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    Predefinito Concilio Vaticano II: quando lo storico non concilia.

    LA POLEMICA
    Dopo 40 anni e nonostante i tanti libri usciti, il maggior evento cattolico del Novecento non ha ancora trovato una ricostruzione davvero obiettiva

    Vaticano II: quando
    lo storico non concilia


    Ruini: serve una cronaca «in positivo», che non presenti quelle assise come una rottura col passato E il vescovo Marchetto firma una raccolta che fa «contrappunto» all'opera diretta da Alberigo


    Di Gian Maria Vian

    Quarant'anni dopo la chiusura del Vaticano II, è ancora da scrivere una storia del più grande avvenimento religioso del Novecento al di sopra delle parti. I libri e gli studi pubblicati finora sono ovviamente numerosissimi: diverse centinaia i volumi, molte migliaia i contributi in riviste scientifiche. E se in questa bibliografia non mancano le storie complessive della straordinaria assemblea celebrata dal 1962 al 1965, nessuna di esse può tuttavia essere paragonata a quello che forse è il più riconosciuto modello storiografico in questo ambito, cioè la ricostruzione del concilio di Trento (1545-1563) del grande storico tedesco Hubert Jedin (1900-1980), uscita tra il 1949 e il 1975 e pubblicata in Italia (Morcelliana) in 5 volumi.
    A parlare nuovamente di storiografia relativa al Vaticano II - tema molto dibattuto negli ultimi anni e non solo tra gli specialisti - sono stati venerdì a Roma il cardinale vicario Camillo Ruini, il presidente del Pontificio Comitato di Scienze storiche Walter Brandmüller, il senatore Francesco Cossiga e lo storico Andrea Riccardi, tutti concordi nel riconoscere che manca una storia dell'ultimo concilio. Occasione dell'incontro in Campidoglio è stata la presentazione di un volume di Agostino Marchetto (Il Concilio Ecumenico Vaticano II, Libreria Editrice Vaticana, pp. 407, 35 euro): che non è naturalmente la storia mancante, ma un «contrappunto per la sua storia» attraverso 52 contributi - quasi sempre recensioni - pubblicati tra il 1989 e il 2003, più sei inediti. E la raccolta risulta vivace, ricchissima d'informazioni, puntuta.
    L'autore, canonista e storico di formazione - allievo di Michele Maccarrone e molto vicino a Romana Guarnieri, la studiosa erede di Giuseppe De Luca scomparsa nel 2004 - ha studiato soprattutto la storia del primato romano, esercitandosi nel genere letterario delle recensioni critiche, come quelle raccolte nel 2002 nel monumentale Chiesa e Papato nella storia e nel diritto (Libr eria Editrice Vaticana): scritti brevi, più congeniali a un ecclesiastico che alla storia non è mai riuscito a dedicarsi a tempo pieno, in quanto prima diplomatico al servizio della Santa Sede e ora arcivescovo segretario del dicastero vaticano che si occupa dell'emigrazione.
    Ma perché questo volume è un «contrappunto»? A spiegarlo con chiarezza è stato soprattutto il cardinale Ruini, perché l'autore di questa raccolta si è contrapposto ai 5 volumi della Storia del concilio Vaticano II (1965-2001) diretta da Giuseppe Alberigo e curata in Italia per il Mulino da Alberto Melloni, opera certo importante ma che, sia pure «in modo un po' scherzoso», è paragonabile a quella scritta dal servita Paolo Sarpi sul concilio di Trento e pubblicata a Londra nel 1619: cioè una ricostruzione brillante e di parte. A questa rispose il gesuita Pietro Sforza Pallavicino con una Istoria (1636-1637), molto più documentata ma non meno appassionata e parziale, evocata con un filo d'ironia da Brandmüller, convinto però che per arrivare a uno Jedin del Vaticano II non si dovrà aspettare tre secoli.
    E di una storia «in positivo» dell'ultimo concilio vi è bisogno, ha insistito Ruini, che ha respinto con nettezza la presentazione del Vaticano II come di una «cesura», novità assoluta che avrebbe rotto con la storia precedente della Chiesa. Una concezione che fu del tutto estranea a chi il concilio volle e convocò - emblematico è in proposito quanto disse Giovanni XXIII aprendo le assise conciliari l'11 ottobre 1962 - come estranea è stata ai suoi successori, da Paolo VI (per esempio nell'importante discorso del 18 novembre 1965) a Giovanni Paolo II. Dei molti testi dedicati al Vaticano II dal pontefice appena scomparso il cardinale vicario ha ricordato l'inizio dell'enciclica Dives in misericordia (1980) e la lettera apostolica (1994) Tertio millennio adveniente (18-23), mentre dell'allora cardinale Ratzinger ha citato i «ricordi» conciliari compres i nello scritto La mia vita (appena ripubblicato da San Paolo), che arriva al 1977, quando il professore che partecipò al concilio come giovane teologo fu nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e creato cardinale da Paolo VI.
    La novità del Vaticano II sta nel ritorno alle fonti bibliche e patristiche - peraltro preparato da una lunga stagione di studi - e nell'attenzione a un «versante antropologico» illuminato dalla cristologia, tema sviluppato nella Gaudium et spes (22) e caro al teologo Ruini. Chiuso poco prima dell'esplosione della contestazione e della lunga crisi dell'ultimo trentennio del Novecento, il concilio non ha ovviamente avuto le preoccupazioni di difendere la Chiesa dalle bufere successive e ha potuto invece «serenamente» riflettere sull'aggiornamento con il quale ha completato il Vaticano I (1869-1870). Preparando così una sintesi futura. Inconsistenti - e nei fatti quasi estinte - sono dunque secondo il cardinale vicario le interpretazioni del Vaticano II come rottura, e quelle che vogliono rintracciarvi contrapposizioni tra un «evento» che supererebbe le «decisioni», se non addirittura tra «spirito» e «lettera» del concilio. Confermando così le critiche che da tempo stanno contrastando ricostruzioni - come quella della «scuola bolognese» che si richiama a Giuseppe Dossetti - senza dubbio importanti e utili ma troppo ideologiche.

