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    Predefinito No alla Turchia in Europa!!!

    La Turchia esulta. Approvati i provvedimenti chiesti dall'Ue, l'adesione ora è vicina
    di Red.

    Il parlamento turco ha preso una «decisione storica» e ha compiuto un «grande passo» verso la partecipazione all’Unione europea. «Ora tocca a Bruxelles fare il prossimo passo, Ankara non può che attendere la data per l'inizio del negoziato di adesione».

    Sono questi i più rilevanti giudizi espressi dai principali giornali turchi questa mattina dopo la maratona notturna del parlamento, terminata alle 6,30 di stamani dopo 16 ore e mezza di seduta quasi ininterrotta (solo un'ora per rifocillarsi) nel corso della quale è stato approvato un pacchetto di 14 provvedimenti chiesti dai quindici dell'Ue come condizioni per l'inizio del negoziato di adesione della Turchia: a cominciare dall’abolizione della pena di morte in tempo di pace e dall'abolizione del divieto di trasmissioni in lingua curda e dell'insegnamento del curdo nelle scuole private, fino all'ampliamento della libertà di stampa, del diritto di critica (anche verso le istituzioni statali e le forze armate) e della libertà di associazione anche internazionale e delle fondazioni religiose. Inoltre sono stati approvate alcune importanti limitazioni ai poteri della polizia, accusata da molte associazioni dei diritti umani di praticare, la tortura.

    «Il parlamento ha preso una decisione storica», titola questa mattina il liberale Hurriyet, osservando poi che solo il Partito di azione nazionalista (Mhp) del vicepremier Devlet Bahceli si è opposto ai provvedimenti con parte del partito islamico ’Giustizia e progresso’ di Recep Erdogan. «Un grande passo verso l'Europa», titola Cumhuriyet (giornale di sinistra). «Europa, stiamo arrivando», è l’apertura del liberale Milliyet. Un «Grazie», viene rivolto dal liberale Sabah ai 406 «coraggiosi deputati» che hanno partecipato alla «storica seduta» del parlamento.

    «Non abbiamo perso il treno europeo: ora la palla sta nel campo dell'Ue», titola Radikal (quotidiano di sinistra) che ricorda che la questione Turchia dovrà essere discussa nella riunione dei ministri degli esteri europei di Bruxelles il 30 agosto e una decisione dovrà essere presa nella successiva riunione del 16 ottobre. «L'orologio europeo passa per la porta del parlamento», titola il foglio di destra Turkye, ricordando che mancano solo 132 giorni al vertice di Copenaghen, nel corso dei quali il parlamento deve approvare le leggi di attuazione degli articoli approvati in nottata e Bruxelles deve fissare una data per l'inizio del negoziato: «Il conto alla rovescia finirà il 12 dicembre», conclude il giornale.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Albania. Piccole mafie crescono


    La guerra contro Milosevic ha sconvolto gli equilibri di un'intera regione. E del caos approfittano i boss. Che hanno un nuovo obiettivo: trasformare il Paese delle Aquile in un santuario per ogni tipo di traffici illeciti.


    di
    BRUNO CRIMI 29/10/1999




    (e. paoni/contrasto)
    Un'immagine del porto albanese di Valona, principale base degli scafisti che gestiscono i traffici illegali nel Mare Adriatico.

    Il Montenegro, al di là delle simpatie politiche che suscita il suo presidente, un brillante conversatore, un uomo di mondo, potrebbe essere considerato uno 'stato mafioso' secondo la classificazione che dei regimi sospetti forniscono il dipartimento di Stato americano e l'Ue.



    All'Aja, l'Europol, organismo che coordina le iniziative delle polizie dei paesi Ue nella lotta, tra l'altro, contro la criminalità organizzata e il traffico di droga, a fine settembre ha lanciato l'allarme. Confermando, in sostanza, i timori dei rapporti americano ed europeo dello scorso anno. Rispetto al '98 la situazione si è aggravata. La guerra del Kosovo ha portato alla sostanziale apertura delle frontiere in quella che viene definita come la 'dorsale verde' dei Balcani. Cioè quei paesi in cui vivono popolazioni interamente musulmane o forti minoranze di religione islamica. La dorsale, che parte dal fiume albanese Shkumbin (giusto a nord di Valona), ingloba la quasi totalità dell'Albania, il nord-ovest della Macedonia, il Kosovo, il Sangiaccato (che in parte è serbo e in parte montenegrino) e una buona porzione della Bosnia fino alle frontiere della Croazia. La dorsale verde, strada maestra della penetrazione ottomana e islamica nei Balcani, fino alla guerra del Kosovo era privata di un anello di congiunzione fondamentale, quello del Sangiaccato, in cui la popolazione è al 55 per cento musulmana, di origine turco-balcanica.



    Questa regione, che dal 1913 è divisa longitudinalmente tra Serbia e Montenegro, era particolarmente sorvegliata, fin dai tempi della Jugoslavia di Tito, dalle forze di Belgrado. Il suo irredentismo era considerato molto pericoloso dal regime. Ai tempi dell'impero ottomano, il Sangiaccato era stato un'entità statale autonoma che in qualche modo controllava i traffici nella regione. Proprio per questo motivo, a conclusione delle guerre balcaniche, i vincitori se ne erano divisi le spoglie.



    Anche nel Sangiaccato, comunque, la guerra del Kosovo ha abbattuto le frontiere: decine di migliaia di rifugiati che durante il conflitto erano fuggiti in Montenegro e in Bosnia hanno ripercorso la direttrice Novi Pazar-Pljevlja, che in passato era il croceviadi tutti i commerci e di tutti i traffici provenienti dall'Oriente turco-ottomano e diretti verso l'Europa centrale e settentrionale.



    Quando oggi si parla di 'traffici' non si pensa nè alle stoffe nè alle pietre preziose. Ma alla droga, al riciclaggio, alle organizzazioni mafiose. Ed è esattamente quello che ha fatto l'Europol evidenziando il fatto che il ripristino della dorsale verde rappresenta un serio pericolo per l'Europa occidentale, molto più aperta di quanto non fosse ai tempi dei cartelli colombiani alla penetrazione delle droghe pesanti.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  3. #3
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    RUOLO DELLA TURCHIA NELLA CRISI JUGOSLAVA

    a cura del Comitato unitario contro la guerra alla Jugoslavia

    Indice

    Il panturchismo e' una ideologia diffusa nei Balcani, dalla quale dipende molto delle sorti della pace, ed e' strano che in questi anni i nostri commentatori ne abbiano parlato cosi' poco. Non ci riferiamo qui all'idea di unificare tutti i popoli che appartengono al gruppo linguistico turcofono (turchi, tartari, kasachi, usbechi, turkmeni, azeri, altri caucasici ecc.), esplicitamente perseguita dai Lupi Grigi e dai loro sponsor, bensi' della espansione dell'influenza economica e culturale turca anche all'interno dell'Europa. Piu' precisamente, le ambizioni pan-turche conprendono tutti quei popoli convertiti al credo islamico sotto l'Impero Ottomano, indipendentemente dalla loro origine "etnica". Percio piu' che di pan-turchismo si deve forse parlare di neo-turchismo, una politica che e' divenuta politica ufficiale dello Stato turco da anni ed e' stata formulata in termini espliciti da alti esponenti delle istituzioni e della cultura, a partire dal presidente della republica Süleyman Demirel quando ha affermato che la Turchia si estende dal mare Adriatico alla muraglia cinese ("Politika" 25/2/1992).

    E' un progetto che riguarda l'area jugoslava ed albanese, ma anche Cipro, Grecia e Bulgaria. Ricordiamo in particolare che la occupazione militare di Cipro continua ormai da piu' di venti anni.

    Per quanto riguarda la ex Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia le zone interessate sono la Bosnia Erzegovina, il Sangiaccato, la provincia di Kosovo e Metochia (Kosmet) e la Macedonia. Gli Stati Uniti d'America, oggi unica superpotenza mondiale, esprimono dichiaratamente da anni il loro sostegno alla Turchia come potenza regionale e nei Balcani hanno appoggiato e continuano a sostenere la secessione dei suddetti territori e la creazione di una catena di protettorati che alcuni definiscono "trasversale" o "dorsale verde" (cfr. LIMES 4/1998).

    Queste aree assumono un particolare valore strategico come futura direttrice per il trasporto delle materie prime dall'Asia Centrale ex-sovietica all´Europa, attraverso lo storico "corridoio" Turchia-Bulgaria-Macedonia-Albania che taglierebbe fuori definitivamente la Russia. Questo quadro strategico e'anche all'origine dell'accanimento repressivo contro il popolo Kurdo, che ha la sola colpa di vivere nel posto sbagliato, e della crescente instabilita' dell'area caucasica.

    Questo avviene grazie alla potenza militare americana ma anche grazie al sostegno di paesi islamici come l'Arabia Saudita, che controlla fondamentali strutture finanziarie, lobby di pressione ed agenzie di informazione. Contemporaneamente gli USA riescono in questo modo a destabilizzare il polo imperialistico europeo. Ricordiamo anche che da alcuni anni a questa parte lo Stato turco sta sviluppando legami militari, politici ed economici con Israele, ad esempio il progetto della diga dell'Eufrate che concentrerebbe nelle mani dei due Stati i "rubinetti" idrici di tutto il Medio Oriente.

