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    Garibaldi e Anita, benedette nozze



    documenti
    Il matrimonio tra la donna e l’Eroe dei due Mondi celebrato anche con rito religioso: la conferma da alcune carte provenienti da Montevideo. E rispunta la domanda sulla fede del generale

    da Ravenna Quinto Cappelli

    Si riapre il caso del matrimonio religioso fra Giuseppe Garibaldi e Ana Maria De Jesus Ribeiro: per tutti Anita. Lo riporta alla luce don Isidoro Giuliani: 84 anni, 57 dei quali trascorsi alla guida della parrocchia di Mandriole di Ravenna, il paese dove il 4 agosto 1849 la ventottenne Anita morì. Ha appena dato alle stampe il libro Anita Garibaldi, vita e morte dove racconta: «Dall’arcivescovo di Montevideo è arrivata una precisazione storica, che non lascia adito ad altre interpretazioni»: il matrimonio tra la donna e l’Eroe dei due Mondi sarebbe stato celebrato anche con rito religioso. Il parroco di Mandriole si è impegnato per anni, in accurate ricerche «per rettificare certe notizie inesatte sulla "parrocchiana" Anita, che, come risulta dal registro parrocchiale dei morti, fu sepolta l’11 agosto 1849, secondo la testimonianza dell’allora curato don Francesco Burzatti». Don Giuliani appurato che il matrimonio di Giuseppe e Anita Garibaldi, celebrato il 26 marzo 1842 nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Montevideo, non è solo civile, come sostengono ancora vari storici e garibaldini, fra cui la pronipote Anita Garibaldi Jallet. La prova è arrivata il 18 luglio 1992 dall’arcivescovo di Montevideo. Nel libro del sacerdote viene pubblicato l’atto di matrimonio, redatto in spagnolo e in italiano, la cui lettura aveva in passato sollevato alcuni dubbi, specialmente nel passo dove si diceva che il matrimonio era stato celebrato «in facie ecclesiae» e «non ricevendo le benedizioni». L’arcivescovo di Montevideo, su questo nodo, ha precisato alcune cose, messe in evidenza anche da don Giuliani. «La prima espressione – scrive commentando l’atto – significa che il matrimonio fu contratto d’accordo con la legislazione canonica e che esso ha valore di sacramento, matrimonio religioso con tutti i diritti e doveri che ne derivano. La seconda espressione significa che i coniugi non hanno ricevuto la benedizione, che s’impartisce dopo il Padre Nostro, in quanto tempo di Quaresima. Però tale benedizione non è essenziale nella celebrazione del matrimonio religioso, che deve essere considerato valido». Una terza prova consiste nel fatto che all’epoca dei fatti la celebrazione del matrimonio aveva valore civile e religioso, in quanto in Uruguay il «Registro civile» fu creato solo nel 1879, ben 37 anni dopo il matrimonio dei coniugi Garibaldi. Secondo don Giuliani, moli altri fatti dimostrano la «fede cristiana» dell’Eroe dei due Mondi e dell’amata sposa: l’aver fatto battezzare i cinque figli, l’aver fatto celebrare tre messe per Anita morente dai frati cappuccini di Pietrarubbia in provincia di Pesaro; la sepoltura di Anita, prima nel cimitero (11 agosto 1849) e poi (nel 1859) all’interno della chiesa parrocchiale di Mandriole, da dove il 23 settembre 1859 lo stesso Garibaldi coi figli Menotti e Teresita, prelevò i resti mortali di Anita. A proposito di quest’ultimo episodio, scrive l’autore della ricerca: «Il ritorno a Mandriola riempì di commozione il generale. Il parroco, don Francesco Burzatti, che aveva accettato con spontanea complicità e senza alcuna richiesta alla Curia di Ravenna la traslazione delle spoglie in chiesa, pose la bara di Anita sul catafalco. Una bimba offrì al generale una piccola corona di fiori, che egli, grato, sistemò sopra la cassettina. Quindi s’inginocchiò e rimase nel più profondo e religioso silenzioso, per circa un quarto d’ora». E poi tutti partirono per Nizza. Proprio questa scena è stata immortalata dal pittore Erulo Eruli in una grande tela, esposta nel Museo del Risorgimento di Torino: nel quadro il parroco ravennate ha riconosciuto vari particolari della chiesa di Mandriole, fra cui la croce astile che si conserva ancora oggi. Nel cimitero di Nizza le spoglie di Anita restarono fino al 1932, anno nel quale Mussolini le fece prelevare per collocarle nel monumento a lei dedicato al Gianicolo di Roma. Altro capitolo. Don Giuliani respinge anche la tesi della morte di Anita per strangolamento per mano dello stesso marito e di altri garibaldini con lo scopo di sbarazzarsi di lei. Il sacerdote accetta la tesi della «morte naturale» per malaria. Chi è, allora, Anita Garibaldi? «Il bisogno di essere accanto al suo consorte – risponde don Giuliani – fu più forte di lei e questo sentimento di sposa l’accompagnò dall’Uruguay fino all’epilogo della sua vita, a Mandriole. Anita fu certamente donna coraggiosa e moglie devota e appassionata. Ma dobbiamo rifiutare le numerose invenzioni romanzesche, che hanno riempito gli spazi vuoti di notizie certe».

    da "Avvenire"

    http://www.politicaonline.net/forum/...threadid=17718


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  2. #2
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    Ringraziamo Lepanto per questa sua segnalazione, interessante e profondamente umana.

