La notizia.

Antonio Fazio lascia sede del Bri senza voler fare dichiarazioni
Basilea, 12 set. (Apcom) - Durante la riunione dei governatori delle banche centrali del G10, a Basilea, non si è parlato del caso Fazio. Lo ha detto il presidente della Banca centrale europea Jean Claude Trichet durante un briefing con i giornalisti sulla congiuntura economica internazionale. Il governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio ha lasciato il palazzo della Banca dei regolamenti internazionali, dove ha avuto luogo l'incontro, rifiutandosi di rilasciare dichiarazioni.
Trichet ha ribadito di non aver nulla da aggiungere rispetto alle dichiarazioni fatte a Manchester: "Non ci deve essere nessuna considerazione di carattere nazionale nel giudicare l'operato delle banche". Il presidente della Bce ha anche confermato di aver ricevuto il rapporto di Bankitalia e ha aggiunto: "Siamo in una fase di dialogo con Bankitalia, che ha dato la sua disponibilità".

La domanda.
Che ca@@o è sta BRI?

La risposta.
..dalla loro “brochure”….
La Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) è un’organizzazione internazionale che promuove la cooperazione monetaria e finanziaria su scala mondiale e funge da banca delle banche centrali.

Il capitale azionario della Banca è detenuto unicamente da banche centrali.

La BRI offre un’ampia gamma di servizi finanziari per assistere le banche centrali e altre istituzioni monetarie ufficiali nella gestione delle loro riserve valutarie. Al 31 marzo 2005 circa 140 banche centrali e istituzioni ufficiali detenevano parte delle loro riserve internazionali presso la BRI, per un totale di depositi in valuta pari a DSP 150,6 miliardi,
ovvero al 6% circa delle riserve valutarie mondiali. I servizi finanziari della BRI sono erogati attraverso due sale contrattazioni collegate, una presso la sua sede di Basilea e l’altra presso l’Ufficio asiatico di Hong Kong SAR. La BRI non accetta depositi da privati o entità societarie, né fornisce loro servizi finanziari; inoltre, non le è consentito di concedere anticipazioni a governi, né aprire conti correnti a loro nome.

Sito www.bis.org

Si…vabbè….ma che ca@@o è?
È una storia lunga......

CONTROLLO MONETARIO E CONSENSO POPOLARE
di M. Consoli
Quando si è bambini, enorme è la curiosità, la voglia di conoscere, di capire, di spiegarsi il significato di ogni cosa e di ogni avvenimento. È l'età del “perché”, ossessivamente rivolto ai genitori, ai fratelli maggiori, a quanti capiti d'incontrare.
Poi si cresce, la curiosità diminuisce sino, in età adulta, nella maggioranza dei casi, a spegnersi quasi del tutto o a trasformarsi in una semplice ricerca di conferme di quella certezze che si è andati via via conquistando o, come sempre più frequentemente accade, che si sono subite e accettate come inevitabili e, tutto sommato, comode.
«L'ha detto la televisione», «l'hanno scritto i giornali», ed ogni inquietudine si placa, ogni dubbio si estingue.
Ma non è stato sempre così. Le società europee nel tempo si sono caratterizzate per una costante spinta verso l'arricchimento della conoscenza e l'acquisizione di certezze sempre maggiori; una puntigliosa e vigorosa ricerca della verità che ha permeato la moltitudine di pensatori, filosofi e scienziati che hanno fatto grande la nostra civiltà.
Solo negli ultimi anni la spinta verso la conoscenza si è affievolita; dalla scienza si è passati alla tecnologia — che è lo sfruttamento tecnico ed economico delle grandi scoperte del passato —, dalla cultura si è passati all'informazione.
L'attuale società informatica e dello spettacolo è caratterizzata dalla più assoluta superficialità delle notizie, sempre più numerose, veloci, in “tempo reale”, ma sempre più vuote di contenuti, di spiegazioni sulle cause, di oneste e lungimiranti previsioni sulle conseguenze.
E il pubblico si accontenta di questo bombardamento di pallottole a salve, non chiede nulla di più, non si pone domande.
Nel secolo scorso, quando si vivevano i prodromi di questa involuzione dell'informazione, Giuseppe Prezzolini scrisse un “Manifesto degli apoti”, quelli che «non la bevono», quelli che «non ci stanno», quelli che non vogliono rinunciare alla propria naturale spinta cognitiva. Ebbe eco fra una ristretta cerchia di intellettuali, e tutto finì lì. Qualche anno fa Massimo Fini, con esito scarso e limitato nel tempo, ci riprovò nelle colonne de “l'Indipendente”.
Noi stessi, da oltre vent'anni, con questa rivista, ci rivolgiamo agli uomini liberi, a quelli cioè con il cervello ancora aperto e qualche curiosità ancora viva. Ma, tant'è, il nostro pubblico, seppur affezionato e in crescita, rappresenta una minoranza soccombente di fronte all'esercito dei teleutenti e alla massa informata in modo assolutamente superficiale e “politicamente corretto”, cioè a senso unico, secondo i desideri dei potenti del mondo.
Ed avviene così che la grande informazione, agevolmente, riesce a mistificare, nascondere, sovvertire verità storiche, avvenimenti, situazioni politiche ed interpretazioni dei fatti.
Noi, che “apoti” siamo e uomini liberi insistiamo ad essere, continuiamo invece a riflettere, a ricercare, a indagare e tentare di comprendere il perché delle cose, convinti che non siamo giunti alla “fine della storia”, ma che stiamo vivendo solo una delle pieghe più oscure e difficili di una storia che ancora per secoli è destinata a formarsi, a crearsi e ricrearsi sulla scia della civiltà che ci ha preceduto.
Vogliamo qui indirizzare la nostra curiosità su due argomenti che riteniamo propedeutici alla comprensione dell'attuale momento storico:
- chi determina la politica monetaria, quindi l'economia?;
- quale base di consenso ha il regime politico — la democrazia — imposto al mondo come il modello “buono”, necessario per sedersi attorno al tavolo dei popoli civili?
LA PROPRIETÀ DELLA MONETA
Il termine “pecunia” ha origine etimologica dal latino “pecus”, pecora, che indicava l'unità di misura anticamente utilizzata per regolare gli scambi, così come il termine “salario” deriva da “sale”, usato una volta per pagare il lavoro e i beni di prima necessità.
La moneta nasce come sistema semplificato per facilitare gli scambi e per misurare la ricchezza. Essendo la ricchezza null'altro che la somma dei patrimoni e dei prodotti di una comunità, la moneta dovrebbe essere proprietà della stessa comunità, quindi del popolo, e il suo conio e il suo controllo dovrebbero essere compito dello Stato.
La quantità di moneta circolante dovrebbe essere, logicamente, pari al valore della ricchezza esistente in quel momento, cioè dei beni immobili, mobili, di consumo e degli strumenti impiegati nelle produzioni.
Lo Stato dovrebbe continuamente vigilare perché questa equivalenza sia mantenuta: se le ricchezze aumentano, incrementando proporzionalmente il volume di moneta circolante o, se diminuiscono, contraendo la quantità del denaro.
L'inflazione e la deflazione, malattie economiche oggi così diffuse e perniciose, non sono altro che lo squilibrio esistente tra i beni presenti sul mercato e la quantità di denaro circolante.
Per rendere stabile il potere d'acquisto di una moneta occorrerebbe dunque un controllo sull'equilibrio tra ricchezza e circolazione monetaria, ma a questa funzione dovrebbe essere deputato solo lo Stato, istituito per perseguire il bene della collettività. Le Banche, invece, sono state inventate e strutturate per ottenere utili attraverso speculazioni finanziarie, e il terreno più fertile per tale attività è quello dell'instabilità, dell'inflazione e della deflazione. Appare quindi ovvio che quando, come oggi avviene, il controllo dell'economia è affidato al mondo bancario, la stabilità del potere d'acquisto della moneta è destinata a rimanere una chimera. E le conseguenze di questa situazione si moltiplicano a cascata e coinvolgono ogni aspetto della vita della collettività.
