Istituzioni per governare la globalizzazione
Sul numero precedente della nostra rivista abbiamo riflettuto a lungo sulle cause e sulle conseguenze dell’attacco terroristico alle torri gemelle. Abbiamo anche contestualizzato il nostro ragionamento facendo riferimento a saggi sulla globalizzazione pubblicati sia precedentemente sia successivamente a quell’evento tragico. Dobbiamo oggi constatare (a lavori ovviamente ancora in corso) che la guerra scatenata dopo l’attentato continua, ma, ora, dopo i clamori iniziali, sostanzialmente e curiosamente nel silenzio dei media. Una sorta di infastidito distacco indotto dalla esigenza di inseguire altri avvenimenti, forse più idonei a garantire il funzionamento della grande macchina attorno a cui si muove il mercato mondiale. L’immenso desiderio di “normalità” è messo però in discussione da alcune anomalie evidenti. La guerra sembra vinta, ma l’obiettivo dichiarato inizialmente (l’eliminazione di Bin Laden e della sua organizzazione terroristica) non si sa se sia stato conseguito, tant’è che si parla di nuovi possibili interventi in altre parti del mondo. Questa eventualità scardinerebbe la fragile coalizione mondiale, per il semplice motivo che essa non è stata costituita sulla base di un diritto cosmopolita, ma su una serie di interessi specifici. La Cina e la Russia, per esempio, hanno individuato nell’occasione un formidabile momento per distogliere l’attenzione dalle violazioni dei diritti umani perpetrate in alcune regioni come la Cecenia o l’Uzbekistan. Gli Stati Uniti, a loro volta, hanno mostrato paurosi tentennamenti su questo stesso argomento e pesanti dubbi si sono levati sui fatti di Mazar e Sharif e sui sistemi di prigionia a Guantánamo. La tensione fra Israele e i Palestinesi, nel frattempo, ha innescato gravi atti di terrorismo e pesanti momenti di ritorsione, che hanno coinvolto civili innocenti allontanando le speranze di pace in quella martoriata regione. Se l’Occidente rinuncerà ad applicare i diritti (umani) in nome della lotta al terrorismo, o di pretestuose emergenze, sarà un poco come se questa guerra l’avesse perduta. Verrebbe infatti dimostrata l’incapacità di porre alla base delle proprie azioni i valori irrinunciabili che caratterizzano una civiltà anziché semplici rapporti di forza e di interesse. L’obiettivo principale del terrorismo, consistente nel dimostrare che la libertà occidentale è solo una falsa copertina patinata basata sullo sfrenato benessere di una minoranza, sarebbe così pienamente raggiunto in una drôle de guerre dove “non si riconoscono prigionieri” e dove i media giocano un ruolo essenziale quanto ambiguo. I giornalisti sono stati allontanati dalle “zone calde”, le immagini della guerra giungono edulcorate, filtrate, rassicuranti, ma, con tutta evidenza, appaiono artatamente costruite attorno ad uno scenario adatto per circondare di un alone misterioso il “nemico” ineffabile, posto, ovviamente, su un piedistallo paritario rispetto ai capi di governo del mondo. Il risultato è di relegare in un ambito molto ristretto l’informazione vera, di mescolare lo spot di un detersivo, lo spezzone di qualche film con le immagini dei bombardamenti e degli attentati. Drammi umani e fiction confusi in un’unica melassa emotiva.
L’Europa, purtroppo, continua a recitare una parte secondaria in questo scenario. Sulle prospettive del Vecchio continente di fronte agli sviluppi della mondializzazione continuiamo a riflettere anche in questo numero della rivista con una serie di interventi importanti.
È però tempo di cominciare a precisare alcuni punti sui cui i mazziniani e i repubblicani sono chiamati a svolgere considerazioni alla luce di questo non proprio rassicurante quadro generale. Intanto appare sempre più evidente lo stridente contrasto fra le istanze di una società democratica basata sul progresso sociale e certi bisogni “privatistici” fondati sulla massimizzazione dei benefici economici di breve periodo. Il fatto è che certe forme di ricchezza sociale, come l’ambiente sano e pulito, la buona istruzione, la giustizia equa, la sicurezza, non possono essere misurate seguendo puri parametri econometrici, né impostate esclusivamente sull’etica del consumismo più sfrenato. Il necessario “passaggio educativo” generalizzato non può certo essere affidato alle prediche isolate, ma va tradotto nelle opportune sedi istituzionali: locali, nazionali, sovranazionali e riguarda argomenti cruciali come la gestione dei media, il possesso delle inserzioni pubblicitarie, il riciclaggio dei capitali derivanti dai traffici illeciti, il tema dei brevetti, le politiche sanitarie e ambientali, il ruolo e la libertà della ricerca scientifica, e così via.
Una visione “alternativa”, in altri termini, non può basarsi soltanto su proposizioni “negative”, né incaponirsi sulla pura resistenza frammentatrice di fronte alla “voracità” del capitalismo multinazionale. In altre occasioni abbiamo anzi sostenuto che la frammentazione costituisce l’altra faccia (prevista e prevedibile) della globalizzazione e, sotto molti punti di vista, ne favorisce le dinamiche più perverse e penalizzanti per le fasce povere del pianeta. Frammentazione vuole infatti dire ridimensionamento della legge e quindi facile diffusione del “libero” arbitrio dei potenti. Preconizza scenari in cui gli strumenti di partecipazione democratica riducono la loro influenza rispetto ai grandi poteri economici, saldamente aggregati fra loro e con bilanci pari e superiori a quelli di grandi stati. Suggerisce utilitaristici addestramenti, territorialmente mirati, anziché una pubblica istruzione, seria, severa atta a favorire la crescita della persona. Incoraggia sentimenti egoistici, di bottega, limitati ad ambiti ristretti, senza prospettive, né futuro. La progressiva perdita di sovranità degli stati, se non surrogata in altro modo (ad esempio dalla sovranità delle unioni sopranazionali degli stati), favorirà, inoltre, lo sviluppo della delinquenza organizzata, delle mafie, del terrorismo (inteso come arma utilizzabile in un mondo senza legge). Nessuna sicurezza sarà perseguibile in un simile contesto e nessuna politica risulterà praticabile. Già da tempo la democrazia ha ormai assunto, sotto molti aspetti, solo un ruolo formale e misura quotidianamente la propria siderale distanza dai bisogni e dal sentire delle persone.
Senza strutture non sarà possibile alcun appello alla ragione comune, alcun richiamo ai valori universalizzabili. Il fallimento dell’Europa sarebbe catastrofico sotto questo punto di vista.
Sauro Mattarelli