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    Question Governare la Globalizzazione




    Istituzioni per governare la globalizzazione

    Sul numero precedente della nostra rivista abbiamo riflettuto a lungo sulle cause e sulle conseguenze dell’attacco terroristico alle torri gemelle. Abbiamo anche contestualizzato il nostro ragionamento facendo riferimento a saggi sulla globalizzazione pubblicati sia precedentemente sia successivamente a quell’evento tragico. Dobbiamo oggi constatare (a lavori ovviamente ancora in corso) che la guerra scatenata dopo l’attentato continua, ma, ora, dopo i clamori iniziali, sostanzialmente e curiosamente nel silenzio dei media. Una sorta di infastidito distacco indotto dalla esigenza di inseguire altri avvenimenti, forse più idonei a garantire il funzionamento della grande macchina attorno a cui si muove il mercato mondiale. L’immenso desiderio di “normalità” è messo però in discussione da alcune anomalie evidenti. La guerra sembra vinta, ma l’obiettivo dichiarato inizialmente (l’eliminazione di Bin Laden e della sua organizzazione terroristica) non si sa se sia stato conseguito, tant’è che si parla di nuovi possibili interventi in altre parti del mondo. Questa eventualità scardinerebbe la fragile coalizione mondiale, per il semplice motivo che essa non è stata costituita sulla base di un diritto cosmopolita, ma su una serie di interessi specifici. La Cina e la Russia, per esempio, hanno individuato nell’occasione un formidabile momento per distogliere l’attenzione dalle violazioni dei diritti umani perpetrate in alcune regioni come la Cecenia o l’Uzbekistan. Gli Stati Uniti, a loro volta, hanno mostrato paurosi tentennamenti su questo stesso argomento e pesanti dubbi si sono levati sui fatti di Mazar e Sharif e sui sistemi di prigionia a Guantánamo. La tensione fra Israele e i Palestinesi, nel frattempo, ha innescato gravi atti di terrorismo e pesanti momenti di ritorsione, che hanno coinvolto civili innocenti allontanando le speranze di pace in quella martoriata regione. Se l’Occidente rinuncerà ad applicare i diritti (umani) in nome della lotta al terrorismo, o di pretestuose emergenze, sarà un poco come se questa guerra l’avesse perduta. Verrebbe infatti dimostrata l’incapacità di porre alla base delle proprie azioni i valori irrinunciabili che caratterizzano una civiltà anziché semplici rapporti di forza e di interesse. L’obiettivo principale del terrorismo, consistente nel dimostrare che la libertà occidentale è solo una falsa copertina patinata basata sullo sfrenato benessere di una minoranza, sarebbe così pienamente raggiunto in una drôle de guerre dove “non si riconoscono prigionieri” e dove i media giocano un ruolo essenziale quanto ambiguo. I giornalisti sono stati allontanati dalle “zone calde”, le immagini della guerra giungono edulcorate, filtrate, rassicuranti, ma, con tutta evidenza, appaiono artatamente costruite attorno ad uno scenario adatto per circondare di un alone misterioso il “nemico” ineffabile, posto, ovviamente, su un piedistallo paritario rispetto ai capi di governo del mondo. Il risultato è di relegare in un ambito molto ristretto l’informazione vera, di mescolare lo spot di un detersivo, lo spezzone di qualche film con le immagini dei bombardamenti e degli attentati. Drammi umani e fiction confusi in un’unica melassa emotiva.