Quando uno Stato, ad esempio, si fa promotore della realizzazione di opere di pubblica utilità, accresce la ricchezza di cui quella comunità può disporre, quindi è legittimo ed economicamente corretto che incrementi, per pagare la realizzazione dell'opera, la quantità di moneta circolante. È un'aberrazione il fatto che in una nazione ci sia necessità di nuove opere pubbliche e di nuovi servizi sociali, e si rinunci a realizzarli per mancanza di fondi, lasciando per di più molti lavoratori disoccupati.
Scrisse Ezra Pound: «Dire che uno Stato non può perseguire i propri scopi per mancanza di denaro, è come dire che non si possono costruire strade per mancanza di chilometri».
Non è però lo Stato a battere la moneta, non sono i governi a determinare le politiche monetarie e la proprietà del denaro non è attribuita al popolo.
Questa realtà è il punto d'arrivo di un lungo cammino iniziato con gravissimi errori compiuti nel passato e consolidati nel tempo.
Nel 1694, regnante Guglielmo III d'Orange, un gruppo di finanzieri capeggiati da William Paterson prestarono un milione e duecentomila sterline al governo inglese al tasso d'interesse dell'8 per cento annuo. Il re, per ottenere il prestito, concesse alla Banca di Paterson l'autorizzazione a stampare cartamoneta — allora chiamata “nota di banca” — per un importo equivalente alla somma prestata. La Banca si trovò quindi — oltre ad essere proprietaria di un capitale sul quale percepiva gli interessi — a disporre di una massa monetaria fittizia — non corrispondente a nessuna ricchezza reale — con la quale poteva intraprendere fruttuose operazioni finanziarie o concedere prestiti sui quali percepire altri interessi.
Per il governo inglese, che rinunciò a battere cartamoneta in proprio — il che sarebbe stato più semplice ed economicamente meno pericoloso —, cominciò la lunga e mai terminata sequela di interessi da versare alla Banca, e nell'economia inglese si consentì la circolazione di denaro inventato col quale illegittimamente si promuovevano speculazioni finanziarie.
Purtroppo l'esempio inglese, nei secoli successivi, fu seguito da pressoché tutti i governi del mondo, permettendo di giungere all'attuale situazione, dove nessun popolo è proprietario della moneta che utilizza e tutti sono debitori delle Banche private che battono moneta.
Le Banche, nel momento stesso della loro nascita, hanno iniziato a creare moneta fittizia — pensiamo all'immensa massa di denaro virtuale oggi circolante nel mondo — dando vita a una colossale truffa ai danni dei popoli. Non bisogna mai dimenticare infatti che il prezzo che gli uomini debbono pagare per l'utilizzo di una cartamoneta “irreale”, creata dal nulla, è il lavoro, la produzione, beni mobili ed immobili, cioè ricchezza “reale”.
Quando le Banche iniziarono a conservare entro depositi blindati i valori dei cittadini che, per motivi di sicurezza, preferivano delegare loro questa incombenza, consentirono anche, agli stessi cittadini, di compilare dei “buoni di cessione” di questi preziosi per utilizzarli come forma di pagamento. Si tratta dei capostipiti del moderno assegno.
Il banchiere notò che la tendenza di chi depositava era rivolta più al risparmio che all'utilizzo a breve dei beni: solo il 10 per cento veniva movimentato. Egli dunque pensò bene che non avrebbe rischiato molto creando, a proprio uso, ricevute di pagamento per un importo pari al 90 per cento dei valori depositati presso la sua Banca. E queste ricevute furono da subito utilizzate per concedere prestiti ad interesse e partecipare a fruttuose attività finanziarie.
Oggi siamo andati molto più in là; il denaro, che l'antico banchiere aveva illegittimamente creato — non essendo lui il proprietario dei beni depositati — era pur sempre garantito da beni esistenti; ora viene semplicemente stampato “ex nihilo”, senza nessuna garanzia e senza nessun limite, e in più si è aggiunto il denaro virtuale, elettronico. La massa di moneta, nelle sue varie forme, attualmente circolante nel mondo ed utilizzata per speculazioni di ogni tipo, è 60 volte superiore a quella usata per lo scambio delle merci.
Un'altra considerazione ci sembra degna di nota: se il popolo fosse il vero proprietario della moneta, questa, al momento del suo conio, dovrebbe essere attribuita allo Stato e non, come oggi avviene, messa a suo debito. E, per di più, il valore monetario nasce dal fatto che il popolo accetta e usa il denaro e non perché qualcuno ha pensato bene di stamparlo. Se lo stesso banchiere avesse emesso pari banconote in un'isola deserta, quale valore potrebbero avere?
Ciononostante, le Banche centrali, che sono banche private, creano moneta addebitandola al popolo e, truffa per truffa, la pongono a bilancio sotto la voce “passivo”. Nonostante l'unica spesa sostenuta sia il costo della carta, dell'inchiostro e della stampa.
E la moneta viene prestata allo Stato e agli Istituti bancari che, su tali operazioni, dovranno pagare interessi.
Questa trafila è ormai così consolidata che nessuno si pone quesiti sulla sua ineluttabilità.
Purtuttavia qualcosa di segno opposto è già avvenuto e continua ad avvenire ancora oggi. Lo Stato in effetti conia, presso la sua Zecca, le monete metalliche — per importi assai limitati in confronto a quelli del cartaceo — ed in passato furono stampate in Italia banconote da 500 lire come “Biglietto di Stato a corso legale”. I cittadini non hanno certo rilevato un fatto del genere, così come non se ne rendono conto per ciò che riguarda le monetine che oggi, nell'era dell'Euro, vengono coniate dai singoli Stati, seppure per importi rigidamente determinati dalla Banca Centrale Europea. Siamo cioè arrivati al colmo: ora è lo Stato a dover chiedere al potere bancario l'autorizzazione a battere moneta, peraltro per importi piccolissimi — gli spiccioli appunto —, e non l'inverso, come avveniva nel 1694 in Inghilterra, quando iniziò il lungo percorso della grande truffa monetaria.
Ad aggravare la situazione si aggiunge il “maldestro” operare dei governanti. Il nostro ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ha recentemente proposto la sostituzione delle monete da 1 e 2 euro con biglietti di pari valore. È mai possibile tanta incompetenza in un ministro chiamato a tutelare gli interessi economici degli italiani? O si tratta di una “gaffe” generata da altre “oscure” motivazioni? Beffarda ed umiliante è stata la risposta della BCE: «Ne abbiamo parlato e in linea di principio non abbiamo nulla in contrario. Mi auguro che il ministro Tremonti sia consapevole che così perderebbe i proventi del diritto di signoraggio sulle monete».
La differenza tra euro-carta ed euro-moneta è riscontrabile dal fatto che mentre la carta è perfettamente identica in tutte le nazioni che utilizzano l'Euro, le monete sono personalizzate dallo Stato che le conia in una delle due facce. Ma i cittadini utilizzano e spendono allo stesso modo cartamoneta e monete metalliche.
Per quale motivo dunque lo Stato, al contrario di ciò che propone Tremonti, non potrebbe stampare anche la cartamoneta, sottraendo così questa prerogativa alle Banche private? In tal modo si affermerebbe il diritto alla sovranità monetaria, fondamentale per la libertà di un popolo così come quella territoriale, quella militare e quella politica.
Thomas Jefferson, presidente americano dal 1801 al 1808, a tale proposito ebbe a dire: «Credo che per le nostre libertà le istituzioni bancarie siano più pericolose degli eserciti nemici. Sono già arrivate al punto di erigersi in un'aristocrazia del denaro che sfida il governo. La facoltà di emettere moneta dovrebbe essere loro strappata e restituita al popolo, al quale giustamente appartiene. In realtà, il potere di produrre moneta dovrebbe essere riservato soltanto allo Stato, che provvederebbe a metterla in circolazione a seconda delle necessità».
Stretti dalla morsa del ricatto bancario, i governi sono costretti invece a pagare cifre di interessi tali da incidere pesantemente sul bilancio delle proprie nazioni. Le tasse che i cittadini debbono versare, invece di finanziare opere pubbliche, servono a coprire anche questi interessi. Per le strade, gli acquedotti, gli ospedali e tutte le altre strutture necessarie alla collettività, lo Stato è dunque costretto a chiedere nuovi prestiti, sui quali tutti dovremo pagare il balzello riservato ai banchieri.