  3. #3
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    LA PRIMA GIOVINEZZA

    Garibaldi, l'eroe più popolare del Risorgimento italiano che fu uno dei fattori principali dell'unità d'Italia, nacque a Nizza il 4 Luglio 1807 da Domenico, di Chiavari, e Rosa Raimondi, di Loano. Il padre possedeva una tartana, con la quale praticava il cabotaggio.

    Egli tuttavia avrebbe voluto avviare Giuseppe, suo secondogenito, per una carriera come avvocato o medico, o anche prete. Il figlio, però, amava poco gli studi e prediligeva gli esercizi fisici e la vita sul mare. Vedendosi contrariato dal padre nella sua vocazione marinara, tentò di fuggire per mare verso Genova con alcuni compagni; ma fu fermato e ricondotto a casa. Il padre si decise a lasciargli seguire la carriera marittima ed egli la cominciò come mozzo a 15 anni. Qualche anno dopo, durante uno dei suoi viaggi, a Taganrog (mare d'Azov) , fece amicizia con un affiliato alla Giovine Italia, la società segreta fondata da Mazzini, alla quale egli stesso si iscrisse con il nome di Borel, spintovi dai suoi sentimenti patriottici.

    Nel 1833, dopo essersi incontrato a Marsiglia con Mazzini, si arruolò nella marina sarda per il servizio di leva marittima; fu allora incaricato di predisporre un'insurrezione a Genova, contemporaneamente ai moti mazziniani in Savoia; ma Garibaldi non riuscì ad avere contatti con i suoi compagni, sicché dovette fuggire a Marsiglia dove venne a conoscenza della sua condanna a morte per tradimento(1834).

    GARIBALDI IN AMERICA

    Dopo qualche viaggio nel Mediterraneo, su nave mercantile e nella marina del bey di Tunisi, partì per l'America del Sud, raggiungendo Rio de Janeiro nel 1836. In unione ad un altro esule italiano, Luigi Rossetti, tentò di lavorare nel commercio marittimo, ma senza risultati. Appoggiò allora i ribelli repubblicani del Rio Grande, insorti contro il governo imperiale di Don Pedro II, esercitando per loro la guerra da corsa contro il Brasile, lungo le coste e i fiumi del Brasile, dell'Uruguay e dell'Argentina.

    Dopo molte peripezie ed aver preso parte a diverse azioni belliche, cadute, per le discordie interne, lasciò la regione, recandosi, nel 1841, a Montevideo. Al soggiorno riograndese risale il suo incontro con Anita, l'innamoramento, l'abbandono del marito per seguire l'eroe e la nascita nel 1840 del primogenito Menotti, cui seguirono Teresita e Ricciotti. Morto poi il marito, il 26 marzo 1842, Giuseppe e Anita poterono unirsi in matrimonio a Montevideo. Anche nell'Uruguay, Garibaldi riprese a combattere in favore di quel paese che lottava contro l'Argentina. Comandante di alcune flottiglie, fu in questo periodo che creò la Legione Italiana, che condusse, vestita di quelle camicie rosse che un giorno diverranno leggendarie, in diverse valorose azioni, come nei combattimenti del Cerro, del Salto e sul fiumicello S. Antonio. Quest'ultima battaglia mise in luce le qualità militari di Garibaldi, nominato generale, e nel 1847, capo della difesa di Montevideo.

    IL 1848, LA DIFESA DI ROMA

    Le speranze suscitate nei patrioti italiani dall'elezione di Pio IX al soglio pontificio, spinsero Garibaldi ad offrire al pontefice la propria legione. L'offerta non fu accettata tuttavia Garibaldi partì per l'Italia sbarcando a Nizza nel giugno 1848, quando già le truppe di Carlo Alberto erano in marcia contro gli Austriaci. Nonostante il parere contrario di Mazzini, non esitò allora ad offrirsi con le sue truppe al re, che però non volle inquadrarlo nell'esercito. Si pose allora alla testa di alcuni battaglioni volontari, ma l'armistizio di Solasco lo sorprese quando era ancora nella fase organizzativa; ribellatosi alla tregua con le sole sue forze batté gli Austriaci a Luino, occupando Varese, ma attaccato da forze superiori a Morazzone, faticò poi a disimpegnarsi e a ritirarsi in Svizzera.

