno 1608 il marito di questa donna, Pancrazio Petrucci, un soldato, trafugò dalla casa di suo suocero il Velo. Pochi anni più tardi, questa donna lo rivendette per quattro scudi al dottor Donato Antonio De Fabritiis per liberare il marito, prigioniero a Chieti.
    Il Velo venne donato dai De Fabritiis ai Cappuccini. Questo riferisce la Relazione historica.
    Se si legge, però, con attenzione la "Relatione historica" si può constatare come sia composta da due parti: un inizio più narrativo e un nucleo con date storiche attendibili. L'inizio dà l'impressione di tutta una costruzione maestosa. Vengono elencati tutti i governanti coronati del 1506, anno in cui uno sconosciuto avrebbe portato il velo.
    La storia raccontata in uno stile vivace, ha qualche cosa di fantastico: lo sconosciuto affida il pacco ad un cittadino del paese e sparisce dalla scena senza che nessuno lo abbia potuto poi rintracciare. Marzia Leonelli avrebbe venduto il Velo nel 1618; ma neanche questa data è storicamente certa. Nella prima versione manoscritta della "Relatione" viene indicata la data del 1620 per la vendita del velo. La data sunnominata del 1618 si trova nella versione della "relatione" che fu destinata per il ministro generale dell'Ordine dei Cappuccini. La prima versione fu conservata nel Santuario del Volto Santo a Manoppello, quella destinata al Ministro generale si trova, insieme con una copia della stessa mano, nell'Archivio della provincia abruzzese a L'Aquila. L'unica cosa che si deve considerare come storicamente accertata è il fatto che Marzia Leonelli ha venduto il velo al Dottor Donato Antonio De Fabritiis intorno al periodo tra il 1618 e 1620.
    La data del 1608, nel manoscritto dell'archivio della provincia abruzzese dei cappuccini si trova ai margini, scritta da un'altra mano.
    A questo punto lasciamo il territorio di Manoppello e andiamo a Roma per paragonare le date.
    La prima data, 1506, e il governo del Papa Giulio II, nominati nella "relatione historica", corrispondono con il piano di demolizione della fatiscente Basilica di San Pietro e il progetto di sostituirla con un nuovo edificio più grandioso. La demolizione fu di fatto iniziata nel 1507.
    La seconda data, il 1608, che è solo scritta alle margini dell'esemplare che è conservato nell'Archivio della provincia abruzzese, corrisponde esattamente con la demolizione della seconda parte della Basilica Vaticana, inclusa la cappella, costruita da Giovanni VII nel 705, in cui si conservava il velo della Veronica, o come si diceva a Roma, la Veronica. Questa demolizione poté fornire un'occasione molto propizia per lo smarrimento della preziosa reliquia romana. Vediamo che cos'era successo poco prima, cioè il terzo avvenimento a cui si accenna nella "relatione historica": la vendita del velo con l'immagine del Cristo a Manoppello intorno al 1618/20.
    Nel 1616 il Papa Paolo V si trova di fronte ad una richiesta di una copia della Veronica per la regina Maria Costanza della Polonia da parte della corte imperiale di Vienna. Nonostante che fino ad allora esistesse tutto un esercito di pittori che realizzavano copie della reliquia romana, i cosiddetti "pictores Veronicae", questa volta la copia viene affidata ad un canonico di San Pietro di nome Strozzi. Vengono, poi, vietate ulteriori copie. Si deve desumere che i "pictores Veronicae" hanno perso il loro lavoro almeno da questo momento.
    La lettera del Papa, datata 7 settembre 1616, dice espressamente che nessun artista deve essere utilizzato per eseguire delle copie della Veronica, ma solo canonici di San Pietro. Eccezionalmente furono realizzate ancora due copie sotto il pontificato di Gregorio XV, e subito dopo fu proibito, sotto la pena della scomunica, realizzare copie delle copie. La loro caratteristica comune è la rappresentazione dell’immagine con gli occhi chiusi. Queste copie in nessun modo corrispondono alle vecchie rappresentazioni della Veronica romana. Una di queste copie legittimate si trova ancora oggi nella Sacrestia del "Gesù" a Roma. È di una tale bruttezza che nessuno può immaginarsi che essa sia veramente una copia di un oggetto che tutti i pellegrini desideravano vedere. Questa "copia" costituisce una nuova creazione, un vero e proprio pasticcio, composto da un ricordo della Veronica, dalla sagoma del Mandilion che si conservava in questo tempo nella chiesa di San Silvestro a Roma, e dalla conoscenza della Sindone di Torino attraverso una copia in misura originale che si trovava sin dalla fine del Cinquecento a Roma nella chiesa del Sudario. Il fatto che proprio in questo periodo, nel 1618, un tenue Velo, con una figura più bella, che corrisponde in tutti i tratti alla Veronica romana viene venduto in una cittadina degli Abruzzi, ci fanno apparire gli avvenimenti di Roma più straordinari.
    La nostra attenzione diventa ancora più viva quando apprendiamo che il Papa successivo, Papa Urbano VIII, non soltanto vietò tutte le copie della Veronica, bensì ordinò che tutte le copie esistenti, fatte negli ultimi anni, dovessero essere distrutte. Sotto il suo pontificato viene redatta la "Relazione historica", cominciata intorno al 1640 e conclusa, dopo la morte del Papa, con la lettura e l’autenticazione notarile del 1646. Si fa sempre più consistente l’ipotesi che il Velo sia Stato trafugato al tempo del Papa Paolo V e portato a Manoppello.
    Se il soldato tenuto prigioniero in Chieti, marito della donna che vendette il Velo con la figura del Cristo nel 1618 al dottor De Fabritiis, sia il ladro stesso che trafugò la reliquia sacra a Roma, non è accertato.
    Più tardi Papa Urbano VIII dovette avere notizia della sparizione della Veronica, soltanto così si spiegano i suoi provvedimenti. Nel 1618 l'archiviario e canonico di San Pietro Jacopo Grimaldi elenca tutti gli oggetti trasportati nell'archivio che prima si trovavano nella basilica di San Pietro in Vaticano; fra essi anche il reliquiario della Veronica e scrive che i vetri sono rotti, probabilmente per disattenzione dei custodi. Questo reliquiario del Giubileo del 1350 è ancora conservato e può ammirarsi nel tesoro di San Pietro.
    Da tutte queste date, osservazioni e fatti si giunge ad una unica conclusione, che la Veronica è andata smarrita e che essa è stata tolta con violenza dal suo reliquiario.
    Allora leggiamo con una nuova ottica il dettaglio nella "relatione istorica" che tratta dell'atto criminale del soldato di Manoppello: "Entrò violentemente in Casa di Leonelli, et si pigliò, come ricchissima portione la santissima immagine." In realtà si sta parlando dell'Archivio di San Pietro o addirittura la Cappella della Veronica invece che della Casa dei Leonelli. Quando i lavori sono in corso, si presentano sempre le occasioni migliori per fare sparire un oggetto prezioso. Che l'atto violento del marito di Marzia Leonelli, Pancrazio Petrucci abbia danneggiato il velo, la "relatione historica" lo dice espressamente: "pigliata che l'hebbe, con quella braura et furia, che sogliono li soldati haver in simili occasioni, non la ripiegò et raccolse con quella diligenza, et devotione, come si doveva ad una cosa tanto miracolosa et divina: ma tutta strapazzata, et molto malamente avviluppata, si la portò nella propria Casa, ivi tenendola per più anni con tanta poca reverenza, et stima..." (rel. hist. Arch. d. Prov. Cap., p. 17s.).
    Una tale descrizione dell'oggetto malandato potrebbe facilmente essere compresa come il risultato dell'atto violento quando fu spezzato e rotto il reliquiario della Veronica. E se verifichiamo esattamente lo stato del velo, possiamo costatare che un pezzo del vetro è rimasto incollato su di esso; significa che il velo non potè essere strappato dal cristallo senza romperlo, al punto che restò perfino una traccia di esso sul bordo inferiore.
    Lo stesso archiviario è autore dell'"Opusculum de sacrosancto Veronicae Sudario", scritto nello stesso anno 1618, se non fu falsificata la data posteriormente; gli ultimi tre segni scritti in cifre romane, infatti, potrebbero essere stati aggiunti o almeno gli ultimi due perché essi si trovano scritti sul margine in contrasto con tutti gli altri segni sul frontispizio del manoscritto che oggi si conserva nell'archivio dei Canonici di San Pietro. Così fu cambiato con tutta probabilità un MDCCXV in un MDCCXVIII. Sullo stesso frontespizio si vede un disegno dalla mano del Grimaldi che mostra la Veronica nel suo reliquiario non ancora rotto. Essa corrisponde esattamente con il Volto Santo di Manoppello; sia negli occhi aperti che guardano leggermente in alto in una direzione un pò obliqua, sia nei cappelli ondulati delle due bande e della barba, sia nella forma del volto, sia nella bocca aperta.