Si tratta di una situazione assurda e solo apparentemente inevitabile: basterebbe che lo Stato tornasse a battere moneta e tutto sarebbe risolto. Parecchi hanno intravisto la possibilità di questa soluzione, ma sinora nessuno è riuscito a diffondere questa idea, in modo tale da creare una coscienza collettiva, necessaria per una radicale ribellione, né alcun politico è riuscito ad attivare provvedimenti alternativi senza scontrarsi — rovinosamente — con i poteri forti che governano il mondo.
Due presidenti statunitensi, per altri versi assai discussi, tentarono un'inversione di marcia.
Abraham Lincon fece stampare dei “Biglietti degli Stati Uniti” — chiamati, per il loro colore, “greenbacks” — su cui non gravavano interessi da pagare alle banche. Tutti sanno che nel 1865 Lincon fu ucciso; qualche storico induce a collegare la persona dell'assassino, John Wilkes Booth, con casa Rothschild.
John F. Kennedy tentò un provvedimento analogo — alcune banconote prive di interesse stampate allora sono ancora in circolazione —, ma l'iniziativa non ebbe molta durata per quel che avvenne a Dallas nel 1963.
IL CONTROLLO POLITICO DELLE BANCHE DI EMISSIONE
Il “signoraggio” è il termine col quale si indicava il compenso richiesto dagli antichi sovrani per garantire, attraverso la propria effigie impressa sulle monete, la purezza e il peso dell'oro e dell'argento. Ogni cittadino poteva infatti portare alla Zecca metallo prezioso per farlo trasformare in denaro e il sovrano tratteneva, come signoraggio, una percentuale del metallo.
Ciò che viene oggi indicato come “reddito monetario” in effetti non dovrebbe essere altro se non l'antico signoraggio.
Se un Ente statale si prendesse la briga di stampar moneta, diffonderla, controllare l'operato degli Istituti bancari, sarebbe più che legittimo istituire una tassa per coprire le spese necessarie al buon funzionamento di quell'Ente.
Ma la dimensione del moderno signoraggio va ben al di là di una semplice tassa. Il reddito monetario di una Banca di emissione è dato infatti dalla differenza tra la somma degli interessi percepiti sulla cartamoneta emessa e prestata allo Stato e alle Banche minori e il costo — davvero infinitesimale — di carta, inchiostro e stampa, sostenuto per la produzione del denaro.
Se l'Ente di emissione fosse statale il problema avrebbe un peso relativo, innanzitutto perché sparirebbero di colpo gli interessi pagati dallo Stato — che senso avrebbe infatti, per lo Stato, pretendere interessi da se stesso? —, poi perché si tratterebbe di utili che, rimanendo in mano allo Stato, apparterrebbero sempre alla collettività.
Il reddito monetario, cioè l'utile di esercizio di una Banca di emissione, viene distribuito invece a tutti i “partecipanti”, né più né meno di come accade in una normale Società per azioni.
Ma il problema inerente la natura delle Banche centrali non è tanto quello della quantificazione degli utili e della loro distribuzione — peraltro in alcune nazioni, per attutire gli effetti dell'increscioso balzello monetario, è stata prevista una restituzione allo Stato di una percentuale del signoraggio —, quanto il potere esercitato sulla politica monetaria e su tutta l'economia nazionale in conseguenza delle prerogative proprie di un Istituto di emissione: stabilire il tasso di sconto, la politica monetaria e del credito, la concessione dei mutui, ecc.; prerogative della sfera politica, nel caso di un Istituto di Stato, ma che sono invece riferibili, nel caso di Istituti privati, a interessi di centri economici e finanziari, per di più quasi sempre non nazionali.
Le Banche di emissione sono dunque Istituti dello Stato o privati?
In Italia, nel 1874, fu promulgata, per la prima volta dalla nascita del Regno, una legge bancaria, per porre un freno alle emissioni di cartamoneta e regolamentare la concorrenza tra le banche che stampavano denaro. Le Banche autorizzate a emettere cartamoneta erano infatti ben sei: la Banca Nazionale del Regno d'Italia, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito, la Banca Romana, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Con tale legge, inoltre, si stabiliva che le variazioni del tasso di sconto dovevano essere autorizzate dal Ministero delle Finanze.
Con la successiva legge del 1893, promulgata a seguito del clamoroso fallimento della Banca Romana, i quattro istituti dell'Italia centrosettentrionale vennero fusi, dando vita alla Banca d'Italia, e rimasero ancora attivi il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia, ma con ruoli di emissione più limitati.
Bisogna arrivare agli anni 1926-27 per vedere attribuito il diritto di battere moneta solo alla Banca d'Italia, che diventa così Banca centrale.
La sua natura — definita e regolamentata nello Statuto approvato con regio decreto solo nel 1936 — fu definita come quella di un “Istituto di Diritto Pubblico”, ma la sua struttura e la sua proprietà rimasero quelle che erano: quelle di una Società anonima, trasformata successivamente in Società per azioni.
Il Governatore assunse da subito un ruolo assai rilevante, non solo per l'amministrazione monetaria, ma anche per l'intera vita economica delle Nazione. Lo Statuto stabilì la non revocabilità del Governatore da parte del potere politico, attribuendo questa facoltà solo al Consiglio superiore della Banca d'Italia, organo tecnico ed estremamente frammentato, quindi difficilmente condizionabile.
Nel 1926, mentre si stava discutendo sull'assetto da dare alla Banca di emissione italiana, le pressioni per garantirne la sostanziale autonomia e l'inamovibilità del Governatore furono notevoli. Benjamin Strong, Governatore della Federal Reserve Bank di New York intervenne direttamente su Mussolini per ottenere garanzie sull'indipendenza della Banca d'Italia e sulla permanenza di Bonaldo Stringher al posto di suo Governatore, mettendo sul piatto della bilancia l'appoggio della Federal Reserve e della Banca d'Inghilterra alla stabilizzazione della moneta italiana.
I cedimenti in campo monetario — pur se compiuti nel tentativo di ottenere momentanei benefici — sono sempre anticipatori di ulteriori e più gravi concessioni. Infatti, nonostante numerose correnti del Fascismo spingessero verso la nazionalizzazione della Banca centrale, il decreto del 1936 si limitò a sostituire i vecchio azionisti con un consorzio di Enti e Banche, con prevalenza delle Casse di risparmio. La Banca d'Italia rimaneva dunque una Banca privata.
La sua proprietà, nel corso degli anni, non è sostanzialmente cambiata: la proprietà della Banca d'Italia non è mai stata dello Stato, cioè del popolo, ma delle banche.
E la storia dell'autonomia della Banca d'Italia è, sino ad oggi, una sequenza di tappe sempre più significative, tutte indirizzate ad aumentarne il distacco dallo Stato.
Nel 1981 — quando era ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e Governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi — si giunse a sancire il diritto della Banca a non sottoscrivere — sia parzialmente che “in toto” — i titoli di Stato; un divorzio sempre più definitivo che dimostrava, senza alcun dubbio, chi deteneva il bandolo della politica monetaria italiana e in quale conto era tenuta l'autorità politica.
Nel 1992 cadde anche la residua possibilità da parte dello Stato di controllare il tasso di sconto: il potere di modificarlo, antico appannaggio del Governo, era stato nel corso dei decenni attribuito al Governatore della Banca d'Italia, che doveva però agire “in concerto” con il ministro del Tesoro.
L'ex Governatore Guido Carli, nei panni di titolare del dicastero economico, il 7 febbraio 1992 fece approvare dal Parlamento l'assoluta autonomia dell'Istituto di emissione in materia di tasso di sconto.
Si tratta di una questione chiave: il debitore riconosce al creditore la facoltà di fissare unilateralmente le regole del prestito. Regole che poi saranno applicate a tutta l'economia nazionale. Che senso possono avere, a questo punto, le scelte elettorali, se nessun candidato, una volta eletto, potrà avere il controllo delle leve economiche del credito? Quale politica di sviluppo può essere programmata da un governo che non sa quanto costerà il denaro?