    Avvenire - 20 giugno 2005

  2. #2
    INNAMORARSI DELLA CHIESA
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    Arrow Vaticano II: la vera storia che nessuno ha ancora raccontato

    Vaticano II: la vera storia che nessuno ha ancora raccontato

    Il cardinale Ruini boccia senza appello le interpretazioni dell’ultimo Concilio come cesura e “nuovo inizio” della Chiesa. E invoca che se ne scriva finalmente una storia non di parte, ma “di verità”


    di Sandro Magister



    ROMA, 22 giugno 2005 – A quarant’anni dalla sua chiusura, il Concilio Vaticano II è ancora in attesa di una sua storia “non di parte ma di verità”. L’ha detto il cardinale Camillo Ruini presentando un volume fresco di stampa, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, scritto dal vescovo Agostino Marchetto – studioso di storia della Chiesa, poi in servizio diplomatico per la Santa Sede e oggi segretario del pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti – e intitolato: “Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia”. La presentazione del volume è avvenuta a Roma il 17 giugno, nella sala “Pietro da Cortona” dei Musei Capitolini.

    Perché “contrappunto”? Il cardinale Ruini l’ha subito spiegato.

    Il libro di Marchetto fa da contrappunto, ossia si contrappone nettamente, all’interpretazione del Vaticano II che ha fino ad oggi monopolizzato la storiografia cattolica mondiale: quella dei cinque volumi della “Storia del concilio Vaticano II” diretta da Giuseppe Alberigo e pubblicata in sei lingue tra il 1965 e il 2001: in Italia per i tipi del Mulino e a cura di Alberto Melloni.

    Ruini ha esordito paragonando “in modo un po’ scherzoso” la storia del Vaticano II di Alberigo a quella scritta dal servita Paolo Sarpi sul Concilio di Trento, pubblicata a Londra nel 1619 e subito messa all’indice dei libri proibiti: cioè una ricostruzione brillante, fortunata, ma molto polemica e molto di parte. A Sarpi rispose diciassette anni dopo il gesuita Pietro Sforza Pallavicino con una “Istoria” molto più documentata ma non meno appassionata e parziale. Ci vollero tre secoli prima che il Tridentino avesse la sua prima storia equa e compiuta, pubblicata da Hubert Jedin tra il 1949 e il 1975. E proprio questo Ruini ha invocato: una “grande storia in positivo” anche per il Concilio Vaticano II, sperabilmente presto, senza aspettare altri tre secoli. Il volume di Marchetto – ha detto – dà nelle sue pagine finali alcune indicazioni per produrre questa storia “nuova e diversa”.

    La tesi di fondo di Alberigo e della sua “scuola di Bologna” fondata negli anni sessanta da Giuseppe Dossetti è che gli elementi prioritari del Concilio Vaticano II non sono i testi che esso ha prodotto. La priorità è l´evento in sé. Il vero Concilio è lo "spirito" del Concilio. Non riducibile, anzi, incommensurabilmente superiore alla "lettera" dei suoi documenti.

    E lo "spirito" del Concilio è identificato nel sogno di Giovanni XXIII di una "nuova Pentecoste" per la Chiesa e per il mondo. Mentre la "lettera" sarebbe l´imbrigliamento dell´assise attuato da Paolo VI, il papa che ha in effetti promulgato tutti i documenti conciliari. Tra Giovanni XXIII e Paolo VI lo scarto è dato come incolmabile. Quasi la "lettera" di papa Giovanni Battista Montini avesse soffocato e tradito lo "spirito" di papa Angelo Giuseppe Roncalli.

    Un altra tesi di fondo è che il Vaticano II ha segnato una cesura sistemica tra la stagione ecclesiastica anteriore, preconciliare, e quella successiva, postconciliare.

    Ebbene, il cardinale Ruini ha contestato in radice questa visione. Non solo il Concilio Vaticano II non segna una cesura, intesa come un “nuovo inizio” nella storia della Chiesa, ma tale cesura “è anche teologicamente non ammissibile”.

    A sostegno della continuità del Vaticano II rispetto alla grande tradizione della Chiesa, Ruini ha citato anzitutto Giovanni XXIII, e proprio quel passaggio del suo discorso inaugurale del Concilio dell’11 ottobre 1962 che Alberigo e la scuola di Bologna più invocano a sostegno delle loro tesi.

    Poi ha citato Paolo VI. Che il 18 novembre 1965 chiarì ai vescovi riuniti in Concilio che con la parola programmatica “aggiornamento” Giovanni XXIII “non voleva attribuire il significato che qualcuno tenta di darle, quasi essa consenta di relativizzare secondo lo spirito del mondo ogni cosa nella Chiesa (dogmi, leggi, strutture, tradizioni), mentre fu così vivo e fermo in lui il senso della stabilità dottrinale e strutturale della Chiesa da farne cardine del suo pensiero e della sua opera”.

    Poi ancora ha citato Giovanni Paolo II, che nel 2000, a un convegno sull’attuazione del Vaticano II, ribadì che “leggere il Concilio supponendo che esso comporti una rottura col passato, mentre in realtà esso si pone nella linea della fede di sempre, è decisamente fuorviante”.

    Ma pur nella continuità con la tradizione e le fonti bibliche e patristiche – ha proseguito Ruini – il Vaticano II ha segnato delle novità e aperture.

    Alla base dell’apertura del Concilio alla modernità – ha detto – c’è l’assunzione positiva della centralità del soggetto umano, ossia quella “svolta antropologica che ha caratterizzato lo sviluppo storico dell’Occidente almeno a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento”.

    Con ciò il Vaticano II “ha posto fine a una lettura catastrofale dell’epoca moderna”. Ma ha soprattutto ricondotto la centralità dell’uomo “a una prospettiva ultimamente cristologica”: prospettiva che “mi è stata cara fin da quando, in età più giovane, potevo dedicarmi di più allo studio della teologia”. Ruini ha citato a sostegno di questa visione sia la costituzione conciliare “Gaudium et Spes” al n. 22: “Solamente nel Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo”; sia l’enciclica di Giovanni Paolo II “Dives in Misericordia” al n. 1: “Quanto più la missione della Chiesa si incentra sull’uomo, tanto più deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre”.

    Ruini ha anche respinto l’idea che il Concilio II abbia avuto al suo centro la Chiesa:

    “Giustamente [il grande teologo e poi cardinale] Henri De Lubac osservò che, nonostante lo spazio preponderante occupato dalla Chiesa nei documenti del Vaticano II, non è fondato il sospetto che il Concilio rappresenti un’ulteriore tappa del processo per cui la Chiesa si starebbe adeguando al carattere immanentistico della cultura moderna: infatti il Vaticano II parla sì della Chiesa, ma anzitutto per mettere di nuovo in evidenza il suo radicale orientamento a Cristo, alla salvezza eterna, a Dio che salva l’uomo”.