    Nel breve termine gli USA mirano alla costituzione di una grande Albania che comprenda il Kosovo, e di uno Stato islamico dei musulmani di Bosnia e Sangiaccato. Questo progetto implica la scomparsa della Republica Federale di Jugoslavia, la riduzione della Serbia e dei serbi ad entita' irrilevante, la destabilizzazione della Macedonia e la costrizione di Grecia e Bulgaria nella morsa del pan-turchismo. Ha scritto il giornalista Nazmi Arif sul giornale turco "Turkiye Gazetesi" (citato su "Politika", 21/2/1993): "I popoli turchi, cui e' stato impedito fino a poco tempo fa di esprimere i loro sentimenti nazionali e religiosi... in Bulgaria, Romania" potranno ora liberarsi "alla condizione, che questi popoli a breve si riuniscano alla madre patria". Questo spiega perche' la Turchia si sia prodigata per la indipendenza di Bosnia Erzegovina e Macedonia come primo passo per altri tipi di pressioni sui popoli dell'area. Per questo la Turchia non puo' accontentarsi di manovrare la piccola minoranza turca della ex RFS di Jugoslavia (centotrenta mila persone secondo il censimento del 1971) ma deve fare leva sui sentimenti di slavi e schipetari di religione musulmana. Tra questi ultimi il turco e' ormai la prima o la seconda lingua straniera, le comunicazioni ed i commerci sono massicciamente orientate in direzione di Ankara cosi' come i rapporti politici, finanziari, commerciali e militari delle leadership islamiste locali a cominciare dal Partito di Azione Democratica [SDA] di Alija Izetbegovic in Bosnia.

    Particolarmente forte e' il senso di appartenenza al mondo turco nella cultura e nella ideologia schipetara tradizionale, oggi strumento dei leader albanesi "democratici" dell'anticomunismo post-ottantanove.

    "Noi vediamo come impossibile vivere sotto una amministrazione qualsivoglia, piu' indipendente o piu' autonoma, che non sia la amministrazione ottomana, ne' di poter essere cittadini di alcuno che non sia il sultano", scrissero alla fine del secolo scorso i rappresentanti politici degli albanesi di Tetovo, oggi in Macedonia, in un telegramma all'ambasciatore francese a Costantinopoli in un momento critico per il loro futuro politico ("La lingue albanaise de Prizren 1878-1881", Documents I, Tirana, 1988, pag. 21).

    Durante la prima Guerra mondiale, tra il 1914 e il 1915 al centro dell'Albania, gia' Stato indipendente, esplose una rivolta contadina che tra le altre rivendicazioni espresse quella della unione con lo Stato ottomano. Dopo la guerra una parte rilevante degli schipetari del Kosovo preferi' trasferirsi in Turchia anziche' rimanere a far parte della Jugoslavia monarchica, optando per lo Stato di Kemal Ataturk piuttosto che per lo Stato albanese e per la lingua turca piuttosto che per quella albanese. In seguito al "Patto balcanico" del 1934 ancora 200mila albanesi del Kosmet si trasferirono in Turchia, ed oggi si calcola che circa tre milioni di turchi siano di origine albanese.

    Questi fatti illustrano la possibile identificazione, in certi settori della cultura albanese, della antica conversione religiosa con la fedelta' verso lo Stato ottomano, legame che puo' essere alla radice di rinnovati contrasti con il mondo slavo, innanzitutto con i serbi ortodossi principali artefici della distruzione di quello Stato. Lo si vede oggi nelle dichiarazioni di intellettuali e uomini politici, come Adil Zulfikarpasic, fondatore della Libera Organizzazione dei Bosgnacchi (translitterazione italiana del termine "bosnjak" con il quale si definiscono gli slavi di religione musulmana, non solo della Bosnia, distinto da "bosanac" - "bosniaco" - ovvero abitante della Bosnia) ed ex-vicepresidente della SDA: "E' noto che fino alle guerre balcaniche su questi territori c'era lo Stato turco ... era il nostro Stato. Uno Stato che faceva i nostri interessi... cioe' la nostra emancipazione, la nostra prosperita', il nostro futuro erano legati a questo Stato turco e miravano a rafforzarlo ... perche' noi, voglio dire serbi e musulmani, eravamo allora grandi nemici. Quando l'Impero turco si e' ritirato, abbiamo continuato ad essere avversari" ("Stav", 21.02.1992, Novi Sad, p. 21). In effetti nello Stato ottomano la conversione all'Islam garantiva uno status sociale privilegiato, benche' le altre religioni fossero tollerate nella misura in cui non mettevano in pericolo l'ordine politico-sociale (nel qual caso la repressione poteva raggiungere livelli disumani). Dopo l'assassinio negli anni Ottanta dell'ambasciatore turco nella RFS di Jugoslavia, pure attribuito ad estremisti musulmani, i rapporti tra i due Stati si deteriorarono ed aumentarono invece le relazioni tra Istanbul e Novi Pazar, principale citta' e centro politico-culturale del Sangiaccato. Il numero degli autobus di linea tra le due citta' e' cresciuto enormemente durante gli ultimi anni insieme a traffici di ogni tipo, i cui intermediari sono spesso bosgnacchi o albanesi con cittadinanza turca. Con l'introduzione del sistema multipartitico in Jugoslavia tanti legami che prima esistevano in forma piu' o meno clandestina sono venuti alla luce, e sono cosi' usciti allo scoperto i referenti politici della influenza turca in questa parte dei Balcani.

    Il principale partito politico di questo spettro e' l'SDA, fondato e tuttora guidato dal Presidente bosniaco Izetbegovic che non ha mai fatto mistero delle sue convinzioni islamiste, messe nero su bianco gia' negli anni Settanta nel suo libro "Dichiarazione Islamica" (stralci sono stati pubblicati su LIMES 1-2/1993; cfr. anche http://marx2001.org/crj/DOCS/alija.html ). L'SDA ha una ramificazione in Serbia, con centro a Novi Pazar dove i personaggi piu' influenti sono Sulejman Ugljanin, Rizah Gruda, Alija Mahmutovic ed altri. La cooperazione privilegiata e' dall'inizio quella con i partiti islamisti e nazionalisti della Turchia, come il Partito del Benessere (Refah Partisi) di Erbakan, la cui linea politica e' persino anticostituzionale in Turchia perche' estremamente antilaicista. Ugljanin e' stato spesso in missione politica ad Ankara, ospite anche del Refah. Questo fino a venire incriminato per sospette mire insurrezionali e a dovervi dunque rimanere a lungo. La polizia jugoslava aveva infatti trovato a Novi Pazar armi e munizioni presso diversi militanti dell'SDA, e le armi provenivano soprattutto da Turchia ed Albania. Nel giugno 1991 alla vigilia delle dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia, che diedero il via alla guerra, Ugljanin partecipo' ad Istanbul ad un raduno del Refah dove retoricamente chiese alla folla "perche' la Turchia non abbia mai sufficientemente aiutato i musulmani di Jugoslavia, ne' politicamente ne' economicamente" ("Muslimanski glas" - Voce Musulmana -, organo dell´SDA, 14/6/1991 p.18). In tutto il periodo successivo si sono moltiplicate le dichiarazioni di questo tipo, volte in particolare ad auspicare un intervento turco non solo nello scenario bosniaco ma nella stessa Serbia: sempre Ugljanin dichiara nel 1992: "non appena [in Sangiaccato] sara' sparato il primo colpo, Demirel arrivera' " (Vecernje Novosti, 26/7/1992).

    Due mesi dopo il riconoscimento dell'indipendenza della Bosnia Erzegovina (aprile 1992) Ugljanin ritorna a visitare la Turchia incontrando il Ministro degli Esteri Hikmet Cetin e lo stesso Demirel. Il crescendo di pressione anti-serba nell´opinione pubblica turca e' opera soprattutto dai partiti dell´estrema destra, tanto che il 3 giugno 1992 il consolato Jugoslavo a Istanbul viene preso a sassate dai manifestanti. Il primo ministro Ecevit propone in quei giorni un patto militare per la sicurezza comune tra Turchia e Bosnia Erzegovina, patto che avrebbe consentito l'invio di aiuti militari e di truppe, come espressamente richiesto dai rappresentanti turchi alla riunione della Conferenza Islamica tenutasi ad Istanbul (giugno 1992). La richiesta di sollevare la Bosnia dall'embargo sui rifornimenti di armi viene presentata anche all'ONU. Particolarmente pesante e' la pressione turca, a nome della Conferenza Islamica, alla Conferenza di Londra, tenutasi nell'agosto 1992, e poi di nuovo in occasione della visita al Consiglio di Sicurezza dell'ONU in novembre: l'idea e' quella di rifornimenti di armi ai musulmano-bosniaci di Izetbegovic, rifornimenti che in assenza di una iniziativa da parte dell'ONU i paesi della Conferenza Islamica riunitisi in Senegal i primi di gennaio del '93 mostrano di voler attuare unilateralmente. Ed in effetti forniture di armi e munizioni da parte della Turchia avranno luogo per tutta la durata del conflitto in Bosnia, sia per via aerea che attraverso il porto croato di Spalato.

    I rapporti internazionali dell'SDA sono stati rivolti anche alle minoranze turche e musulmane di altri paesi limitrofi, come la Bulgaria dove esiste un "Movimento per i diritti e le liberta'". Il dirigente di questo movimento Ridvan-Malik Kadiov visito' Sarajevo gia' nel '91, dove fece visita ad una classe di scolari bulgari giunti a studiare presso gli Imam della Bosnia ("Muslimanski Glas" 1/3/1991, pg. 10).