Così, anche l'ultimo residuo di cordone ombelicale tra Banca centrale e potere politico era stato definitivamente reciso.
Non solo. Con il passare dei decenni i personaggi del mondo monetario, non contenti dell'assoluta autonomia conquistata, si sono proposti in maniera sempre più arrogante come controllori e spesso addirittura gestori del mondo politico.
Nel 1945 l'allora Governatore della Banca d'Italia Luigi Einaudi cumulò la sua alta carica monetaria con quelle di vicepresidente del Consiglio e di ministro del Bilancio. Nel 1948 Einaudi divenne presidente della Repubblica.
Da allora i casi del genere sono stati molteplici e in un crescendo preoccupante: Carli, già Governatore, divenne ministro del Tesoro; Ciampi, dopo essere stato Governatore, è divenuto ministro, poi presidente del Consiglio e infine è approdato al Quirinale; Lamberto Dini, direttore generale della Banca d'Italia, è divenuto ministro e poi Premier; Antonio Maccanico, già presidente di Mediobanca, è divenuto ministro e consigliere del presidente della Repubblica. C'è anche da ricordare la carriera politica di Giuliano Amato — assiduo frequentatore degli ambienti finanziari americani —, più volte ministro e primo ministro, e di Romano Prodi, passato dall'incarico di consulente della Banca Goldmann & Sachs alla poltrona di Palazzo Chigi e successivamente a quella di presidente del Consiglio europeo.
Si tratta di scalate politiche quasi mai scaturite da consultazioni elettorali, ma frutto di alchimie di potere operate in assoluto dispregio del consenso popolare. Bella democrazia!
Con l'avvento dell'Euro e della Banca Centrale Europea le cose sono peggiorate. Le autonomie godute dal mondo bancario si sono rafforzate e la lontananza delle sedi dove si decide e si comanda hanno infittito l'atmosfera di sospetto e di mistero sul mondo monetario ed economico.
È un problema di casta. Le cariche che contano vengono spartite rigorosamente tra di loro, tra gli intoccabili delle Banche centrali nazionali; le cariche della BCE, che sono di spettanza dei Governi, per statuto, devono essere attribuite a «persone di riconosciuta levatura ed esperienza professionale nel settore monetario o bancario».
Mentre gli uomini delle banche continuano sistematicamente ad occupare gli scranni dei politici, a nessun politico è concesso di entrare nei blindatissimi palazzi del denaro.
Non vi è ministro, né presidente del Consiglio, né presidente della Repubblica o monarca ad avere il potere, l'insindacabilità e la durata della carica che hanno a disposizione un presidente e un dirigente della Banca Centrale Europea. La BCE dà “indicazioni” vincolanti ai governi, stabilisce tassi e politica monetaria e nessun potere politico può interferire.
E il popolo? Sempre più lontano, sempre più sottomesso. Bella democrazia!
Analoga la storia delle altre Banche centrali negli altri paesi d'Europa e del mondo.
La più autonoma, la più indipendente, la più spudoratamente privata è indubbiamente la Federal Reserve americana. La sua proprietà è inoltre tenuta scrupolosamente segreta, come segrete sono le riunioni della sua dirigenza. Palese è invece il suo potere, beffardo ed efficace, negli USA e nel mondo.
Scrisse Gertrude Coogan: «La legge sulla Federal Reserve fu un grave errore. Essa consegnò ai banchieri internazionali il controllo assoluto sul sistema bancario americano e, di conseguenza, su ogni attività economica».
Persino nei regimi comunisti, in smaccata contraddizione con i dettami ideologici marxisti, le Banche di emissione finirono in mano ai banchieri internazionali. Nel 1937 la Gosbank, l'Istituto di emissione sovietico, fu privatizzato, e nel Consiglio di amministrazione fu accolto il plurimiliardario ebreo americano Armand Hammer.
Ci fu una sola nazione, nel XX secolo, che osò nazionalizzare la propria Banca di emissione, riconoscendo allo Stato e quindi al popolo la proprietà della moneta: la Germania nazionalsocialista.
Riflettendo sull'accanimento criminalizzante riservato a Hitler ed ai suoi seguaci e sulla nazionalizzazione della Reichsbank, forse si potrebbero formulare spiegazioni inconsuete e illuminanti sull'intera storia del secolo appena trascorso.
I PADRONI DELLE BANCHE DI EMISSIONE E DELLA POLITICA MONETARIA
Le Banche centrali, quelle cioè che stampano la cartamoneta dei vari paesi del mondo, dunque sono private e i proprietari sono in maggioranza le altre Banche e i grandi finanzieri internazionali.
Ma allora, se il mondo della politica, se i governi, i capi di Stato, i ministri del Tesoro e dell'economia non hanno più voce in capitolo sui tassi di sconto, sulle strategie monetarie, sulle condizioni dei prestiti, sui finanziamenti internazionali, sui cambi, sulle Borse, chi coordina tutto questo complesso mondo di numeri, di previsioni economiche, di interventi piccoli e grandi destinati a influire in maniera determinante sulla vita di tutti i popoli?
Chi prende le decisioni? Chi comanda?
C'è chi afferma che sarebbe il sistema stesso, nel suo complesso groviglio di interessi e di meccanismi automatici, ad autogovernarsi, a funzionare come una enorme macchina avviata così bene da non aver più bisogno di progettisti e macchinisti. Non ci sarebbe nessuno dunque a comandare. Tutto avverrebbe così, naturalmente, ineluttabilmente, come in un Eden illuminato dallo splendore del dio denaro.
Ma si tratta di un'analisi che sa di malafede. Se le cose andassero così come vanno in modo automatico, se non ci fosse nessuno a decidere e comandare, non avrebbe senso cercare i responsabili. A nessuno potrebbe essere imputata la colpa delle crisi economiche, dei crolli monetari, dello sfruttamento delle risorse o del lavoro, e della fame nel mondo. Certo si tratta di una spiegazione eccessivamente comoda e assai difficile da accettare.
Sarà opportuno allora indagare, osservare più da vicino il mondo delle Banche centrali e cercare di individuare il momento e la sede dove queste si incontrano e decidono.
Sì, perché decidono davvero! E gli effetti di tali decisioni sono davanti agli occhi di tutti.
E allora, informandosi, si viene a sapere che a Basilea, in Banhofplatz al 2, ha sede la Banca del Regolamenti Internazionali, la BRI (o BIS, Bank for International Settlements), fondata nel 1930, dove si riuniscono, ogni mese, i dirigenti di tutte le Banche centrali del mondo. Proprietarie della BRI sono infatti tutte le Banche centrali del mondo, ma in proporzioni assai differenti tra di loro. Il 25 per cento delle azioni sono della Federal Reserve USA, il 15 per cento della Banca d'Inghilterra e il rimanente 60 per cento è distribuito, con quote minime, tra tutti gli altri. Un 60 per cento talmente frammentato da rendere impossibile una qualsiasi aggregazione percentualmente significativa.
La Federal Reserve, col suo 25 per cento di proprietà e con la costante, servile disponibilità della Banca d'Inghilterra, ha facile mano nel determinare il bello e il cattivo tempo.
Nell'àmbito della BRI le Banche centrali dei paesi più industrializzati del mondo — Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada, Olanda, Belgio, Svezia e Svizzera — hanno istituito appositi comitati di vigilanza internazionale: il CBVB, Comitato di Basilea sulla Vigilanza Bancaria; il CSPR, Comitato sui Sistemi di Pagamento e Regolamento; e il CSFG, Comitato sul Sistema Finanziario Globale.
Le nomine dei Governatori delle Banche centrali delle varie nazioni del mondo, prima di giungere alla ratifica dei rispettivi Governi, dove ciò è ancora previsto, devono essere approvate dalla BRI; se a Basilea non sono d'accordo, tutto viene rimesso in gioco, si vagliano altre candidature, più gradite ai signori della Banhofplatz, fino ad individuare l'uomo adatto a gestire, a livello nazionale, le decisioni che vengono assunte lassù, nell'Olimpo dei potentissimi, dei Morgan, dei Rockefeller, dei Warburg, dei Rothschild.