    Altro punto critico è il ruolo della gerarchia. Ruini ha sottolineato che “essa è per il Popolo di Dio”. Quando il Concilio si svolse, “la contestazione antiautoritaria della seconda metà degli anni Sessanta doveva ancora esplodere. I padri conciliari non si sentirono quindi obbligati a difendere l’autorità della gerarchia da un attacco che non c’era stato”. Si dedicarono piuttosto “a completare e ad equilibrare l’opera del Concilio Vaticano I, affiancando all’affermazione del primato del papa quella della collegialità dei vescovi”. E con ciò “posero le premesse per uno sviluppo ecclesiologico che è ormai iniziato e dovrà caratterizzare il tempo che sta davanti a noi, realizzando una forma di sintesi tra la prospettiva incentrata sul collegio dei vescovi, prevalente nel primo millennio, e quella che fa capo al primato papale, che ha contrassegnato il secondo millennio”.

    Di Joseph Ratzinger teologo, Ruini ha ripreso alcuni passaggi della sua autobiografia, negli anni in cui egli era perito al Concilio:

    “Nella discussione preparatoria alla costituzione ‘Dei Verbum’ Ratzinger si chiedeva se venisse prima, per la fede, l’esegesi storico-critica del testo biblico, oppure la tradizione della comunità credente. E rispondeva che prima veniva la tradizione. Il Concilio gli ha dato ragione. L’alternativa sarebbe stata trasformare la Chiesa in una democrazia parlamentare dominata dai teologi e dagli esegeti”.

    Concludendo, Ruini ha di nuovo contestato la contrapposizione tra Giovanni XXIII e Paolo VI quale appare nella storia del Vaticano II prodotta da Alberigo e dalla scuola di Bologna.

    E di questa storia, che pur continua a dominare la scena, ha praticamente decretato il tramonto:

    “L’interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. È un’interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa. È tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”.

    __________


    Il libro commentato dal cardinale Ruini raccoglie 52 scritti del suo autore – per lo più recensioni di libri sul Vaticano II – pubblicati tra il 1989 e il 2003, più 6 inediti:

    Agostino Marchetto, “Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2005, pp. 410, euro 35,00.

    __________


    Del cardinale Ruini, la più completa e aggiornata rilettura del Concilio Vaticano II è nel capitolo centrale di questo suo libro pubblicato lo scorso aprile:

    Camillo Ruini, “Nuovi segni dei tempi. le sorti della fede nell’età dei mutamenti”, Mondadori, Milano, 2005, pp. 92, euro 10,00.

    http://www.chiesa.espressonline.it/d...o.jsp?id=34283
    Fraternamente Caterina
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  3. #3
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    Caro Vox Popoli.....è bello incontrare chi ha avuto la tua stessa idea nello stesso momento...

    Fraternamente Caterina
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  4. #4
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    Suggerisco il seguente libro per capire i tempi del Concilio Vaticano II...chi meglio di Ratzinger potrebbe descrivercelo?


    La chiave è la Rivelazione. Una recensione di La mia vita. Autobiografia di Joseph Ratzinger
    di Massimo Introvigne

    La mia vita. Autobiografia di Joseph Ratzinger (San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2005) traduce dal tedesco un libro di memorie del regnante Pontefice che arriva fino all’anno 1977 e alla sua nomina ad Arcivescovo di Monaco di Baviera e Frisinga. Non vi si troveranno quindi curiosità o rivelazioni sul suo periodo romano, né nel sul servizio arciepiscopale svolto a Monaco. L’opera tuttavia è preziosa per chiunque voglia comprendere sia lo stile dell’uomo che è diventato Papa, sia i temi fondamentali della sua attività di teologo di professione, che – se pure non si conclude – certo acquista un carattere diverso con la nomina a vescovo nel 1977.

    ( e dunque per comprendere i temi affrontati dal Concilio stesso al quale il libro torna sovente)

    Il testo – che è ricchissimo di dettagli ed è davvero impossibile riassumere – consta di tre nuclei tematici principali. Il primo ripercorre la giovinezza del futuro Pontefice, dalla nascita il 16 aprile 1927 nel villaggio bavarese di Marktl sull’Inn all’ordinazione sacerdotale del 1951. Benché il giovane Joseph Ratzinger, figlio di un gendarme, si sposti da un villaggio all’altro seguendo i mutamenti di carriera del padre, egli considera come il suo “vero paese d’origine” Traunstein, dove trascorre gli anni più significativi dell’infanzia e della giovinezza. Il quadro che ne dà non costituisce una semplice curiosità: la robusta e solida cristianità rurale bavarese, sordamente ostile nei confronti del nazional-socialismo (memorabile l’episodio del maestro di scuola nazista neopagano, le cui iniziative naufragano nel ridicolo), articola la sua vita intorno alla liturgia, con un clero che si apre cautamente al nuovo movimento liturgico, di cui nota però anche le potenziali deviazioni, che – come scrive l’autore – produrranno i loro guai nella Chiesa solo molti anni dopo. “L’inesauribile realtà della liturgia cattolica – ricorda Joseph Ratzinger – mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia vita: per questo, non posso non parlarne continuamente” (p. 18). L’idillio bavarese è però ben presto spezzato dal nazismo, dalla guerra, dall’obbligo di prestare servizio militare imposto anche a chi come il giovane Joseph ha deciso di entrare in seminario, e infine dall’internamento come prigioniero di guerra all’arrivo delle truppe statunitensi. Ma tutto questo è superato e, sia pure in condizioni materiali difficilissime, Joseph può proseguire gli amati studi di teologia fino all’ordinazione sacerdotale.