    Un altro scenario assai delicato per i rapporti tra mondo ortodosso e mondo islamico nei Balcani e' quello macedone. Nella Repubblica ex-Jugoslava di Macedonia (FYROM) esiste una minoranza di lingua albanese, concentrata nelle zone occidentali, nel seno della quale pure negli ultimi 10 anni si e' sviluppata una tendenza irredentista-separatista che mette in pericolo il sistema multinazionale su cui si fonda questo piccolo Stato. Nel luglio 1997 ad esempio, mentre Ugljanin veniva arrestato in Serbia a causa di certe dichiarazioni di segno secessionista, a Tetovo e Gostivar si verificavano dimostrazioni ed incidenti con la polizia macedone. Due i problemi principali: quello della "Universita' parallela" di Tetovo, gestita dai nazionalisti panalbanesi con il sostegno di finanziatori occidentali (es: la Fondazione Soros), e quello della esposizione delle bandiere albanesi e - per l'appunto - turche sulle facciate dei municipi e di altre istituzioni locali. Al centro dello "scandalo delle bandiere" esposte a Gostivar fu ad esempio il sindaco Osmani, membro dell'ultradestra nazionalista di Xhaferri, che dovette scontare un anno e mezzo di prigione fino all'inizio del 1999. Merita attenzione il fatto che a questi settori e' andato in tutti questi anni il sostegno del Partito Transnazionale Radicale di Pannella, che ha organizzato campagne per la liberazione di Osmani, dunque contro il carattere multinazionale dello Stato macedone.

    Lo stesso dicasi per il Kosovo, dove dagli anni Ottanta, nonostante l'alto grado di autonomia della provincia nella RFSJ, sono riemerse le tendenze irredentiste. Dopo la abrogazione degli aspetti piu' politici di detta autonomia, alla vigilia dello scoppio del conflitto inter-jugoslavo, i settori panalbanesi guidati da Ibrahim Rugova, leader della "Lega Democratica del Kosovo", hanno iniziato a praticare il boicottaggio assoluto della vita politica e sociale jugoslava costruendo un sistema "parallelo" in tutte le attivita' - dalla sanita' all'istruzione - che ha configurato un vero e proprio "separatismo etnico". Questo sistema parallelo e' stato visto con apprezzamento in Occidente, anche dai settori "pacifisti" entusiasmati dal suo carattere non-violento, ed e' stato sostenuto con finanziamenti di vario tipo provenienti dall'estero, soprattutto Germania, Svizzera ed USA. Oltre alla lobby albanese-americana, merita menzione in particolare il "governo in esilio" di Bukoshi, con sede in Germania.

    Rugova e' stato piu' volte in Turchia, dove ha incontrato l'allora Presidente Özal che gli ha garantito il suo appoggio (Vecernje Novosti, 17/2/1992). E' curioso che da noi di Rugova si sia detto solamente che e' un "pacifista", mentre nessuno ha mai citato le sue dichiarazioni, piu' volte rilasciate agli organi di stampa stranieri, come lo zagrebino "Danas" (1992), secondo le quali l'ideale per il Kosovo e' uno status transitorio di protettorato internazionale, per poi unirsi all'Albania.

    La collaborazione politica e militare tra Turchia ed Albania e' nota da anni ormai. Lo scenario e' particolarmente preoccupante a causa dell'aggravarsi della situazione nel Kosmet, dove a partire dal 1997 si e' scatenata l'attivita' terroristica, gia' presente, dell'UCK ("Esercito di Liberazione del Kosovo"), sostenuto dalla lobby albanese negli USA (spec. la Albanian-American Civil League legata a J. Dioguardi e Bob Dole) attraverso la destra di Sali Berisha in Albania.
    Cristophe Chiclet rivela su "Le Monde Diplomatique" di gennaio 1999 che il nucleo fondatore dell'UCK fu costituito dal Movimento Popolare del Kosovo (LPK), una organizzazione apparentemente marxista-leninista in conflitto con le dirigenze della provincia autonoma del Kosovo, ai tempi di Tito, e con la leadership di Rugova successivamente.

    In effetti pero' il Movimento Popolare del Kosovo e' stato fondato nel 1982, nella citta' TURCA di IZMIR (Smirne). Non ci vuole molto a capire il perche'.

    Nel 1982 in Turchia governava una feroce cricca militarista-fascista che aveva effettuato un golpe due anni prima contro il legittimo governo socialdemocratico. Questa cricca era (e') specializzata nel reprimere i movimenti, i partiti e le organizzazioni di sinistra, comuniste, marxiste, leniniste, socialiste, rivoluzionarie e operaie dei popoli turchi, alawiti, kurdi, armeni e siriani.





    Poteva il governo militar-fascista di Ankara concedere graziosamente, al sedicente movimento "marxista-leninista" kosovaro, di indire il suo congresso di fondazione? Piu' realisticamente l'UCK deve essere visto come uno strumento della guerra a bassa intensita' contro la Repubblica Federale di Jugoslavia, atto alla sua destabilizzazione.

    In questa organizzazione sono stati arruolati mercenari da svariati paesi islamici; nel 1998, nei giorni della caccia ad Osama Bin Laden, la CIA ha dovuto persino fare irruzione nella rappresentanza UCK a Tirana, in cerca di documenti.

    Tuttavia la strategia della tensione in Kosmet ha mostrato di non dare immediatamente i suoi frutti, pertanto nella seconda meta' del 1998 si e' andati ad un crescendo di minacce di bombardamenti contro la RF di Jugoslavia, fino al reale, brutale attacco del 24 marzo 1999, giustificato con la non accettazione da parte jugoslava dell'"accordo"-capestro di Rambouillet, che prevedeva la occupazione militare NATO nel Kosmet ed una consultazione popolare che avrebbe portato alla secessione della provincia nel giro di tre anni. Durante i bombardamenti i diplomatici USA (es. E. Luttwak alla trasmissione televisiva italiana "Pinocchio") hanno incominciato a dire apertamente che la loro cessazione e' condizionata alla rinunzia da parte jugoslava alla sovranita' sulla provincia. Ma il Kosmet, oltre ad essere il cuore storico-culturale della Serbia, e' anche ricco di materie prime e nelle sue centrali a carbone si produce una rilevante quantita' di energia elettrica, della quale deve viceversa usufruire tutta la popolazione della Repubblica Federale.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    L’Orda scagliata contro i nostri popoli
    INTERVISTA / Il segretario: si approvi subito la nuova legge ferma
    alla Camera e si adottino sanzioni rigorose

    Bossi: credo proprio che ci voglia
    un Commissario unico sull’immigrazione
    di G. Ba.

    Onorevole Bossi, in Sicilia lo “sbarco dei Mille”, clandestini a bordo di una carretta del mare. Non finirà mai?
    “E’ ben noto che il compito che abbiamo è enorme. Si tratta di raddrizzare una situazione di lassismo che dura da più un decennio, quando democristiani e socialisti lasciarono aperte tutte le frontiere. Chiudere un colabrodo è un’impresa titanica, ma ci si deve arrivare...”.
    Ma con quali strumenti?
    “Penso ormai che se non si arriva ad istituire rapidamente a un Commissario Unico per l’Immigrazione non se ne viene fuori. Si resta nella palude dove si muovono le più svariate autorità che si inseguono, si rincorrono, e poi sbattono la testa senza mai combinare qualcosa di giusto”.
    E in attesa di una figura con poteri chiari, che cosa c’è da fare?
    “La prima cosa immediata è che il governo chieda l’urgenza per discutere e fare approvare alla Camera la legge sull’immigrazione già licenziata dal Senato. Non solo: che il governo si decida al momento del voto a “porre la fiducia“ in modo da evitare giochi criptodemocristiani...”
    Il Viminale sembra pronto a dichiarare lo “stato di emergenza” sulla questione immigrazione, anche se segnala i costi crescenti per i rimpatri...
    “Io credo che, per una semplice questione di equità, i costi che il nostro Paese sopporta per il controllo e il rinvio dei clandestini devono essere caricate sull’Europa. Noi siamo il terzo contribuente dell’Unione e l’Europa ci restituisce pochissimo rispetto a quello che paghiamo...”.
    Ma perchè l’Europa dovrebbe assumere questi costi?
    “Perchè non possiamo esser lasciati soli a controllare il Mediterraneo, che è ritornato ad essere un mare dove la gente cammina misteriosamente sulle acque e arriva tranquillamente sulle nostre coste e si sparge poi su tutto il continente. E’ un problema dei confini europei e bisogna decidersi a cambiare il modo di agire dell’Europa nel Mediterraneo”.
    In che modo?
    “Guardi io questa questione la pongo con forza a Berlusconi. Abbiamo sempre detto che questa gente dobbiamo aiutarla per davvero a casa loro. Ebbene, vedo che nel vertice di Barcellona non si è arrivati a costituire, com’era nei progetti, una Banca Europea per il Mediterraneo, ma ci si è limitati semplicemente ad aprire qualche linea di credito verso questi paesi. Così non va bene...”
    Ma come mai il vertice di Barcellona, che pure è andato bene per altri ambiti, in questo così delicato si è ridotto così?
    “Siamo alle solite. C’è che la Svezia ha posto il problema del riequilibrio territoriale e allora ci si è fermati. Io non nego che ci sia una questione aperta sulla frontiera baltica, ma ritengo che per l’Europa sia altrettanto, se non più certamente importante attirare l’attenzione sulla frontiera europea del Mediterraneo. Ecco perchè sostengo che i nostri costi diventino costi europei”.
    Ma in sede europea che cosa si deve fare?
    “Occorre che Berlusconi si faccia carico, e con forza, della necessità di creare nuovi equilibri diplomatici e nuove e più rigorose sanzioni. Se un Paese che vuole entrare in Europa non rispetta le regole, sia chiaro che per uno,due,dieci anni in Europa non entrerà...”.
    Il riferimento, mi pare, è alla Turchia. E sarebbe dalla Turchia che è partita la carretta approdata ieri a Catania...
    “No, è partita dalla parte turca dell’isola di Cipro una decina di giorni fa. E ha imbarcato i clandestini trasportati con zatteroni dalla riva alla nave. E qui c’è un’evidente stranezza sul comportamento della Francia. Se sono curdi iracheni, non dimentichiamo che era la Francia a vendere armi all’Iraq. E quindi restano domande aperte: perchè la carretta è stata scortata da una nave da guerra francese? Forse la Francia garantisce l’invasione di clandestini nel nostro Paese?”.
    E la nave arrivata a Catania?
    “Ora è sequestrata dalla magistratura. Però, alla fine dell’inchiesta, invece di rivenderla, magari agli albanesi che ricomincerebbero con il traffico, io l’affonderei al largo con due cannonate. E’ una mia vecchia idea : si è visto cosa succedeva con i gommoni...”.
    Per la Lega il tema dell’immigrazione è un argomento forte. Come reagirà il movimento?
    “Di fronte a questi tentennamenti la Lega torna in presa diretta sul territorio. Penso che comincerà una catena di manifestazioni di protesta contro i consolati e le ambasciate di quei paesi che favoriscono in maniera occulta il traffico dei clandestini. Non devono stare tranquilli questi manigoldi...”.
    Ma siamo alla vigilia di elezioni amministrative. C’è forse il rischio che non si facciano accordi con gli alleati?
    “Altrochè se c’è il rischio. Siamo stanchi di gente che traffica, magari sottobanco. Troppa gente perde il suo tempo a pensare al dopo-Berlusconi anzichè mantenere le promesse fatte al popolo prima del voto del 13 maggio...”.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    No alla Turchia nella Ue".