Certo, perché, nonostante i proprietari della Federal Reserve siano tenuti segreti e segrete le loro riunioni, si sa per certo che tra di loro ci sono anche questi uomini e che le loro quote pesano molto. Nomi che compaiono da secoli nella storia del denaro e, soprattutto, nella scalata che il potere finanziario internazionale ha fatto ai danni del potere politico.
Quindi chi comanda il mondo del denaro, cioè il mondo dell'economia, cioè il mondo “tout court”, esiste davvero.
In quelle riunioni mensili vengono affrontate tutte le questioni di ogni paese, vengono decisi i tassi di sconto, i beneficiari dei prestiti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, quali governi devono essere aiutati, facilitati, finanziati, quali monete devono decollare e quali svalutarsi, quali movimenti rivoluzionari devono essere armati e quali riforme devono essere sponsorizzate. Sì, perché chi ha il potere di decidere la politica monetaria può influire, in maniera determinante, su ogni cosa.
Certamente, nei sontuosi saloni della BRI, si è molto discusso, e deciso, prima che venissero firmati gli accordi di Bretton Woods nel 1944, con i quali fu stabilito, tra l'altro, che il dollaro dovesse essere assunto come moneta per gli scambi internazionali. Certamente, negli uffici della Banhofplatz al 2, si è molto discusso, e deciso, prima che il presidente USA Richard Nixon, nell'agosto del 1971, annunciasse al mondo l'inconvertibilità del dollaro in oro (sino ad allora per 35 dollari doveva esistere la garanzia di un'oncia d'oro). Certamente a Basilea si è molto discusso, e deciso, prima che la pubblica opinione del mondo venisse a conoscenza della Perestrojka, del Trattato di Maastricht, dell'Euro, della guerra all'Iraq, della guerra nei Balcani, della guerra all'Afghanistan. E, probabilmente, si è parlato anche di attentati, di grattacieli e di tante altre cose.
Orbene, nessuno, assolutamente nessuno di questi signori che si riuniscono, discutono e decidono al numero 2 di Banhofplatz di Basilea, è mai stato candidato in nessuna lista di nessun partito, è mai stato eletto da nessun elettore di nessun popolo del mondo.
È dunque questa la democrazia?
CONTROLLORI SENZA CONTROLLI
Mark Alonzo Hanna, consulente del presidente USA William McKinley e mitica figura di organizzatore di campagne elettorali, citato anche da Bush jr., ebbe ad affermare nel 1896: «Per vincere occorrono due cose. La prima è avere molti soldi... La seconda non me la ricordo».
Ed è per questo che la scalata dei signori del denaro non è iniziata all'interno dell'area politica o delle istituzioni rappresentative delle singole nazioni. Si è sviluppata dove i soldi si fabbricano, all'interno delle Banche centrali, affiancandone l'attività con una miriade di istituzioni internazionali, enti, fondazioni, banche di credito e d'affari tutte rigidamente dirette o controllate tra loro. Una ragnatela così ampia e articolata da consentire il progressivo condizionamento planetario di tutte le attività.
La Trilateral Commission, il Council on Foreign Relations, il Bilderberg Group, il Club de Paris, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l'Organizzazione Mondiale del Commercio, la Camera di Commercio Internazionale, l'Institute of International Finance, il Forum di Davos; e, ancora, il Comitato di Bali, per la supervisione bancaria; l'IOSCO (International Organisation of Securities Commissions), per la supervisione delle Borse e dei mercati di capitali; l'ISMA (International Securities Market Association); l'IAIS (International Association of Insurance Supervisors), per la vigilanza sulle compagnie di assicurazione; e l'ISO (International Standard Organisation), alla quale è demandato l'incarico di definire gli standard industriali, tanto per citarne i più noti e importanti.
Al condizionamento politico ed economico delle singole nazioni, attraverso il controllo monetario, si aggiunge il potere di influire sui rapporti internazionali. Poco importa se intere nazioni, nel gioco delle speculazioni, sono travolte e ridotte alla fame — vedi i paesi dell'America Latina — o altre vengono a trovarsi in posizione di immeritato vantaggio. Un esempio tra i tanti che si potrebbero fare: il 30 per cento dell'intero ammontare dei prestiti concessi dal Fondo Monetario Internazionale attualmente è assorbito dalla Turchia — favorita dalla sua posizione geostrategica nel Vicino Oriente — che va salvata per non far perdere un forte alleato a Stati Uniti e Israele.
Inoltre, attraverso il flusso dei finanziamenti, si attivano tutte quelle iniziative che si ritengono funzionali al disegno mondialista e si condizionano pesantemente — spesso sino a stravolgerle — anche quelle iniziative che, a prima vista, potrebbero apparire di segno opposto. Esempio particolarmente eloquente ne è il Movimento dei “No Global”.
Maurizio Blondet, nel suo libro “No Global”, ci informa che, contrariamente a quanto la pubblica opinione è indotta a credere, «l'International Global Forum è largamente finanziato dalla Foundation for the Deep Ecology, un think-tank con sede a San Francisco, erede delle fortune del magnate Douglas Tompkins, il padrone della Esprit Clothing Company, la nota multinazionale di prêt-à-porter. Detta “Fondazione per l'Ecologia Profonda” nel 2000 ha dichiarato attivi per 150 milioni di dollari: grazie a questi fondi essa funziona come una finanziaria, che fornisce capitali iniziali per il lancio di gruppi antiglobal in tutto il pianeta».
Ed ancora: tra i «finanziatori dei “No Global” spicca un nome: Theodor (Teddy) Goldsmith. [...] Teddy è il fratello minore del defunto sir James Goldsmith, speculatore mondiale in materie prime, uno dei dodici uomini più ricchi del mondo, cugino dei Rothschild».
Procedendo nella sua indagine, Blondet mette in luce anche le relazioni che legano il mondo dei “No Global” a un altro celebre miliardario, George Soros. «Ebreo ungherese naturalizzato americano, Soros è diventato enormemente ricco e famoso con speculazioni internazionali sulla lira negli anni 90, il genere di operazioni possibili nel mercato globale. [...] Soros finanzia anche un'altra fondazione “culturale”, il Lindesmith Center-Drug Policy Foundation, che impiega enormi mezzi per fare lobby a favore di una politica di totale liberalizzazione delle droghe e per la legalizzazione dell'eutanasia, naturalmente a livello mondiale».
Dunque, ovunque si cerchi, escono fuori soldi, enormi quantità di soldi, attraverso i quali i soliti signori indirizzano, determinano, controllano.
Per ciò che riguarda l'Europa, taluni sono indotti a credere che l'Euro sia il punto di arrivo spontaneamente perseguito dalle nazioni del Vecchio Continente, nel quadro della loro volontà di unificazione.
Il professor Joshua Paul, docente della Georgetown University, ha pubblicato nell'autunno del 2000 una serie di documenti del Bilderberg Group, sino ad allora tenuti segreti, che documentano come da cinquant'anni quegli ambienti stessero lavorando perché l'Europa si dotasse di un'unica valuta. Già nel 1948 le Fondazioni Ford e Rockefeller avevano dato vita all'American Committee for a United Europe, con lo scopo di condizionare lo sviluppo monetario, economico e politico del nostro Continente in modo convergente agli interessi d'Oltreoceano. Un memorandum della sezione Europa del Dipartimento di Stato americano, in data 11 giugno 1965, riporta precisi suggerimenti al vicepresidente della Comunità Economica Europea, Robert Marjolin, per giungere al varo di un'unica valuta europea, non come concorrente del dollaro, ma come agevole mezzo di controllo delle economie delle singole nazioni europee.
È infatti molto più semplice controllare un'unica entità monetaria e un'unica Banca centrale indipendente, piuttosto che quindici valute e quindici Istituti di emissione con ancora qualche residuo legame con i ministri economici, i governi e il mondo politico.
All'articolo 7 dello Statuto del Sistema Europeo di Banche Centrali e della Banca Centrale Europea si legge: «Né la BCE, né una banca centrale nazionale, né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni o dagli organi comunitari, dai governi degli Stati membri, né da qualsiasi altro organismo».