    Tornato a Genova, fu eletto deputato ma anziché sedere in Parlamento, preferì recarsi nell'Italia centrale organizzando una legione in appoggio al governo provvisorio di Roma. Proclamata la Repubblica Romana (9 febbraio 1849), fu nominato generale comandante delle truppe della città, battendo i Francesi a Porta San Pancrazio e i Napoletani a Palestrina. Gli attacchi in massa sferrati dai Francesi ebbero tuttavia ragione dell'eroica resistenza delle truppe garibaldine al Gianicolo a villa Corsini - ove si coprirono di gloria Manara, Dandolo, Mameli, Bixio - e ancora a villa Spada, ma il 2 luglio Garibaldi fu costretto a lasciare la città, incalzato da ogni parte dai nemici

    LA RITIRATA DA ROMA
    IL NUOVO ESILIO E IL RITORNO

    Giunto dopo lunghe peripezie e con una marcia leggendaria a San Marino, fece deporre le armi ai suoi soldati, proseguendo poi con solo 250 uomini per Cesenatico. Imbarcato su alcuni bragozzi che presto furono catturati dalle navi austriache, riuscì a stento a sbarcare a Magnavacca (oggi Porto Garibaldi). Congedati i suoi continuò a piedi con un solo compagno, il capitano Leggero. Nella cascina Guiccioli, Anita, incinta e gravemente ammalata, che lo aveva sempre seguito in ogni sua avventura, gli moriva tra le braccia. All'eroe neppure è concesso il conforto di seppellirla: braccato dagli Austro-papali è costretto a riprendere la fuga. Con l'aiuto di diversi patrioti, Garibaldi riesce a raggiungere Portovenere (presso La Spezia), ma il governo sardo, onde evitare comprensibili complicazioni di natura politica lo invita ad emigrare.

    Fu allora a Tangeri, poi a New York ove trova lavoro in una fabbrica di candele, quindi nell'America meridionale e centrale, poi in Cina, dedicandosi al cabotaggio; quindi ritorna a New York, sosta in Inghilterra e nel 1854 è a Nizza finché, nel 1857 può ritirarsi nell'isolotto di Caprera, dove aveva acquistato alcuni terreni, e dedicarsi all'agricoltura. Pur nel silenzio però continua a mantenere rapporti epistolari con i patrioti italiani. Si allontanava intanto sempre più dal Mazzini e aderiva alla monarchia sabauda purché questa facesse sua la causa italiana.

    IL 1859

    Nel 1859, su invito di Vittorio Emanuele II, assunse, con il grado di generale dell'esercito sardo, il comando di un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi e fu allora che essi ebbero il loro inno "si scopron le tombe, si levan i morti", dettato dal Mercantini e musicato dall'Olivieri. Scoppiata la guerra, Garibaldi ebbe il compito di operare sulle sponde del lago Maggiore contro l'estrema ala destra austriaca; cooperò quindi alle azioni per la 2ª Guerra d'Indipendenza con l'occupazione di Varese e di Como e con la presa di San Fermo; dopo la battaglia di Magenta entrò in Bergamo e Brescia, sostenendo poi numerosi scontri in Valtellina. Dopo l'armistizio di Villafranca, si dimise dall'esercito, e si pose prima al servizio della Lega fra Toscana, ducati e Romagna, in sottordine al generale Fanti, anelando ad una insurrezione dello Stato Pontificio e del Regno delle due Sicilie; dissuaso dal re stesso, lasciò il comando e si ritirò a Genova. In quell'epoca (24 gennaio 1860) sposò la marchesina Giuseppina Raimondi di Fino Mornasco (Como), lasciandola però lo stesso giorno delle nozze, essendo stato avvisato della sua infedeltà.

    LA SPEDIZIONE DEI MILLE

    L'insurrezione di Palermo del 4 Aprile 1860 suscitò nuovo entusiasmo patriottico nell'animo suo; con un po' d'armi e due vecchi piroscafi, con circa mille animosi, Garibaldi il 5 Maggio lasciava Quarto presso Genova, diretto verso la Sicilia. Sei giorni più tardi sbarcava a Marsala; a Salemi si proclamava dittatore in nome del re d'Italia. La vittoria di Calatafimi e la conquista di Palermo significarono a liberazione di tutta la Sicilia, mentre da ogni parte arrivavano sempre nuovi volontari a rinforzare il suo piccolo esercito. Cadute Milazzo, Messina, Siracusa ed Augusta, Garibaldi il 19 agosto sbarcava sul continente, conquistando Reggio e poi rapidamente su Napoli, favorito dai moti popolari che ovunque scoppiavano contro i Borboni.

    Cavour nel timore di una rottura con la Francia e di un pronunciamento repubblicano da parte dei garibaldini, tentò di affrettare l'annessione al regno dell'Italia meridionale, attirandosi lo sdegno di Garibaldi che avrebbe voluto affidare al re l'Italia unita solo dopo la conquista di Roma che avrebbe dovuto esserne la capitale. Mentre le truppe regie delle Marche e dell'Umbria marciavano verso il Napoletano, Garibaldi riuscì a trasformare in una sonante vittoria l'offensiva iniziata dai Borboni sul Volturno. Si accordò allora con le truppe regolari, andando incontro a Vittorio Emanuele II a Teano, ed accompagnandolo il 7 novembre a Napoli dove il popolo aveva trionfalmente proclamato l'annessione al regno di Sardegna. Consegnata la città nelle mani del re Garibaldi tornò nel suo solitario rifugio di Caprera, con un sacco di sementi e poche centinaia di lire, dopo aver rifiutato il grado di generale d'armata, il collare dell'Annunziata e donazioni per i figli.