    L’Europa, purtroppo, continua a recitare una parte secondaria in questo scenario. Sulle prospettive del Vecchio continente di fronte agli sviluppi della mondializzazione continuiamo a riflettere anche in questo numero della rivista con una serie di interventi importanti.
    È però tempo di cominciare a precisare alcuni punti sui cui i mazziniani e i repubblicani sono chiamati a svolgere considerazioni alla luce di questo non proprio rassicurante quadro generale. Intanto appare sempre più evidente lo stridente contrasto fra le istanze di una società democratica basata sul progresso sociale e certi bisogni “privatistici” fondati sulla massimizzazione dei benefici economici di breve periodo. Il fatto è che certe forme di ricchezza sociale, come l’ambiente sano e pulito, la buona istruzione, la giustizia equa, la sicurezza, non possono essere misurate seguendo puri parametri econometrici, né impostate esclusivamente sull’etica del consumismo più sfrenato. Il necessario “passaggio educativo” generalizzato non può certo essere affidato alle prediche isolate, ma va tradotto nelle opportune sedi istituzionali: locali, nazionali, sovranazionali e riguarda argomenti cruciali come la gestione dei media, il possesso delle inserzioni pubblicitarie, il riciclaggio dei capitali derivanti dai traffici illeciti, il tema dei brevetti, le politiche sanitarie e ambientali, il ruolo e la libertà della ricerca scientifica, e così via.
    Una visione “alternativa”, in altri termini, non può basarsi soltanto su proposizioni “negative”, né incaponirsi sulla pura resistenza frammentatrice di fronte alla “voracità” del capitalismo multinazionale. In altre occasioni abbiamo anzi sostenuto che la frammentazione costituisce l’altra faccia (prevista e prevedibile) della globalizzazione e, sotto molti punti di vista, ne favorisce le dinamiche più perverse e penalizzanti per le fasce povere del pianeta. Frammentazione vuole infatti dire ridimensionamento della legge e quindi facile diffusione del “libero” arbitrio dei potenti. Preconizza scenari in cui gli strumenti di partecipazione democratica riducono la loro influenza rispetto ai grandi poteri economici, saldamente aggregati fra loro e con bilanci pari e superiori a quelli di grandi stati. Suggerisce utilitaristici addestramenti, territorialmente mirati, anziché una pubblica istruzione, seria, severa atta a favorire la crescita della persona. Incoraggia sentimenti egoistici, di bottega, limitati ad ambiti ristretti, senza prospettive, né futuro. La progressiva perdita di sovranità degli stati, se non surrogata in altro modo (ad esempio dalla sovranità delle unioni sopranazionali degli stati), favorirà, inoltre, lo sviluppo della delinquenza organizzata, delle mafie, del terrorismo (inteso come arma utilizzabile in un mondo senza legge). Nessuna sicurezza sarà perseguibile in un simile contesto e nessuna politica risulterà praticabile. Già da tempo la democrazia ha ormai assunto, sotto molti aspetti, solo un ruolo formale e misura quotidianamente la propria siderale distanza dai bisogni e dal sentire delle persone.
    Senza strutture non sarà possibile alcun appello alla ragione comune, alcun richiamo ai valori universalizzabili. Il fallimento dell’Europa sarebbe catastrofico sotto questo punto di vista.

    Sauro Mattarelli


  2. #2
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    Da “Il Sole 24 Ore” del 21 aprile 2002

    La forza espansiva del mercato può essere coniugata con la redistribuzione della ricchezza