  3. #3
    Qoelèt
    Ospite

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    VITTORE: non può essere un dipinto!


    La Storia
    Per la mia professione di ortopedico e traumatologo, avendo bisogno di effettuare radiogrammi delle tac al fine di realizzare modelli ossei tridimensionali, qualche anno fa mi sono organizzato con una apparecchiatura molto sofisticata che acquisisce immagini. Si tratta di uno scanner ad altissima risoluzione, uno di quelli che si usano sui satelliti per fare la foto della terra.
    Il Padre responsabile del convento di Manoppello, tramite un comune amico, è venuto a conoscenza della mia attività. Avendo l’esigenza di studiare il Volto Santo in maniera più approfondita si è messo in contatto con me e mi ha chiesto di collaborare per acquisire delle fotografie più dettagliate per capire meglio cosa fosse questa immagine. La richiesta mi ha lusingato molto. Immediatamente sono corso a Manoppello con questa attrezzatura.

    La Tecnica
    Quali le procedure e le tecniche utilizzate per l’acquisizione dei dati?
    Ho usato uno scanner digitale che si chiama "dorso da banco ottico", praticamente un piccolo scanner ad altissima risoluzione che si applica dietro una macchina fotografica del tipo a banco ottico, a soffietto, e lo scanner funge da pellicola fotografica. Acquisisce l’immagine come se fosse una fotografia, però diventa una fotografia digitale che può essere memorizzata insieme ad una notevole quantità di dati. Quando poi la foto viene elaborata al computer si ha la possibilità di ingrandirla notevolmente senza perdere risoluzione, si è potuto così analizzare fibra per fibra o l’intera immagine del Volto Santo.
    La differenza con una normale fotografia sta nel fatto che la quantità di dati acquisiti è talmente vasta che consente di elaborare continuamente, a seconda delle necessità, le immagini. L’immagine fotografica, invece, sebbene sia acquisita e fissata, non può fornire ulteriori informazioni perché la risoluzione è standardizzata.

    L'impressione
    La prima impressione che si prova trovandosi di fronte al Volto Santo può essere quella di osservare un dipinto. Una analisi più attenta, lo studio di tutte le caratteristiche mi ha lasciato perplesso: più si guarda e più sorge il dubbio che possa non essere un dipinto. Questa immagine, infatti, si vede alla stessa maniera sia dal davanti che dal di dietro e io non conosco un dipinto che guardato da entrambi i lati dia la stessa immagine, soprattutto se la fonte luminosa è posta solo su un lato. La sottile consistenza del Velo, che gli conferisce una straordinaria trasparenza, mostra anche la stessa tonalità di colore.

    I miei studi sono stati approfonditi: dopo averlo fotografato, lì sul posto, ho potuto osservare l’immagine ottenuta con il monitor che consente un ingrandimento straordinario senza sfocare le immagini, e ho constatato che nell’interspazio tra il filo dell’ordito e il filo della trama non si evidenziano residui di colore. Se io penso ad un dipinto a olio, immagino che ci sia almeno tra un filo e l’altro un po’ di deposito di colore, devo dunque escludere il ricorso a questa tecnica per la Reliquia di Manoppello. Bisogna escludere anche l’idea dell’acquerello perché i contorni dell’immagine sono così netti nell’occhio, nella bocca; l’acquerello avrebbe sicuramente intriso in maniera non precisa il filo e quindi avrebbe determinato sbavature nei dettagli.
    Pensare ad una stampa significa non considerare che sul velo l’immagine sia perfettamente visibile su entrambi i lati. Noi stiamo parlando di un’opera che data come minimo 1500, un periodo in cui le tecniche utilizzate non sono poi così sofisticate. Io penso di continuare con una metodica fotografica ingrandendo ancora di più questa immagine anche grazie all’ausilio del computer, cercando di poter entrare nell’intimo della fibra per vedere se ha in sé dei depositi di colore oppure se si tratta di una fibra pura che ha assunto un colore non so per quale motivo. E’ tutto molto misterioso e questo mistero mi affascina.