    Nel 1862, durante un viaggio in Sicilia, fu accolto da grandi manifestazioni popolari in favore della liberazione di Roma, sicché , postosi a capo di un gruppo di volontari, partì da Catania il 24 agosto e sbarcando in Calabria presso Mileto, con l'intenzione di proseguire al nord. Ma truppe regie furono costrette a fermarlo il 29 ad Aspromonte dove rimase ferito al piede.

    Nel 1864 si recò in Inghilterra dove si incontrò con Mazzini, nel tentativo di convincerlo ad appoggiare, per il bene della patria, l'unione dell'Italia sotto i Savoia. Lì accettò la cittadinanza offertagli da Londra ma rifiutò 5.000 sterline raccolte per sottoscrizione.

    Due anni più tardi, operò nel Trentino nella guerra combattuta contro l'Austria a fianco dell'alleato prussiano; l'armistizio lo sorprese mentre stava per raggiungere Trento: all'ordine di abbandonare la zona rispose così "Ho ricevuto dispaccio 1072. Obbedisco". Non rinunciò successivamente all'idea di liberare Roma: riuscì a sbarcare a Vada presso Livorno il 19 ottobre 1867, marciando poi su Roma, mentre l'insurrezione in città falliva con la sconfitta e il sacrificio dei Cairoli a villa Glori. Per tale motivo, pur avendo conquistato Monterotondo, Garibaldi fu costretto a ritirarsi.

    GLI ULTIMI ANNI

    La liberazione di Roma nel 1870, non vide presenti le camicie rosse che tanto sangue avevano versato per quella città. Nell'ottobre si mise al sevizio della Francia conquistando Digione. Dopo la sconfitta francese rientrò in Italia dedicandosi alla vita politica appoggiando le idee della sinistra; in questo periodo scrisse anche un poema e 4 romanzi e le Memorie, tutti di carattere autobiografico.

    Il 26 gennaio 1880 - ottenuto finalmente l'annullamento del matrimonio con la Raimondi - sposò Francesca Armosino dalla quale aveva già avuto 3 figli: Clelia, Teresita e Manlio. All'inizio del 1882 fece un viaggio in Sicilia accolto con enorme entusiasmo; pochi mesi più tardi, il 2 giugno, si spegneva a Caprera al cospetto di quel mare ch'egli aveva tanto amato.

    -------------------------

    tratto da.....:
    http://www.cronologia.it/storia/biografie/garibaldi.htm

  6. #6
    Garibaldi
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    belin, che forte che ero !?!?!?!?!?!

  7. #7
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    Predefinito tratto da IL TEMPO.IT 19 agosto 2002

