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    Predefinito Lettera del Papa ai sacerdoti: firmata da un luogo segnato dalla Croce di Cristo.

    LETTERA DEL PAPA AI SACEDOTI, CARD. HOYOS, “UNA LETTERA FIRMATA DA UN LUOGO SEGNATO DALLA CROCE DI CRISTO: L’OSPEDALE”


    Quest’anno la Lettera del Santo Padre ai sacerdoti per il Giovedì Santo porta una data particolare: “Dal policlinico Gemelli in Roma, 13 marzo, quinta domenica di Quaresima, dell’anno 2005, ventisettesimo di Pontificato”. È stata dunque firmata durante il secondo ricovero di Giovanni Paolo II. “Se ogni Lettera del Santo Padre ai sacerdoti per il Giovedì Santo è sempre una viva testimonianza della premurosa carità del Successore di Pietro – ha detto questa mattina ai giornalisti il card. Dario Castrillon Hoyos, prefetto della Congregazione per il clero - questa Lettera lo è in modo del tutto particolare, perché essa è firmata da un luogo segnato dalla Croce di Cristo: l’ospedale”. “Da quel luogo di cura – ha proseguito il prefetto – ‘ammalato tra gli ammalati’, il Papa, nel silenzio della sua sofferenza, ripete con l’esempio di una vita donata sino alla fine, l’affermazione paolina: ‘Noi predichiamo Cristo crocifisso… potenza di Dio e sapienza di Dio’”. Dalla “sua Croce”, il Santo Padre diventa così per i sacerdoti di tutto il mondo testimone della “capacità di trasformare la propria esistenza sacerdotale in un dono radicale per la Chiesa e per l’umanità”. Il prefetto ha voluto poi assicurare il Santo Padre, a nome di tutti sacerdoti del mondo, di voler accogliere “le sue parole per essere custodi dell’Eucaristia, in una veglia continua ed in tutti gli angoli della terra e porremmo in ginocchio al Tabernacolo tutte le nostre solitudini”. Ed ha poi concluso: “Nonostante il passare degli anni, rafforzati dalle parole del Papa, contageremo la giovinezza di Dio che è in noi su coloro che incontreremo sul nostro cammino. Le parole di vita eterna che il Santo Padre ci offre, sono un invito a non aver paura dell’età ed un incoraggiamento a superare la stanchezza, con il vigore trasformante del pane eucaristico”.
    Sollecitato dalle domande dei giornalisti il card. Darío Castrillón Hoyos, prefetto della Congregazione per il clero, ha ribadito l’importanza di questa Lettera, anche per le condizioni in cui essa è maturata e cioè durante il secondo ricovero del Santo Padre al policlinico Gemelli. "Ecco perché – ha spiegato il prefetto – ho detto dalla Croce. Tutti abbiamo visto il dolore del Papa – ha poi aggiunto – tutto il mondo ha visto come il Santo Padre ha sofferto e come abbia pensato in ogni momento a tutta la Chiesa e al clero". "Mi sono commosso – ha ricordato il cardinale Hoyos - nel vedere che le prime parole di Giovanni Paolo II sono state per dei vescovi, dei vescovi africani". È un segno di comunione con le Chiese lontane: con quell’atto "il Papa accoglieva la Chiesa". In questi giorni – ha proseguito il prefetto - il Santo Padre si è presentato "debole nell’espressione fonica ma forte nell’amore e nella significanza per il mondo e per la Chiesa". Importante, secondo il card. Hoyos, l’accento sull’atteggiamento dell’obbedienza. "Un’obbedienza - ha detto ancora il cardinale - all’Eucaristia. La consacrazione è l’azione più sacra che un sacerdote possa realizzare". L’invito, dunque, è a tenere nella massima cura la "severità" e la "santità del Rito". Il prefetto ha quindi raccontato che alla Santa Sede arrivano lettere in cui i fedeli si lamentano per i riti non curati e giungono notizie anche dalla stampa di "abusi nel rito sacro dell’Eucaristia". "Qualche volta – ha detto - per far capire le cose, si prende un modo di fare più popolare perché si crede che la gente ha bisogno di un linguaggio più semplice. Un po’ come fa una mamma con il bambino. Ma non è così. Sempre con grande rispetto alla gerarchia locale – ha concluso Hoyos – il Santo Padre chiede di essere obbedienti alle norme che i vescovi danno, in specie per l’Eucaristia".