    Allarme Turchia, allarme Islam. L’"Avvenire", il giornale dei vescovi italiani, mette in guardia da un allargamento dell’Unione europea al di là della sua dimensione cristiana. C’è il rischio di un’offuscamento d’identità, sostiene il giornale, e di uno snaturamento del patto di fondazione basato su una "cultura comune, forgiata dalla tradizione cristiana e dalle culture cresciute accanto".
    "L’idea stessa di Europa -ricorda l’"Avvenire" in un suo editoriale - si è costruita in contrapposizione al "nemico" turco e al mondo islamico di cui la Turchia era l’avamposto". Meglio, forse, un rapporto positivo con Ankara, "ma tra realtà storico-culturali che sono e rimangono distinte".
    Così crescono nella Chiesa le paure per una presenza islamica, avvertita o temuta come troppo invadente. Almeno si apra un grande dibattito fra i popoli europei, invoca l’"Avvenire". Aprire o chiudere la porta di Bruxelles? Le opinioni si fronteggiano (...)

    Marco Politi, La Repubblica, 8/1/2000
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  6. #6
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    http://digilander.libero.it/kosovocrocifisso/


    Piange il Kosovo crocifisso... Mentre i nuovi Talebani – gli estremisti Albanesi dell'UCK – massacrano o costringono all'esilio, violentano chiese, santuari e monasteri,
    e sradicano memorie antiche...
    Su sepolcri veglia ormai la NATO, e tace.
    Su tombe vigila la KFOR, e tace...
    Piange il Kosovo crocifisso. E noi con esso...
    E con tutti i Serbi che hanno lasciato lì, dilaniata,
    la loro anima
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  7. #7
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    Dragoš Kalajic
    PARTNERSHIP FOR RACKET



    L'influente settimanale italiano Panorama è stato di recente onorato dalla presenza della CIA: Panorama, per primo nello spazio mediatico europeo, ha ottenuto i diritti a pubblicare e in tal modo diffondere i presunti risultati segreti di previsioni futuristiche della task force intellettuale della CIA, concernenti le imminenti, future e possibili disgregazioni di stati. Il documento in questione è una "bozza", circa 200 pagine, con numerosi allegati, grafici e diagrammi; il titolo è Rapporto sulla disintegrazione degli stati. Il settimanale italiano ha presentato una versione ridotta del Rapporto, aggiungendo che esso è il risultato di una ricerca interdisciplinare che, senza l'aiuto di analisi al computer - a causa dell'enorme massa di dati provenienti da oltre 600 campi diversi - avrebbe richiesto un lavoro di almeno dieci anni di ore/uomo.
    Gli autori del Rapporto esaminano quattro cause fondamentali della disgregazione degli stati: guerre ideologico-rivoluzionarie e civili, conflitti etnici, genocidi e "politicidi" e mutamenti traumatici delle strutture di governo. Il Rapporto include una mappa del mondo nel quale tutti gli Stati sono collocati in una di quattro categorie-base, a seconda delle loro prospettive future: rischio di disintegrazione incerto, basso, medio e alto. Gli USA, l'Unione Europea e il Giappone sono collocati fra i Paesi a basso rischio. Il colore rosso, che denota alto rischio, copre tutti i Paesi musulmani ex sovietici, India, Turchia, gran parte dei Paesi africani e quasi l'intera America Latina. In Europa, la zona ad alto rischio comprende Croazia, Federazione Musulmano-Croata [Bosnia], Repubblica Srpska [la Serbia bosniaca], Albania e Macedonia, mentre Repubblica Jugoslava, Slovenia e Romania sono situate nella zona a rischio medio.

    Gli editori della versione parziale del Rapporto hanno informato i lettori che questa visione dell'immediato futuro del mondo era destinata a restare segreta "non soltanto a causa di utilizzi indesiderati del Rapporto, ma anche delle possibili conseguenze politiche negative di un rapporto del genere". Così, gli ingenui fra noi possono concludere che l'inviato di Panorama è riuscito a penetrare negli archivi top secret della CIA e a svelare in modo irresponsabile un grande segreto, rendendo così possibile un "utilizzo indesiderato" nonché "conseguenze politiche negative", il tutto al fine di avvertire il pubblico di imminenti catastrofi. Non è necessaria molta intelligenza per concludere che la storia è un bluff, giacché chiunque sia in possesso di una minima conoscenza della rete dei mass media in Occidente sa bene che nel suo ambito - ad eccezione, per il momento, di Internet - una simile libertà non è né immaginabile né possibile, a causa della dipendenza dei principali fornitori di notizie dagli interessi del sistema plutocratico.A parte questo, la supposta segretezza del Rapporto è confutata dalla dichiarazione del direttore di ricerca della CIA, Daniel O. Esty, resa proprio al giornalista di Panorama. Nella dichiarazione, il dirigente della task force della CIA sottolinea che la task force ha scoperto "oltre ai tradizionali fattori socio-politici e geostrategici ... una serie di nuove cause che potrebbero vsvolgere un ruolo decisivo nello sviluppo di una crisi o di una disintegrazione traumatica degli stati".Consapevoli delle conseguenze di tutte le precedenti pubblicazioni di "segreti" usciti dagli antri nascosti della CIA, dobbiamo chiederci perché questo rapporto sia stato presentato al pubblico del "villaggio mondialista [globale]". L'autore di questo articolo è convinto che la CIA stia cercando di preparare psicologicamente il pubblico del "villaggio mondialista [globale]" a guerre e disintagrazioni statali che Washigton, direttamente o indirettamente, sta attualmente pianificando o incoraggiando. Quando tali predizioni si avvereranno, guerre e disintegrazioni saranno accettate come inevitabili, previste dalla suddetta tecnologia dell'informazione, che da lungo tempo, nella coscienza delle masse mondializzate, ha rimpiazzato non soltanto ogni fede nell'umano intelletto, ma persino l'antico volere di Dio, con cui i popoli del passato spiegavano tante calamità storiche.



    Lontano da Dio e vicino agli USA
    Pertanto, il citato Rapporto suggerisce indirettamente a tutti gli autentici amanti e fautori della pace di abbandonare ogni speranza ed illusione. Inoltre, questa realtà storica rigetta categoricamente tutte le teorie dei profeti, al soldo o gratuiti ("utili sciocchi", secondo il vocabolario della CIA), delle presunte virtù del modello americano di "società civile" e "multiculturale" - modello che si suppone inclini naturalmente verso la pace, a differenza di ogni sorta di nazionalismo e Stato nazionale che (sempre per supposizione) invariabilmente finisce con l'impegnarsi in guerre espansioniste. In realtà, la storia dimostra che "la democrazia dirigente" e campione di ogni progetto di "società civile" e "multiculturale", in quanto modello di stato, è di gran lunga il massimo produttore di interventi militari e guerre.
    Soltanto nel suo habitat geopolitico, l'America settentrionale, centrale e meridionale, nel corso degli ultimi cento anni gli USA si sono impegnati in quasi 90 fra interventi militari e guerre di espansione e in un enorme numero di colpi di stato; diretti o indiretti. Gli USA hanno usato la loro potenza militare contro Messico (14 volte), Cuba (13 volte), Panama (12 volte), Nicaragua (10 volte), Repubblica Dominicana (nove volte), Columbia e Honduras (9 volte ciascuna), Haiti (sei volte), Puerto Rico (tre volte) e in un'occasione contro Argentina e Brasile.