    Il secondo nucleo tematico del volume, quello per molti versi centrale, ricorda lo sviluppo del pensiero teologico di Joseph Ratzinger e le amicizie – alcune delle quali divenute, se non inimicizie, aspri contrasti dottrinali – con le maggiori figure del mondo teologico tedesco del XX secolo. Si va da Michael Schmaus (1897-1993), uno dei suoi maestri e il protagonista di quello che l’autore definisce un vero e proprio “dramma” – preoccupato dal carattere che considera eccessivamente innovativo delle idee storico-teologiche dell’allievo, con cui si riconcilierà solo molti anni dopo, Schmaus cerca di stroncarne nel 1956 la carriera universitaria – fino a Karl Rahner (1904-1984) e Hans Küng. Proprio la controversia con Schmaus a proposito della tesi di abilitazione del giovane teologo su San Bonaventura (1218?-1274) è al cuore della ricostruzione che l’autore propone del proprio itinerario teologico, da cui emerge un’immagine che non si lascia ridurre a quella giornalistica, piuttosto semplificante, dell’ex-progressista che diventa “pentito” solo dopo avere constatato i guasti del post-Concilio. In realtà, tutto si gioca fin dall’inizio sul concetto di rivelazione. Nella tesi del 1956 il giovane Ratzinger sostiene che per San Bonaventura (ma è una posizione che il teologo fa sua) i concetti di “rivelazione” e di “Sacra Scrittura” non coincidono. La “rivelazione” al contrario “è sempre un concetto di azione”: il termine definisce “l’atto con cui Dio si mostra, non il risultato oggettivizzato di questo atto”. Dunque “del concetto di ‘rivelazione’ è sempre parte anche il soggetto ricevente: dove nessuno percepisce la rivelazione, lì non è avvenuta nessuna rivelazione” (p. 74).

    Non è esagerato dire che questa è l’affermazione centrale di tutto il testo. Precisamente su questo tema si determina durante il Concilio Vaticano II il contrasto fra il perito Joseph Ratzinger e i seguaci della “presunta scoperta” del gesuita Josef Rupert Geiselmann (1890-1980) – oggetto, secondo il testo, di una “grossolana volgarizzazione nell’eccitato clima conciliare” (p. 93) – secondo cui lo stesso Concilio di Trento avrebbe voluto insegnare che la Sacra Scrittura ha una sua “completezza materiale” e contiene l’intero deposito della fede. Seguendo a fondo la tesi di Geiselmann si sarebbe arrivati a una svalutazione della Tradizione, all’idea che la Chiesa non potesse “insegnare nulla che non fosse esplicitamente rintracciabile nella Sacra Scrittura”, cioè – “dal momento che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate” – nulla che non fosse certificato dagli esegeti e dai teologi, che venivano così a sostituirsi ai vescovi (p. 92). Il rifiuto di questa deriva, giudicata pericolosissima, finisce per separare Ratzinger dai principali “progressisti”; ma nello stesso tempo l’argomento per rifiutarla – che è sempre quello secondo cui “la Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di più vivo, di più grande” (p. 93) – è giudicato troppo agostiniano e bonaventuriano (e troppo poco tomistico, o neoscolastico) dai “conservatori”, così che la posizione del teologo tedesco rimane per qualche verso isolata. È evidente come questa distinzione fra Scrittura e rivelazione, e questa nozione di rivelazione, hanno un significato cruciale anche per la definizione della specificità del cattolicesimo e delle sue differenze, per esempio, con il protestantesimo e con l’islam, cui pure il testo fa brevemente cenno.

    Il terzo nucleo tematico del volume mostra come coloro che avevano sostenuto in tema di Sacra Scrittura e di ruolo rispettivo dei teologi e dei vescovi al Concilio la tesi giudicata da Joseph Ratzinger eversiva si organizzano in una vera e propria lobby, concepiscono la Commissione teologica internazionale (di cui lo stesso Ratzinger fa parte) come un’istanza alternativa e superiore alle congregazioni romane, cercano di scardinare la teologia a partire dalla liturgia, e con diverse strategie operano per rovesciare la nozione di Chiesa guidata dai vescovi in una di Chiesa guidata dai teologi che – come, ricorda l’autore, aveva già suggerito Martin Lutero (1483-1546) – in quanto “esperti di Sacra Scrittura sono coloro che veramente possono prendere delle decisioni” (p. 100). Ma il processo sovversivo, una volta avviato, non si ferma qui: se la Chiesa non è guidata dai pastori, ma da chi interpreta la Sacra Scrittura, come pretendere che questa interpretazione sia riservata a una casta di professori? In un clima segnato dal marxismo comincia a emergere “l’idea di una sovranità ecclesiale popolare, in cui il popolo stesso stabilisce quello che vuole intendere con il termine Chiesa” (p. 101). Beninteso, le carte sono truccate, perché “il popolo” è una metafora per una nuova generazione di teologi progressisti – “della liberazione” – che aspira a scalzare la generazione precedente. Ma la direzione in cui ci si muove è comunque quella di una vera e propria rivoluzione che sovverte le basi stesse della Chiesa e della fede.

    Si spiega così la ferma reazione prima del teologo e poi del vescovo e cardinale Joseph Ratzinger, che rompe con molti amici e colleghi con cui pure aveva condiviso la critica di una teologia neoscolastica ritenuta troppo angusta e difensiva, e poco adatta alla proiezione nuovamente missionaria della Chiesa per la riconquista di un mondo scristianizzato in cui l’autore vede il vero appello del Concilio. Certamente le intenzioni maliziose della lobby progressista e il suo sfruttamento di una “propaganda conciliare” (p. 93) che abusa del nome del Concilio Vaticano II contro i documenti della stessa assise si rivelano nella loro tragica chiarezza solo progressivamente. Peraltro, l’opera suggerisce che il percorso intellettuale del teologo Joseph Ratzinger non procede per scossoni, “svolte” o “pentimenti”, ma è già chiaro alla fine degli anni 1950. La nozione di Rivelazione come “azione” – lontana sia da un certo conservatorismo, sia dal progressismo cripto-protestante – ne costituisce il centro ideale.


    Fraternamente Caterina
    Laica Domenicana

  5. #5
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    leggendo la parola MAGISTERO E TRADIZIONE.....pensavo a questo messaggio ricevuto proprio ieri dal sito:
    www.lucisullest.it

    Ve lo offro di cuore come meditazione.....

    I cattolici, coerenti con gli insegnamenti della Chiesa, vogliono il vero progresso, non vogliono un ritorno al Medioevo, ma camminare avanti verso il trionfo del Cuore Immacolato di Maria, profetizzato dalla Madonna a Fatima.

    Ricordiamo qui - come elemento utile per un dialogo costruttivo e chiarificatore con quelli che hanno un concetto sbagliato di Tradizione e nello stesso clima di maturità democratica – l’insegnamento del Papa Pio XII sull’argomento.

    Dall’opera “Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana”, Plinio Corrêa de Oliveira (*):
    L’apprezzare una tradizione è oggi virtù rarissima: da un lato perché l'ansia di novità, il disprezzo del passato sono stati d'animo resi molto frequenti dalla Rivoluzione (1); dall'altro perché i difensori della tradizione l'intendono a volte in maniera completamente falsa.