Le Banche centrali delle singole nazioni europee, prima del Trattato di Maastricht, avevano un'indipendenza dal potere politico variabile tra il 40 e il 65 per cento; oggi, dopo i cambiamenti determinati dall'avvento dell'Euro, hanno raggiunto il 90 per cento.
Dunque, mentre nessuna influenza può giungere dal potere politico alla BCE, dai vertici monetari giungono al potere politico continue indicazioni, parametri cui attenersi, precisi paletti che coinvolgono l'intera economia delle nazioni.
Come giustamente osserva Bruno Tarquini, già procuratore della Repubblica a Teramo, nel suo “La banca, la moneta e l'usura”, «lo Stato ha rinunciato alla propria sovranità monetaria, trasferendola a un istituto privato: questo perciò, in perfetta autonomia e indipendenza, esercita una pubblica funzione di essenziale rilevanza per la vita della Nazione, essendo noto che la politica monetaria (vale a dire l'emissione della moneta e la regolamentazione della sua circolazione nonché del mercato monetario) condiziona l'intero sistema economico di uno Stato e influisce quindi anche sulla sua politica generale, e particolarmente su quella sociale».
È davvero singolare come il Trattato di Maastricht si sia preoccupato di definire la BCE esclusivamente per ciò che riguarda la sua indipendenza. Francesco Papadia e Carlo Santini, nel loro “La Banca centrale europea”, ricordano: «Dalla lettura del Trattato emerge la particolare collocazione della Banca centrale europea nell'assetto istituzionale dell'Unione europea. L'articolo 4, infatti, non la menziona tra le istituzioni (Parlamento europeo, Consiglio, Commissione, Corte di giustizia e Corte dei conti) della Comunità. Alla Banca, però, il Trattato conferisce personalità giuridica e lo Statuto riconosce la più ampia capacità di agire in ciascuno degli Stati membri. Sotto il profilo giuridico-formale, la Banca centrale europea non è, dunque, un'istituzione comunitaria [...], i suoi atti non sono imputabili alla Comunità. La Banca centrale europea è inserita in una cornice giuridica che ne stabilisce e ne tutela l'indipendenza nell'attuazione della politica monetaria».
La BCE determina dunque, in perfetta autonomia — come se ciò non avesse rilevanza politica e sociale —, il livello dei tassi di interesse ufficiali, cioè il costo del denaro, cioè la politica di espansione o di restrizione monetaria. E, se non bastasse, decide e guida, in perfetta indipendenza, tutte le operazioni di acquisto e di vendita degli euro contro altre valute sul mercato dei cambi. E le Banche centrali nazionali devono conformarsi in tutto e per tutto alle direttive della BCE — il Consiglio direttivo vigila attentamente —, altrimenti bacchettate sulle dita, con tutto il potere per farlo.
La BCE, e di conseguenza anche tutte le Banche centrali nazionali, ufficialmente — ormai è scritto a chiare lettere, nero su bianco, nei Trattati e nei Regolamenti — non possono concedere, per nessun motivo, crediti agli Stati, o alla Comunità europea o a qualsiasi altro soggetto pubblico, e quindi è loro proibito acquistare titoli di Stato, sia al momento dell'emissione che successivamente.
Non solo, se prima di Maastricht qualche Banca centrale, come abbiamo già ricordato, poteva prevedere un parziale ristorno allo Stato del signoraggio — reddito ottenuto attraverso la politica monetaria —, alla BCE si fa obbligo di non fare uscire neanche un centesimo dalle casse del Sistema europeo di banche centrali.
E, ancora, mentre i dibattiti e le sedute della Camera dei deputati e del Senato sono aperti al pubblico, le sentenze delle Corti di giustizia devono essere dettagliatamente motivate e pubblicate, le riunioni del Consiglio direttivo della BCE sono assolutamente secretate ed è lo stesso Consiglio che, di volta in volta, decide se pubblicare le proprie deliberazioni, pubblicarne solo alcune parti o non pubblicarle affatto.
Infine, ciliegina sulla torta, i dirigenti della BCE godono di una sostanziale immunità. Non sono infatti previste, all'interno della BCE, sanzioni per comportamenti impropri. Nei Regolamenti si legge che è sufficiente il rischio di perdere credibilità e fiducia per garantire la certezza dell'operato dei dirigenti. Solo in caso di colpe gravissime e di comportamento palesemente illegittimo può intervenire la Corte di giustizia e occuparsi del caso.
La perdita delle sovranità monetaria e legislativa — parti essenziali della sovranità nazionale — da parte degli Stati europei è stata stabilita in maniera irrevocabile. E alla chetichella.
In Italia, come sottolineò Ida Magli su “il Giornale” dell'11 marzo 2001, «nella legge di riforma della Costituzione, approvata dalla maggioranza di sinistra in gran fretta poche ore prima dello scioglimento delle Camere, c'è un passo fondamentale e che pure non è stato portato a conoscenza dei cittadini né prima né dopo della sua approvazione. Si tratta dell'articolo 117 in cui si stabilisce: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. In queste tre righe è codificata la perdita della sovranità legislativa dell'Italia. Per questo l'articolo 117 non è stato discusso apertamente: gli italiani non debbono sapere».
Forse, la democrazia è proprio questa.
Da qualche parte si è sentito il dovere di coinvolgere ed ascoltare il popolo attraverso regolari referendum, e lì — vedi il caso della Danimarca — Maastricht ed Euro sono rimasti lettera morta. Il popolo ha detto no. Ma queste sono rare, anzi uniche, eccezioni.
Molto democraticamente, a tutti gli altri paesi europei è stato imposto di uniformarsi al modello americano senza diritto di replica, senza alcun referendum.
Scrive Giulietto Chiesa sul suo recente “La guerra infinita”: «È il denaro che decide non più soltanto come l'economia deve procedere, ma anche — direttamente, immediatamente — come l'America deve essere governata. [...] Il popolo, come tutto il resto, non è più sovrano di nulla, essendo diventato, nel frattempo, consumatore. Non ha forse invitato, l'imperatore Bush, pochi giorni dopo il tremendo impatto terroristico, i suoi elettori a “tornare a fare shopping”?».
IL CONSENSO IN DEMOCRAZIA
L’economia è governata da uomini che — come abbiamo visto — nulla hanno a che vedere con il consenso popolare; su questo non può ormai esservi più dubbio. Ma, si dice, è inevitabile, perché queste sono le regole del Libero Mercato, della globalizzazione, del consumismo e del benessere. L'importante è che il sistema politico — adottato o imposto —, ovunque, in ogni angolo del mondo, sia quello democratico. Si devono svolgere “libere” consultazioni elettorali attraverso le quali il popolo possa scegliere i candidati proposti dai diversi partiti.
A parte il fatto che abbiamo ancora nelle orecchie la frase di Mark Alonzo Hanna, che ci ricordava come nelle campagne elettorali più dei programmi contano i soldi, ci si può legittimamente chiedere cosa possa offrire al popolo una classe dirigente politica privata di ogni potere inerente la moneta e l'economia, e quindi di ogni possibilità di intervenire nel sociale. Ma, sforzandoci di essere ottimisti fino in fondo, osserviamo come la democrazia riesce a gestire l'oggetto principale del suo esistere: il consenso.
È per garantire il libero consenso, infatti, che i “padri fondatori” hanno inventato la moderna democrazia. E di questo sistema politico esiste un modello indicato ad esempio, ad ogni pie' sospinto, un vero e proprio santuario: “la grande democrazia americana”.
Osserviamo, dunque, come si esprime il consenso in quel paese.
I dati che si riscontrano non possono che lasciare perplessi. Nelle elezioni presidenziali va a votare meno del 50 per cento degli aventi diritto, quindi il presidente USA rappresenta a malapena un americano su quattro. Nelle altre consultazioni le cose vanno molto peggio: i votanti nelle elezioni dei singoli Stati sono il 35-40 per cento, in quelle di contea e municipali addirittura il 25-30 per cento. Sissignori, nel santuario della democrazia ci sono anche “maggioranze” che rappresentano meno del 13 per cento della popolazione.