    Particolare ingrandito dell'occhio
    ingrandimento medio
    ulteriore ingrandimento

  4. #4
    Qoelèt
    Ospite

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    ASPETTO DEL VOLTO SANTO




    Il Volto Santo è un velo tenue, cosicché un giornale posto dietro lo si può facilmente leggere anche ad una certa distanza.

    I fili orizzontali del tessuto sono alquanto ondeggianti, il tessuto stesso è di semplice struttura, cosicché l'ordito e la trama si intrecciano nella forma più semplice come in una normale tessitura.
    Le misure del panno sono
    17 x 24 cm.
    È l'immagine di un uomo con i capelli lunghi e la barba divisa a bande. Caso unico al mondo l'immagine è visibile identica da ambedue le parti.
    Le tonalità del colore sono sul marrone, le labbra,leggermente colorate rosso chiaro, sembrano annullare ogni aspetto materiale.

    Non sono riscontrabili residui di colore. Le due guance sono disuguali: l'una, più arrotondata dell'altra, si mostra considerevolmente rigonfia. Gli occhi guardano molto intensamente da una parte e verso l'alto,cosicché si vede il bianco del globo oculare sotto l'iride.
    Le pupille sono completamente aperte, ma in modo irregolare. Nel mezzo, sopra la fronte si trova un ciuffo di capelli, corti e mossi a mò di vortice.

  5. #5
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    Predefinito il Volto dei Volti

    Ritornerò su questo argomento con più calma. Ma merita grandissima attenzione lo studio recente sulla Reliquia di Manoppello. Considerata fico a poni anni fa "con sufficienza" dagli studiosi è ora balzata all'attenzione e pare essere l'Icona di Camulia sulla quale il Nostro Santo padre Gregorio vescovo di Nissa scrisse una omelia andata perduta ma di cui ci è restata traccia nel Grande Sinassario della Chiesa di Grecia.
    Mi sto domandando perchè il Signore riporti alla luce tanti Segni della Sua presenza in questi nostri tempi secolarizzati e lontani da Lui.
    Penso che ciò avvenga perchè la parola del Salmista "Il Tuo Volto Signore io cerco, non nascondermi il Tuo Volto" è iscritta nella profondità dell'essere umano e non v'è secolarizzazione che possa cancellarla.
    Mi chiedo anche perchè due reliquie insigni come la Sindone ed il Volto siano, per vie divine che non possiamo comprendere, nelle mani dei romano-cattolici. Forse perchè chi è più malato ha maggiormente bisogno del medico? Ma anche noi siamo malati per i nostri peccati anche se non per l'eresia.
    Certo il Signore sa. Non sono ancora riuscito a salire a Manoppello, ma spero di farlo quanto prima: alcuni amici che ci sono stati mi hanno detto che l'esperienza del contatto col Volto originale non può essere rea da nessuna foto in quanto la fotografia svilisce quel Volto a causa della sua totale trasparenza.
    Se queste notizie saranno utili ad indirizzare qualcuno la spero che vorranno, al riitorno, postare le lori impressioni.

  6. #6
    Qoelèt
    Ospite

    Predefinito Ancora sul Sacro Volto...

    Convenzionalmente la problematica relativa all’esistenza di un prototipo ispiratore delle antiche immagini — icone o reliquie — di Cristo si orienta in modo prevalente verso la Sindone di Torino (1). Quindi, ogni altra immagine viene in qualche modo a "turbare" lo stato d’avanzamento di questa ormai secolare ricerca. È quanto accade, per esempio, relativamente al Volto Santo di Manoppello, al quale è dedicata un’opera, intitolata appunto Il Volto Santo di Manoppello, edita nel 2000 e curata da padre Heinrich Pfeiffer S.J. (2).

    L’autore è tutt’altro che ignoto a chi s’interessa, anche se marginalmente, di problemi riguardanti l’iconografia cristiana. Si tratta infatti di un gesuita tedesco, docente di Storia dell’Arte nella Pontificia Università Gregoriana, direttore, presso la stessa, del Corso Superiore per i Beni Culturali della Chiesa e membro della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa. Dell’opera padre Pfeiffer S:J. non è solo curatore, ma anche coautore di gran parte del testo: infatti, sono suoi la Premessa (pp. 13-15) e i capitoli La storia delle Acheropite (pp. 16-23), Il Volto Santo di Manoppello (pp. 24-31), I due modelli per l’immagine di Cristo nell’arte: la Sindone e il Volto Santo di Manoppello (pp. 32-40), Le leggende (pp. 66-71), Ipotesi sulla genesi dell’immagine (pp. 72-74) e La "Relatione historica" (pp. 75-77). Con lui collabora una religiosa trappista boema, suor Blandine Pascalis Schlömer, dell’abbazia di Maria Frieden, di Dahlem, in Germania, autrice del capitolo Il Velo del Volto Santo di Manoppello e la Sacra Sindone di Torino (pp. 41-65). Di lei padre Pfeiffer S.J. dice che "[...] ha dato la migliore descrizione del Volto Santo di Manoppello" (p. 28), descrizione alla quale si rifà ampiamente. L’appendice, Manoppello. Il nucleo urbano e il patrimonio storico-artistico (pp. 86-109) — preceduta dall’Indice dei nomi e dei luoghi (pp. 78-81) — è del professor Adriano Ghisetti Giavarina, docente di Storia dell’Architettura presso la Facoltà di Architettura di Pescara, che presenta il borgo dov’è conservata la reliquia e i suoi aspetti storico-artistici, con corredo fotografico.

    L’opera è aperta da Presentazioni del sindaco di Manoppello, in provincia di Pescara, professor Luca Giorgio De Luca (p. 6), del vicesindaco e assessore alla Cultura geometra Giovanni Terreri (p. 7) e del responsabile del Centro Servizi Culturali-Torre de’ Passeri dottor Mario d’Eramo (p. 8). Nella Prefazione raccomanda la ricerca il card. Fiorenzo Angelini, presidente emerito del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, che, con la Congregazione benedettina delle Suore Riparatrici del Santo Volto di Nostro Signore Gesù Cristo, ha fondato l’Istituto Internazionale di Ricerca sul Volto di Cristo e ne è tuttora il maggior promotore (pp. 9-10). Nella prefazione il porporato scrive: "Sono [...] convinto che il volume segnerà una data nella storia dell’iconografia riguardante la raffigurazione del Volto di Cristo" (p. 9). Segue un’Introduzione del rettore del santuario dove il Volto Santo è conservato, padre Germano Di Pietro O. F.M. Cap. (pp. 11-12).

