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  1. #1
    Leoni in guerra e agnelli pieni di dolcezza nelle nostre case
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    Predefinito La controrivoluzione Vandeana.

    Con questa discussione intendo mettere a disposizione di tutti i partecipanti al Forum Senato, uno splendido articolo di Renato Cirelli (tratto dal sito www.alleanzacattolica.org ) che delinea la cronologia storica della "reazione vandeana".Possiamo a pieno titolo dire, che il Conservatorismo come da noi Conservatori Italiani inteso, nasce nel 1793 ad opera dei cittadini della regione della Vandea, che si opposero con le armi alla Rivoluzione Francese.
    Una rivolta Cristiana, Tradizionalista che vide protagonisti gli uomini più fedeli a Dio e alla Corona.
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  2. #2
    Leoni in guerra e agnelli pieni di dolcezza nelle nostre case
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    Predefinito Re: La controrivoluzione Vandeana.

    La Vandea

    di Renato Cirelli



    1. Un fatto divenuto un simbolo

    Il termine «Vandea», grazie alla storiografia filo-rivoluzionaria, è divenuto sinonimo di rivolta reazionaria e di resistenza contro l’affermarsi del progresso, che hanno come protagoniste popolazioni contadine ignoranti, sobillate da clero e nobili, che utilizzano il fanatismo religioso per scopi in realtà riconducibili ai loro interessi e privilegi di classe. Questa interpretazione non ha potuto essere adeguatamente controbilanciata dalla storiografia filo-vandeana, perché, a tutt’oggi, gli storici di parte rivoluzionaria hanno praticato l’occultamento dei fatti e imposto la damnatio memoriae nei confronti dei protagonisti, quindi anche dei valori che stanno all’origine della rivolta vandeana.



    2. I motivi della rivolta

    Il territorio indicato come Vandea Militare è situato nella Francia Occidentale, sulla costa atlantica, con un’estensione di circa 10.000 kmq e con una popolazione, all’epoca, di ottocentomila abitanti. Non si tratta di una regione povera e marginale, ma la sua ricchezza e la sua popolazione sono superiori alla media francese, così come la ricchezza e la popolazione francesi sono superiori alla media europea del tempo.

    Gli abitanti della regione sono noti per l’attaccamento alle consuetudini e alle libertà locali, oltre che per un radicato sentimento religioso, segnato dalla predicazione di san Luigi Maria Grignion di Montfort (1673-1716), che aveva combattuto lo scetticismo del tempo soprattutto con la devozione mariana.

    Alla fine del secolo XVIII l’Ovest, come tutta la Francia, patisce gli esiti di un processo di centralizzazione che si è sempre più sviluppato a partire dal regno di Luigi XIV di Borbone (1638-1715).

    Il costo di questa politica è la causa principale della voracità statale in materia fiscale e una delle conseguenze del governo dei ministri illuministi, sì che fra il 1775 e il 1789 la pressione fiscale diventa sempre più sostenuta e male sopportata da tutti.

    Quando, per avviare una riforma generale che affronti il problema fiscale e il deficit dello Stato, vengono convocati da re Luigi XVI di Borbone (1754-1793) gli Stati Generali l’assemblea costituita dai rappresentanti del clero, della nobiltà e della borghesia , anche dalla Vandea arrivano i cahiers de doléance, raccolte di rimostranze e di petizioni che esprimono, insieme a un profondo attaccamento alla monarchia, anche una serie di proteste contro il sistema di imposizione fiscale, i suoi abusi e la sua irrazionalità.

    I vandeani auspicano, quindi, un rinnovamento e con questo spirito mandano a Parigi i loro rappresentanti, perché se ne facciano portavoce presso il sovrano. E la disillusione è tanto più cocente quanto più grande è stata la speranza.

    Diventa sempre più chiaro, e non solo in Vandea, che a Parigi non si lavora alle sperate riforme, ma a emanare leggi destinate ad aumentare il potere coercitivo delle amministrazioni, a colpire la Chiesa e le tradizioni religiose del popolo in una inquietante accelerazione distruttiva.

    La confisca e la vendita dei beni ecclesiastici, che avvantaggia solo borghesi e nobili, e l’introduzione della Costituzione Civile del Clero, nell’estate del 1790, creano un diffuso malcontento, al quale le autorità rispondono con insensibilità, con incapacità di governo e con una crescente repressione, che sfocia nell’irrimediabile frattura fra le popolazioni e i pubblici poteri.