Qualcosa non funziona: le motivazioni addotte per condannare le dittature si sono sempre incentrate sui temi della libertà e del consenso. Ma è legittimo domandarsi quanto possa durare un regime quando si basi su un consenso del solo 13 o 25 per cento della popolazione. Negli Stati totalitari certamente molto poco.
Il consenso, quando è una cosa seria, è un fatto di coscienza, è un senso di appartenenza e di partecipazione, è una forza centripeta che ingigantisce l'individuo e lo rende parte fondamentale del popolo, anzi di “quel” popolo.
In democrazia, regno del più sfrenato individualismo, le forze che prevalgono sono invece quelle centrifughe, che rimpiccioliscono il cittadino, lo rendono anonimo e lo collocano in una massa amorfa e spersonalizzata. Una massa che si può governare anche con un misero 13 per cento di “maggioranza”.
Il consenso, in democrazia, ha la dignità di una lattina di “Coca-Cola” venduta sullo scaffale di un supermercato.
E più la democrazia è imposta al mondo, più la finanza internazionale ha mano libera per i suoi traffici, più crescono le sacche di povertà entro le nazioni ricche e più popoli vengono cacciati nel girone della fame.
Nell'ultimo rapporto ONU sullo sviluppo umano — 1998 — si legge che il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale consuma l'86 per cento dei beni disponibili, mentre il 20 per cento più povero solo l'1,3 per cento.
E la “grande democrazia americana” prosegue nella sua opera di conquista planetaria. Attraverso quali strumenti?
Siamo alle solite, rispuntano i banchieri. Scrive ancora Giulietto Chiesa: «Strumenti sovrannazionali di questo progetto sono state le due istituzioni regine di Bretton Woods, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, cui negli ultimi anni si è aggiunto il WTO (World Trade Organization), loro parente stretto in quanto erede del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade). Non a caso, questi tre strumenti operativi sono estranei alle Nazioni Unite. Altrettanto non a caso, essi sono le uniche istituzioni sovrannazionali che hanno ricevuto concreti, reali poteri di limitazione, di abrogazione delle sovranità nazionali dei paesi che vi aderiscono. Ma non tutte le abrogazioni sono eguali tra loro. Il “consenso di Washington” ha rappresentato il grimaldello con cui la rappresentatività internazionale del sistema delle Nazioni Unite è stata smantellata per far posto al decalogo della globalizzazione americana».
E la “grande democrazia americana” continua, con ricatti monetari, con azioni militari, con spoliazioni delle sovranità nazionali sempre più devastanti, ad imporre il proprio modello “buono”, “libero”, “politicamente corretto”.
Le regole? I Trattati internazionali? Contano solo se e quando sono funzionali al disegno USA, altrimenti si ignorano, si stracciano o si riscrivono. Una risoluzione dell'ONU non rispettata può essere ottimo pretesto per scatenare una guerra se si tratta dell'Iraq di Saddam Hussein, ma non ha nessuna importanza se nella parte dell'inadempiente si trova lo Stato di Israele.
Quando, nel 1999, l'obbiettivo era lo smantellamento della Serbia di Milosevic, gli americani non esitarono a stravolgere la natura della NATO. Da patto difensivo la trasformarono in alleanza militare offensiva. I regolamenti furono, in quattro e quattr'otto, cambiati. Gli articoli 5 e 6 dello Statuto che circoscrivevano, in chiave difensiva, l'uso della forza, vennero riscritti: la NATO si autodefinì e si comportò, con atto unilaterale e in dispregio dell'articolo 51 della Carta dell'ONU sulla legittima difesa, come il “gendarme del nuovo ordine mondiale”. L'ordine americano e democratico. L'ordine dei banchieri.
Per comprendere quale, puntualmente, si dimostra essere la considerazione che gli americani hanno della legalità e della libertà basta osservarli in una qualsiasi delle loro scorribande.
A titolo di esempio riportiamo la ricostruzione fatta da Noam Chomsky dell'aggressione militare scatenata dall'America di Ronald Reagan contro il Nicaragua: «Il Nicaragua non rispose. Essi non risposero mettendo bombe a Washington. Essi risposero chiamando Washington a difendere il proprio operato davanti al Tribunale internazionale [...] Non ebbero difficoltà a trovare le prove. Il Tribunale le accettò, deliberò in loro favore, [...] condannò ciò che essi avevano denunciato come “uso illegale della forza”, che è un altro modo per definire il terrorismo internazionale, [...] intimò agli Stati Uniti di porre fine al crimine e di pagare massicci indennizzi. Gli Stati Uniti, ovviamente, respinsero con sdegno la sentenza della Suprema Corte e annunciarono che da quel momento non ne avrebbero più riconosciuto la giurisdizione. Allora il Nicaragua si rivolse al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Che emise una risoluzione invitante tutti gli Stati a osservare le leggi internazionali. Nessuno fu nominato, ma tutti compresero. Gli Stati Uniti misero il veto alla risoluzione. Ed essi sono oggi l'unico Stato che ha dovuto subire una condanna del Tribunale internazionale e che, al tempo stesso, ha posto il veto su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che esortava gli Stati a osservare le leggi internazionali. Allora il Nicaragua andò oltre e si rivolse all'Assemblea Generale dell'ONU, dove non esiste tecnicamente un meccanismo di veto, ma dove un voto negativo degli Stati Uniti equivale a un veto. E l'Assemblea approvò una risoluzione analoga a quella del Consiglio di Sicurezza con il voto contrario soltanto degli Stati Uniti, di Israele e del Salvador. L'anno successivo si votò di nuovo e questa volta gli Stati Uniti raccolsero soltanto il voto di Israele [...] A quel punto il Nicaragua non poteva fare nient'altro di legale. Aveva tentato tutte le strade. Ma esse non potevano funzionare in un mondo governato dalla forza».
È questa la particolare interpretazione che la “grande democrazia americana” — quella che si attribuì l'autorità per istruire e dirigere i processi di Norimberga e di Tokyo — ha dei valori di libertà, di legalità e di giustizia. Esattamente come quando proclamano il diritto dei palestinesi di avere un proprio Stato, ma a condizione, non solo che sia uno Stato di tipo democratico, ma anche di poter porre il proprio veto sulla scelta della persona che il popolo palestinese vorrà scegliere come capo.
Che strana cosa la democrazia!
Lo spirito “missionario” dei cavalieri a stelle-e-strisce nel “liberare” i popoli del mondo lascia perplessi almeno quanto lo spessore di quel consenso democratico che ci consegna “maggioranze” del 13 per cento.
Ma, a chiarirci cosa sia il consenso democratico, giunge il banchiere Carlo Azeglio Ciampi nella sua nuova veste di presidente della Repubblica. A chi gli chiedeva spiegazioni sulla legittimità di portare avanti riforme della portata dell'Euro e dell'istituzione della Banca Centrale Europea, senza sottoporre le questioni al vaglio di referendum popolari, ha detto: «Si parla a volte di fare un referendum sull'Europa. Ma a me pare che un “referendum di fatto” sia già stato celebrato, il primo gennaio scorso, quando è stato varato l'Euro, e mi chiedo quale consultazione popolare migliore di quella sia possibile».
E bravo il nostro Ciampi! Con una frase breve, lapidaria, chiarissima ci ha spiegato ciò che da parecchie pagine ci andavamo chiedendo: il consenso democratico “migliore” è quello di utilizzare la moneta che è imposta d'autorità e non la lira, che nessun commerciante e nessuno sportello bancario sono ormai disposti ad accettare. Ci sembra proprio giusto; nell'epoca del denaro virtuale è logico che ci si debba accontentare del consenso virtuale.
Probabilmente, proprio questa è la democrazia.