    Agenzia Sir

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    il Papa: “malato tra i malati” scrive ai preti i “salvati per salvare”

    Scritta al Gemelli la lettera deò Giovedì santo: il sacerdozio come “esistenza grata, donata, salvata per salvare, memore, consacrata, protesa verso Cristo”.



    Città del Vaticano (AsiaNews) - “Dal Policlinico Gemelli, in Roma, 13 marzo”: la data ed il luogo nel quale è stata scritta caratterizzano come non mai la lettera di quest’anno del Papa ai sacerdoti per il Giovedì santo. “In ospedale, ammalato tra gli ammalati, unendo la mia sofferenza a quella di Cristo”, scrive il Papa nelle prime righe del documento, alla fine del quale implora la Madonna e affida a lei “specialmente i più anziani, gli ammalati, quanti si trovano in difficoltà”. In mezzo il dolore, la malattia, la croce, ma anche la gratitudine a Dio e il “dover essere” del prete, il “salvato per salvare”. Il Papa medita infatti sul sacerdozio come “esistenza grata, donata, salvata per salvare, memore, consacrata, protesa verso Cristo”. La vita del prete, quindi, come “esistenza grata, donata, salvata per salvare, memore, consacrata, protesa verso Cristo”. “Abbiamo – osserva tra l’altro - le nostre croci, e certo non siamo i soli ad averne, ma i doni ricevuti sono così grandi che non possiamo non cantare dal profondo il nostro Magnificat”. “Dalla sua Croce – ha sottolineato in proposito il card. Darío Castrillón Hoyos, prefetto della Congregazione per il clero, che ha presentato il documento - il Papa addita ad ogni sacerdote l’insondabile dignità, conferitagli dall’Ordinazione, di poter pronunciare le parole della Istituzione del mistero eucaristico in persona Christi, e di ricevere la capacità di trasformare la propria esistenza sacerdotale in un dono radicale per la Chiesa e per l’umanità, vale a dire di assumere una “forma eucaristica” (cfr.Lettera, n.1)”. Vivere da “salvato, per salvare”, ricorda Giovanni Paolo II, impegna il sacerdote a ''progredire nel cammino di perfezione: la santità infatti - scrive - è l'espressione piena della salvezza e solo vivendo da salvati diventiamo annunciatori credibili della salvezza”. Una vita donata, scrive poi il Papa, chiede al sacerdote di mettersi “a disposizione della comunità e al servizio di chiunque ha bisogno”. I tempi in cui viviamo, osserva poi, valorizzano l’“esistenza memore” del sacerdote. “In un tempo in cui i rapidi cambiamenti culturali e sociali allentano il senso della tradizioni ed espongono specialmente le nuove generazioni al rischio di smarrire il rapporto con le proprie radici - spiega - il sacerdote è chiamato ad essere, nella comunità a lui affidata, l'uomo del ricordo fedele di Cristo e di tutto il suo mistero”. E’ questa la luce nella quale il Papa pone la pratica dell’adorazione eucaristica, naturalmente raccomandata. “Stare davanti a Gesù eucaristia, approfittare, in certo senso, delle nostre 'solitudini' per riempirle di questa Presenza, significa dare alla nostra consacrazione tutto il calore dell'intimità con Cristo, da cui prende gioia e senso la nostra vita”. Perché se praticando la carità e vivendo “in mezzo al popolo di Dio”, il prete ne “orienta il cammino e ne alimenta la speranza”, “un sacerdote conquistato da Cristo più facilmente 'conquista' altri alla decisione di correre la stessa avventura”. (FP)

    asianews.it

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    TESTIMONI CREDIBILI DI CRISTO, TESTIMONI FEDELI DEL MISTERO EUCARISTICO IN OGNI COMUNITA’ CRISTIANA, IN UN TEMPO CHE SMARRISCE LE SUE RADICI: COSI’ IL PAPA NELLA LETTERA AI SACERDOTI PER IL GIOVEDI’ SANTO,SCRITTA DURANTE LA DEGENZA AL GEMELLI