    L’opera è dunque focalizzata sulla reliquia (3) che si trova a Manoppello, un paese abruzzese posto fra verdi colline ai piedi della Maiella. Nel 1620 vi sono giunti i frati cappuccini che hanno edificato, fuori dell’abitato, un convento con una piccola chiesa dedicata a San Michele Arcangelo. Lì, dal 1638, si custodisce la reliquia intorno alla quale, crescendone la fama, la chiesetta primitiva si è venuta ampliando fino a divenire, nella seconda metà del secolo XX, il Santuario del Volto Santo.

    Infatti, quanto richiama al santuario folle di pellegrini è un volto d’uomo impresso su ambo i lati di una tela quasi trasparente — come in una diapositiva — "[...] come quello di una persona viva che si trova dietro al tessuto e che guarda attraverso questa stoffa sottilissima: una persona con capelli di uno splendore meraviglioso, [...] che cadono in due bande sciolte su tutti e due i lati. Ma ciò che parla di più in questo volto sono gli occhi di un bianco molto intenso. Lo sguardo è gentile. C’è come un sorriso nell’espressione" (p. 28). Tuttavia per un osservatore non frettoloso "c’è qualcosa di inspiegabile e di totalmente inconsueto. Per esempio la stoffa appare molto antica, con una superficie ruvida, ma da un momento all’altro la stessa stoffa appare come una tessitura finissima e delicatissima e totalmente trasparente, perfino splendente. Nella stessa maniera il volto umano che si può scorgere su questa stoffa appare una volta con un intensissimo colorito e delineato con molta precisione nel disegno dei capelli e degli altri dettagli — ci si trova davanti una immagine che appare compatta in una tonalità scura di un’ocra a tratti verdeggiante — e poi si è sorpresi di vedere invece un tessuto bianco, quasi un soffio tanto è esile" (ibidem). Inoltre, "se si pone il Velo contro la luce, quando essa passa direttamente da dietro attraverso il tessuto, l’immagine sparisce come se i fili l’avessero assorbita" (p. 29). Quasi inutile aggiungere che non si scorgono, neppure a forti ingrandimenti, tracce di apporto di colore sulle fibre del tessuto. Quest’ultimo può venir osservato solo se ci si pone da una determinata angolazione rispetto all’immagine o se si colloca uno schermo opaco posteriormente a essa.



    1. Ipotesi di un itinerario

    Il Volto Santo o Velo di Manoppello è con certezza acquisito stabilmente dai padri cappuccini dal 1638. Ne fa stato una Relatione historica di padre Donato di Bomba. Questa relazione, scritta fra il 1640 circa e il 1646, è certamente leggendaria per gli episodi più lontani nel tempo, ma non mente riguardo a quelli più prossimi. L’avvenuta donazione ai padri cappuccini del Velo da parte del dottor Donato Antonio de Fabritiis è confermata anche da un atto notarile del 1646.

    La Relatione historica narra quella che si può considerare la vulgata dell’acquisizione del Volto Santo. Un giorno del 1506 il dottor Giacomo Antonio Leonelli se ne stava a conversare con altri signori dinnanzi alla chiesa di San Nicola di Manoppello quando gli si avvicina un pellegrino "d’aspetto Religioso et molto venerando" (p. 76), che lo invita ad appartarsi con lui in chiesa e ivi gli consegna un involto, raccomandandogli di tenerlo molto caro. Dall’involto, subito srotolato, appare il Volto Santo, ma il misterioso pellegrino era già scomparso né è in alcun modo possibile rintracciarlo. Così il Velo diviene un bene della famiglia Leonelli e circa cento anni dopo costituisce la dote di una Marzia Leonelli, andata sposa a "un soldato ed uomo d’armi" (p. 77). Sembra che il fratello della sposa si opponesse alla consegna della reliquia e che l’uomo d’armi se ne sia impadronito con la forza ma che, una volta in possesso della reliquia, l’abbia conservata con poca cura e rispetto. In seguito, nel 1618, Marzia, per riscattare il marito in prigione a Chieti, cede per quattro scudi il Velo al dottor Donato Antonio de Fabritiis, che dopo il 1620 ne fa dono ai padri cappuccini giunti a Manoppello proprio in seguito a una sua sollecitazione. La Relatione historica precisa che, già prima della ratifica del passaggio di proprietà del Velo, il primo superiore dei cappuccini, padre Clemente da Castelvecchio, aveva rifilato il panno tagliando con le forbici tutti "gli stracciatelli" (ibidem) che pendevano dal consunto tessuto mentre fra Remigio di Rapino provvedeva a racchiuderlo fra due vetri entro una cornice di noce, con una luce di cm. 24 x 17,5.

    Questo racconto, certo in parte leggendario, diviene uno degli elementi analizzati da padre Pfeiffer S.J. a sostegno di uno dei fatti che ritiene di aver accertato dopo anni di ricerche e che sintetizza così: "Il Velo con il suo volto non è nient’altro che la Veronica romana creduta smarrita" (p. 13).

    La Veronica, sarà bene ricordarlo, era la pia donna che, secondo una leggenda tardomedioevale —diffusissima in Occidente, fino a divenire una delle stazioni della Via Crucis —, aveva deterso con il suo velo il volto di Gesù durante la dolorosa salita al Calvario. Il nome è la forma latina tarda e paretimologica del nome greco Berenice; compare in uno scritto apocrifo del secolo VI, gli Atti di Pilato, ed è stata talvolta identificata con l’emorroissa guarita da Gesù, della quale parlano i Vangeli Sinottici (4). Il sudore e sangue sgorgato avevano impresso miracolosamente sul panno la Vera icona del Salvatore. Questo Volto è un oggetto storico certamente presente a Roma dal secolo XII. Papa Innocenzo III (1198-1216) ne promuove in particolare il culto, istituisce una processione annuale e concede indulgenze a quanti piamente vi partecipino. Racchiusa in una cornice dorata, dono di tre signori veneziani, viene esposta in San Pietro durante le maggiori festività e in particolare durante gli Anni Santi del 1300 e del 1350. Ostensioni alle quali accenna anche Dante Alighieri (1265-1321) rispettivamente nella Vita nuova (5) e nel Paradiso (6).