    L'interventismo militare cronico degli USA è al servizio di una corrispondente egemonia politica, militare ed economica che - mediante indebitamento imposto - distrugge ogni sistema economico e crea povertà, forzando le masse dei Paesi del Terzo Mondo americano ad emigrare negli USA. Queste sfortunate nazioni hanno coniato un proverbio che esprime in sintesi il loro destino: "Così lontano da Dio, e così vicino agli USA!". Recentemente, l'International Herald Tribune ha pubblicato un articolo di due guru del mondialismo di Washington: Jacob Heilbrun e Michael Lind hanno spiegato insieme 100 anni di interventismo militare e guerre che hanno condotto all'instaurazione del "primo impero Americano". Secondo loro, il secondo impero è stato conquistato grazie alla Seconda Guerra Mondiale e comprende l'Europa occidentale, il Giappone e alcune isole del Pacifico. Heilbrun e Lind informano il pubblico che ultimamente stiamo assistendo all'instaurazione del "terzo impero Americano" tramite "la direzione Americana del movimento delle nazioni Musulmane, dal Golfo Persico ai Balcani". Questa sequenza di eventi condurrà alla resurrezione dell'Impero Ottomano sotto tutela Americana, con la tendenza alla diffusione di questo "terzo impero Americano" in "Europa orientale (con l'aiuto della NATO) e nella Jugolavia un tempo neutrale".Il vero obiettivo delle "iniziative di pace" di Washington ha trovato conferma nelle dichiarazioni del sottosegretario al governo USA Strobe Talbott, che ha rimarcato come la NATO intende impegnarsi ad avviare operazioni all'esterno della sua originaria zona di azione, "nel Medio Oriente e altrove". Quell'altrove, alla luce della scoperta di ambizioni mondialiste, deve essere inteso come dovunque. Il commentatore di politica internazionale da Parigi di Le Monde Diplomatique, Marion Ajer, nel saggio dal titolo NATO: al servizio di quale sicurezza? offre questa risposta alla domanda: "Questo terzo dispiegamento di forze militari in Europa (dopo il 1917 e il 1944) rappresenta - una volta neutralizzata l'aspirazione dei membri dell'Unione Europea ad una forza di difesa comune - il rinovamento del tradizionale ruolo degli USA nell'Alleanza atlantica e la loro riconferma quale massima forza militare in un mondo unipolare"



    La strategia fondamentale contro la Russia
    La NATO è lo strumento "duro" fondamentale per l'instaurazione e la diffusione del "terzo impero Americano" dal Medio Oriente, dove l'egemonia e il controllo delle riserve petrolifere mondiali sono assicurati dall'asse militare Israele-Turchia (di recente ufficializzato con un accordo internazionale), attraverso l'"asse Islamico" per la penetrazione degli emigranti turchi e musulmani nell'Unione Europea, lungo tutto il confine della Russia. Il progetto di diffusione dell'influenza della NATO nella regione "post-comunista" è una minaccia alla Russia, minaccia che probabilmente si materializzerà una volta che il popolo russo si sarà liberato con il rovesciamento dei suoi attuali dirigenti russofobi, stranieri e mondialisti. Le mappe strategiche della NATO sin dal 1982 segnavano la regione del Caucaso come possibile futuro teatro bellico, il che proietta una luce diversa sulla guerra in corso in Cecenia e sugli sforzi dei suoi istigatori da Washington per diffondere quel conflitto al resto della Russia, provocandone così la distruzione.
    Si tratta dell'attuazione interventista della strategia anti-russa che si può rintracciare nella Direttiva del Consiglio di Sicurezza Nazionale n.20/1 del 18 agosto 1948:

    "Dobbiamo assicurare che persino un regime non comunista e nominalmente amico in Russia
    a) non disponga in futuro di una forza militare significativa;
    b) dipenda strettamente sul piano economico dal resto del mondo;
    c) non possa istituire nulla di simile alla 'cortina di ferro'.
    Se anche quel regime dovesse mostrare un atteggiamento sfavorevole verso i comunisti e favorevole nei confronti degli USA, dobbiamo assicurare che tali condizioni siano imposte, sia pure in maniera non offensiva o umiliante. Dobbiamo in ogni caso sottometterlo, pacificamente o con la forza, per proteggere i nostri interessi".

    Alla luce di questa strategia e della sua attuazione, possiamo concludere che l'Alleanza Atlantica e il progetto Partnership for Peace sono i mezzi per l'instaurazione e diffusione del "terzo impero Americano", come confermato da Heilbrun e Lind: "Nel futuro prevedibile, lo scopo principale dei Paesi alleati della NATO sarà quello di servire da centri di reclutamento di soldati per le guerre Americane nei Balcani, nel Mediterraneo e nel Golfo Persico. La sfida dell'instaurazione di una nuova sfera di influenza europeo-mediorientale richiederà lo sviluppo di nuove istituzioni ed alleanze simili alla NATO [Partnership for Peace, nota di D.K.] per le relazioni con i vari protettorati che gli USA si sono conquistati da 1990".

    Pertanto, tutta la propaganda sulla sedicente natura di strumenti di sicurezza e pace della NATO e di Partnership for Peace (la sala d'attesa della NATO) serve unicamente ad indottrinare masse sprovvedute e le corrispondenti pseudo-élites politiche sorte dalle rovine del sistema post-comunista. In una situazione del genere, pace e sicurezza dipendono quasi integralmente dalla buona o cattiva volontà degli strateghi del "nuovo ordine mondiale" di Washington e dai loro comandanti plutocratici di New York. Un buon esempio della totale "impotenza" della NATO nell'instaurare una pace duratura persino fra i suoi stessi membri è offerto dalle continue provocazioni militari della Turchia - dall'ormai ventennale occupazione militare della metà settentrionale di Cipro, fino ai recenti attacchi all'integrità territoriale della Grecia. E' evidente che la Turchia non sarebbe mai stata in grado di inscenare tali provocazioni senza l'incitamento o almeno il tacito consenso degli strateghi di Washington, i cui generali sono i comandanti supremi delle forze NATO. La NATO non è stata capace di controllare le ambizioni di conquista della Turchia; ha invece di recente deciso di inviare "osservatori" ai confini in pericolo della Grecia.


    Coloro che cercano Pace avranno Guerra
    Un'altra prova del vero carattere e dei veri scopi dell'Alleanza Atlantica quale strumento "morbido" per l'instaurazione e l'ampliamento del "terzo impero Americano" consiste nelle condizioni politiche ed economiche per essere accettati nell'Alleanza, condizioni che nulla hanno a che fare con fini militari e di difesa. Chiaramente, la NATO accoglierà soltanto "Paesi democratici", dunque Paesi i cui governi siano servitori affidabili degli interessi Americani.
    Altra condizione cruciale è una "economia di mercato", concretamente la totale assenza di protezione dell'economia domestica dalla pirateria finaziaria e industriale straniera. La storia ci dice che la maggior parte delle guerre, anche di quelle di maggiori dimensioni (come quelle contro il Giappone imperiale, la Russia degli zar e l'Impero Austro-Ungarico) vennero iniziate dai capitalisti dell'Occidente a causa della determinazione con cui quegli stati difendevano la loro indipendenza e ricchezza economica, i mercati e le risorse interne. Anche il citato Rapporto della CIA agita questa causa di guerra, precisando minacciosamente che gli stati a maggior rischio sono quelli con "basso livello di accessibilità al mercato".

    Un'altra importante condizione per accedere all'Alleanza Atlantica è la "capacità di sopportare tutti i costi necessari per adeguare il livello delle forze militari nazionali a quello delle forze NATO". In altre parole, la capacità di acquistare armamenti made in the USA, pagare costosi consiglieri per l'addestramento al loro uso, e pagare per il sostentamento delle forze di occupazione Americane. L'investimento necessario è così ingente per gli stati economicamente deboli e indebitati dell'Europa Orientale che persino gli ideatori di tali condizioni (o estorsioni) fiutano odore di fallimento. Dalle pagine del Washington Post, William Odom [ex direttore della National Security Agency, ndr] ammette apertamente: "Gli eserciti [dei Paesi dell'Europa Orientale] non sono sufficientemente moderni per soddisfare gli standard della NATO. Gli investimenti occorrenti per adeguarne il livello sono allo stato attuale eccessivi per le loro economie".
    Fra le condizioni per l'accoglimento nell'Alleanza Atlantica ne troviamo una che a prima vista appare innocua e ragionevole: "I membri della NATO accettano il principio della soluzione pacifica dei problemi interni e delle dispute sui confini". Purtroppo, la condizione è solo in apparenza innocua. L'esperienza recente conferma che questa condizione implica in realtà la rinuncia alla sovranità e il riconoscimento dela "comunità internazionale" (uno degli pseudonimi degli USA) quale unico arbitro delle dispute interne ed internazionali (fomentate da Washington).

    Una mente lucida e dotata di esperienza non fatica a individuare in quest'ultima condizione un altro annuncio di nuove guerre europee e fratricide, fondate sull'atica formula del cinismo politico: divide et impera. La dislocazione di queste guerre future e possibili è già stata determinata, come è confermato da numerosi studiosi di previsioni americani, dalla task force della CIA al già menzionato William Odom: "Un gran numero di ungheresi irrequieti vive nel sud della Slovacchia, nella Transilvania rumena e nella Serbia settentrionale. La Russia pretende che la Polonia conceda un corridoio in direzione dell'enclave di Kaliningrad (nella ex Prussia orientale). Esiste una minoranza polacca in Lituania, mentre Estonia e Lettonia presentano rilevanti minoranze russe. La Moldavia, un tempo parte della Romania, ha uno statuto incerto. L'allargamento della NATO può prevenire il sorgere di alcuni fra questi problemi e servire da monito a coloro che volessero sfruttare questi potenziali conflitti".

    Nel leggere questi testi, un lettore ingenuo potrebbe pensare con gratitudine che gli strateghi di Washington siano sinceramente preoccupati per la pace nell'Europa orientale e stiano cercando di proteggerla offrendo i servigi della NATO. L'esperienza della guerra e distruzione nella Bosnia-Erzegovina è sufficiente per rendersi conto, una volta per tutte, che una pace europea è indesiderabile per gli strateghi di Washington. Dapprima hanno spinto gli Ilamici bosniaci sulla via della secessione per mezzo di un referendum sull'indipendenza che, per ammissione inequivoca di Izetbegovic [attuale presidente della Bosnia, ndr], avrebbe significato una cosa sola: "dichiarazione di guerra". In seguito, hanno sabotato qualsiasi accordo di pace fra le parti belligeranti, ammonendo il leader degli Islamici [Izetbegovic] di respingere tali accordi e attendere in vista della promessa di guadagni maggiori. Solo quando hanno stimato che la pace (?) o il cessate il fuoco sarebbero stati confacenti ai loro obiettivi provvisori, gli strateghi di Washington hanno forzato gli Islamici a siglare un accordo di pace, presentando al contempo l'accordo di Dayton come il risultato della loro abilità e onnipotenza, e come prova dell'impotenza europea - altro motivo per ribadire l'egemonia Americana e la presenza di forze di occupazione NATO sotto comando Americano in Europa.