    L’eroina Anita

    di ANTONIO SPINOSA

    ANINHA. Nasceva nel Brasile Meridionale, ed era il 1821, l’anno in cui su un’isola dell’Atlantico moriva Napoleone. Per esteso il suo nome era Ana Maria de Jesus Ribeiro, ed era figlia dei coniugi Bento Ribeiro da Silva e Maria Antonia de Jesus Anuntes che vivevano nella cittadina di Laguna, sul mare dello Stato di Santa Catarina. Bento moriva quando Aninha non aveva sette anni, ma la ragazzina lo ricordava bene, corpulento, irrequieto, sempre alle prese con le sue mandrie. Lei era già molto bella. Era alta per la sua età, aveva la pelle olivastra, i capelli corvini, gli occhi tagliati a mandorla. Viveva in una piccola casa issata su basse palafitte, alla periferia del paese da dove scorgeva le distese infinite delle pampas. Passava le giornate a cavallo fra gli acquitrini che si stendevano oltre il porto. Cavalcava anche nelle notti di luna, dormiva sulla spiaggia cullata dall’ondeggiare del mare. Cresceva e si bagnava nuda nelle acque dell’Oceano. La madre, a questa estrema libertà della ragazza, pensò di porre un rimedio altrettanto estremo: il matrimonio. Prescelse Manoel Duarte de Aguiar, taciturno calzolaio di Laguna, attorniato da una muta di cani, tanto da essere chiamato Manoel dos cachorros, Manoel dei cani: avrebbe comunque assicurato ad Aninha un tetto e un pasto quotidiano. La ragazza non voleva saperne, ma dovette sottostare alle pressioni di Maria Antonia. Sicché andò a nozze il 30 agosto del 1835, e mai matrimonio combinato fu più infelice del suo.
    Quella strana coppia fu salvata da una guerra, una guerra civile. La provincia brasiliana del Rio Grande do Sul era insorta contro l’impero del Brasile e si era proclamata repubblica autonoma. La rivolta si era accesa tra la popolazione più infima di Porto Alegre, la capitale del Rio Grande, e dilagò rapidamente in tutto il territorio dello Stato. Ne fu investita anche la regione di Santa Catarina. Aninha parteggiava per la repubblica e l’indipendenza, il marito per l’impero, e pure questo era un motivo di dissidio fra loro. Per di più Manoel rispose all’appello dell’esercito regolare catarinese che si opponeva ai rivoluzionari, e più non tornò a casa. Disperso o morto?
    Mentre la rivoluzione dei farrapos, degli straccioni, incendiava il Brasile, dall’altra parte del mondo, a diecimila chilometri di distanza, il governo piemontese condannava a «morte ignominiosa» un giovane sfuggito alla prigionia. Come affiliato alla Giovine Italia aveva partecipato ai moti genovesi del 1834 promossi da Mazzini nel tentativo di far insorgere il Piemonte con una spedizione in Savoia. Il fuggiasco, prima di imbarcarsi su un brigantino alla volta del Brasile, aveva già peregrinato tra Marsiglia e Tunisi. Il suo falso nome di Joseph Paine nascondeva quello vero di Giuseppe Garibaldi. Raggiungeva Rio de Janeiro nella primavera del 1836. Aveva ventotto anni, ed era nizzardo. Era di media ma atletica statura, con la barba e i capelli biondi portati alla «nazareno»; aveva gli occhi azzurri penetranti e l’aspetto fiero.
    A Rio entrò in contatto con connazionali, esuli quanto lui e come lui affiliati alla Giovane Italia. Insieme trascorrevano le notti a discutere di libertà dei popoli, di indipendenza, di rivoluzione, fino a quando un ligure, Luigi Rossetti — che dirigeva un piccolo giornale di Porto Alegre, O Povo, «Il Popolo» — gli propose di fare qualcosa di concreto a favore dello Stato del Rio Grande do Sul in piena ribellione contro il governo brasiliano. Garibaldi ravvisava molte somiglianze fra quelle ansie di libertà riograndense e la situazione italiana. Acquistata una lancia, cui impose il nome di Mazzini, si schierò al fianco dei ribelli. Le sue azioni da corsaro si rivelarono tanto felici da ottenere la nomina a comandante della flotta rivoluzionaria.
    Nella guerra, Garibaldi aveva perduto molti amici, ed era assai triste. Si sentiva solo. Una mattina si trovava sul cassero d’una sua goletta. Preso un cannocchiale lo aveva puntato sulle misere strade della Barra, la collinetta che si elevava all’entrata della Laguna. Vide d’un tratto una donna che scendeva fiera lungo un sentiero che portava al mare. José saltò su una canoa per raggiungere trepidante la costa. Lui stesso scriveva nelle sue memorie: «Scopersi una giovane, e ordinai che mi portassero in terra nella direzione di lei. Sbarcai, e avviandomi verso le case dove trovavasi l’oggetto della mia curiosità, non mi era possibile il rinvenirlo». Casualmente s’imbatté in un conoscente che lo invitò a casa sua per prendere un caffè. Garibaldi scriveva ancora: «In quella casa la prima persona che si affacciò al mio sguardo era quella il di cui aspetto mi aveva fatto sbarcare». La giovane era Aninha: non aveva più ricevuto notizie dal marito Manoel, e ora viveva a Barra, ospite dello zio, uno dei primi rivoluzionari entrati a Laguna.
    I due giovani si fissarono a lungo negli occhi, in silenzio. Quindi a un tratto Garibaldi sussurrò: «Tu devi essere mia!». Poi aggiunse: «Come ti chiami?». «Aninha», fu la risposta. E lui d’impeto: «Anita, nella mia lingua». Il magnetismo delle sue parole e l’insolenza dell’esclamazione conquistarono la ragazza. Era il 27 luglio del 1839.