    Dunque la Relatione historica, come avviene per molti testi leggendari, contiene un nocciolo di verità. Il misterioso pellegrino che consegna in segreto il Velo al dottor Leonelli, e subito dopo scompare definitivamente dalla scena, è con ogni probabilità leggendario. Padre Pfeiffer S.J. ritiene che dietro l’acquisizione violenta della reliquia, operata dall’uomo d’armi, si nasconda una diversa acquisizione violenta, tutt’altro che leggendaria, quella avvenuta a Roma in San Pietro, o nel vicino archivio, a opera d’ignoti i primi anni del secolo XVII. Si fa rilevare che i vetri del reliquiario del 1350 che custodiva la Veronica sono rotti e i documenti attestano che questo è avvenuto prima del 1618. Si tratta di due vetri paralleli che, evidentemente, servivano per vedere il Volto di Cristo da ambedue i lati. Un indizio a favore dell’ipotesi dell’effrazione è la scheggia di cristallo di rocca individuata proprio sul bordo inferiore del Volto Santo di Manoppello.

    Non mancano anche prove iconografiche: prima del 1616 tutte le copie della Veronica hanno, come il Volto Santo, gli occhi aperti mentre le poche immagini giunte fino a noi dopo tale data presentano gli occhi chiusi. Quanti, e sono veramente pochi, nel secolo XX hanno potuto osservare la tela custodita in San Pietro, nella cappella che si apre sopra la statua della Veronica — pilastro sud-occidentale della cupola — affermano che si tratta di un panno quadrato di colore chiaro, non trasparente, sul quale non si distingue alcun lineamento (7). Un altro elemento che induce a pensare che l’originale non sia più lì. D’altra parte, l’ultima ostensione pubblica risale agli anni 1600-1601. In seguito, sia Papa Paolo V (1604-1621) che Papa Urbano VIII (1623-1644) ne proibirono qualsiasi copia, anzi quest’ultimo, nel 1629, decretò la distruzione di tutte quelle esistenti.

    A questo punto padre Pfeiffer S.J. compie un ulteriore passo procedendo a ritroso nella storia ma, molto correttamente, lo presenta solo come una ragionevole ipotesi. L’ipotesi è questa: il velo di Manoppello, alias Veronica romana, un tempo era conosciuto nell’Impero Romano d’Oriente come l’Immagine di Camulia. L’immagine che si riteneva acheropita (8) — cioè non fatta da mani d’uomo, al pari della Veronica —, originaria della piccola città di Kamulia, o Kamuliane, in Cappadocia, viene traslata da Cesarea, capitale della regione, a Costantinopoli nel 574. In breve la Camuliana diventa il palladio, l’immagine protettrice della capitale: garantiva protezione alla città e vittoria agli eserciti imperiali. Si ritiene che la reliquia venisse accolta con entusiasmo a Bisanzio per sostituire il Labarum di Costantino I (280 ca.-337), andato perduto durante il regno di Giuliano l’Apostata (331-363), anche se le caratteristiche di questa insegna sono a noi tuttora ignote. Viene segnalata in Africa nella battaglia di Costantina, del 581, in quella sul fiume Arzaman, del 586, e in molti altri episodi bellici. L’imperatore Eraclio (575-641) in partenza per una campagna in Persia, nel 622, stringeva in mano uno stendardo sul quale era ricamata l’immagine di Camulia. E ancora nel 626, durante l’assedio di Costantinopoli da parte degli àvari, la santa immagine viene esposta sulle mura a difesa della città.

    Un giorno l’immagine sparisce per non ricomparire più a Costantinopoli. Potrebbe esser andata distrutta in battaglia, ma l’ipotesi più ragionevole, sostenuta anche dal padre gesuita, è che sia stata inviata segretamente a Roma.

    Nella Vita di Germano I, patriarca di Costantinopoli (715-730), si narra che questi mette in salvo l’Acheropita gettandola in mare; miracolosamente questa giunge al largo di Ostia, ove viene ripescata e portata a Roma. Malgrado il carattere in parte leggendario della narrazione sono noti altri documenti che sembrano confermare la sostanza dell’avvenimento, cioè l’invio della reliquia a Roma (9).

    Padre Pfeiffer S.J. colloca la data di questo trasferimento negli anni che intercorrono fra il primo e il secondo regno di Giustiniano II (679 ca.-711), dal 695 al 705, ma, a mio avviso, questo potrebbe essere avvenuto almeno dieci o vent’anni più tardi (10).

    Naturalmente la Camuliana, messa in salvo a Roma, rimaneva ancora proprietà del Patriarcato di Costantinopoli e non poteva essere assunta come protettrice di una città, ove era stata inviata in via temporanea con il tacito accordo che venisse restituita, quando fosse cessata la persecuzione delle immagini. Giustamente l’autore fa notare che la Veronica-Camuliana viene mostrata pubblicamente solo dopo il definitivo declino della potenza di Bisanzio, cioè dopo la caduta di Costantinopoli del 1204 (11).

    Ma dove viene conservata per quasi cinque secoli prima che iniziassero le ostensioni pubbliche? Anche a questa domanda si è cercato di dare una ragionevole risposta. Da tempi antichissimi è noto che nell’oratorio di San Lorenzo, detto Sancta Sanctorum, situato nei Palazzi Laterani, si venera un’immagine del Salvatore. Quest’immagine, che si riteneva "non fatta da mano d’uomo", era il palladio di Roma. Oggi si presenta come una tavola rivestita di lamine d’argento, al disopra delle quali appare un volto dai grandi occhi, con barba e baffi sottili, circondato dal nimbo inserito in uno spazio ottagonale. Per secoli fu impossibile condurre su di essa uno studio accurato e solo nel 1907 Papa san Pio X (1903-1914) concede a monsignor Joseph Wilpert (1857-1944), archeologo di chiara fama, questo eccezionale privilegio (12). Questi individua le tracce di tre successivi restauri. Quello nel nostro caso di maggior interesse è eseguito sotto il pontificato di Papa Alessandro III (1159-1181) e consiste nell’applicazione di un velo di seta dipinto sulla tavola sottostante, estremamente danneggiata dal tempo.

    Sulla base di queste indicazioni padre Pfeiffer S.J. avanza l’ipotesi che il velo dipinto, applicato sopra l’immagine originale con un procedimento del tutto inconsueto, possa indicare che in passato nel Sancta Sanctorum si venerava un altro Velo, quello dell’Immagine di Camulia, forse nascosto da una maschera metallica. Quando questa può finalmente venir mostrata pubblicamente, sull’icona originaria si applica una copia dell’Acheropita, che era stata ormai trasferita definitivamente — fino al furto che si consumerà nei primi anni del secolo XVII —, con il titolo di Veronica, in San Pietro (13).