    - Servizio di Alessandro De Carolis -



    Per il sacerdote, la celebrazione dell’Eucaristia non è solo una “formula consacratoria”, ma deve essere una “formula di vita”. E’ l’affermazione di partenza della 24.ma Lettera che Giovanni Paolo II ha scritto ai sacerdoti per il Giovedì Santo, durante la sua convalescenza al Policlinico Gemelli. La riflessione del Pontefice scaturisce in un momento particolare di patimenti fisici quando, scrive il Papa stesso, “ammalato tra gli ammalati” unisco “nell’Eucaristia la mia sofferenza a quella di Cristo”. Il documento è stato presentato questa mattina in Sala Stampa vaticana dai vertici dalla Congregazione per il Clero, guidati dal cardinale Darío Castrillón Hoyos. Il servizio di Alessandro de Carolis.



    **********

    Un uomo grato a Dio, donato alla gente che serve, che annuncia la salvezza di Cristo con ardore missionario, che vive nella memoria del mistero che celebra ed ha coscienza della sacralità della sua vocazione, costantemente proteso verso Cristo e verso Maria “Donna eucaristica”. Sei angolazioni da cui guardare il ministero del sacerdote, oggi. Nella sua Lettera per il Giovedì Santo, il Papa ritorna sul concetto di sacerdote come alter Christus. Anzitutto, osserva, in un uomo consacrato a Dio nel ministero dell’Ordine deve trovare spazio “un animo costantemente grato”, sia per il dono della fede che per quello della specifica vocazione. Come Cristo, anche il sacerdote deve sapersi donare “con verità e generosità” alla sua comunità e nell’obbedienza al suo vescovo. Un punto, questo, che il cardinale Castrillón Hoyos ha sottolineato durante la conferenza stampa:



    “Si tratta di una donazione della nostra autonomia, anche di quella legittima, di una donazione contro la quale si ribella la cultura attuale che pretende la autorealizzazione della ragione svincolata da ogni limite. Perché l’obbedienza è anche umiltà della intelligenza”.



    L’essere “annunciatori privilegiati” del mistero della salvezza, scrive Giovanni Paolo II, comporta inoltre per i sacerdoti una risposta che ha per misura la vetta della “santità” e lo sprone dell’“ardore missionario”. Così come ripetere ogni giorno le parole del “memoriale” li rende “uomini del ricordo fedele di Cristo”, specialmente – rileva il Papa – “in un tempo in cui i rapidi cambiamenti culturali e sociali allentano il senso della tradizione ed espongono specialmente le nuove generazioni al rischio di smarrire il rapporto con le proprie radici”. Ma il sacerdote non è solo un celebrante del mistero, ne è anche “custode”: l’Eucaristia, dunque, rende “sacra” l’esistenza di un ministro di Dio e tale sacralità, raccomanda il Pontefice, “deve trasparire da tutto il nostro modo di essere, ma innanzitutto di celebrare”, che può risultare un’“esemplare” testimonianza per tante persone e che ha in Maria il modello del “fervore” con cui si debbano celebrare “i santi Misteri”. “Soprattutto nel contesto della nuova evangelizzazione – si legge nella Lettera - ai sacerdoti la gente ha diritto di rivolgersi con la speranza di ‘vedere’ in loro Cristo. Ne sentono il bisogno in particolare i giovani, che Cristo continua a chiamare a sé per farseli amici e per proporre ad alcuni di loro la donazione totale alla causa del Regno”.


    Nel presentare il documento di Giovanni Paolo II, il cardinale Castrillón Hoyos ha posto in risalto la malattia del Pontefice come silenzioso momento di insegnamento e di saggezza. Dalla “sua Croce” di sofferenza, ha detto il porporato, “il Papa addita ad ogni sacerdote l’insondabile dignità, conferitagli dall’Ordinazio_ne, di poter pronunciare le parole della Istituzione del mistero eucaristico in persona Christi, e di ricevere la capacità di trasformare la propria esistenza sacerdotale in un dono radicale per la Chiesa e per l’umanità”.