    Gli avvenimenti precipitano nel 1793. La rottura provocata dalla Costituzione Civile del Clero, che pone le basi di una rivolta di natura religiosa, si consuma con la notizia che il 21 gennaio 1793 re Luigi XVI è stato ghigliottinato, e si manifesta quando il Governo di Parigi ordina in tutta la Francia l’arruolamento di trecentomila uomini da mandare al fronte.



    3. La guerra contro-rivoluzionaria

    La rivolta scoppia perché la popolazione della Vandea rifiuta di abbandonare le case per andare a morire per una repubblica che considera illegittima, colpevole di perseguitare la religione, di aver assassinato il sovrano legittimo e di aver inasprito la crisi economica.

    Già dal 1790, a causa delle tasse e in difesa dei sacerdoti detti «refrattari», cioè quelli che non avevano giurato fedeltà alla Costituzione, scoppiano un po’ dovunque tumulti e la Guardia Nazionale, più di una volta, non esita a sparare sulla folla.

    Anche in altre regioni della Francia scoppiano rivolte, però ovunque la Repubblica le soffoca più o meno rapidamente, perché sono improvvisate, mancano di coordinamento e di decisione. Ma in Vandea, nel marzo del 1793, inizia un’insurrezione generale, annunciata dal suono delle campane a martello di tutte le chiese. Gli insorti si organizzano militarmente sulla base delle parrocchie e costituiscono un’Armata Cattolica e Reale di molte decine di migliaia di uomini, guidati da capi che essi stessi si sono scelti e che spesso, specie fra i nobili, sono restii a farsi coinvolgere.

    Jacques Cathelineau (1759-1793), vetturino, è l’iniziatore della sollevazione e viene eletto primo generalissimo dell’Armata vandeana; muore in battaglia a trentaquattro anni. Il marchese Louis-Marie de Lescure (1766-1793) è un ufficiale che gli insorti liberano dalla prigionia, ed egli ne diviene un capo autorevole; quando muore in combattimento, a ventisette anni, gli viene trovato addosso il cilicio. Henri du Vergier de la Rochejaquelein (1772-1794) è eletto generalissimo a soli ventuno anni; Napoleone Bonaparte (1769-1821) ne esalterà il genio militare. Jean-Nicolas Stofflet (1753-1796), guardiacaccia, si rivela un formidabile tattico e non accetterà mai di arrendersi. François-Athanas de la Contrie (1763-1796), detto Charette, è un ufficiale di marina «costretto» a diventare un capo leggendario dagli insulti dei contadini che lo traggono da sotto il letto, dove si è nascosto per sottrarsi alle loro ricerche; muore fucilato. Vi è anche chi è prelevato a forza e portato in battaglia sulle spalle dei contadini. Fra le poche eccezioni vi è Antoine-Philippe de la Trémoille, principe di Talmont (1765-1794), che torna dall’esilio per mettersi alla testa della cavalleria, unico dei grandi signori di Francia a combattere e a morire con i vandeani.

    Vittorie e sconfitte si alternano fino allo scacco di Nantes e alla sconfitta di Cholet, nell’autunno del 1793. L’Armata Cattolica e Reale decide, allora, di attraversare la Loira e di raggiungere il mare in Normandia, dove pensa di trovare la flotta inglese. Ma all’arrivo gli inglesi non vi sono e i vandeani, con le famiglie al seguito, ritornano sui propri passi, inseguiti dai repubblicani che li sconfiggono in una serie di scontri, che si risolvono in carneficine dove gli insorti, donne e bambini compresi, vengono sterminati a migliaia.



    4. La repressione rivoluzionaria

    Nel gennaio del 1794 la Repubblica ordina la distruzione totale della Vandea. Spedizioni militari punitive, dette «colonne infernali», attraversano la regione facendo terra bruciata e perpetrando il genocidio della popolazione, con una metodicità e con strumenti da «soluzione finale», che anticipano gli orrori del secolo XX; né mancano intenti di controllo demografico.