    2. I modelli originari del volto di Cristo

    Sempre secondo il padre gesuita gli archetipi a cui attingono fin dai primi secoli dell’era cristiana le immagini di Cristo, sia in Occidente che in Oriente, sono le uniche due Acheropite giunte fino a noi: la Sindone di Torino e il Volto Santo di Manoppello. Malgrado l’iconografia del volto del Salvatore si sia sviluppata con il passare dei secoli, essa tuttavia è rimasta sostanzialmente fedele a un tipo classico, che si riconosce in base a numerosi particolari caratteristici, o elementi spia, sempre presenti, almeno in parte, in tutte le rappresentazioni artistiche. È utile sottolineare che, a differenza degl’idoli pagani o delle immagini di Buddha, si tratta sempre di un volto asimmetrico e personale.

    Questi elementi riconducono invariabilmente all’una o all’altra o ad ambedue le reliquie, mentre al tempo stesso testimoniano che queste esistevano ed erano note già almeno dal secolo IV.

    La Sindone evidenzia maggiormente la struttura ossea mentre il Volto Santo, più rotondo, sottolinea gli aspetti vitali, gli occhi in particolare.

    Là dove si può supporre una più diretta conoscenza della Sindone — o Mandylion o Immagine di Edessa (14) —, i caratteri iconografici del Telo di Torino sono prevalenti. Così avviene, per esempio, nei mosaici del Cristo Pantocratore a Costantinopoli e nelle aree permeate dalla cultura bizantina, mentre nel caso in cui si può supporre una conoscenza diretta della Veronica romana, come per l’arte fiamminga del 1400, prevale l’influenza di quest’ultima.

    Tuttavia vi sono numerosi casi nei quali questo semplice schema non viene rispettato: secondo l’autore, nelle catacombe romane e nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo, del 520, gli occhi di Cristo sono quelli del Velo di Manoppello, che all’epoca non doveva ancora esser giunto in Italia. D’altra parte, se gli elementi spia appartenenti alle due Acheropite spesso sono riconoscibili nella stessa immagine o una di esse invade l’area ove, per ragioni geografiche e storiche, si sarebbe tentati di escluderne l’influenza, le indiscutibili coincidenze iconografiche aprono più problemi di quanti, allo stato attuale della conoscenze, non si sia in grado di risolvere. Padre Pfeiffer S.J. si pone infatti alcune difficili domande: "Furono fatti dei disegni secondo il modello del Volto Santo che oggi è venerato a Manoppello già verso la fine del IV secolo?" (p. 38). Come ricorda altrove lo stesso padre gesuita (15), sant’Ireneo di Lione (130 ca.-200 ca.) racconta, nell’opera Contro le eresie (16), che i seguaci dell’eresiarca gnostico egiziano Carpocrate (sec. II), possedevano e veneravano immagini di Cristo "[...] alcune immagini dipinte, altre fabbricate anche con altro materiale" (17), realizzate sul modello fatto eseguire da Ponzio Pilato "[...] nel tempo in cui Gesù era con gli uomini" (18). "Questi disegni furono fatti a Roma? I due modelli, la Sindone ed il Velo, erano ancora insieme a quel tempo? I due modelli erano insieme, ma separati l’uno dall’altro materialmente, o formavano ancora un’unità, con un pezzo di stoffa sovrapposto all’altro?" (ibidem). Domande legittime che rimandano però a un altro ordine di problemi sui quali già si sono versati fiumi d’inchiostro senza che si sia ancora giunti a una interpretazione coerente con l’insieme dei risultati proveniente dalle varie indagini sperimentali, storiche ed esegetiche. Quali e quanti furono i panni funerari utilizzati nella sepoltura di Gesù; come e quando furono utilizzati e in quale disposizione vennero collocati sulla salma e, infine, chi furono i primi possessori di tali reliquie e quale l’itinerario da queste percorso nei secoli successivi?



    3. Volto Santo e icone del Volto di Cristo

    A questo punto dell’analisi iconografica a padre Pfeiffer S.J. subentra suor Schlömer O.C.S.O. Come lei stessa racconta, diversi anni fa, ricoverata nell’infermeria dell’abbazia, è in qualche modo costretta a osservare l’unico oggetto che, oltre al Crocifisso, arredava le pareti della camera: la riproduzione di un Volto di Cristo conservato presso il Museo delle Icone di Recklinghausen, in Germania. Nel tentativo di riprodurlo inizia a famigliarizzarsi con i tratti caratteristici di quel Volto. In seguito ha modo di approfondire la conoscenza delle icone e della loro tecnica pittorica, fino a divenire lei stessa pittrice d’icone e a scoprire, non senza sorpresa, la presenza di alcuni elementi caratteristici che erano comuni ai Volti di Cristo osservabili in chiese e in musei, realizzati in un ampio arco di secoli.

    Tutte queste osservazioni conducevano inevitabilmente a ricercare un prototipo. La religiosa trappista lo cercava in Oriente, nella Santa Sindone, l’immagine che era più cara al suo cuore; malgrado avesse conosciuto il padre gesuita, che le aveva parlato della Veronica romana conservata a Manoppello, in un primo tempo non volle interessarsene. Si decise infine dicendo a sé stessa che non spettava a lei rigettare a priori una venerata immagine solo perché i tratti somatici non erano quelli che avrebbe desiderato. E così, dopo una prolungata osservazione, è in grado d’individuare sul Velo di Manoppello molti tratti caratteristici o elementi spia, presenti in tutte le antiche icone di Cristo.

    Nell’opera vengono analizzati sei esempi d’immagini famose disposte in ordine cronologico secondo la datazione storica loro attribuita, da quella relativamente più recente a quella più antica. Esse vanno da Il Risorto dell’Altare di Vyšši Brod, conservato nella Nationalgalerie di Praga, in Cechia, e datato 1350, al Cristo Pantocratore nell’abside della chiesa di Santa Prudenziana a Roma, della fine del 300. Le immagini inserite nel testo mostrano il Volto di Cristo e, a lato, lo stesso con il Velo sovrapposto (19), dalla parte anteriore o posteriore.

    Davanti a queste ottime riproduzioni è doveroso anzitutto ricordare il detto antico, secondo cui contra factum non est argumentum. Infatti, mi pare balzi agli occhi la strettissima somiglianza fra il Volto di Manoppello e quello delle icone considerate, anche se alcuni elementi iconografici sono propri della Santa Sindone.