    Radio Vaticana

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    LA LETTERA
    Il messaggio del Papa per il Giovedì Santo 2005: «L’Anno dell’Eucaristia illumina la nostra spiritualità»

    «Sacerdoti, siete libertà donata a tutti»

    «Coltiviamo un animo sempre grato per i doni della fede e del sacerdozio Vivendo da salvati, saremo annunciatori credibili della salvezza. In una società che cambia, il prete è l’uomo del ricordo fedele di Cristo»

    «La gente, in particolare i giovani, ha il diritto di rivolgersi a noi presbiteri con la speranza di vedere
    Gesù. Non mancheranno le vocazioni se sapremo essere più santi, più gioiosi, più appassionati»


    Pubblichiamo il testo integrale della Lettera del Papa ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2005, diffusa ieri.


    Carissimi sacerdoti!
    1. Particolarmente gradito, nell’Anno dell’Eucaristia, mi torna l’annuale appuntamento spirituale in occasione del Giovedì Santo, il giorno dell’amore di Cristo spinto «fino all’estremo» (cfr Gv 13,1), il giorno dell’Eucaristia, il giorno del nostro sacerdozio.
    Il mio pensiero viene a voi, sacerdoti, mentre trascorro un periodo di cura e di riabilitazione in ospedale, ammalato tra gli ammalati, unendo nell’Eucaristia la mia sofferenza a quella di Cristo. In questo spirito voglio riflettere con voi su qualche aspetto della nostra spiritualità sacerdotale.
    Lo farò lasciandomi guidare dalle parole dell’istituzione eucaristica, quelle che ogni giorno pronunciamo in persona Christi, per rendere presente sui nostri altari il sacrificio compiuto una volta per tutte sul Calvario. Da queste parole emergono indicazioni luminose di spiritualità sacerdotale: se tutta la Chiesa vive dell’Eucaristia, l’esistenza sacerdotale deve avere a speciale titolo una «forma eucaristica». Le parole dell’istituzione dell’Eucaristia devono perciò essere per noi non soltanto una formula consacratoria, ma una «formula di vita».

    Un’esistenza profondamente «grata»
    2. «Tibi gratias agens benedixit...». In ogni Santa Messa ricordiamo e riviviamo il primo sentimento espresso da Gesù nell’atto di spezzare il pane: quello del rendimento di grazie. La riconoscenza è l’atteggiamento che sta alla base del nome stesso di «Eucaristia». Dentro quest’espressione di gratitudine confluisce tutta la spiritualità biblica della lode per i mirabilia Dei. Dio ci ama, ci precede con la sua Provvidenza, ci accompagna con continui interventi di salvezza.
    Nell’Eucaristia Gesù ringrazia il Padre con noi e per noi. Come potrebbe questo rendimento di grazie di Gesù non plasmare la vita del sacerdote? Egli sa di dover coltivare un animo costantemente grato per i tanti do ni ricevuti nel corso della sua esistenza: in particolare, per il dono della fede, della quale è diventato annunciatore, e per quello del sacerdozio, che lo consacra interamente al servizio del Regno di Dio. Abbiamo le nostre croci – e certo non siamo i soli ad averne! – ma i doni ricevuti sono così grandi che non possiamo non cantare dal profondo del cuore il nostro Magnificat.

    Un’esistenza «donata»
    3. «Accipite et manducate... Accipite et bibite...». L’auto-donazione di Cristo, che ha la sua scaturigine nella vita trinitaria del Dio-Amore, raggiunge la sua espressione più alta nel sacrificio della Croce, di cui l’Ultima Cena è l’anticipazione sacramentale. Non è possibile ripetere le parole della consacrazione senza sentirsi coinvolti in questo movimento spirituale. In certo senso, è anche di sé che il sacerdote deve imparare a dire, con verità e generosità: «prendete e mangiate». La sua vita, infatti, ha senso se egli sa farsi dono, mettendosi a disposizione della comunità e a servizio di chiunque sia nel bisogno.
    Questo, appunto, Gesù si aspettava dai suoi Apostoli, come l’evangelista Giovanni sottolinea raccontando della lavanda dei piedi. Questo anche il Popolo di Dio si attende dal sacerdote. A ben riflettere, l’obbedienza a cui egli si è impegnato nel giorno dell’Ordinazione, e la cui promessa è invitato a ribadire nella Messa crismale, prende luce da questo rapporto con l’Eucaristia. Obbedendo per amore, rinunciando magari a legittimi spazi di libertà quando si tratta di aderire all’autorevole discernimento dei Vescovi, il sacerdote attua nella propria carne quel «prendete e mangiate» con cui Cristo, nell’Ultima Cena, affidò se stesso alla Chiesa.