    Parallelamente inizia la campagna di scristianizzazione del territorio e il Terrore rivoluzionario si abbatte sulle popolazioni con la più dura delle persecuzioni mentre gli imprigionati, i deportati in questo periodo viene inaugurata la colonia penale di Caienna, nella Guyana , le esecuzioni di ogni tipo sono in un numero imprecisato. Nel febbraio del 1794 la Vandea insorge ancora e conduce una spietata guerra di guerriglia, che mette la Repubblica alle corde. Finalmente, nel febbraio del 1795, a La Jaunnaye, i capi vandeani firmano una pace con la quale il Governo di Parigi s’impegna a riconoscere la libertà del culto cattolico, concede l’amnistia, un’indennità di risarcimento e, a quanto pare, in alcuni articoli segreti, s’impegna a consegnare ai vandeani il figlio di Luigi XVI, prigioniero nella Torre del Tempio di Parigi. Però, in seguito al mancato rispetto degli accordi, nel maggio del 1795 Charette e altri capi riprendono le armi, ma questa volta l’insurrezione non ha l’ampiezza della precedente, anche perché è grande la delusione per il mancato arrivo di un principe che si metta alla testa degli insorti; mancato arrivo di cui sono responsabili anche gli intrighi inglesi.

    La guerriglia continua senza speranza fino alla cattura e alla fucilazione di Charette, nel marzo del 1796. Il tentativo di sbarco a Quiberon da parte di settecentocinquanta «emigrati» persone che hanno lasciato la Francia dopo gli avvenimenti del 1789 , molti dei quali ufficiali di marina cui l’Inghilterra ha promesso aiuto e appoggio militare, si conclude in un disastro. Traditi, cadono nelle mani dei repubblicani, che promettono loro la vita in cambio della resa e invece li fucilano; tutto finisce in una tragica Baia dei Porci ante litteram.

    Con la morte di Charette si conclude l’epopea vandeana. Vi sarà un’altra insurrezione negli anni 1799 e 1800, guidata dai capi vandeani superstiti e da George Cadoudal (1771-1804) in Bretagna; poi ancora nel 1815, durante i Cento Giorni napoleonici; e, infine, l’ultimo episodio sarà la fallita insurrezione legittimista contro il governo liberale di Parigi nel 1832.



    5. Il costo della guerra

    Anni di guerra e di guerriglia spietata, ventuno battaglie campali, duecento prese e riprese di villaggi e di città, settecento scontri locali, centoventimila morti di parte vandeana, numerosissimi di parte repubblicana, la regione completamente devastata: queste sono le cifre impressionanti che molti cercano di nascondere.

    Quella che Napoleone ha chiamato una lotta di giganti è una guerra popolare, cattolica e monarchica, che i vandeani hanno condotto diventando coscientemente un ostacolo all’affermazione del primo grande tentativo di repubblica rivoluzionaria e totalitaria della storia moderna. Per questo la Vandea ha pagato con un terribile genocidio, seguito dal silenzio di chi si riconosce nell’albero ideologico della Rivoluzione francese.



    6. La vittoria dei vinti

    Il riconoscimento dei sacerdoti fedeli a Roma, il ristabilimento del culto cattolico e infine, con tutti i suoi limiti, il Concordato Napoleonico del 1802 sono da molti ascritti a merito anche del sacrificio dei vandeani. Questa, in ultima analisi, può essere definita la grande vittoria dei vinti. Vinti in questo mondo, dal momento che molti di questi martiri sono stati elevati alla gloria degli altari dalla Chiesa.

    Quindi, questa è la ragione per cui, fuori dal linguaggio corrente della storiografia, il termine «Vandea», al di là del suo contesto storico, ha valenza positiva, esempio e sinonimo di contrapposizione radicale ai princìpi rivoluzionari dell’epoca moderna, e difesa e proposizione dei valori sui quali si fonda la civiltà cristiana; perciò termine contro-rivoluzionario perché esprime non solo ostilità alla Rivoluzione in tutti i suoi aspetti, ma anche sostegno dei princìpi cristiani, che sono a essa radicalmente contrari.
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  3. #3
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    Predefinito Re: Re: La controrivoluzione Vandeana.