    Si tratta di un risultato che sarebbe sufficiente a giustificare una maggior attenzione da parte dei sindonologi al Velo di Manoppello (20) e alle ricerche sin qui condotte da suor Schlömer O.C.S.O.



    4. Volto Santo e Sindone

    Se, spesso, nella stessa opera d’arte alcuni elementi propri della Santa Sindone appaiono contemporaneamente ad altri tipici del Volto di Manoppello, è pur vero che non era visibile in passato il Volto della Sindone, così come oggi lo conosciamo attraverso il suo negativo fotografico, con un’eccezionale ricchezza di particolari. Come sarebbe stato possibile riprendere alcune tracce delicatissime del Volto, se non fosse stata nota l’immagine impressa sul Velo? Eppure la tradizione, anche se espressa in racconti leggendari, non ha mai associato le due reliquie. Queste le domande che si pone anche suor Schlömer O.C. S.O.

    A prima vista i due Volti sembrano escludersi vicendevolmente; a un’immagine dai contorni sfumati se ne contrappone una quasi fotografica. Qui colori sfumati, là colori forti. Il volto maestoso, solenne anche nella morte, si trasforma in un comune viso umano la cui bellezza affiora solo se lo si osserva a lungo con pazienza. Tuttavia, sovrapponendo il negativo della Sindone, successivo alla prima fotografia scattata da Giuseppe Enrie (1888-1961) nel 1931 (21), e la parte anteriore del Velo s’individuano ben dieci punti di congruenza. La religiosa trappista fornisce nel testo istruzioni molto dettagliate per ottenere tale sovrapposizione.

    D’altra parte una prova immediata di questa sostanziale somiglianza si ottiene se si osserva che alcune celebri icone — per esempio, quella del Cristo del Monastero di Santa Caterina al Sinai — si sovrappongono quasi perfettamente sia alla Sindone che al Volto Santo.

    Ancora una notazione. In altri scritti di suor Schlömer O.C.S.O. trovo un’affermazione che, a mio giudizio, dilata in modo improprio l’oggettiva corrispondenza constatata fra i due Volti: "Capii che la Sindone doveva esser letta diversamente: gli occhi non sono chiusi e si vedono anche i denti come nel Velo di Manoppello" (22). Mi limito agli occhi. Si può concedere che l’occhio sinistro sia socchiuso e che permetta d’intravedere la pupilla, perché l’ispessimento di forma circolare che si osserva al centro dell’occhio destro in questo caso è scivolato sul sopracciglio (23). Tuttavia che l’occhio destro sia chiuso, e vi sia un bottone o una moneta sovrapposto alla palpebra è provato con certezza (24) e non può venir ignorato.

    Naturalmente questo appunto nulla toglie alla ricerca altamente meritevole e ricca di risultati di suor Schlömer O.C.S.O. né, tanto meno, all’opera curata e redatta da padre Pfeiffer S.J., esemplare oltre tutto per l’impianto logico e la concisione, e che perciò si raccomanda non solo agli addetti ai lavori ma anche a quanti vogliano conoscere una fra le meno note e fra le più misteriose reliquie della Cristianità.

    Francesco Barbesino

    ***

    (1) Cfr., riassuntivamente, Pierluigi Baima Bollone, Sindone. 101 domande e risposte, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000; e Gian Maria Zaccone e Bruno Barberis (a cura di), Sindone, cento anni di ricerca, Centro Internazionale di Sindonologia e Poligrafico Zecca dello Stato, Torino 1998.

    (2) Cfr. Heinrich Pfeiffer S.J. (a cura di), Il Volto Santo di Manoppello, CARSA, Pescara 2000. Tutti i rimandi all’opera sono inseriti nel testo fra parentesi.

    (3) Sull’uso del termine "reliquia" e sulla problematica relativa, cfr. padre H. Pfeiffer S.J., Teologia della reliquia, in Il Telo. Giornale Italiano di Sindonologia, anno II, n. 4, Roma luglio-agosto 1998, pp. 18-21.

    (4) Cfr. Tiziana Maria Di Blasio, Veronica. Il mistero del Volto. Itinerari iconografici, memoria e rappresentazione, Città Nuova, Roma 2000, pp. 14-19.

    (5) Cfr. Dante Alighieri, Vita nuova, XL.

    (6) Cfr. Idem, La Divina Commedia. Paradiso, canto XXXI, vv. 103-108.

    (7) Cfr. Ian Wilson, La Veronica e la Sindone, in Il Telo. Rivista di Sindonologia, anno I, n. 1, Roma gennaio-aprile 2000, pp. 14-16.

    (8) Circa il termine greco acheiropoíeton, "non fatto da mano d’uomo", cfr. Mc. 14, 58, nel quale alcuni testimoni riportano l’affermazione di Gesù "Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo [cheiropoíeton] e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo [acheiropoíeton]".

    (9) La stessa informazione, sfrondata dai suoi caratteri leggendari, è fornita dal cronista bizantino Giorgio Monaco, detto Amartolo, "il peccatore" (sec. IX), nel suo Chronikon, dell’anno 842. In questo documento si dice che san Germano I, patriarca di Costantinopoli (m. 733), esiliato dall’imperatore Leone III Isaurico (717-741) per la sua ferma opposizione all’iconoclastia, portò seco nell’esilio la reliquia che poi inviò a Roma a Papa san Gregorio II (715-731). Questi fatti sono ripresi anche da alcuni codici greci della Vaticana del secolo XI, copie di un documento giudicato non posteriore di 130 anni agli avvenimenti narrati: cfr. Gino Zaninotto, L’Acheropita del Ss. Salvatore nel Sancta Sanctorum del Laterano, in Lamberto Coppini e Francesco Cavazzuti (a cura di), Le icone di Cristo e la Sindone. Un modello per l’arte cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 164-180.

    (10) Il disaccordo su questo punto, certamente marginale, si fonda su alcune considerazioni: a. Giustiniano II, anche nel suo secondo regno, si mantenne perfettamente ortodosso. I solidi, le monete da lui fatte coniare, presentano il volto di Cristo, anche se a differenza del modello sindonico del primo regno, che sarà ripreso nei secoli successivi, presenta un Volto di tipo siriaco-palestinese che i numismatici — cfr., per esempio, James D. Breckenridge, The Numismatic Iconography Justinian II (685-695, 705-711 A.D.), The American Numismatic Society, New York 1959, pp. 98-99 — ritengono possa aver tratto ispirazione dalla Camuliana; in particolare, a differenza degli altri coni aurei, si vedono nettamente le pupille degli occhi. b. Dopo Giustiniano II il primo imperatore iconoclasta fu Leone III Isaurico, ma anche questo si pronunciò apertamente contro le immagini solo nel 727 e depose san Germano I nel 730. La data del 705 è tuttavia sostenuta, oltre che da padre Pfeiffer S.J., anche da altri autori poiché l’oratorio in San Pietro era di Papa Giovanni VII (705-707) e venne in seguito indicato come Oratorio di Santa Maria della Veronica e correva voce che lo stesso Papa vi avesse riposto la preziosa reliquia: cfr., per esempio, Ferdinand Gregorovius (1821-1891), Storia della città di Roma nel Medioevo, 1859-1872, trad. it., nuova ed. integrale a cura di Luigi Trompeo, Gherardo Casini Editore, s.i.l. 1988, vol. II, pp. 225-229.