    Ri
    fondazione capitalista

    di Giorgio La Malfa


    Il titolo del libro di Paolo Del Debbio apparso in questi giorni - Global - e ancor più il sottotitolo - Perché la globalizzazione ci fa bene - potrebbero indurre a pensare che si tratti di un manifesto a favore della globalizzazione o meglio ancora di una risposta in forma di contromanifesto alle tesi esposte ad esempio in No logo – il libro di Naomi Klein che ha avuto tanto successo prima e dopo la riunione del G8 di Genova nel luglio del 2001.
    Invece il libro, che è un bel libro, non ha il tono di un manifesto: non è né un’invettiva, né una perorazione; è un contributo alla riflessione sui problemi complessi delle società contemporanee e sul ruolo dell’azione politica in esse. Più che una risposta ai cosiddetti no global, il libro deve essere considerato come un invito alla discussione con questo mondo o con quella parte di esso disponibile al dialogo.
    Il filo del ragionamento di Del Debbio può essere riassunto nei termini seguenti. La forza espansiva del mercato e la sua tendenza a investire aree sempre più vaste del mondo fino a coincidere sostanzialmente con il mondo stesso sono sostanzialmente inarrestabili. Nel complesso questo processo è benefico. Infatti il mercato - scrive l’autore - si è dimostrato, almeno finora, “il sistema migliore per la creazione delle risorse” e porta con sé enormi vantaggi in termini di produzione ed anche di distribuzione della ricchezza. E tuttavia, contrariamente alle tesi dei suoi sostenitori più acritici, il mercato non risolve da solo tutti i problemi economici e sociali, ed in particolare quelli della giustizia sociale, della tutela delle parti più deboli della società, delle disparità di reddito all’interno delle singole economie e di quelle fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Di questi problemi ci si può fare carico soltanto con una forte spinta di carattere etico, cioè con un impegno pratico a realizzare principi e valori che il mercato, lasciato a se stesso, non tutelerebbe in alcun modo o quantomeno in misura adeguata. La sfera dell’azione politica è dunque definita nel rapporto fra queste motivazioni etiche e il mercato.
    Anche i no global - dice Del Debbio - partono da un giudizio etico e dalla convinzione che il giudizio etico debba portare a esercitare un’influenza sul modo nel quale funzionano le società umane. Ma la differenza della loro posizione rispetto a quella esposta da Del Debbio è nel giudizio sul rapporto fra etica e mercato. “Per certuni – scrive – c’è da una parte l’economia di mercato, con le sue leggi, dall’altra l’ethos globale a rimediarne i guasti. Da una parte (quella del mercato) l’origine dei mali, dall’altra (quella dell’ethos), la loro cura” (pagina 11); per l’autore invece lo sforzo da fare è quello “di capire come funzionino i meccanismi che stanno a fondamento della globalizzazione e poi di fare alcune riflessioni etiche, di suggerire alcuni spunti che tengano insieme ciò che, irrealisticamente, oggi si vorrebbe dividere” (pagina 11).
    Sulla base di questo assunto il libro studia vari problemi, da quello di un ridisegno delle reti di protezione sociale nei Paesi più sviluppati che tenga conto del fatto che le esigenze del mercato costringono a ridurre i costi tradizionali dello stato sociale, a quelli dello sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo. Per ciascuna di queste questioni Del Debbio offre la sue indicazioni su ciò che il mercato può fare e sugli interventi suggeriti dai principi etici di cui l’azione politica collettiva deve farsi carico, fino a questa conclusione che in un certo senso sintetizza il suo punto di vista complessivo: “La dignità dell’uomo è il punto di partenza e di convergenza di tutto il discorso. Creare le condizioni perché ogni uomo e ogni popolo possano godere di una reale possibilità di sviluppare le proprie potenzialità materiali e spirituali costituisce l’obiettivo (…). Chi non riesce a sostenersi deve essere aiutato (…). Ma questa logica non prevede che l’aiuto si sostituisca alla possibilità che i soggetti, singoli o popoli, hanno di potercela fare in modo autonomo(…). Per questo l’aiuto assume la forma sussidiaria: si tiene ‘in riserva’ “. (pagina 186).