    La paura spinge verso la NATO
    Come sottolinea lucidamente Marion Ajer dalle pagine di Le Monde Diplomatique (dove, per la natura stessa della pubblicazione, è possibile ritrovare di tanto in tanto una verità o due), "affinché l'Alleanza Atlantica sopravviva, sarà necesario creare nuove guerre". Quindi, per giustificare l'esistenza dell'Alleanza agli occhi degli europei non sufficientemente compiacenti, gli strateghi di Washington dovranno creare nuove guerre in Europa per tenere occupata la NATO. Le stesse regole valgono per le nazioni est-europee, alle quali viene offerta protezione e sicurezza sotto l'ala sedicente pacifica della NATO: la loro pace e la loro sicurezza verranno coerentemente poste in pericolo per forzarle a pagare il racket dell'Alleanza Atlantica, cioè dei plutocrati di New York.
    La pace europea si è basata per molto tempo sui trattati di Versailles e Trianon, ma ora l'interventismo Americano sta distruggendo queste fondamenta. In un discorso rivolto al circolo nazionale della stampa statunitense il 31 gennaio 1996, Richard Holbrook, amministratore di guerra per conto di Washington sulle macerie della Bosnia-Erzegovina, ha annunciato che le fondamenta della pace europea sarebbero state distrutte a causa della "irrisolta eredità delle conferenze di Versailles e Trianon". Di conseguenza, tutte le frontiere interne dell'Europa Orientale e fra Germania ed Europa Orientale possono ora essere rimesse in discussione. Questo fatto, insieme con le minacce di guerra che comporta, è la ragione principale che spinge a comprare la pace pagando il "pizzo" degli estorsori di Washington.

    Il sottoscritto ha di recente chiesto all'influente studioso bulgaro di geopolitica Sergej Stanisev, dell'Istituto per la Ricerca sui Balcani e l'Europa, coma mai importanti forze politiche bulgare sostengano l'ingresso della Bulgaria nella NATO. Stanisev ha risposto:

    "Naturalmente, la vera ragione non sta in qualche paura putativa della politica espansionista della Russia, come viene di solito affermato pubblicamente. Nessuna persona seria e sensata presta attenzione ai moniti di Washington secondo cui il nuovo stato russo potrebbe in futuro dare il via alla conquista dei territori dell'ex Unione Sovietica e dell'Est Europa un tempo controllati. Anche se covasse ambizioni espansioniste, questa nuova Russia non sarebbe semplicemente capace di nulla di simile. Come si può anche solo immaginare che un esercito incapace di spezzare l'insorgenza in Cecenia possa imbarcarsi in un'impresa di conquista di tali dimensioni? La ragione fondamentale e nascosta del desiderio di unirsi all'Alleanza Atlantica è la paura della politica guerrafondaia che Washington persegue con successo. L'attuazione di questa politica nei territori della Jugoslavia ha profondamente influenzato tutte le elites est-europee. Molti credono di potersi comprare pace e benevolenza aggregandosi alla NATO e pagando un riscatto ai guerrafondai di Washington".

    Un buon esempio di questa psicosi da guerra è la gara a unirsi alla NATO in atto fra Ungheria e Romania - gara alimentata dagli emissari e i ricattatori di Washington, a cominciare da Javier Solana, segretario generale della NATO. Solana ha ultimamente visitato le capitali dei Paesi dell'Est europeo disposti a pagare il "pizzo" alla NATO, cominciando da Kiev e finendo con Sofia; a tutti ha giurato che "la corsa è aperta" e l'arbitro "imparziale". E tuttavia, nella pratica, anche se "tutti sono uguali", alcuni sono "più uguali degli altri", dato che obbediscono alle "richieste democratiche" (degli strateghi del mondialismo di Washington) con maggiore entusiasmo di altri.

    Gli interlocutori rumeni, incluso il presidente, il ministro della difesa, il ministro degli affari esteri ed entrambi i capi dei due rami del parlamento, hanno offerto a Solana numerose e umilianti garanzie della volontà della Romania di soddisfare tutte le condizioni per aderire alla NATO. Hanno persino presentato gli esiti di un sondaggio a dimostrazione che il 95% dei rumeni appoggia l'ingresso del Paese nell'Alleanza Atlantica. Ciononostante, non è stata dissipata la loro impressione che l'Ungheria verrà accolta nella NATO nel primo round, mentre la Romania dovrà aspettare fuori.


    L'illusione chiamata Occidente
    Altra impressione ricavata è che Washington favorisca deliberatamente alcuni "postulanti" a svantaggio degli altri, al fine di suscitare fra gli stati sospetto reciproco, dispute e infine conflitti. Il ministro degli affari esteri rumeno Melekasanu ha pubblicamente sottolineato che "la corsa per accedere alla NATO è un fattore di instabilità in questa parte del mondo". Secondo l'opinione di un esperto quale il ministro delle difesa rumeno Tinka, se l'Ungheria si unirà alla NATO mentre la Romania resterà esclusa, entrambi i Paesi "si impegneranno in una corsa agli armamenti". Naturalmente, questa corsa avverrà secondo gli standard della NATO, con grande soddisfazione dell'industria millitare Americana, dei suoi investitori e degli estorsori internazionali che forniranno credito ad entrambi questi stati ricattati e indebitati.
    Il ministro della difesa rumeno Tinka giustamenta valuta che una corsa agli armamenti fra Romania e Ungheria incoraggerà le tendenze separatiste in seno alla minoranza ungherese in Romania e le richieste di concessioni territoriali dell'Ungheria, in base a quanto Washington ha dichiarato a proposito dell'annullamento, di fatto, del Trattato di Trianon. Javier Solana ha fatto del suo meglio per stimolare un conflitto ungaro-rumeno per conto dei suoi padroni, i plutocrati di New York, esprimendo ai sui ospiti rumeni "profonda preoccupazione per la situazione delle minoranze nazionali, soprattutto dei diritti della minoranza ungherese in Romania".

    I rumeni, eccellenti conoscitori della storia - come è testimoniato dagli splendidi lavori di intellettuali rumeni come Mircea Eliade, Emil Cioran e Vintile Horia - sanno riconoscere le minacce velate, ma per il momento non hanno i mezzi per difendersi. Anche il columnist dell'autorevole periodico Adevarul, Dumitru Tinu, esprime questa impotenza: "La Romania è vittima di un gioco di interessi; la sua grande fiducia nell'Occidente verrà ancora una volta tradita". Bisognerebbe leggere il messaggio lanciato ai rumeni e agli altri popoli Ortodossi da Emil Cioran dal suo esilio parigino con il libro Storia e utopia, per comprendere la futilità di questa fiducia nell'Occidente.

    E diamo anche credito alla saggezza dell'attuale politica cinese, che sa vedere attraverso tutte le manipolazioni dei commesi viaggiatori della potenza occidentale. Una saggezza acquisita nel corso di sei millenni di cultura e storia. Una saggezza contro cui si è rivolto, con modi da cowboy, il segretario statunitense alla difesa, William Perry, che ha aggressivamente offerto [alla Cina] una sorta di Partnership for Peace: "Tramite contatti diretti con le forze militari cinesi possiamo contribuire ad una maggiore apertura delle isituzioni cinesi per la sicurezza nazionale e il pensiero strategico, l'ac
    quisizione di nuovi armamenti e la politica di bilancio, nonché, in generale, dello stile d'azione cinese".
    Naturalmente, la saggezza cinese ha declinato, con cortesia ma fermezza, l'offerta di Perry, dietro alla qual non è difficile vedere la menzogna. Il fallimento del tranello di Perry ha offerto a Henry Kissinger materiale da cui ricavare lezioni per il futuro: "Fino a quando la cooperazione militare è presentata come una specie di assistenza il cui obiettivo è la trasformazione delle istituzioni cinesi, una civiltà indipendente da seimila anni non può non percepire tutto ciò come un'offerta di patronaggio".
    [...] Non è necessario sottolineare che gli Europei devono lavorare con tutte le loro forze al "tramonto dell'Occidente (= USA)" e alla propria liberazione. Gli Europei possono offrire il contributo supremo a questo tramonto mediante la risoluta difesa della sovranità e indipendenza dei propri stati dall'aggressione dell'egemonia mondialista sul piano politico, economico, (sub)culturale e militare. La potenza dell'Occidente crollerà se le viene negata qualla che da secoli è la sua preda, su cui vive e prospera come un parassita. La principale condizione del movimento di difesa europeo è il riconoscimento del nemico e dei suoi obiettivi. Ne è un buon esempio l'articolo di Richard Ovinkov pubblicato dal quotidiano russo Pravda:

    "L'essenza della politica Americana e Occidentale (la cui prova generale è avvenuta sul territorio jugoslavo) è stimolare l'instabilità e i conflitti etnici interni, specialmente negli stati plurinazionali, e usare questi conflitti per i propri fini. Sembra che i fautori di questa politica vogliano usare, anche per il futuro, questo precedente jugoslavo per una felice opera di divisione dei popoli Slavi. Le possibilità di realizzazione dipenderanno dal successo che otterranno nel dividere gli Slavi e metterli gli uni contro gli altri. Ma è possibile che non abbiamo ancora imparato nulla?".
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  8. #8
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    Predefinito Un motivo in più per dire No alla Turchia in Europa

    TURCHIA: BONIVER, ORA EUROPA APRA LE PORTE

    (RadioRadicale.it) - Secondo il sottosegretario agli Esteri Margherita Boniver, in seguito al voto di ieri della Turchia in favore all'abolizione della pena di morte, "L'Europa deve spalancare le porte alla Turchia"

    Boniver, sottosegretario agli Esteri con delega, fra l'altro, ai diritti umani, considera il voto di ieri del Parlamento di Ankara come il passo che gli europei aspettavano e quindi la conferma della volontà della Turchia di avvicinarsi all'Europa, una conferma "che non poteva essere più esplicita di così".