    (11) Per la verità nel "Liber Pontificalis" seu "Gestae" seu "Vitae pontificum romanorum" l’Acheropita, quale palladio, venne portata in processione da Papa Stefano II (752-757) dal Laterano fino alla Basilica di Santa Maria ad Presepe allorché, nel 753, il re longobardo Astolfo (m. 756) minacciò di distruggere la città; ma si dice anche che il Pontefice "si pose l’immagine sulle spalle" e questo particolare indurrebbe a escludere che si trattasse di un panno di stoffa: cfr. G. Zaninotto, op. cit., p. 168, nota 274.

    (12) Cfr. ibid., pp. 172-177.

    (13) Zaninotto condivide la suddetta ipotesi: "Per un certo periodo la tavola lateranense e la Camuliana convissero nello stesso ambiente: l’oratorio di San Lorenzo. Per l’influsso di questa, la tavola assunse il nome di Acheropita e assolse la funzione di palladio di Roma" (op. cit., p. 179); cita pure in nota lo scrittore inglese Gervasio di Tilbury (secc. XII-XIII) che, in un passo degli Otia imperialia, opera scritta all’inizio del secolo XIII per Ottone IV di Brunswick (1175 ca.-1218), constata un’evidente somiglianza fra il volto di Cristo della Veronica, conservato in San Pietro, e la tavola dipinta che si trova nell’oratorio di San Lorenzo (ibidem).

    (14) Dal contesto sembra che padre Pfeiffer S.J. condivida senza obiezioni l’ipotesi, per altro altamente probabile, sviluppata in modo particolare dagli studi di Zaninotto e di Wilson dell’identità fra l’Acheropita conservata fino al 994 a Edessa e poi traslata come Mandylion a Costantinopoli e la Sindone di Torino.

    (15) Cfr. H. Pfeiffer S.J., Dai Carpocraziani alla Sindone, in Il Telo. Rivista di Sindonologia, anno II, n. 4, Roma gennaio-aprile 2001, pp. 4-7.

    (16) Cfr. Ireneo di Lione, Contro le eresie, I, 25, 6, in Idem, Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di don Enzo Bellini (1935-1981) e per la nuova edizione di Giorgio Maschio, Jaca Book, Milano 1997, pp. 45-483 (p. 105).

    (17) Ibidem.

    (18) Ibidem.

    (19) Solo per l’Immagine di Edessa a Genova e L’Icona di Cristo in Vaticano, nella Sagrestia della Cappella Matilde — ambedue del 1200 —, nelle quali la corrispondenza con il Volto Santo di Manoppello non è perfetta, manca questa sovrapposizione. In compenso, nel testo compare la riproduzione sia dell’Icona di Recklinghausen, sia la stessa con il Velo sovrapposto.

    (20) Cfr. P. Baima Bollone, Sindone o no, Società Editrice Internazionale, Torino 1990, p. 168.

    (21) Per esempio, Enrico Morini, in Icone e Sindone — testo per altro assai pregevole —, in L. Coppini e F. Cavazzuti (a cura di), op. cit., pp. 17-34 afferma semplicemente: "Non prendo in considerazione invece il Volto Santo di Manoppello, dalle evidenti caratteristiche pittoriche post-rinascimentali" (p. 31, nota 38).

    (22) Suor Blandine Paschalis Schlömer O. C.S.O., Penuel. Il volto del Signore, in Il Telo. Rivista di Sindonologia, anno I, n. 1, Roma gennaio-aprile 2000, p. 34.

    (23) Mario Moroni e Francesco Barbesino: Le monete di Pilato ed i decalchi sugli occhi dell’Uomo della Sindone: ricerche numismatiche, prove sperimentali e nuovi riscontri, in Il Telo. Rivista di Sindonologia, anno II, n. 4, Roma gennaio-aprile 2001, pp. 30-36, memoria presentata al I Congresso Sul-Americano. I Congreso Brasilero sobre O Santo Sudario, svoltosi a Rio de Janeiro dal 2 al 4 settembre 1999.

    (24) Cfr. quanto accertato mediante le ricerche degli studiosi statunitensi dello STURP — Shroud of Turin Research Project, il "Progetto di Ricerca sulla Sindone di Torino" — che hanno, con l’elaborazione elettronica, esplorato le zone orbitali della santa Sindone e le successive conferme ottenute dai ricercatori italiani dell’università di Torino Giovanni Tamburelli e Nello Balossino: cfr. Nello Balossino, Computer processing of the body image, in Silvano Scannerini e Pietro Savarino (a cura di), The Turin Shroud, past, present and future. International Scientific Symposium, Torino, 2.-5. March 2000, Sindon-Effatà Editrice, Torino-Cantalupa (Torino) 2000, pp. 111-124.

  7. #7
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    Predefinito x P. Silvano

    Lei dice:

    "Mi chiedo anche perchè due reliquie insigni come la Sindone ed il Volto siano, per vie divine che non possiamo comprendere, nelle mani dei romano-cattolici. Forse perchè chi è più malato ha maggiormente bisogno del medico? Ma anche noi siamo malati per i nostri peccati anche se non per l'eresia"

    Capisco che tante volte è difficile trovare sempre delle cose da dire contro i cattolici ......... però queste castronerie le potrebbe evitare, Lei è un uomo di Dio, e allora si comporti come tale...... altrimenti se va avanti di questo passo tra poco ci scriverà che la tragedia dell'aereo in Ucraina è successo perchè in luogo "uniate".

    Quanta pazienza ci vuole al mondo.....

  8. #8
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    Predefinito incomprensione

    Caro Leonardo,
    ho la sensazione che tu non riesca a comprendere le mie parole nel verso giusto.
    Che c'entra la tragedia aerea con la mia domanda?

  9. #9
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