    Non tutto è convincente nel libro. Per esempio l’autore ritiene di potere iscrivere la Chiesa Cattolica fra i sostenitori di un capitalismo temperato dall’etica, che è in sintesi il suo approccio. Egli offre una serie di citazioni da documenti papali e da studiosi cattolici che vanno in questa direzione, ma la tesi non è del tutto persuasiva: le prese di posizioni della Chiesa Cattolica e di Giovanni Paolo II, con esclusione forse della sua più recente enciclica, contengono una condanna radicale del fondamento egoistico del capitalismo e questo spiega la larga partecipazione di movimenti cattolici alle manifestazioni contro la globalizzazione.
    In secondo luogo, l’affermazione secondo cui l’etica dovrebbe, per così dire, innestarsi sul mercato e correggerne i difetti, accettabile in linea di principio, deve fare i conti con quello che gli economisti chiamerebbero il trade off fra efficienza e giustizia sociale, con il problema, cioè, di valutare le perdite di efficienza che gli interventi pubblici possono in molti casi inevitabilmente comportare. Non è detto cioè che nel ridistribuire a fini sociali le risorse non si determini una produzione di ricchezza inferiore a quella che un sistema puramente di mercato potrebbe generare. Le difficoltà dell’azione politica in campo sociale nascono essenzialmente da questo problema ed è ingiusto considerare che i fautori del mercato alla Hayek abbiano semplicemente ignorato gli aspetti distributivi.
    Il terzo problema riguarda la difficoltà di disegnare delle istituzioni – per esempio in campo internazionale – nelle quali si possa concretizzare l’incontro fra il principio del mercato e i valori etici che debbono correggere gli automatismi e gli spontaneismi. Del Debbio cita, giustamente, un recente libro di Carlo Pelanda e Paolo Savona dedicato al tema del rapporto fra governance mondiale e sovranità degli Stati, ma il problema concreto di come tradurre i principi in azione è un problema di non facile soluzione.
    Tuttavia l’impostazione di fondo che Global illustra è molto saggia. Se condivisa, essa consentirebbe di deviare il dibattito dalla semplice contrapposizione ideologica fra fautori del capitalismo e nemici della globalizzazione e di concentrare le energie sulla ricerca di soluzioni concrete e specifiche ai problemi della creazione di un capitalismo ben temperato. Si tratta di vedere se, in materie come queste, dove il pensiero e le argomentazioni non sono saldamente ancorati a terra dalla disponibilità di dati empirici e dalle verifiche che i dati consentono e impongono, un appello alla ragione, come quello auspicato da Del Debbio, non possa essere rifiutato come un ennesimo tentativo dei sostenitori del mercato di nasconderne i vizi e le contraddizioni e quindi di limitare il “naturale” antagonismo cui il sistema dovrebbe dar luogo.
    Non conta dunque se il libro di Del Debbio appaia convincente a chi sia già per sé convinto della superiorità del mercato su ogni altra organizzazione economica della società. Bisogna vedere quanti di coloro i quali fino a tempi recenti avevano ritenuto che fosse possibile una diversa organizzazione sociale dell’economia e quanti di quelli che hanno letto il messaggio della Chiesa Cattolica come una negazione radicale dell’economia di mercato e dei suoi fondamenti morali, siano oggi disponibili a una visione meno ideologica. Queste due componenti hanno pesato profondamente nella società italiana in tutto il secondo dopoguerra. In qualche misura esse sembrano sentire la fine del socialismo sperimentato nell’Unione Sovietica come una sconfitta da parte di un avversario, più che come l’affermazione di una verità comune nascosta per troppo tempo dal velo dell’ideologia.
    Libri come questo aiutano a definire un progetto politico per il futuro, ma presuppongono l’accettazione del fatto che, come disse il grande storico francese Francois Furet dopo la caduta del Muro di Berlino, non vi sia più spazio per quella visione alternativa della società che aveva accompagnato la storia del mondo negli ultimi 150 anni.