    "Ora è l'Unione europea che deve fare un passo avanti -aggiunge Boniver - e accelerare l'iter dell'integrazione aprendo, anzi spalancando, le porte alla Turchia".

    ''La Turchia e' un paese importantissimo per la stabilità di tutta la regione -conclude Boniver- basti pensare al suo ruolo in Afghanistan con il comando delle forze dell'Isaf per capire la necessita' e l'urgenza della sua integrazione''.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  9. #9
    Il_Vandalo
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    Predefinito Re: Un motivo in più per dire No alla Turchia in Europa

    Originally posted by Der Wehrwolf
    TURCHIA: BONIVER, ORA EUROPA APRA LE PORTE

    (RadioRadicale.it) - Secondo il sottosegretario agli Esteri Margherita Boniver, in seguito al voto di ieri della Turchia in favore all'abolizione della pena di morte, "L'Europa deve spalancare le porte alla Turchia"

    Boniver, sottosegretario agli Esteri con delega, fra l'altro, ai diritti umani, considera il voto di ieri del Parlamento di Ankara come il passo che gli europei aspettavano e quindi la conferma della volontà della Turchia di avvicinarsi all'Europa, una conferma "che non poteva essere più esplicita di così".

    "Ora è l'Unione europea che deve fare un passo avanti -aggiunge Boniver - e accelerare l'iter dell'integrazione aprendo, anzi spalancando, le porte alla Turchia".

    ''La Turchia e' un paese importantissimo per la stabilità di tutta la regione -conclude Boniver- basti pensare al suo ruolo in Afghanistan con il comando delle forze dell'Isaf per capire la necessita' e l'urgenza della sua integrazione''.


    La Boniver pensi a spalancare le cosce.
    Che alle porte ci pensiamo noi. Se l'ipotesi di una entrata della Turchia nella UE si farà più concreta, dovremo mobilitarci in massa

    NO ALLA TURCHIA IN EUROPA!

  10. #10
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    Predefinito

    Tiberio Graziani
    POSTFAZIONE A "SERBIA, TRINCEA D’EUROPA"



    "L'Europa, una volontà unica, formidabile,
    capace di perseguire uno scopo per migliaia di anni"
    F. Nietzsche
    Mentre mi accingo a scrivere questa postfazione - richiestami dall’amico Dragoš Kalajic per l’edizione serba del suo Serbia, trincea d’Europa -, il telegiornale passa la notizia di altri due omicidi compiuti ai danni del popolo serbo da parte di alcuni terroristi albanesi: seguita dunque la mattanza, iniziata, giova ricordarlo, ben prima dell’aggressione NATO al popolo jugoslavo.
    Ora però, dopo il cessate il fuoco, il massacro seguita col benestare, perfidamente occulto, della KFOR: l’intera zona non deve essere affatto pacificata, devono rimanere tutte le tensioni possibili (1), immaginabili ed inimmaginabili, affinché sia necessaria e pertanto umanitariamente legittimata, agli occhi dell’opinione pubblica, la forza d’occupazione di una parte consistente del territorio federale.
    Sotto questo aspetto persino la presenza militare russa, importante elemento di bilanciamento nei confronti delle forze alleate e, per alcuni versi, di garanzia nei riguardi dei Serbi, sembra rappresentare, nel gioco delle parti architettato dai politici di Washington, un alibi bello e buono, giocato anch’esso sulla pelle dei popoli jugoslavi: occorre tuttavia fare sempre i conti con i reali rapporti di forza, e constatare che la Federazione Russa è, nonostante l’attuale dirigenza, l’obiettivo geopolitico che a medio termine le forze NATO si sono poste di contenere ed influenzare, sul piano militare, attraverso una serie di partenariati con i Paesi dell’ex-blocco sovietico. In tale prospettiva, gli ultimi episodi secessionisti avvenuti in Daghestan, nonostante le pur presenti motivazioni endogene, d’ordine storico e religioso (2), non possono essere considerati disgiunti dalla ampia e complessa strategia antirussa che prevede da una parte il contenimento NATO, cui già abbiamo accennato, e dall'altro la costituzione di quella che Claudio Mutti, nella presentazione di questo volume, definisce "una dorsale pseudoislamica” tale da imprigionare “la Russia e tutta quanta l'area ortodossa", alimentata e finanziata “dall’Islam rigido dei sunniti wahhabiti, il cui centro è l’Arabia saudita” (3).

    La presenza militare, oltre a limitare di fatto la legittima sovranità del governo di Slobodan Milosevic prelude, dietro i fantomatici aiuti per la ricostruzione, al condizionamento economico-produttivo (4) della ormai ridotta Repubblica Federale Jugoslava; è questo un copione già visto e recitato, sovente a malincuore, in primo luogo dall’Italia e dalla Germania, nell’ambito della pianificazione economica del Piano Marshall all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale.

    Il dramma che, in questi anni, ha come protagonisti/vittime i popoli della ex-Jugoslavia, trova la sua immediata ragione d’essere nella tendenza mondialista ad allargare al massimo, nel continente euroasiatico, i propri spazi economici - in nome del cosiddetto libero mercato. E’ questa una tendenza sostenuta militarmente e politicamente, passo dopo passo, da strategie geopolitiche ben definite e mirate, come evidenziato peraltro dalle acute e ponderate considerazioni di Kalajic.
    Analizzando gli ultimi dieci anni di storia europea anche dal solo, e pertanto riduttivo, punto di vista dei rapporti economici, è interessante notare come, a partire dal collasso dell’ex-impero sovietico, sia le Nazioni europee ad economia socialista che quelle dell’Europa occidentale con economia a forte partecipazione statale abbiano subito veri e propri cataclismi politici nonché la veloce disintegrazione di intere classi dirigenti e spesso una perdita e/o ridefinizione dei propri territori e confini.

    Nell’est europeo la nascita della Confederazione degli Stati Indipendenti ha tentato di mantenere, per certi versi, peraltro limitati, alcune posizioni di autonomia dalla politica mondialista, ma di fatto ha svolto il ruolo di pompiere dei reali interessi popolari e statuali dei Paesi appartenenti all’ex-blocco sovietico; tale ruolo, ben compreso e stigmatizzato dall’opposizione nazional-comunista russa, ha posto in essere le premesse - tutte ancora da valutare - di un processo di transizione al mondo liberista che le incomprensioni, d’ordine esclusivamente mercantile che talvolta sembrano emergere, tra l’oligarchia che fa capo ad El’cin e i diktat del Fondo Monetario Internazionale (FMI) non fanno altro che accelerare. Altre due Nazioni, sempre dell’est europeo, hanno pagato pesantemente il loro obolo agli imperativi del nuovo corso liberista: la Cecoslovacchia, che ha perduto la sua unitarietà politico-amministrativa scindendosi in due repubbliche e divenendo quindi facile preda di investimenti usurocratici da parte della finanza internazionale, e la Romania che, appena saldato il debito contratto col FMI, ha dovuto sacrificare Ceausescu e cedere nuovamente ai ricatti della Banca Mondiale.

    Ma se Atene piange, Sparta di certo non ride. Infatti nella parte occidentale del nostro continente abbiamo assistito, e tuttora assistiamo, allo sgretolamento progressivo dello stato sociale (baluardo residuale, quantunque degenerato e putrescente, di una economia e di una solidarietà sociale ancora connessa a interessi nazionali e di questi purtroppo il solo collante) dei principali Paesi (Italia, Francia, Germania), ed alla estromissione di intere classi dirigenti, politiche ed economiche (Italia)(5) . A tutto ciò si accompagna la crescente ondata migratoria che da oltre una quindicina di anni imperversa sull’intera Europa occidentale.

    La disgregazione economico-sociale e la scarsa attenzione dei governi europei al problema dell’immigrazione favoriscono i flussi migratori, aumentandone il grado d’intensità e di pervasività, fino a determinare, da un lato, episodi incontrollabili di intolleranza - finora limitati e sporadici, e comunque confinati nell’ambito di epidermica reazione a fenomeni di microcriminalità -, e, dall’altro, la crescita macroscopica di organizzazioni criminali transnazionali di stampo mafioso a base etnica, che compromettono, drammaticamente, il controllo di ampi spazi territoriali (nazionali ed extranazionale, come nel caso dell’area adriatica) da parte delle normali forze di polizia ed alimentano, con i loro illeciti ricavati, quote sempre più crescenti e costitutive della finanza internazionale, che, poiché pecunia non olet, le tollera e pertanto le legittima.

    L'immigrazione, fenomeno naturale e ricorrente nella storia dei popoli, assumendo sul finire del secolo proporzioni vieppiù gigantesche, date le condizioni storiche di sviluppo industriale del Nord del pianeta - per cui si può parlare di un vero e proprio “urbanesimo planetario” - diviene, oggettivamente, nel quadro delle strategie messe in atto dai governi degli USA e dagli organismi internazionali che fanno capo alle Nazioni Unite, un non trascurabile elemento aggiuntivo alla destabilizzazione e ridefinizione delle politiche economico-sociali dei Paesi dell’Europa occidentale (6), ove la presenza di residuali meccanismi economici ancora vincolati a interessi nazionali e statali limitano la completa globalizzazione dei mercati interni.