    RIBELLI DI VANDEA

    Ride la folla ed urla al sangue che colora
    il collo dei soldati fedeli alla corona
    che sopra i ceppi hanno baciato il giglio dell'onore
    e sopra il viso hanno gettato di sfida il guanto ancora.
    Siamo dell’ascia ladri e cavalieri
    nella notte noi andiamo
    il vento freddo del terror non ci potrà fermar.
    Se un bianco fiore nasce in petto a noi
    è sangue di chi crede ancora
    come il bel simbolo d'amor
    che altro non ci legò.
    Spade della Vandea falci della boscaglia
    Baroni e contadini siam pronti alla battaglia
    per vendicare chi tagliò il giglio
    sopra le ghigliottine
    per riabbracciare il sole d’Europa
    dalle nostre colline.
    Siamo dell’ascia ladri e cavalieri
    nella notte noi andiamo
    il vento freddo del terror non ci potrà fermar
    l'oro che noi rubiamo con onore
    dentro il cuore splende ancora
    come il bel simbolo d'amor
    che al trono ci legò.
    I cieli devastati da giudici plebei
    dall'odio degli uomini dal pianto degli dei
    nasce un bel fiore che i cavalieri portano sui mantelli
    è il bianco giglio che ha profumato il campo dei ribelli.
    Siamo dell’ascia ladri e cavalieri
    nella notte noi andiamo
    il vento freddo del terror non ci potrà fermar .
    Se un bianco fiore nasce in petto a noi
    è sangue di chi crede ancora
    di chi combatte i vincitori
    di uomini d’onor.
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  4. #4
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    Grazie Templares. Ottimo 3d.

    Shalom

  5. #5
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    In Origine postato da Pieffebi
    Grazie Templares. Ottimo 3d.

    Shalom
    Spero susciti l'interesse di molti lettori. Non si deve dimenticare il sacrificio di quegli uomini che più di 2 secoli fa si ersero a baluardo della Cristianità , della Tradizione e della loro Sovranità.
    Una pagina di storia spesso "omessa" come sempre accade per gli avvenimenti "scomodi".
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  6. #6
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    Ottimo thread.
    Ne servirebbe uno anche sulle insorgenze italiane, giacché ci siamo

  7. #7
    SENATORE di POL
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    Sarebbe interessante ed utile.

    Shalom

  8. #8
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    Come richiesto dagli amici e Senatori UgodePayens e Pieffebi, posto una serie di documenti relativi alla controrivoluzione anti-giacobina in Italia.

    Insorgenza: una resistenza dimenticata

    Le insorgenze popolari anti-napoleoniche: resistenza alla modernità, estremo sussulto di vitalità della cristianità e cartina al tornasole dell’identità italiana.

    Se è vero che una parte degli italiani – gli intellettuali progressisti e gli aristocratici e i borghesi più influenzati dalla cultura illuministica - esulta di fronte all’autentico terremoto che poco più di duecento anni fa provoca l’irruzione degli eserciti del Direttorio rivoluzionario di Parigi nella Penisola, è altrettanto vero che molti di essi, soprattutto nei ceti umili, leggono negativamente il crollo delle antiche istituzioni e le novità politiche introdotte dai francesi, dando vita a quell’insieme di manifestazioni di resistenza e di lotta - che va dalla disobbedienza civile a vere e proprie insurrezioni popolari, dalla guerriglia fino alla guerra a fianco degli eserciti anti-napoleonici - che va ormai sotto il nome di "Insorgenza".

    Gli italiani sono per lo più all’oscuro di questa pagina di storia, perché nei manuali scolastici se ne parla appena e quelle poche volte per censurarla, non essendo infatti interesse della cultura "egemone" che ci si soffermi troppo sui movimenti di opposizione che accompagnano il processo risorgimentale fin dall sue origini. Solo da poco essa inizia a essere narrata, soprattutto dopo i bicentenario dei moti del 1796-1799, che ha ridato impulso agli studi, pur nell’indifferenza dei Circuiti culturali ufficiali, quali hanno significativamente preferito celebrare - unico paese in Europa, oltre alla Francia - l’esperienza delle repubbliche giacobine e Napoleone. Si scopre così che, contrariamente all’immagine convenzionale, durante gli anni della dominazione napoleonica, dalle valli alpine alle marine adriatiche, dalla pianura padana alle colline appenniniche, la mappa della nostra penisola è punteggiata da innumerevoli "fuochi" di rivolta di diversa ampiezza e durata.

    Rivolte spontanee, con ampia mobilitazione dei ceti rurali, scoppiano a Pavia, nel Lucchese e a Lugo di Romagna già nel 1796, per riprendere e intensificarsi l’anno seguente in Valtellina, nel Montefeltro pontificio, durante le cosiddette "Pasque Veronesi" e ancora nel moto ligure del "Viva Maria".

    Mentre nel 1798 insorgono tutto il Lazio e le Marche pontifici, all’inizio del 1799 si solleva l’Abruzzo borbonico e i popolani di Napoli per tre giorni - come faranno di nuovo nel settembre del 1943 contro i tedeschi - difendono la capitale contro i francesi invasori, morendo a centinaia.