    Paolo Del Debbio
    “Global. Perché la globalizzazione ci fa bene”
    Mondadori, Milano 2002, pagg. 208, euro 16,00

  3. #3
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    La Conferenza della FAO: fame nel mondo e crescita demografica

    Ora che le luci si sono spente sul palcoscenico della FAO, è forse il caso di fare qualche riflessione sul problema che era oggetto della Conferenza tenuta a Roma, il problema cioè della fame nel mondo.

    Nella Conferenza sono state affrontate questioni di rilievo, dalla utilizzazione e diffusione dei cibi transgenici, al reperimento delle risorse necessarie per finanziare i programmi della FAO, alla stessa riorganizzazione dell'istituto (problema non secondario e giustamente sollevato dal presidente Berlusconi). Ma dalla Conferenza è stata assente una questione essenziale: come fermare quello sviluppo demografico che, in Africa soprattutto, rende senza speranza la rincorsa tra le bocche da sfamare e i mezzi necessari per farlo.

    Per i prossimi decenni è previsto un ulteriore e consistente incremento della popolazione mondiale: concentrato, peraltro, in alcune aree del pianeta, in genere le più povere e le più disastrate. Senza bloccare questa tendenza, sarà impossibile ridurre il numero dei disperati: nessun incremento delle risorse e nessuna razionalizzazione del loro uso potrebbe bastare. E senza bloccare questa tendenza, sarà anche impossibile parlare di "sviluppo sostenibile".