    Aninha l’aveva già notato, e così raccontava la visione in una nuova lettera alla sorella: «Ieri nella chiesa, tra i comandanti, ho visto un uomo che mi è parso meraviglioso. Alla luce delle candele, i lunghi capelli biondi luccicavano come fossero d’oro. Un marinaio, ho pensato subito. Poi ho sentito dire in giro che è straniero, e che comanda la flottiglia rivoluzionaria. Più lo guardavo, più sentivo un impulso pazzo ad avvicinarlo». Poi le scriveva ancora, colma di gioia, per dirle che aveva avuto la fortuna di incontrare quell’uomo, Josè Garibaldi: «Aveva pronunciato quel nome in una maniera strana. Io dico Garibaudi, non riesco a dirlo come lui. È un nome che fa sognare di paesi misteriosi, lontani, bellissimi. Viene da un paese chiamato Italia. L’hai mai sentito nominare?».
    Non c’era tempo per celebrazioni e luna di miele poiché tutto avveniva in una rovente atmosfera rivoluzionaria. Garibaldi doveva proteggere l’esercito dei ribelli dalla flotta imperiale brasiliana che si avvicinava minacciosa al porto di Laguna. Aveva una nuova nave, la Rio Pardo, ed era l’ammiraglia della piccola flotta dei rivoluzionari. Anita — era giovanissima, appena diciottenne — pretese di salire a bordo al fianco dell’amato, e fu proprio il suo vigore, il suo coraggio a restituire la fiducia ai guerriglieri che, spaventati, si erano nascosti sottocoperta. Lei agitava una sciabola e gridava «Mais fogo, mais fogo!». Quei farrapos, quegli straccioni, come erano chiamati, si sentirono punti nel vivo. Una donna li trattava da castrati. Bisognava reagire, e ripresero a combattere, altrimenti che uomini erano mai?
    Non meno coraggio dimostrava Anita negli scontri terrestri, sempre a cavallo e sempre con la spada sguainata. Ancora galoppava quando improvvisamente rivelò a José di essere in avanzato stato di gravidanza. Il 16 settembre del 1840 nasceva nello sperduto villaggio di Sao Luis de Mostardas il loro primo figlio che fu chiamato Menotti Domingo, in onore sia del patriota condannato a morte dal tiranno di Modena Francesco IV, sia del padre di Garibaldi, Domenico. José aveva trentatré anni.
    I repubblicani riograndini perdevano e si ritiravano davanti alle truppe imperiali di don Pedro II, il quale, ormai maggiorenne, aveva saldamente preso nelle sue mani il timone del paese. I ribelli si dividevano in lotte intestine, e Garibaldi decise di abbandonarli al loro destino. Così nel maggio del 1841, lui, Anita e il piccolo Menotti lasciavano i compagni rivoluzionari accampati sulle montagne per dirigersi a sud, verso la capitale dell’Uruguay, Montevideo.
    Garibaldi aveva ricevuto novecento bovini dai rivoluzionari come parziale compenso per i suoi servigi, ma lungo il cammino i vaqueros lo depredarono di gran parte della mandria. Il viaggio di 650 chilometri durò cinquanta giorni. Il 17 giugno del 1841 la questura di Montevideo registrava l’arrivo di Giuseppe José Garibaldi, della moglie e del figlio. Ardeva la guerra contro l’Argentina. Garibaldi viveva miseramente, indossava un poncho per celare gli abiti malandati. Montevideo era attaccata dalle forze argentine, e il governo uruguayano nominò comandante dell’Esquadra Orientale terrestre. Ancora non portava la camicia rossa. Ben presto, nel gennaio del 1842, fu nominato colonnello della flotta uruguayana, così potè tornare a solcare i mari. La sua situazione economica migliorava, ma non molto. Tuttavia il 26 marzo successivo sposava Anita in chiesa, e per pagare la funzione dovette vendere l’orologio d’oro che portava al taschino.
    Anita, forte e selvaggia per natura, era costretta a rimanere in casa, mentre il marito guerreggiava o amava altre donne. Lei era diventata particolarmente gelosa. Non tollerava rivali vere o immaginarie, e quando credeva di averne scoperto una affronta José con due pistole: una da scaricare su di lui, l’altra sulla sua amante. Un giorno Garibaldi tornò sulla nave con i capelli tagliati assai corti. Un ufficiale suo amico, stupito da quella metamorfosi, lo apostrofò dicendogli: «Colonnello, perché mai vi siete fatto tagliare così drasticamente i vostri stupendi capelli?». Lui rispose: «Cosa volete, amico, mia moglie è gelosa. Dice che porto i capelli lunghi per dare nell’occhio alle belle. Mi ha tanto torturato, e, io, in nome della pace domestica, ho finito col potarli».
    Le navi argentine il 16 febbraio del 1843 entravano nel porto di Montevideo ponendo sotto assedio la città. Garibaldi, nominato comandante in capo della marina uruguayana, ricostituì la flotta, rilanciò la Legione italiana e diede una nuova uniforme a soldati e marinai: ecco apparire la camicia rossa. In quello stesso anno, in novembre, nasceva alla coppia José-Anita la seconda figlia, Rosita, che ebbe vita brevissima. Morì nel dicembre del 1845. Nel frattempo, il 22 marzo di quello stesso 1845, casa Garibaldi era stata allietata dalla nascita di Teresita. Garibaldi aveva ottenuto grandi vittorie occupando l’isola Martìn Garcia e Sant’Antonio del Salto contro un nemico sei volte superiore in quanto uomini e armamenti. Anita gli era al fianco come premurosa infermiera della Legione.
    Ormai le notizie delle eroiche imprese di Garibaldi facevano il giro del mondo. Il generale italiano non era più un semplice ufficiale valoroso, ma un eroe internazionale che, sfidando e vincendo forze immani, aveva lanciato un messaggio di speranza a tutti gli oppressi in ogni luogo del mondo.
    Il 24 febbraio del 1847 Anita diede alla luce il quarto figlio, Ricciotti. Anche a Montevideo, come già era avvenuto nel Rio Grande esplodeva una lotta tra fazioni avverse, mentre dall’Italia arrivava la notizia che il nuovo pontefice, Pio IX, si mostrava favorevole alle idee liberali dei confederali. Gli aveva scritto perfino Mazzini, speranzoso. Garibaldi, che sentiva il richiamo dell’Italia, imbarcò il 27 dicembre del 1847 Anita e i tre figli superstiti sulla Carolina diretta a Genova.