    La tradizione non è un mero valore storico né un semplice tema per variazioni tipico di un romanticismo nostalgico; essa è un valore che va inteso non in modo esclusivamente archeologico, ma come fattore indispensabile per la vita contemporanea.

    La parola tradizione, dice il Pontefice [Pio XII], «suona sgradita a molti orecchi; essa spiace a buon diritto, quando è pronunciata da certe labbra. Alcuni la comprendono male; altri ne fanno il cartellino menzognero del loro egoismo inattivo. In tale drammatico dissenso ed equivoco, non poche voci invidiose, spesso ostili e di cattiva fede, più spesso ancora ignoranti o ingannate, vi interrogano e vi domandano senza riguardo: A che cosa servite voi? Per rispondere loro, conviene prima intendersi sul vero senso e valore di questa tradizione, di cui voi volete essere principalmente i rappresentanti.

    «Molti animi, anche sinceri, s'immaginano e credono che la tradizione non sia altro che il ricordo, il pallido vestigio di un passato che non è più, che non può più tornare, che tutt'al più viene con venerazione, con riconoscenza se vi piace, relegato e conservato in un museo che pochi amatori o amici visitano. Se in ciò consistesse e a ciò si riducesse la tradizione, e se importasse il rifiuto o il disprezzo del cammino verso l'avvenire, si avrebbe ragione di negarle rispetto e onore, e sarebbero da riguardare con compassione i sognatori del passato, ritardatari in faccia al presente e al futuro, e con maggior severità coloro, che, mossi da intenzione meno rispettabile e pura, altro non sono che i disertori dei doveri dell'ora che volge così luttuosa.

    «Ma la tradizione è cosa motto diversa dal semplice attaccamento ad un passato scomparso; è tutto l'opposto di una reazione che diffida di ogni sano progresso. Il suo stesso vocabolo etimologicamente è sinonimo di cammino e di avanzamento. Sinonimia, non identità. Mentre infatti il progresso indica soltanto il fatto del cammino in avanti passo innanzi passo, cercando con lo sguardo un incerto avvenire; la tradizione dice pure un cammino in avanti, ma un cammino continuo, che si svolge in pari tempo tranquillo e vivace, secondo le leggi della vita, sfuggendo all'angosciosa alternativa: 'Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait!' [Se la gioventù sapesse, se la vecchiaia potesse]; simile a quel Signore di Turenne, di cui fu detto: 'Ha avuto nella sua gioventù tutta la prudenza di un'età avanzata, e nell'età avanzata tutto il vigore della gioventù' (Fléchier, Oraison funèbre, 1676).

    In forza della tradizione, la gioventù, illuminata e guidata dall'esperienza degli anziani, si avanza di un passo più sicuro, e la vecchiaia trasmette e consegna fiduciosa l'aratro a mani più vigorose che proseguono il solco cominciato. Come indica col suo nome, la tradizione è il dono che passa di generazione in generazione, la fiaccola che il corridore ad ogni cambio pone in mano e affida all'altro corridore, senza che la corsa si arresti o si rallenti. Tradizione e progresso s'integrano a vicenda con tanta armonia, che, come la tradizione senza il progresso contraddirebbe a se stessa, così il progresso senza la tradizione sarebbe una impresa temeraria, un salto nel buio.

    «No, non si tratta di risalire la corrente, di indietreggiare verso forme di vita e di azione di età tramontate, bensì, prendendo e seguendo il meglio del passato, di avanzare incontro all'avvenire con vigore di immutata giovinezza» (2).

    Note: (1) Il termine «Rivoluzione» è qui impiegato nel senso attribuitogli nel mio saggio «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione». Esso designa un processo iniziato nel secolo XV tendente a distruggere la Civiltà cristiana e stabilire un ordinamento diametralmente opposto. Fasi di questo processo sono state la pseudo-Riforma protestante, la Rivoluzione francese e il Comunismo nelle sue molteplici varianti e nella sua sottile metamorfosi del nostro tempo.

    (2) Allocuzione al Patriziato ed alla Nobiltà Romana 1944.
    (*) Cfr. op. cit., Parte I, Cap. V, 3, “b”, Marzorati Editore, 1993, pp. 70-71 – per consultare il testo integrale dell’opera: http://www.intratext.com/X/ITA0372.HTM .
    Fraternamente Caterina
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  6. #6
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    [QUOTE]Originally posted by Thomas Aquinas
    [B][b]LA POLEMICA
    Dopo 40 anni e nonostante i tanti libri usciti, il maggior evento cattolico del Novecento non ha ancora trovato una ricostruzione davvero obiettiva. Ruini: serve una cronaca «in positivo», che non presenti quelle assise come una rottura col passato E il vescovo Marchetto firma una raccolta che fa «contrappunto» all'opera diretta da Alberigo



    Sono davvero contento delle parole di Ruini che in modo autorevole contribuiscono a riattivare una riflessione seria
    sul Vaticano II. Alberigo e quelli della sua scuola hanno monopolizzato la storiografia italiana (e non solo) contribuendo a creare confusione e gravi malintesi speculari a quelli del tradizionalismo. Alberigo e i suoi però sono stati incomparabilmente più influenti nella vita della
    chiesa e la loro "eresia" è diventata purtroppo
    dilagante.
    Gilbert

  7. #7
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    Cristianesimo-Islam - Le aperture di Wojtyla, le chiusure dell'Islam


    Gaspare Barbiellini Amidei - Il dolore e la fatica di dar ragione al Papa




    È difficile mantenere il distaccato tono dell’analisi davanti al massacro compiuto dai terroristi nella chiesa di Bahawalpur. Pregavano, piccola minoranza in terra musulmana. Pregavano il Dio dei cristiani anche per la gente di Allah, martellata dai bombardamenti in Afghanistan. Pregavano come chiede il Papa, che anche ieri è tornato a condannare ogni gesto che porta morte. È necessario analizzare la situazione eccezionale nella quale oggi si trova a parlare la Chiesa di Roma. Non tutti i credenti hanno la vocazione al martirio. Non tutti trovano la serenità sufficiente per volere il dialogo anche in condizioni di così evidente squilibrio. Molti cristiani chiedono di cercare non soltanto fratellanza ma anche reciprocità. Appena chiuso il Sinodo, il Pontefice ha ricordato il dovere dei vescovi di «stimolare l’azione missionaria». Ma in diversi Paesi dell’Islam dare catechesi cristiana è rischio mortale. Ed è già penalmente pericoloso per un viaggiatore tenere una Bibbia in valigia.