    I fenomeni secessionisti, come quello del Kosovo e Metohija o del Daghestan, che esplodono apparentemente in nome del principio di autodeterminazione dei popoli o di una specificità religiosa, nella generalità dei casi (a causa della loro posizione geostrategica) sono pretesti, che danno un senso agli interventi umanitari ed al presidio militare dei governi di Washington e di Londra e pongono inoltre le premesse per la definizione di un nuovo diritto internazionale, una sorta di un parodistico Jus planetario. Tale diritto è determinato anche dall'attuale fase del complesso processo di globalizzazione, che, superato lo stadio che potremmo definire dei Trattati (GATT, ASEAN, NAFTA etc.), esige, in particolare in Europa, la eliminazione formale di qualunque entità geopolitica sovrana, che si frappone al suo sviluppo.

    Oggi i micronazionalismi europei, lungi dal rappresentare una sana e giusta rivendicazione delle proprie particolarità e dignità, sono mine vaganti lanciate contro il nostro continente che potrà essere libero e sovrano solo se sarà unito, forte ed economicamente indipendente. E' proprio nella prospettiva dell'auspicata unità politica euroasiatica che la Serbia di Milosevic rappresenta, con il fermo e deciso no alle pretese dell'imperialismo atlantico, un primo e reale presidio della coscienza europea in lotta contro la crescente occidentalizzazione/omogeneizzazione delle proprie e multiformi peculiarità.
    Le incursione anglo-americane e le conseguenti distruzioni arrecate al popolo serbo ci ricordano che il nemico principale è l'Occidente, quello stesso Occidente che bombarda quotidianamente l'Iraq, si appropria con rapacità delle risorse dell'intero pianeta, mette ipoteche sul lavoro degli europei, specula sulle economie del cosiddetto Terzo mondo, determina crisi generalizzate ed endemiche in larghi settori dell'economia mondiale. L'unica e necessaria risposta alle tendenze totalizzanti del nuovo ordine mondiale risiede pertanto nella organizzazione politica di un blocco continentale europeo.
    Dalle considerazioni di Kalajic emerge che l'unità geopolitica euroasiatica potrebbe enuclearsi (e realizzarsi con successo se l'opposizione nazional-comunista russa riesce a prevalere sull'oligarchia el'ciniana) a partire dall'asse prioritario Roma-Berlino-Mosca; noi a questa terna aggiungeremmo anche Istanbul. La Turchia - attuale e determinante testa di ponte per l'attacco militare che i neocartaginesi muovono contro il nostro continente - è infatti costitutiva sia di qualunque ipotesi euroasiatista che di qualunque azione finalizzata al riscatto continentale. Nel quadro della prospettiva proeuropea, occorre superare però tutte le incomprensioni e le diffidenze che, alimentate ad arte dagli strateghi di Washington e Londra, provocherebbero quelle "fratture culturali" già analizzate dai think tank mondialisti e compiutamente espresse da Samuel Huntington nel suo The clash of Civilizations? Se tali fratture si realizzassero all'interno del nostro continente esse innescherebbero un sicuro processo di disintegrazione politica dell'Europa intera, facilitando così l'egemonia anglo-americana.


    NOTE

    (1) Il cosiddetto management of crises, cioè il mantenimento strategico di situazioni critiche, è stato recentemente messo in discussione, nei suoi risvolti militari ed economici, da Edward N. Luttwak nel saggio Give war a chance ("Foreign Affairs", 78, 4, 1999). Secondo Luttwak le continue interferenze delle Nazioni Unite nei conflitti ritardano le reali soluzioni di pace ed alimentano, sine die, il risentimento dei belligeranti che invece paradossalmente la guerra esaurirebbe. E.N. Luttwak (1942), specializzato in problemi militari, ha esteso l'applicazione della strategia ai fenomeni economici ed alle problematiche sociali. E' senior fellow presso il CSIS (Centro di studi strategici e internazionali) di Washington.

    (2) “Fino al 1928 esistevano (in Daghestan) circa 2000 moschee e circa 800 scuole islamiche. Le seconde furono chiuse e le prime ridotte a 17 dalle offensive ateiste di Stalin e di Kruscev. Furono chiusi gli oltre settanta luoghi sacri del Paese e i pellegrinaggi proibiti. Il Daghestan è stato il primo Paese dell’area Caucasia - Asia Centrale a essere islamizzato: per giunta, direttamente, dagli arabi, nell’VIII secolo. Ma non basta: al pari della Cecenia è stato centro delle due grandi guerre antirusse nel Caucaso di fine ‘700 e degli anni 1829 -1859” (Piero Sinatti, Un Paese “esplosivo” dove l’Islam si è radicalizzato, “Il Sole 24 ore”, mercoledì 11 agosto 1999).

    (3) Piero Sinatti, art. cit.

    (4) Già espresso, programmaticamente, da alcuni guru della finanza internazionale come G. Soros di cui vale la pena riportare quanto segue a titolo esemplificativo di un protocollo standard di pianificazione economico-politica incurante della libertà dei popoli e della dignità nazionale e sovranità degli stessi: “Non dobbiamo ripetere gli errori commessi in Bosnia. Gli sforzi di ricostruzione in Bosnia fallirono in quanto il territorio era troppo piccolo e le diverse entità di governo, da quella federale a quella locale, fecero pressioni per avere le mani in pasta. Questa volta il nostro impegno deve estendersi all’intera regione. Il punto è ben compreso dagli uomini politici. Il patto di stabilità per il sud-est europeo firmato in Germania – a Colonia il 10 giugno – rappresenta un eccellente punto di partenza. Esso stabilisce tre gruppi di lavoro: per la democratizzazione e i diritti umani; per la ricostruzione economica, lo sviluppo e la cooperazione; e per la sicurezza. Ecco quindi un quadro di riferimento che aspetta di essere utilizzato. Il nucleo essenziale del piano si basa su quattro passaggi: 1) l’Unione europea prende il controllo dei servizi doganali dei Paesi aderenti; 2) la Ue rimborsa i Paesi per la perdita delle entrate doganali tramite il budget dell’Unione. L’ammontare dei sussidi dovrebbe essere in ragione di cinque miliardi di euro all’anno. Ciò rientra perfettamente nell’Agenda 2000, approvata a Berlino. 3) La compensazione potrebbe riflettere la potenziale, piuttosto che l’effettiva perdita di introiti, ma la condizione per il sussidio dovrebbe essere strettamente legata ai risultati. Per esempio, in Serbia dovrebbero tenersi elezioni sotto l’egida dell’Osce come condizione per l’ottenimento dei sussidi. Questo costringerebbe alla resa Milosevic più delle bombe. 4) Con questo finanziamento della Ue, i Paesi dovrebbero muoversi verso l’euro (o verso il marco tedesco fino all’entrata in vigore della valuta unica europea) come moneta comune. La Bulgaria ha già introdotto un currency board basato sul marco tedesco; le altre nazioni non avrebbero neppure bisogno di un tale strumento. Insieme queste quattro misure creerebbero, in un primo momento, un’area di libro scambio simile al Benelux. Non appena l’Unione europea sarà soddisfatta dei controlli sulle dogane, potrebbe ammettere quest’area al mercato comune europeo. Il commercio di prodotti agricoli – il settore principale della regione – potrebbe rimanere soggetto a restrizioni, ma la Ue dovrebbe dimostrare una certa generosità perché il piano abbia successo. Il secondo passo dovrebbe avvenire entro un futuro ragionevole, diciamo due anni. In un futuro più lontano, i Paesi dovrebbero essere ammessi come candidati a Stati membri. Ulteriori passaggi saranno necessari: facilitazioni creditizie per la ricostruzione e gli investimenti; assistenza tecnica per stabilire le condizioni di legalità; sostegni all’educazione, formazione manageriale, mezzi di comunicazione indipendenti e società civile.” (G. Soros, Per una comunità dei Balcani, “Il Sole 24 Ore”, martedì 6 luglio 1999; cfr. anche Reconstruction, Soros sees a solution, intervista a Soros, “Newsweek”, 12 luglio 1999).

    (5) Per quanto attiene ridefinizioni d'ordine territoriale avvenute in Europa occidentale, si ricorda la riunificazione delle due Germanie. E' inoltre da tener presente il consolidamento di fenomeni localistici come quello rappresentato, in Italia, dalla Lega Nord le cui tesi separazioniste e strategie secessioniste mettono continuamente in discussione l'autorità dello stato nazionale italiano.

    (6) In Italia si prevede che nel 2004, su una popolazione complessiva di 54 milioni, oltre il 16% (circa 9 milioni) sarà costituita da immigrati. Questi dati suffragherebbero le tesi del ragioniere generale dello Stato italiano, Andrea Monorchio, che in un saggio di imminente pubblicazione, Dove va l’Italia, provocatoriamente, secondo l’opinion maker ed ex-ministro Alberto Ronchey, e demagogicamente (data l’importanza della funzione rivestita da Monorchio) per chi scrive, risolverebbe il problema della previdenza sociale demandandolo agli introiti che lo Stato acquisirebbe dalla forza lavoro degli immigrati. Cfr. Alberto Ronchey, L’immigrato pagherà la nostra pensione? La previdenza del ragioniere, “Il Corriere della sera”, mercoledì 18 agosto 1999. Tali tesi sono state condivise dal Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, vedi U. Gaudenzi, Fazio nuovo prosseneta dell'immigrazione selvaggia, "Rinascita", sabato 31 luglio 1999.




    Pubblicato come postafzione all'edizione serba di
    Dragos Kalajic, "Serbia; trincea d'Europa" (agosto 1999)
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

 

 
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