    Da bordo della Carolina, Anita scriveva alla madre: «Sono in viaggio per l’Italia, con il sincero rammarico di lasciare le terre del Sud America senza averVi potuto rivedere. Insieme ai rimpianti mi agitano le aspettative di una nuova vita in terre sconosciute. La vita in Italia con Josè è un fatto a cui penso da anni. Vi confesso di sentire, però, una certa apprensione al pensiero dell’incontro con mia suocera. Mi domando come mi accoglierà mia suocera. Non vi dico, madre i continui sotterfugi di José. i suoi stratagemmi per riuscire ad armare i suoi uomini e approvvigionarli. Pensate che, per assicurare una certa uniformità che li distinguesse nei combattimenti, molti legionari durante gli scontri portavano quelle casacche rosse destinate ai macellai e ai portatori di carcasse del porto... gli unici indumenti che Josè fosse riuscito a trovare in quantità notevole a un prezzo modesto».
    Arrivata in Italia, Anita scriveva a un amico di Montevideo: «Sono stata festeggiata dal popolo genovese in modo singolare. Più di tremila persone sono venute sotto le mie finestre gridando "Viva Garibaldi! Viva la famiglia del nostro Garibaldi!". Sapeste quanto Josè è amato e desiderato».
    Insorgeva la Sicilia, e il 15 aprile del 1848 Garibaldi si imbarcava alla volta di Genova con settanta compagni legionari su un brigantino cui aveva dato il nome di «Speranza». Arrivato in Italia ben presto la speranza che anche lui aveva riposto in Pio IX si dissolse. Il pontefice, prima aveva benedetto l’Italia e poi l’aveva mandata a farsi benedire tornando aspramente a difendere l’ordine costituito. Allora Garibaldi offrì il braccio a Carlo Alberto, dichiarando di non essere repubblicano ma italiano. Il re non ne volle sapere, così come anche il granduca di Toscana.
    La notizia che Pio IX era fuggito da Roma travestito da frate indusse Garibaldi ad accorrere nel novembre del 1848 con la sua legione in camicia rossa nella città eterna a sostegno del governo provvisorio. Proclamata la Repubblica romana chiese ad Anita di raggiungerlo nel suo quartier generale di Rieti. Tutti la chiamarono subito la Bella brasiliana.
    Garibaldi difese Roma contro l’assalto dei francesi, e, benché ferito, avrebbe voltuo inseguirli nella ritirata. Si oppose a ciò Mazzini ritenendo che la Francia avrebbe potuto appoggiare la sorella repubblicana di Roma. Le monarchie europee, allarmate dall’insuccesso francese, cominciavano a inviare i propri eserciti. Diecimila soldati borbonici marciavano dal sud, i francesi attendevano un rinforzo da Marsiglia, gli austriaci stavano arrivando dalla Toscana, gli spagnoli erano a Gaeta. Anita si precipitò a Roma. Garibaldi, presentandola ai suoi ufficiali, esclamò: «Signori, questa è la mia Anita. Ora abbiamo un soldato in più nella difesa di Roma». Ma i capi della repubblica romana si arresero, mentre si accentuavano i contrasti fra lui e il triumviro Mazzini.
    Era inutile e impossibile restare a Roma. «Dovunque andremo là sarà Roma», diceva Garibaldi. Parlò al popolo. Anita incinta di quattro mesi, era al suo fianco. A cavallo. Il generale, col cappello floscio e il poncho bucato dalle schegge, montava un pomellato chiaro. Rizzatosi sulle staffe disse: «Compagni! La fortuna che ci ha tradito oggi ci arriderà domani. Io esco da Roma. Chi vuole continuare la guerra contro lo straniero mi segua. Offro fame, sete, marce forzate, morte; per tenda il cielo, per letto la terra. Chi ha il nome d’Italia non soltanto sulle labbra ma anche nel cuore venga con me!». Garibaldi e Anita uscivano dalla città alla testa di quattromilaseicento uomini, col proposito di sferrare azioni di guerriglia nell’Italia centrale.
    Anita, che appariva sempre più pallida, confidò al marito i suoi mali: spesso vacillava e tremava. Aveva la febbre, ma non credeva che ciò dipendesse dalla gravidanza. La ragione doveva essere più seria.
    I garibaldini continuavano a risalire la penisola fra mille difficoltà. Il gonfaloniero della città di Arezzo non volle farli passare temendo la vendetta dell’Austria, e così Garibaldi dirottò su San Marino con l’idea di raggiungere Macerata dove sei mesi prima era stato eletto deputato al parlamento di Torino. Le autorità sanmarinesi tentennavano, anche loro temevano l’Austria: dovevano far passare o no Garibaldi sul loro territorio? Nel frattempo le retroguardie garibaldine, assalite dalle truppe austriache si dispersero. Anita, vedendo gli uomini fuggire, ebbe la forza, quasi delirante, di salire a cavallo e di rincorrerli nel tentativo di convincerli a tornare indietro. I suoi sforzi furono inutili, e a lei non rimase che gridare ai fuggitivi: «Siete dei codardi!». I soldati che erano rimasti con Garibaldi dicevano: «È una donna o il diavolo in persona?».
    Erano inseguiti nelle paludi di Comacchio. Anita, quasi in fin di vita, fu portata in un campo di granturco. Lei accarezzava i capelli del marito. Con un filo di voce gli diceva: «Tagliali. Sei troppo riconoscibile». Garibaldi le ricordò che già una volta glieli aveva fatti tagliare. Ora lei gli chiedeva il sacrificio dei capelli non per gelosia, ma per salvarlo. Le sue ultime parole furono: «Peppino, abbracciami. Sono trascinata via dall’ombra che insegue noi brasiliani lungo tutta una vita». Ancora respirava. Lui ancora sperava. In una piccola barca, che aveva raggiungo dopo aver trasportata Anita a braccia per un’ora, attraversò la palude. Attraccò nei pressi d’una cascina non lontana da Ravenna dove c’era un medico. Era tutto troppo tardi. Appena adagiata sul letto, Anita moriva. Era il 4 agosto del 1848. Lei lasciava questa terra a ventotto anni, ma il suo ricordo è imperituro.