    C’è una sensazione di difficoltà nello sforzo compiuto dalla Chiesa cattolica per dare concretezza al dialogo e per isolare il male rappresentato dal terrorismo.

    L’ateismo marxista era, nella prima fase del pontificato di Karol Wojtyla, un avversario duro da contrastare ma facile da inquadrare. Il fondamentalismo islamico, che fa da retroterra ai terroristi, ha invece contorni sfumati. La Chiesa di Roma, così come ogni statista occidentale di buon senso, non può accettare contrapposizioni con altre civiltà e religioni. Ma neppure ignora i turbamenti che assillano un’opinione pubblica indignata per l’enormità dei delitti terroristici.

    Non pochi sono anche preoccupati per l’area vasta di giustificazione, che a questi delitti è offerta anche in Europa, anche in Italia, dal fanatismo di minoranze islamiche.

    Più semplice e facile era a maggio ascoltare le parole del Papa, che si rivolgeva ai fedeli di Allah nel cortile della grande moschea di Omayy a Damasco, davanti al Gran Mufti di Siria. Il delitto delle Torri gemelle allora appariva impossibile. Il Pontefice coglieva segni di «crescente amicizia», in uno scenario di grande speranza. «Una migliore comprensione reciproca certamente porterà, a livello pratico - diceva allora Giovanni Paolo II - a un modo nuovo di presentare le nostre due religioni, non in opposizione, come è accaduto fin troppo spesso nel passato, ma in collaborazione per il bene della famiglia umana».

    Dall’11 settembre a livello pratico non sono venuti dalle folle con le magliette di Bin Laden segnali di migliore comprensione. Adesso il terrorismo colpisce direttamente i cattolici in una loro chiesa in Pakistan. A molti risulta amaro «offrire il perdono gli uni agli altri» come a maggio dalla Siria era l’invito del vescovo di Roma. Ora perdonare appare a molti impresa politicamente impraticabile e sentimentalmente prematura. In calendario da tempo, per il giorno successivo alla strage di Manhattan, era convocata a Sarajevo, su iniziativa dei vescovi europei, una riunione sul tema «cristiani e musulmani», che si è poi conclusa con una condanna del terrorismo «come peccato contro l’umanità».

    C’è una mirabile coerenza in questo Papa che si commuove nello stesso tempo per i cristiani uccisi a colpi di fucile a Bahawalpur e per i musulmani sepolti dalle bombe a Kabul. Ma per chi lo ascolta e lo ama come capo spirituale, per chi, cristiano, è chiamato dai fondamentalisti «infedele», ogni cosa risulta più dura.

    Questo Pontefice ha sempre tratto dalle difficoltà della storia e dalla sua santa inattualità la sua forza profetica. Ma per chi non è santo questa volta è particolarmente arduo il passaggio dalla teologia alla cronaca.

    Gaspare Barbiellini Amidei
    Dal Corriere della Sera del 29 ottobre 2001
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  8. #8
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    La catechesi di Giovanni Paolo II - 28 aprile 1999


    Il dialogo con i nostri "fratelli maggiori" è il cuore del Concilio Vaticano II




    "Il ricordo dei fatti tristi e tragici del passato può aprire la via ad un rinnovato senso di fraternità, frutto della grazia di Dio, e dell'impegno perché i semi infetti dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo non mettano mai più radice nel cuore dell'uomo".

    1. Il dialogo interreligioso che la Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente incoraggia come aspetto qualificante di questo anno particolarmente dedicato a Dio Padre (cfr nn. 52-53), riguarda innanzitutto gli ebrei, i "nostri fratelli maggiori", come li ho chiamati in occasione del memorando incontro con la comunità ebraica della città di Roma il 13 aprile 1986. Riflettendo sul patrimonio spirituale che ci accomuna, il Concilio Vaticano II, specie nella Dichiarazione Nostra Aetate, ha dato un nuovo orientamento ai nostri rapporti con la religione ebraica. Occorre approfondire sempre di più quell'insegnamento e il Giubileo del Duemila potrà rappresentare una magnifica occasione di incontro, possibilmente, in luoghi significativi per le grandi religioni monoteistiche (cfr TMA, 53). È noto che purtroppo il rapporto con i fratelli ebrei è stato difficile, a partire dai primi tempi della Chiesa fino al nostro secolo. Ma in questa lunga e tormentata storia non sono mancati momenti di dialogo sereno e costruttivo. Va ricordato in proposito che la prima opera teologica con il titolo "Dialogo " è significativamente dedicata dal filosofo e martire Giustino nel secondo secolo al suo confronto con l'ebreo Trifone. Così pure va segnalata la dimensione dialogica fortemente presente nella letteratura contemporanea neoebraica, la quale ha profondamente influenzato il pensiero filosofico-teologico del ventesimo secolo.

    C'è un lungo tratto della storia della salvezza a cui cristiani ed ebrei guardano assieme

    2. Questo atteggiamento dialogico tra cristiani ed ebrei non esprime solo il valore generale del dialogo tra le religioni, ma anche la condivisione del lungo cammino che porta dalI' Antico al Nuovo Testamento. C'è un lungo tratto della storia della salvezza a cui cristiani , ed ebrei guardano assieme.
    "A differenza delle altre religioni non cristiane - infatti - la fede ebraica è già risposta alla Rivelazione di Dio nella Antica Alleanza". Questa storia è illuminata da una immensa schiera di persone sante, la cui vita testimonia il possesso, nella fede, delle cose sperate. La Lettera agli Ebrei mette appunto in risalto questa risposta di fede lungo il corso della storia della salvezza (cfr Eb ll). La testimonianza coraggiosa della fede dovrebbe anche oggi segnare la collaborazione di cristiani ed ebrei nel proclamare e attuare il disegno salvifico di Dio a favore dell'intera umanità. Se questo disegno è poi diversamente interpretato rispetto all'accoglienza di Cristo, ciò comporta ovviamente una divaricazione decisiva, che è all'origine del cristianesimo stesso, ma non toglie che molti elementi restino comuni.
    Soprattutto rimane il dovere di collaborare per promuovere una condizione umana più conforme al disegno di Dio. Il grande Giubileo, che si richiama proprio alla tradizione ebraica degli anni giubilari, addita l'urgenza di tale impegno comune per ripristinare la pace e la giustizia sociale. Riconoscendo la signoria di Dio su tutto il creato e in particolare sulla terra (cfr Lv 25), tutti i credenti sono chiamati a tradurre la loro fede in impegno concreto per proteggere la sacralità della vita umana in ogni sua forma e difendere la dignità di ogni fratello e sorella.