DALLA TIRANNIDE DELLE “LOBBIES” ALLA RICONQUISTA DELLA SOVRANITÀ NAZIONALE
Nell'epoca del denaro virtuale, della “e-money”, cioè del soldi che non esistono, ma che possono determinare il benessere o la povertà per intere popolazioni, la ricchezza o la rovina per intere categorie, è, in fondo, logico che il sistema politico dominante sia quello democratico, dove “sovrano” dovrebbe essere il popolo, ma a decidere sono solo i banchieri e le loro “lobbies”, dove si confondono le alchimie monetarie con i referendum popolari, dove le maggioranze possono essere del 13 per cento, dove si scambia la libertà con l'obbligo a consumare, la dignità con il possesso di una carta di credito, la patria con un titolo quotato in borsa, la vita con la storia di un conto corrente.
Di fronte ai grandi temi di attualità le uniche risposte sono quelle ispirate dall'interesse dei soliti gruppi finanziari. E nessuno si ribella, perché non c'è più un potere politico rappresentativo e autorevole da cui aspettarsi risposte differenti, autonome, ispirate dall'interesse della collettività.
Sul “Corriere della Sera” del 23 gennaio 2002, Giovanni Caprara, affrontando il problema dell'inquinamento, riporta la possibile soluzione indicata dal Nobel Carlo Rubbia: «Per risolvere i problemi bisogna fabbricare veicoli con emissione zero, cioè che non inquinano. E lo strumento ideale è la cella a combustibile a idrogeno. Ne sono già state costruite e dimostrano di funzionare egregiamente. Anche meglio del motore a benzina, per quanto riguarda il rendimento che risulta addirittura tre volte più elevato: 45 per cento la cella, 15 per cento il motore a benzina. [...] In cinque anni l'intero parco dei mezzi pubblici potrebbe essere riconvertito e disponibile. Per le auto private, basterebbe solo qualche anno in più. [...] Bisogna solo decidere politicamente di andare in questa direzione ed esserne tutti consapevoli».
Ma è proprio questo il problema. Per «decidere politicamente», nell'interesse della collettività, occorre un potere politico vero e indipendente, un potere che oggi non esiste più, di cui altro non è rimasto se non l'ectoplasma, un'immagine più o meno decorativa ad uso e consumo degli interessi dei soliti signori.
Per risolvere i problemi dell'inquinamento è inutile ricercare ciò che è buono per il popolo, anzi per “quel” popolo; sarà più opportuno individuare le soluzioni favorevoli agli interessi dei commercianti di petrolio, degli Agnelli, Ford e soci.
Ma, in tutta questa vicenda di ordinaria tirannide finanziaria, i numeri hanno un forte peso e i conti si possono anche sbagliare. Anzi, la storia lo dimostra, prima o poi si sbagliano. Vuoi perché l'avidità è spesso più forte della prudenza, vuoi perché le reazioni della psicologia umana spesso non coincidono con la fredda consequenzialità dei calcoli numerici, vuoi perché a forza di sottrarre libertà e sovranità si arriva al punto in cui i popoli si arrabbiano e si ribellano.
Ha destato scalpore il successo che in diverse parti del mondo ha ottenuto il film “The Bank”. Si narra di un personaggio che si vendica dei torti subiti inventando un sistema informatico capace di distruggere la banca che aveva rovinato la sua famiglia. La storia ha il pregio di mettere a nudo i ricatti, le manipolazioni contrattuali e giuridiche, la sete di potere e il cinico controllo delle vite umane messi in atto dagli istituti che maneggiano il denaro. Alle battute finali del protagonista, «la banca non c'è più» e «odio le banche», nelle sale cinematografiche esplodono ovazioni da stadio.
In Argentina, nelle riunioni familiari, un nuovo gioco da tavolo ha soppiantato la tradizionale Tombola e il Monopoli: si chiama “Debito eterno”. Sulla scatola si legge: «Chi è capace di sconfiggere il Fondo Monetario?».
Forse, gli uomini stanno cominciando a comprendere chi sono i veri nemici, e stanno cominciando ad odiarli.
Il giro di boa che condurrà al crollo della tirannide monetaria e alla riconquista delle sovranità nazionali è probabilmente molto più vicino di quello che, di fronte alla potenza planetaria delle “lobbies” finanziarie, si sarebbe indotti a credere.
Si preparano tempi duri, durissimi, come quelli che già stanno vivendo gli argentini.
Sarà un passaggio traumatico, dolorosamente traumatico; giacché tutte le risorse sono ormai nelle mani di quei signori e gran parte delle nostre qualità lavorative sono state travolte: il villaggio globale ha distrutto l'artefice del prodotto finito e lo ha sostituito con l'operaio costretto a costruire un bullone, un ingranaggio o solamente ad assemblare, e con il fattorino capace solo di consegnare ciò che le multinazionali hanno commercializzato.
Dovremo reimparare ciò che ci hanno fatto dimenticare. Dovremo trovare il coraggio di intraprendere strade nuove, soluzioni originali. Dovremo sbarazzarci della moneta-truffa dei banchieri e di tutti i loro ricatti e fondare, finalmente, una moneta vera, quella del popolo.
Scrive Bruno Tarquini: «“Siamo seduti su una polveriera” ha annunciato, dall'alto della sua competenza, l'economista Paolo Savona; e non può certamente sostenersi che non ci si renda conto, già da oggi, di quali potrebbero essere gli effetti di una sua eventuale esplosione. L'emissione della “moneta del popolo”, già utile nell'attuale situazione per contrastare la rarità monetaria, arbitrariamente scelta dalle autorità finanziarie per la soddisfazione della loro sete di dominio, in caso di crisi sarebbe anche decisamente necessaria».
I popoli, vere vittime della tirannide delle “lobbies”, sapranno riconquistarsi, pezzo per pezzo, tutta la sovranità che è stata loro sottratta.
Quando il cloroformio del benessere consumista si sarà esaurito, quando il bailamme di gadget, telefonini, computer sarà andato in tilt, quando il “luna park” di supermercati e centri commerciali sarà rimasto senza prodotti, i popoli necessariamente dovranno riscoprirsi, rifondarsi, tornare ad esistere con la propria specifica identità e la propria cultura.
E il sistema consumista, monetario e del Libero Mercato è un sistema entropico. Un sistema destinato, prima o poi, a spegnersi. Esso si basa infatti sul continuo aumento dei consumi, quindi della produzione, quindi dello sfruttamento delle risorse. Un aumento che non può essere infinito e quindi, giunti al punto in cui la disponibilità dei beni sarà inferiore alla quota d'incremento necessaria al perpetuarsi del sistema consumistico, si giungerà ad una implosione economica.
Sarà un momento durissimo.
Ho ascoltato recentemente da un'anziana montanara il racconto dei tempi, non poi così lontani, in cui nelle nostre valli mancava tutto quello che oggi c'è. Si mangiava polenta, latte, castagne, formaggio, cotenne e qualche raro insaccato. Ma non tutto ciò era disponibile sempre; un giorno si mangiava questo, l'altro quello; la povertà era grande. Spesso, tra gli abitanti del villaggio, ci si riuniva e, allora, le cose andavano meglio perché c'era chi portava cotenne, chi cipolle, chi polenta, chi un salame, chi una ciotola di latte. «La miseria ci teneva uniti, e ci ha consentito di superare anche gli inverni peggiori», fu la conclusione del racconto.
I nostri popoli hanno dimostrato già in molte occasioni di saper superare prove tremende, sviluppando una forza e una capacità solidale oggi insospettabili. Anzi, le qualità migliori le abbiamo espresse nei periodi più duri e in quelli della ricostruzione. Qualità che i signori delle banche internazionali non sospettano nemmeno e sicuramente non hanno preventivato.
I popoli europei, oggi ridotti a bracciantato per i servizi necessari allo sviluppo della nuova economia, quella della globalizzazione e delle multinazionali, sapranno ritrovare le proprie caratteristiche produttive e creatrici. Non resteranno, storditi, affamati, accampati accanto agli aeroporti, ad attendere l'arrivo degli “aiuti umanitari”, come avviene in molti paesi del terzo mondo.
I popoli europei non accetteranno i nuovi ricatti di qualche nuova Banca internazionale e sapranno ritrovare la sopita passione per la libertà e l'indipendenza.
La lotta per la Libertà è una costante nella storia degli uomini. La lotta dei popoli per la Libertà e la Sovranità sarà il tema dominante della storia di domani.

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