    Nel 1799 tutta l'Italia, dalla Valtellina alla Calabria, insorge e, a prezzo di una furibonda e sanguinosa guerriglia, caccia i francesi e abbatte le effimere repubbliche da questi erette. E il momento dei maggiori movimenti d’insorgenza, che coinvolgono in maniera organizzata migliaia di combattenti: la rivolta contadina della Massa Cristiana in Piemonte, il complesso "Viva Maria" aretino e toscano e la Santa Fede, guidata dal cardinale Ruffo nel Regno di Napoli. Altrettanto estesa e impetuosa sarà la grande insurrezione dell’estate del 1809, che investe tutto il Veneto e le zone padane, in contemporanea con il moto tirolese di Andreas Hofer.

    Per la mentalità degl’italiani di antico regime è pressoché automatico ribellarsi quando subiscono le spoliazioni dei commissari rivoluzionari, allorché assistono sgomenti alle profanazioni dei giacobini e dei soldati francesi, nei vedere nella polvere i leoni e le aquile, emblemi di regni e principati plurisecolari, nell’avvertire il lacerarsi di tutta una complessa e antica trama di rapporti sociali nati "dal basso" e consolidati dalla tradizione, nell’accorgersi di avere perso dall’oggi al domani le libertà sancite negli statuti particolari, mentre debbono sperimentare uno schiacciante carico fiscale, la nuova burocrazia, il peso della leva obbligatoria e la crescente scristianizzazione della società.

    Le insorgenze, pur manifestando la realtà delle mille "piccole patrie" italiane, ed essendo legate ai diversi momenti e situazioni concrete, evidenziano però alcuni lineamenti comuni che consentono di individuare in esse un fenomeno non frammentario ed estemporaneo, bensì unitario, omogeneo ed epocale. L’elemento che scatena la reazione è quasi ovunque religioso, ma non di rado esso è la forma espressiva dell’astio verso un regime che non si limita a sopprimere gli ordini religiosi e a demolire monasteri e chiese, ma impone, con modi brutali, una radicale rifondazione" della società su presupposti allora nuovi e sconvolgenti: il laicismo, l’individualismo giuridico, il cosmopolitisrrìo. D’altro canto, in positivo, dietro agl’insorgenti, anche se rivendicano ovunque la restaurazione della religione e dei sovrani legittimi, si leggono in filigrana progetti che vanno al di là del puro e semplice ripristino dell’assolutismo illuminato e mirano invece al ristabilimento delle antiche libertà e di forme politiche più concretamente partecipative.

    L’insorgenza, a mo’ di cartina al tornasole, rivela il volto dell’Italia profonda, formatasi spontaneamente nei secoli dall’eredità romana arricchita dalla linfa germanica, fuse e lievitate sotto l’influsso evangelico. Una fisionomia antica che, dopo aver sedotto l‘Europa "delle corti", alla fine dei Settecento è al tramonto, ma che di fronte alla rottura rivoluzionaria conosce un estremo sussulto di vitalità prima di cadere nelle mani di chi, con una operazione "chirurgica" destinata a protrarsi fino a poco fa, le darà connotati nuovi, diversi e più "moderni’, ripulendosi da ogni "ruga" storica quale indubbiamente l’insorgenza è nella prospettiva della modernità.



    Bibliografia

    Giacomo Lumbroso. I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), con un saggio introduttivo di Oscar Sanguinetti, Maurizio Minchella editore, Milano 1997, pp. 224, L. 32.000.

    Francesco Pappalardo e Oscar Sanguinetti, Insorgenti e sanfedisti: dalla parte del popolo, Storia e ragioni delle Insorgenze anti-napoleoniche in Italia, Tekna, Potenza 2000, pp. 168 ,L. 28.000.

    Istituto per la Storia delle insorgenze, Insorgenze antigiacobine in Italia (1796-1799). Saggi per bicentenario, a cura di Oscar Sanguinetti. Istituto per la Storia delle Insorgenze, Milano 2001, pp. 360, L 29.000.

    Francesco Mario Agnoli, 1799: la grande insorgenza, Lazzari e sanfedisti contro l’oppressione giacobina, Controcorrente, Napoli 1999, L 20.000.



    Tratto da Oscar Sanguinetti “Le insorgenze”, in Il Timone n. 14 – Luglio/agosto/2001.
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  9. #9
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    approfondimento sulle Pasque Veronesi.