    C'è da meravigliarsi allora se i paesi "ricchi", che dovrebbero finanziare i piani della FAO, disertano una Conferenza che cancella dalla sua agenda il problema di fondo? Che non è, probabilmente, un problema "politicamente corretto", non coinvolge l'emotività dell'opinione pubblica occidentale né gli interessi immediati delle multinazionali. Ma è il problema vero, che non può essere eluso senza cadere in una inutile demagogia.

    Purtroppo, però, è anche il problema con cui le diverse confessioni religiose, i paesi del Terzo Mondo e molte istituzioni internazionali, a cominciare dalla FAO, non intendono misurarsi. Anzi, non intendono affatto sottoporlo al dibattito pubblico. E non certo perché non possa trovare una qualche soluzione: paesi come la Cina o l'India, che questa questione hanno affrontato, anche talora con qualche discutibile scorciatoia, cominciano a rallentare sensibilmente i loro tassi di crescita demografica (mentre accrescono rapidamente, guarda caso, i tassi di sviluppo economico).

    Ma è questo il problema dal quale bisogna partire per riportare in equilibrio esigenze altrimenti inconciliabili. E per affrontare con coraggio le questioni legate al futuro stesso del pianeta Terra. Oltre a quelle, se proprio ce ne fosse bisogno, legate alla sopravvivenza di alcune istituzioni internazionali.

    Roma, 14 giugno 2002
    --------------------------------------------------------
    tratto dal sito web
    http://www.pri.it

  4. #4
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    Predefinito Riceviamo dall'Ing. Cesare Marchetti

    LA CHIESA TRA GLOBALIZZAZIONE E LIBERO MERCATO.

    Una breve replica al segretario del Vicariato diocesano Gualtiero Sollazzi, che ha commentato la mia lettera al Tirreno del 27/6/02 sulla Globalizzazione.
    Non ho alcun dubbio su cosa dovrebbe fare un Cristiano di fronte alla miseria ed alle ingiustizie del mondo: dare tutto ciò che può ai poveri del terzo mondo e, se ha una grande anima, piantare qui tutto ed andare come missionario in Africa.
    Purtuttavia queste iniziative sarebbero personali e non potrebbero risolvere le gravi ingiustizie del pianeta, se pensiamo che in una umanità di 6 miliardi di uomini, solo un miliardo ha di che vivere decentemente, mentre i restanti 5 miliardi soffrono la fame.
    Anche se tutto il mondo sviluppato mettesse a disposizione tutte le sue risorse, queste non sarebbero sufficienti a soddisfare tutti i bisogni del terzo mondo.
    E’ evidente che per risolvere il problema gli abitanti di questo devono essere messi in condizioni di produrre ricchezza per loro stessi e convinti a procreare in proporzione alle risorse disponibili.
    La Chiesa allora fa bene a richiamare tutti i Cristiani alla solidarietà (richiamo diretto però come il Vangelo alle coscienze individuali), ma a questo punto devono entrare in scena l’Economia e gli Economisti; quando si parla di grandi sistemi, la parola è la loro.
    L’Economia è una scienza, che può proporsi anche degli obiettivi di solidarietà, ma che individua degli strumenti finanziari, che non hanno nulla da spartire con le elargizioni di buon cuore; tali strumenti invece prevedono una forte collaborazione da chi i finanziamenti li riceve e non che i finanziamenti debbano essere utilizzati da un’incapace ed irresponsabile classe dirigente per comprare armi o per depositare capitali nei paradisi fiscali.
    Non possiamo oggi dire ogni piaga e croce sul libero mercato, quando abbiamo visto dove portano le economie pianificate, né possiamo demonizzare in toto la Globalizzazione, quando sappiamo che può portare tecnologia e progresso in tutto il mondo.
    Certo torno a ribadire, come già feci nella lettera del 27/6 us, che sia l’uno che l’altra devono svolgersi nel rispetto delle leggi democratiche e dei diritti umani, e che le responsabilità delle Multinazionali oggi sono enormi.
    E’ chiaro che alla Globalizzazione economica deve seguire quella dei Diritti Umani.
    Ho voluto precisare questi pochi concetti, ma è lungi da me l’idea di polemizzare con le Autorità Ecclesiastiche; infine penso che sia bene introdurre un po’di Dialettica all’interno di una Chiesa, che in questi ultimi tempi non sembra disposta ad accogliere nessun concetto liberale.
    Quanto al sistema economico, che oggi vige nelle democrazie occidentali, contraddistinto dal consumismo, possiamo dire su di esso tanto male, ma forse è il meno peggio di tanti altri sistemi possibili; pensiamo solo a quelli statalizzati, nei quali alla gente mancava il necessario per vivere.
    In fondo il consumismo è il figlio diretto della Democrazia: ogni uomo è libero di comprare, nei limiti della legge, ciò che gli aggrada e questo dà impulso alle industrie, che producono i beni richiesti e quindi dà lavoro.
    Certo delle distorsioni non mancano ed il modello di sviluppo attuale avrà bisogno di correttivi, che, ritengo, verranno da soli, quando al gente capirà che è necessario per vivere meglio diminuire la domanda di certi beni.
    Per questo l’opera educatrice di studiosi come Gesualdi può essere molto utile.