    3. Meditando sul mistero di lsraele e sulla sua "vocazione irrevocabile", i cristiani esplorano anche il mistero delle loro radici. Nelle sorgenti bibliche condivise con i fratelli ebrei, trovano elementi indispensabili per vivere e approfondire la loro stessa fede. Lo si vede, ad esempio, nella Liturgia. Come Gesù, che ci viene presentato da Luca mentre nella sinagoga di Nazaret apre il libro del profeta Isaia (cfr Lc 4,16ss), così la Chiesa attinge dalla ricchezza liturgica del popolo ebraico. Essa ordina la liturgia delle ore, la liturgia della parola e perfino la struttura delle preghiere eucaristiche secondo i modelli della tradizione ebraica. Alcune grandi feste come la Pasqua e la Pentecoste evocano l'anno liturgico ebraico, e rappresentano eccellenti occasioni per ricordare nella preghiera il popolo che Dio ha scelto ed ama (cfr Rm 11,2).
    Oggi il dialogo implica che i cristiani siano più consapevoli di questi elementi che ci avvicinano. Come si prende atto della "alleanza mai revocata", così si deve considerare il valore intrinseco dell'Antico Testamento (cfr Dei Verbum, 3), anche se esso acquista il suo senso pieno alla luce del Nuovo Testamento e contiene promesse che si adempiono in Gesù. Non fu forse la lettura attualizzata della Sacra Scrittura ebraica fatta da Gesù ad accendere "il cuore nel petto"(Lc 24,32) ai discepoli di Emmaus, permettendo loro di riconoscere il Risorto mentre spezzava il pane ?

    4. Non solo la comune storia di cristiani ed ebrei, ma particolarmente il loro dialogo deve mirare all'avvenire, diventando, per così dire, "memoria del futuro". Il ricordo dei fatti tristi e tragici del passato può aprire la via ad un rinnovato senso di fraternità, frutto della grazia di Dio, e all'impegno perché i semi infetti dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo non mettano mai più radice nel cuore dell'uomo. Israele, popolo che edifica la sua fede sulla promessa fatta da Dio ad Abramo: "sarai padre di una moltitudine di popoli" (Gn 17,4; Rm 4,17), addita al mondo Gerusalemme quale luogo simbolico del pellegrinaggio escatologico dei popoli, uniti nella lode dell'Altissimo. Auspico che agli albori del terzo millennio il dialogo sincero tra cristiani ed ebrei contribuisca a creare una nuova civiltà, fondata sull'unico Dio santo e misericordioso, e promotrice di una umanità riconciliata nell'amore. "

    Meditando sul mistero di Israele e sulla sua "vocazione irrevocabile" i cristiani esplorano anche il mistero delle loro radici

    *********************
    Fraternamente Caterina
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  9. #9
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    IL DIBATTITO
    La «Gaudium et spes» 40 anni dopo: non più cambiare la Chiesa, ma evangelizzare il mondo

    www.avvenire.it

    Dalla riforma all'annuncio


    Da Roma Riccardo Maccioni

    L'immagine che viene subito in mente è quella della tavola imbandita.
    Un banchetto ideale in cui ciascuno porta se stesso e la sua originale chiave di lettura. Il dibattito, il confronto sono tappe centrali nei Forum del progetto culturale. A maggior ragione quando, come ieri, il tema guida è l'attualità di quella svolta teologica e pastorale che è stato il Concilio Vaticano II. Si tratta di coniugare il vissuto con l'avvenire, chiedendo alla memoria di recuperare il passato per leggere il presente e intercettare le domande di futuro.


    «In questa stagione di travaglio - riflette il patriarca di Venezia cardinale Angelo Scola - la Chiesa è chiamata a testimoniare che le ragioni della fede sono le ragioni della libertà e del desiderio intesi nella loro pienezza e verità. Non si tratta di impegnarsi in una battaglia culturale ma di rigenerare il popolo di Dio. Per riuscirci occorrono comunità dall'appartenenza forte, distribuite capillarmente, nate dall'Eucaristia e dalla logica dell'incarnazione».

    Sulla scia della Gaudium et spes, il rapporto con la società contemporanea, la capacità di «interpretare» la modernità sono elementi chiave del dibattito.
    «La Costituzione conciliare - commenta Lorenzo Chiarinelli vescovo di Viterbo - mette a tema il ruolo della Chiesa non di fronte ma "nel" mondo contemporaneo. Una riflessione che diventa domanda sulla situazione attuale». Un segno di continuità va sicuramente cercato nella categoria del mutamento, sottolineata dalla Gaudium et spes sin dall'esposizione introduttiva e indispensabile anche per leggere l'oggi. «Dopo il Concilio si svilupparono forti istanze antiistituzionali e antidogmatiche - ricorda Lorenzo Ornaghi rettore dell'Università cattolica -, si è davvero sicuri che quella fase si sia esaurita? Non bisogna dimenticare la crescente disaffezione per le istituzioni che si registra in Occidente».
    Il mutamento riguarda gli aspetti fondanti delle società contemporanea. Non ultimo il bisogno di Dio che vive del contrasto tra la voglia di Assoluto e l'incapacità di esprimerlo.

    «Dobbiamo tornare all'alfabetizzazione della religione - spiega il fisico Paolo Blasi - perché è inutile seminare se non c'è terreno fertile. In questo vedo una differenza rispetto al Vaticano II in cui quella della fede era dimensione condivisa. Credo che bisognerebbe rendere obbligatoria l'alfabetizzazione religiosa, che non va confusa con il catechismo».

    La discontinuità con il Concilio riguarda però anche altri aspetti. «Il Vaticano II considerò centrale la riforma della Chiesa al suo interno - commenta lo storico Andrea Riccardi moderatore del dibattito - mentre non mise a tema l'urgenza dell'evangelizzazione che in quel momento non era sicuramente centrale».
    Parallelamente cresceva però nel mondo intellettuale laico la convinzione che l'esperienza religiosa individuale e comunitaria fossero, sotto l'impulso delle nuove istanze culturali, destinate a venir meno, per così dire ad esaurirsi. Pur in presenza di un cristianesimo minoritario sappiamo che non è andata così. Questa constatazione che non deve però farci dimenticare che «la Chiesa non è per se stessa ma in funzione di - aggiunge la teologa Cettina Militello -. Se non assumiamo la lingua, i contesti, i problemi, le condizioni degli uomini e delle donne di oggi, rischiamo di cadere nel non senso».