    Le Pasque Veronesi del 1797

    1. L’Armata d’Italia nel territorio della Repubblica di Venezia

    Verso la fine del 1796 tutta la parte occidentale del territorio della Repubblica di Venezia è occupata militarmente dalle forze della Repubblica Francese: a una a una le città più importanti della terraferma — Bergamo, Brescia, Peschiera e Vicenza — vedono l’arrivo dell’Armata d’Italia, guidata dal generale Napoleone Bonaparte (1769-1821). A Verona i francesi giungono il 1° giugno 1796 e s’impossessano subito dei forti della città come pure di varie chiese, adibite poi a ospedali e a ricoveri per la truppa. Il rapporto fra cittadini e forze d’occupazione sarà sempre difficile, anche perché i francesi si comporteranno sistematicamente come occupanti e non come ospiti, come avrebbero dovuto sulla base dei rapporti ufficiali con la Repubblica di Venezia, la cui politica estera era espressa nella formula "neutralità disarmata".



    2. La situazione a Verona e la rivolta dell’aprile del 1797

    Il 17 aprile 1797, dopo circa dieci mesi di permanenza della truppa straniera, la situazione della città di Verona era critica: non solo i francesi operavano sistematiche confische ai danni dei cittadini, ma tramavano anche con i giacobini locali al fine di incrinare la fedeltà dell’antica città verso il suo legittimo governo.

    Così si spiega l’affissione, proprio nella notte fra il 16 e il 17 aprile 1797, per le vie della città scaligera, di un manifesto a firma di Francesco Battaja (1743-1799) — ex provveditore straordinario di terraferma — incitante i veronesi alla rivolta contro gli occupanti francesi e alla vendetta contro i collaborazionisti locali.

    Tale manifesto era stato verosimilmente partorito dai servizi d’informazione francesi per esacerbare gli animi e per contribuire a creare "il caso", che avrebbe fornito loro "il giusto motivo" per una definitiva occupazione della città, in spregio di ogni neutralità proclamata. Inoltre, il manifesto era, per più motivi, un falso: anzitutto perché era già stato pubblicato da due giornali collaborazionisti, Il termometro politico della Lombardia e il Monitore bolognese; inoltre perché era firmato da Battaja, un personaggio difficilmente sospettabile di colpi di testa contro i francesi invasori; infine era falso nei contenuti perché affermava essere i francesi in difficoltà nello scacchiere nord-orientale, fatto non rispondente a verità. Benché un falso, tale manifesto contribuisce a far esplodere la bomba ormai da tempo innescata; lo stesso 17 aprile, nonostante i rappresentanti veneti si affrettassero a gettare acqua sul fuoco facendo pubblicare un manifesto di smentita, il generale Antoine Balland (1751-1832), a fronte dei continui tafferugli verificatisi fra i suoi soldati e i veronesi — truppe schiavone, arruolate nell’Illiria e nella Dalmazia venete, o semplici appartenenti alle cernide, le milizie territoriali composte da locali che svolgevano annualmente un breve periodo di servizio militare volontario —, aumenta il numero dei soldati di pattuglia in città, portando le pattuglie da venti a quaranta soldati. Il che contribuisce a surriscaldare ulteriormente gli animi della popolazione; così, verso il vespro del 17 aprile, avvengono i primi veri fatti di una certa gravità: si spara a Ponte Pietra fra una pattuglia veneta e una francese, si verificano tafferugli di una certa consistenza in Piazza Erbe, nei quartieri circostanti e presso il Forte San Pietro. Al suono del vespro però la situazione sembra riappacificarsi.

    La calma apparente viene spezzata poco dopo dai francesi: erano trascorse da poco le diciassette quando lo stesso generale Balland, dall’alto di Forte San Pietro, comanda di aprire ripetutamente il fuoco sul Palazzo Pretorio, sede dei rappresentanti veneti, e sul centro della città. La situazione dei francesi che pattugliano la città diviene, dopo queste prime scariche d’artiglieria, insostenibile: "A misura che cresceva il rimbombo delle artiglierie, uscivano gli abitanti dalle proprie case [...] — scrive lo storico Enrico Bevilacqua (1869-1933) — correvano mal armati ad affrontare le pattuglie francesi, che con le baionette abbassate scorrevano la città, le quali si videro ben presto obbligate a cercare la loro sicurezza dandosi precipitosa fuga verso i castelli". I francesi, che non riescono a raggiungere Forte San Pietro, Forte San Felice o il più vicino Castel Vecchio, o una delle porte cittadine da essi tenute, vengono rincorsi, catturati e uccisi, e molti finiscono gettati nell’Adige. Inizia così, per Verona, una vera settimana di lotta urbana, di battaglie per le strade e in modo particolare di scontri intorno ai forti: la città era in aperta ribellione contro gli occupanti francesi e — racconta un anonimo cronista — "non si sentiva altro che un continuo gridare per ogni angolo della città viva San Marco".