    Ing. Cesare G. Marchetti
    Carrara lì 2/7/02

  5. #5
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    Cari amici,

    i temi sopra affrontati mi paiono interessanti.

    Mi auguro di iniziare una proficua discussione.

    saluti

    Catone

  6. #6
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    Un ben tornato a Catone sulle pagine del Forum dei Repubblicani Italiani

  7. #7
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    Predefinito tratto da IL DENARO.IT 6 luglio 2002

    ...........quando le ondate della globalizzazione mettono in crisi i tradizionali stati nazionali e si rendono incompatibili con i nuovi poteri degli organismi sopranazionali, stanno emergendo forti spinte e nuove realtà: economie competitive e comunità politiche a dimensione regionale.....
    La GLOBALIZZAZIONE come revisione storica dell'emancipazione del Sud dell'Italia

    -----------------------------------------------------------------
    Commenti

    Sud, storia e revisione
    Globalizzazione come processo di diversità

    di Antonio Cardellicchio

    I tempi, certe parole, sono cambiati davvero. Accade anche per la nostra storia, quella del Mezzogiorno. Evocare oggi il termine «briganti» per i ribelli anti-unificazione del 1860-1870 ha un significato critico-problematico, di attenzione storiografica revisionista, oppure un senso di empatia e simpatia romantico-identitaria.
    In ogni caso, ha definitivamente perduto quella connotazione demoniaca loro attribuita da una storiografia politica risorgimentale, poi fascista, poi repubblicana unitaria-indivisibile. Che permane però in gran parte dei manuali scolastici. Ma la scuola di stato è, in definitiva, una sacca di socialismo reale e di conservatorismo ideologico, dove le idee semplicemente non arrivano, sono bloccate in partenza da un livellamento che genera processi di de-istruzione.
    Tutto ciò viene in mente alla notizia dell’inaugurazione, il 30 giugno al Museo delle Tradizioni ed Arti Contadine di Picciano, dove, tra l’altro verranno presentati dei filmati inediti di Giuseppe Tornatore. Mostra organizzata da uno studioso non accademico (privato), Franco Di Silverio, direttore del dipartimento Urologia dell’Università di Roma. Intanto viene annunciata una più grande iniziativa sul tema: un convegno a Roma organizzato da Paolo Mieli con la presenza dei principali studiosi.
    Perché tanta attenzione? Perché inevitabilmente si vedono con occhio e cultura diversi i nodi della propria storia e dell’appartenenza a una comunità politica quando le credenze, i miti, i dogmi dell’unità nazionale-statale, dell’omogeneità e dell’uniformità sono in declino o sono caduti, o si ripropongono con una rigidità e un’ampiezza maggiori, al livello della costruzione politica-burocratica-monetaria dell’Unione Europea. Il demonio di ieri diventa il diverso di ieri. La cultura della complessità, della molteplicità, della varietà, dell’individuo e dei suoi diritti, della riscoperta delle diversità territoriali, della valorizzazione delle disomogeneità e specificità è in conflitto con la vecchia cultura della collettivizzazione delle nazioni e delle classi, della omogeneizzazione coercitiva.
    Al contrario delle opinioni, tanto fisse quanto grette, dei no-global, è proprio la velocissima, vertiginosa globalizzazione dell’economia e della tecnologia a generare processi di diversità, concorrenza, espansione degli scambi e delle possibilità, a favorire individualismi, nuovi stili di vita, nuovi orizzonti ed attese.
    Funziona cioè proprio al contrario di quella pretesa omologazione denunciata (con alti lai) dai collettivisti in servizio permanente effettivo. Il pericolo di una reale omologazione deriva invece da quel globalismo giuridico prodotto dagli statalisti e incentivata proprio dalle proposte dei no global (mettere le brache al mondo reale, aumentare a dismisura la regolamentazione mondiale…).
    Proprio in quest’ordine di considerazioni si inserisce in modo naturale la radicale revisione della storia meridionale. Mentre ricordiamo che ogni seria ricerca storiografica è per sua natura revisionistica, vediamo che oggi, da molti lati, viene ammessa e riconosciuta la realtà delle vicende dell’unificazione, prima occultata o mistificata.
    Un’annessione prodotta da una guerra di conquista generò una guerra di resistenza, popolare-contadina, militare - legittimista, anche con il tradizionale(secolare) uso politico del brigantaggio. Tali eventi presero la forma di una guerra civile decennale vera e propria, con perdite di vite umane che superarono quelle di tutte le precedenti campagne risorgimentali. Il regime neo-unitario dovette combattere su due fronti, tra la paura di una repubblica democratica che potesse partire da Napoli sulla spinta garibaldina e dell’ideologia mazziniana e la resistenza dell’antico stato meridionale, il Regno della Due Sicilie, alla conquista.
    I ribelli meridionali si organizzarono in unità combattenti di una guerra legittima, rivolta a ripristinare la deposta monarchia, si daranno la forma di reparti del Regno delle Due Sicilie, con bandiere bianche col giglio dei Borbone, trombe e tamburi, che raggiungeranno o supereranno la forza di mille uomini per ciascuna banda. Alcune di esse saranno inquadrate da ufficiali dell’esercito napoletano, avranno reparti di cavalleria, ospedali da campo, carreggi e servizi. Le grandi bande a cavallo erano molto mobili, capaci di sfruttare i vantaggi del terreno, le montagne boscose, erano aiutate da una miriade di unità minori. Molto forti erano le formazioni che operavano ai confini dello Stato pontificio, che dava aiuti e rifornimenti. Tale realtà fece configurare il regime unitario nelle province meridionali come un esclusivo ordine militare. Nel 1863 il questore di Napoli Nicola Amore poteva dichiarare che “le autorità civili hanno ….abdicato e tutto perciò è rimasto nelle mani delle autorità militari”. I comandi piemontesi vinsero la guerra solo quando il generale Pallavicino adottò un più efficace sistema di contro- guerriglia, con l’impiego dei bersaglieri, con unità veloci e leggere fondate su spirito di iniziativa e ordine sparso. E quando venne approvata la Legge Pica che militarizzò integralmente i territori delle neo province meridionali attraverso una legislazione eccezionale che estese lo stato d’assedio stabilito dal generale Lamarmora.
    Dire, come si sostiene in modo plausibile, che non esistevano allora le condizioni per un’Assemblea costituente, per un’unità cioè non coatta, ma consensuale, volontaria, costituzionale, liberale, federale significa gettare un altro fascio di luce sulla dura realtà dell’annessione. Così come avvenne e non come qualcuno la sognò. Gli effetti non potranno che essere di lunga durata e arrivare fino ad oggi. Confusione e sovrapposizione tra legalità e legittimità, privato e pubblico, individuale e collettivo.
    I problemi dell’origine, del senso della nostra comunità non sono solo storiografici ma acquistano una nuova dimensione. Nelle dinamiche turbolente del presente, quando le ondate della globalizzazione mettono in crisi i tradizionali stati nazionali e si rendono incompatibili con i nuovi poteri degli organismi sopranazionali, stanno emergendo forti spinte e nuove realtà: economie competitive e comunità politiche a dimensione regionale.