    E tra i parametri che definiscono la contemporaneità c'è la ricerca scientifica, sul cui bisogno di eticità si è soffermato il matematico Giandomenico Boffi. «Occorre sensibilizzare gli scienziati a pensare le conseguenze delle loro scoperte - spiega il fisico Ugo Amaldi -. Penso a ricercatori, come avvenuto negli Stati Uniti sul tema dell'ingegneria genetica, che chiedano un contributo di riflessione ai colleghi e poi alla politica e all'opinione pubblica, purché competente su quei temi».

    Di nuovo torna la dimensione del mutamento che non sempre è sinonimo di discontinuità.
    «C'è da domandarsi se i tempi sono così diversi che la simpatia con l'uomo disegnata dalla Gaudium et spes non è più possibile o se sia cambiato il modo di leggere la realtà - si è chiesto il teologo Severino Dianich -. C'è un'unica posizione su cui la Chiesa sarà sempre sola: l'annuncio della resurrezione».

    Nella riflessione del rettore della Pontificia università lateranense Rino Fisichella il cuore della Gaudium et spes è il richiamo al mistero. «Nel mistero del Verbo incarnato trova ragione il mistero dell'uomo. Nella vita della Chiesa il mistero è all'origine del nostro riflettere e del nostro stesso annuncio».
    Stamani nella quiete romana del Centro Villa Aurelia è in programma la seconda parte dei dibattito che chiuderà questo VI Forum del Progetto culturale.
    Fraternamente Caterina
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  10. #10
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    san Cipriano parlava della CHIESA CATTOLICA (romana) e riferiva il suo discorso, proprio ad una certa fascia Ortodossa che continuava a minacciare quella separazione grave che effettivamente avvenne......

    Buona meditazione

    NON PUÒ AVERE DIO PER PADRE

    CHI NON HA LA CHIESA PER MADRE

    Ma bisogna guardarsi non solamente dagli in_ganni sfacciatamente evidenti, ma anche da quelli astutamente scaltri. Il nemico, svelato ed umiliato dal_la venuta di Cristo, dopo che la luce si diffuse sulle genti e lo splendore di salvezza rifulse per la libera_zione degli uomini, sì che i sordi riescono ad ascol_tare la grazia spirituale, aprono gli occhi a Dio i cie_chi, gli infermi riacquistano l’eterna salute, gli zoppi corrono alla Chiesa, e i muti innalzano preghiere con voce squillante, ha concepito un’astuzia singolar_mente scaltra, vedendo l’abbandono degli idoli e dei suoi templi e la gran folla dei credenti: quella di in_gannare gli imprudenti insinuandosi nell’interno della comunità cristiana: ha escogitato eresie e scismi con cui abbattere la fede, corrompere la verità, spezzare l’unità. Così raggira abilmente coloro che non riesce più a trattenere nelle tenebre della vecchia via di men_zogna e li strappa dal seno della Chiesa spingendoli su una nuova via ingannevole: mentre si illudono di essersi ormai avvicinati alla luce e di essere sfuggiti alla notte del mondo, di nuovo li avvolge, ignari, in altre tenebre, sì da chiamarsi cristiani, pur non os_servando il Vangelo di Cristo e la sua legge, e da ri_tenere di aver la luce, pur camminando nelle profonde oscurità. Il nemico inganna così con lusinghe poiché assume l’aspetto, come dice l’apostolo, “di angelo di luce e traveste i suoi ministri in ministri di giustizia” (2 Corinzi 11,14-15)…….

    La sposa di Cristo non sarà mai adultera: essa è incorruttibile e pura, una sola casa conosce; con casto pudore custodisce la santità di un solo talamo. Lei ci conserva per Dio. Lei destina al Regno i figli che ha generato. Chiunque, separandosi dalla Chiesa, ne sceglie una adultera, viene a tagliarsi fuori dalle promesse della Chiesa: chi abbandona la Chiesa di Cristo, non perviene certo alle ricompense di Cristo. Costui sarà un estraneo, un profano, un nemico. Non può avere Dio per padre chi non ha la Chiesa per madre. Se si fosse potuto salvare chi era fuori dall’arca di Noè si salverebbe anche chi è fuori della Chiesa.

    Ecco quanto il Signore ci dice ammonendoci: «Chi non è con me, è contro di me e chi non raccoglie con me, disperde» (Matteo 12, 30). Chi spezza la concordia, la pace di Cristo è contro Cristo e chi raccoglie fuori della Chiesa disperde la Chiesa di Cristo. II Signore dice: «Io e il Padre siamo uno» (Giovanni 10, 30). E ancora sta scritto del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo: «E i tre sono uno (1 Giovanni 5,7) ». Ebbene può forse esserci qualcuno che crederà si possa dividere l'unità della Chiesa, questa unità che viene dalla stabilità divina e che è legata ai misteri celesti, e penserà che si possa dissolvere per la divergenza di opposte volontà. Chi non si tiene in questa unità non si tiene nella legge di Dio, non si tiene nella fede del Padre e del Figlio, non si tiene nella vita e nella salvezza.

    Questo mistero dell'unità, questo vincolo di concordia indivisibile, ci è indicato chiaramente nel vangelo là dove si parla della tunica del Signore Gesù Cristo: essa non è per niente divisa né strappata; ma si gettano le sorti sulla veste di Cristo, sicché chi dovrà rivestirsi di Cristo riceva la veste intatta e possieda indivisa e integra quella tunica. Cosi leggiamo nella divina Scrittura: «Quanto poi alla tunica, poiché era senza cuciture dall'alto al basso e tessuta d'un pezzo, si dissero a vicenda: non stracciamola ma tiriamola a sorte a chi tocchi» (Giovanni 19, 23). Lui porta l'unità che viene dall'alto, che viene cioè dal cielo e dal Padre: tale unità non poteva essere affatto divisa da chi la ricevesse in possesso, conservandosi tutta intera e assolutamente indissolubile. Non può possedere la veste di Cristo chi lacera e separa la Chiesa di Cristo.

    Cipriano, L'unità della chiesa cattolica, III-VI-VII
    Fraternamente Caterina
    Laica Domenicana

 

 
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