    Nella stessa giornata del 17 gli insorti attaccano le porte fortificate della città. Cadono una dopo l’altra Porta Vescovo e Porta San Giorgio, mentre Porta San Zeno e Porta Nuova vengono occupate, dopo aspri combattimenti, dal conte Francesco degli Emilei (1752-1797) alla testa di seicento schiavoni aiutati da circa tremila civili. Contemporaneamente alle porte vengono liberati anche gli ultimi edifici della città, in cui avevano cercato rifugio alcuni francesi. La giornata si andava concludendo con i francesi rinchiusi nei forti, che cannoneggiavano la città in mano alla folla degli insorgenti. Nel frattempo il provveditore conte degli Emilei, dopo aver partecipato ai primi importanti fatti d’armi, la sera stessa del 17 parte alla volta di Venezia — informa sempre Bevilacqua — per "[...] implorar buon nerbo di truppe di linea, e soprattutto munizioni e artiglieria onde attaccar con frutto i castelli".

    Nel tardo pomeriggio i due rappresentanti del governo veneto in città, Iseppo Giovannelli e Alvise Contarini, fanno issare la bandiera bianca sulla torre maggiore, fanno tacere le campane e tentano un primo abboccamento con l’autorità militare francese — insediata nel vicino Forte San Felice — presso Forte San Pietro. Questa, come altre trattative, fallisce, da un lato forse per la situazione di anarchia nella quale sembrava essere caduta la città, dall’altro certamente a causa dell’irrigidimento delle posizioni francesi.

    Nella giornata del 18 aprile Giovannelli e Contarini tentano un viaggio a Venezia per chiedere aiuto al Senato; sempre in questa giornata — mentre, fra una tregua e l’altra, Verona veniva sistematicamente cannoneggiata dai forti e vedeva la sua popolazione combattere accanitamente intorno a questi per espugnarli —, arriva nella città scaligera il colonnello austriaco Adam Albrecht von Neipperg (1775-1829), che recava al generale Balland la notizia della tregua d’armi procurata dalla firma, avvenuta precisamente quel giorno, dei "preliminari" di Leoben fra l’Impero e la Repubblica Francese. L’arrivo dell’ufficiale solleva in un primo momento gli entusiasmi della popolazione, che vedeva negli imperiali un possibile aiuto insperato per riconquistare completamente la città e per cacciarne i francesi, speranze che andranno presto deluse lasciando i veronesi soli, in balia di un nemico militarmente superiore. Inoltre la missione a Venezia di Contarini e di Giovannelli, sebbene comprensibile per la gravità della situazione, viene recepita come un tradimento dagli insorti, i quali organizzano un governo provvisorio presieduto dal conte Bartolomeo Giuliari (1761-1842), che tenta subito di riallacciare i contatti con il generale Balland. La sera del 18 si chiude comunque sotto il cannoneggiamento francese, mentre nella notte tuonano ancora le artiglierie e suonano le campane a martello.



    3. In attesa di rinforzi

    Contarini e Giovannelli, tornati da Venezia con la promessa di aiuti, organizzano il popolo — che, al grido di "Vogliamo la guerra", fa tacere quanti cercano di acquietarlo — a una difesa a oltranza, come dimostra un proclama del 19 aprile 1797, in cui affermano che, "per togliere la confusione e il disordine, che potrebbe essere fatale al bene di tutti, resta commesso il popolo fedele di Verona che abbiasi a ritirare nelle rispettive Contrade. Colà gli saranno assegnati dei capi, ubbidirà ad essi, sarà unito in corpi e i capi stessi avranno a dipendere dagli ordini delle cariche, e si presteranno sempre a procurare la comune salvezza".

    Tutti i giorni fino al 22 aprile i veronesi attaccano ripetutamente i castelli e Verona si presenta, a causa dei colpi delle artiglierie, con molti quartieri in fiamme. Se questo non bastasse, i francesi chiusi nei forti iniziano, indotti dalla mancanza di viveri, a fare rovinose sortite verso la città e verso la campagna.