  8. #8
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    La morte di Carlo Giuliani

    Vorremmo dedicare questa nota politica - l'ultima prima della pausa estiva - ad alcune considerazioni che ci vengono suggerite dal caso Giuliani e dalla manifestazione che si è tenuta a Genova ad un anno di distanza dalla sua morte.

    La scomparsa violenta di una vita umana, soprattutto se giovane, appare - ed emotivamente è - sempre ingiusta. Ed è un evento da scongiurare in tutti i modi possibili. Se poi tale evento è stato provocato in qualche modo da un comportamento non corretto delle Forze dell'Ordine, è giusto che la magistratura ne accerti (e sanzioni) eventuali responsabilità.

    Su tutto questo non si discute. L'interrogativo è un altro. Può essere indicato Carlo Giuliani come una sorta di simbolo, di modello per i giovani? E' questa un'idea che tende a trasferirsi nell'opinione pubblica proprio attraverso le rievocazioni di massa, le proposte di intitolargli una strada, la presenza di un autorevole uomo politico - già altissima carica dello Stato - alla manifestazione di Genova o, ancora, basta la morte a legittimarlo come "modello"?

    Né la vita di Carlo Giuliani né il modo in cui è morto possono giustificare una risposta positiva alla prima domanda. Il giovane Giuliani - che non si era mai segnalato per particolari benemerenze - ha perso la vita mentre cercava di colpire con un estintore un mezzo dei carabinieri (e forse i carabinieri stessi). In altre parole, mentre compiva un atto di violenza. E questo è un fatto incontrovertibile.

    Può farne, un atto di violenza, un modello? Per chi? Forse per la sinistra, vista la "penosa autocritica che …. Luciano Violante si è sentito in obbligo di pronunciare per l'assenza dei DS dalla manifestazione dei no global contro la riunione del G8 nel luglio di un anno fa" (così Galli della Loggia sul Corriere della Sera)?

    Se allora la vita di Carlo Giuliani e il modo in cui è morto non possono essere portati a modello, basta allora il fatto che sia morto a farne un simbolo? Ne dubitiamo. Il mistero della morte in quanto tale appartiene alla sfera della riservatezza individuale, per chi crede e anche per chi non crede.

    E vorremmo proprio che tale riservatezza fosse assicurata al giovane Giuliani, che il suo nome venisse custodito nella coscienza dei suoi cari invece che essere agitato come elemento di divisione nel paese. Per rispetto, questo sì, di una morte che emotivamente ha colpito tutti e a tutti è dispiaciuta.

    Roma, 23 luglio 2002

    ---------------------------------------------------
    tratto dal sito web:
    http://www.pri.it

  9. #9
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    Paul Kennedy, Il mondo in una nuova era, Milano, Garzanti, 2001, pp. 550, euro 14,98

    Una panoramica mondiale, un’analisi storica, economica e sociale, pensata una decina di anni fa, utile per comprendere le dinamiche attuali.
    -------------------------------------
    tratto da:
    http://www.domusmazziniana.it/ami/

  10. #10
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    Egregi,

    Carlo Giuliani era un giovane che voleva rivoluzionare il mondo nella sua utopia di palingenesi sociale per tutti gli abitanti della terra.
    Quello che non giustifico è il modo violento col quale manifestava questa sua fede.

    Il carabiniere ha sparato per legittima difesa e quindi va assolto.

    Carlo Giuliani non può essere un simbolo, non è un Gandhi, è stato solo un sognatore violento.
    A lui va solo la ns pietà e la costernazioneper una giovane vita stroncata.

    Punto e basta.

    Catone

 

 
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