    domenica 18 agosto 2002

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    Predefinito RESTO DEL CARLINO 19 novembre 2002

    Gemellaggio nel nome di Garibaldi e Anita

    RAVENNA - Nasce nel segno di Garibaldi il gemellaggio tra Ravenna e Laguna, città brasialiana dove è nata Anita. Il vice sindaco Giannantonio Mingozzi e i consiglieri comunali Riccardo Pasini e Stefano Cortesi Siboni partiranno giovedì alla volta del Brasile per sancire ufficialmente il gemellaggio. Un gemellaggio dal sapore storico e risorgimentale, ma con una valenza anche economica. Il viaggio, per limitare a 2600 euro la spesa del soggiorno a Laguna, è stato infatti sponsorizzato da alcune aziende che potrebbero allacciare scambi produttivi con l'area brasiliana. Sabato, a Laguna, il locale museo garibaldino verrà intitolato a 'Ravenna'. Successivamente la delegazione ravennate inaugurerà un curioso cartello stradale indicante un nuovo insediamento urbano chiamato 'Garibaldi'. «Le nostre due città — commenta Mingozzi — sono legate dalle figure di Garibaldi e Anita, ma nel passato vi è stato anche una forte immigrazione di italiani verso quell'area, tanto che migliaia di persone sono di origini italiane». Al gemellaggio hanno lavorato con impegno la cooperativa mazziniana Pensiero e Azione e il Capanno Garibaldi. Una delegazione brasiliana ha incontrato nell'estate scorsa i due rappresentanti di queste storiche associazioni, Angelo Morini e Salvatore Dradi, gettando così le basi del gemellaggio. Molto probabilmente la delegazione tornerà in Italia con in dono il famoso 'poncho' indossato da Garibaldi in molte rappresentazioni, destinato al Museo ravennate.

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    Spedizione dei "mille" di Garibaldi
    .... sbarco sulle coste siciliane

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    Predefinito tratto da LA GAZZETTA DI PARMA 15 gennaio 2003

    La Gazzetta di Parma
    ----------------------------------------------------------------------------
    Combattè con l'Eroe dei due mondi: il pronipote gli rende omaggio sabato

    Il culto dell'eroe dei due mondi trova officianti devoti anche nella nostra città. Il 25 gennaio dello scorso anno, d'altra parte, si è costituita la sezione parmense dell'associazione nazionale garibaldina. Il circolo è stato intitolato, per volontà dei soci, alla memoria di Faustino Tanara e Luigi Gonizzi, ufficiali garibaldini nati nella nostra provincia.
    Al primo dei due patrioti è dedicato l'incontro intitolato «Luigi Gonizzi Barsanti, ufficiale di pubblica sicurezza (1859), ufficiale garibaldino (1860), ufficiale del Regio esercito (1862), tenente colonnello dei garibaldini e banchiere. Contribuì clandestinamente a finanziare le campagne garibaldine». Relatore, Giancarlo Tedeschi, presidente Ang e pronipote dello stesso Gonizzi, che era il suo bisnonno.

    L'incontro si svolgerà alle 17,30 al circolo polisportivo Castelletto in via Zarotto 99. Luigi Gonizzi fu un patriota amico di Garibaldi e di Mazzini, ufficiale di pubblica sicurezza dopo la caduta del Ducato (1859), combattente volontario sul Volturno il primo e il 2 ottobre 1860.

    Alla fine della campagna meridionale nel Napoletano, divenne ufficiale garibaldino e più tardi dell'esercito regio.

    All'incontro di sabato parteciperanno Anita Garibaldi (discendente dell'eroe), presidente nazionale dell'Ang e della associazione Mille donne per l'Italia e il colonnello Nicola Serra, presidente della Federazione nazionale garibaldina.

    Nel corso dell'anno si terranno altri due appuntamenti, sempre al Castelletto alle 17,30: sabato 15 marzo Manlio Bonati, del comitato di Parma dell'istituto per la storia del Risorgimento italiano parlerà di «Enrico Guastalla dello Stato Maggiore fu con Garibaldi dal 1849 al 1867»; martedì 8 aprile Nicola Serra conferirà sul tema «Il capitano Raffaele Tosi da Venezia a Mentana con Garibaldi»; venerdì 5 settembre Giancarlo Tedeschi parlerà di «Faustino Tanara, tenente colonnello dei garibaldini».

    La sesta circoscrizione Cittadella ha offerto il patrocinio della manifestazione. Nella storia garibaldina, Luigi Gonizzi è ricordato come Luigi Gonizzi Barsanti in virtù del battesimo del suo quartogenito Barsanti Carlo Fausto alla presenza del colonnello garibaldino Faustino Tanara.

    Imponendo il nome Barsanti, egli volle ricordare il caporale toscano di Gioviano (Lucca) che venne fucilato nel Castello Sforzesco di Milano per essere l'autore di una insurrezione mazziniana avvenuta a Piacenza nel 1870 e consistente nella occupazione della caserma detta del Lino.

 

 
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