    La mattina del 22 aprile finalmente giungono da Venezia i rinforzi tanto sperati, con circa quattrocento regolari, munizioni e cannoni, ma quasi contemporaneamente anche i generali francesi Jacques-François Chevalier (1740-1812) e Joseph de Chabran (1763-1843) erano arrivati nei pressi di Verona, non prima di aver riportato una significativa vittoria sulle truppe venete in località Croce Bianca il giorno 20 aprile.

    Comunque l’eroismo dei veronesi, che in ogni modo cercano di contrastare non solo le continue incursioni di pattuglie francesi provenienti dai forti, ma anche di resistere al cannoneggiamento interno ed esterno alla città, non può reggere una situazione ampiamente compromessa.

    Verso il 24 aprile tutti i cronisti sono concordi nel descrivere i sentimenti della popolazione con espressioni come "popolo sgomento, sbigottito, disperso". Il giorno prima i legittimi rappresentanti veneti avevano deciso, sotto il fuoco delle artiglierie, la resa al nemico; nella giornata del 24 il conte degli Emilei e altri notabili vengono inviati a trattare con gli ufficiali francesi.

    A rendere la situazione totalmente irricuperabile, togliendo anche ogni esiguo spazio di trattativa con il nemico, contribuisce la fuga dalla città dei rappresentanti del governo veneto.



    4. La resa incondizionata: confische, fucilazioni e processi

    Il 25 aprile 1797 si chiude così la rivolta: i francesi esigono la resa incondizionata, occupano la città, ne disarmano la popolazione. L’occupazione di Verona, come quella di ogni altra città italiana che si era opposta a Napoleone, comporta lo spogliamento di ogni bene. Sempre Bevilaqua afferma che "[...] occorreva adunque studiare e apparecchiare un piano di saccheggio ordinato e sapiente, una specie di congegno a torchio sotto la cui enorme pressione dovesse spremere la città tutto quanto il succo che potea dare": centosettantamila zecchini di contributo, la confisca di tutti i cavalli, degli immobili governativi, di cuoi per quarantamila scarpe, di duemila paia di stivali, di dodicimila sottovesti, di quattromila vestiti, di tela per dodicimila paia di calzoni, di dodicimila cappelli e calze sono solo l’inizio — nota lo stesso autore — di questa grande opera "di redenzione franco democratica"; al Monte di Pietà vengono saccheggiati cinquanta milioni, "[...] i musei, le pinacoteche, le chiese, le collezioni artistiche e scientifiche pubbliche e private vennero spoglie di quanto avean di meglio".

    Non solo Verona viene derubata dei suoi beni, ma gli occupanti iniziano subito l’arresto dei popolani e dei nobili che avevano partecipato alla resistenza: vengono fucilati nobili, esponenti della borghesia e religiosi, che avevano animato il popolo durante i giorni della guerra ai francesi con prediche di fuoco.

    Anche il vescovo mons. Giovanni Andrea Avogadro (1735-1815), che non aveva temuto di affermare la sua fedeltà non solo alla religione ma anche al legittimo governo veneto, per la difesa del quale in più occasioni si era detto pronto alla vendita di tutti gli ori delle chiese, viene inquisito, e con lui molti altri.

    Il 17 ottobre 1797, grazie al trattato di Campoformio, il Veneto passa all’impero austriaco e i francesi finalmente abbandonano Verona, dopo aver domato la rivolta e normalizzato una città che così duramente si era loro opposta.



    di Luca De Pero


    --------------------------------------------------------------------------------

    Per approfondire: vedi in genere, Alvise Zorzi, La Repubblica del Leone. Storia di Venezia, Rusconi, Milano 1979, pp. 483-532; in specie, Enrico Bevilacqua, Le Pasque Veronesi, Remigio Cabianca Libraio Editore, Verona 1897; Alberto Lembo, Prodromi delle Pasque Veronesi e la caduta di Venezia, in AA. VV., Le insorgenze antifrancesi nel triennio giacobino, Apes, Roma 1992, pp. 81-89; e Giacomo Lumbroso (1897-1944), I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), 2a ed. rivista, Minchella, Milano 1997, pp. 75-99.



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    La storia delle insorgenze mi ha rammentato un mio vecchio 3d sul forum della Storia (di questo sito) su un brigante .....della mia provincia. Una qualche attinenza io ce la vedo.

    qui:
    http://www.politicaonline.net/forum/...threadid=21433

    Saluti liberali

 

 

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