    Un’esistenza «salvata» per salvare
    4. «Hoc est enim corpus meum quod pro vobis tradetur». Il corpo e il sangue di Cristo sono dati per la salvezza dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. È una salvezza integrale e al tempo stesso universale, perché non c’è uomo che, a meno di un l ibero atto di rifiuto, sia escluso dalla potenza salvifica del sangue di Cristo: «qui pro vobis et pro multis effundetur». Si tratta di un sacrificio offerto per «molti», come recita il testo biblico (Mc 14,24; Mt 26,28; cfr Is 53, 11-12) con una tipica espressione semitica che, mentre indica la moltitudine raggiunta dalla salvezza operata dall’unico Cristo, implica al tempo stesso la totalità degli esseri umani ai quali essa è offerta: è sangue «versato per voi e per tutti», come in alcune traduzioni legittimamente si esplicita. La carne di Cristo è infatti data «per la vita del mondo» (Gv 6,51; cfr 1 Gv 2,2).
    Ripetendo nel silenzio raccolto dell’assemblea liturgica le parole venerande di Cristo, noi sacerdoti diveniamo annunciatori privilegiati di questo mistero di salvezza. Ma come esserlo efficacemente, senza sentirci noi stessi salvati? Noi per primi siamo raggiunti nell’intimo dalla grazia che, sollevandoci dalle nostre fragilità, ci fa gridare «Abba, Padre» con la confidenza propria dei figli (cfr Gal 4,6; Rm 8,15). E questo ci impegna a progredire nel cammino di perfezione. La santità, infatti, è l’espressione piena della salvezza. Solo vivendo da salvati, diveniamo annunciatori credibili della salvezza. D’altra parte, prendere ogni volta coscienza della volontà di Cristo di offrire a tutti la salvezza non può non ravvivare nel nostro animo l’ardore missionario, spronando ciascuno di noi a farsi «tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

    Un’esistenza «memore»
    5. «Hoc facite in meam commemorationem». Queste parole di Gesù ci sono state conservate, oltre che da Luca (22,19), anche da Paolo (1 Cor 11,24). Il contesto nel quale sono state pronunciate – è bene tenerlo presente – è quello della cena pasquale, che per gli ebrei era appunto un «memoriale» (zikkarôn, in ebraico). In quella circostanza gli israeliti rivivevano innanzitutto l’Esodo, ma con esso anche gli altri eventi importanti della loro storia: la vocazione di Abra mo, il sacrificio di Isacco, l’alleanza del Sinai, i tanti interventi di Dio in difesa del suo popolo. Anche per i cristiani l’Eucaristia è «memoriale», ma lo è in una misura unica: non ricorda soltanto, ma attualizza sacramentalmente la morte e la risurrezione del Signore.
    Vorrei inoltre sottolineare che Gesù ha detto: «Fate questo in memoria di me». L’Eucaristia dunque non ricorda semplicemente un fatto: ricorda Lui! Per il sacerdote ripetere ogni giorno, in persona Christi, le parole del «memoriale» costituisce un invito a sviluppare una «spiritualità della memoria». In un tempo in cui i rapidi cambiamenti culturali e sociali allentano il senso della tradizione ed espongono specialmente le nuove generazioni al rischio di smarrire il rapporto con le proprie radici, il sacerdote è chiamato ad essere, nella comunità a lui affidata, l’uomo del ricordo fedele di Cristo e di tutto il suo mistero: la sua prefigurazione nell’Antico Testamento, la sua attuazione nel Nuovo, il suo progressivo approfondimento, sotto la guida dello Spirito, secondo l’esplicita promessa: «Egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26).

    Un’esistenza «consacrata»
    6. «Mysterium fidei!». Con questa esclamazione il sacerdote esprime, dopo ogni consacrazione del pane e del vino, lo stupore sempre rinnovato per lo straordinario prodigio che si è compiuto tra le sue mani. È un prodigio che solo gli occhi della fede possono percepire. Gli elementi naturali non perdono le loro esterne caratteristiche, giacché le «specie» restano quelle del pane e del vino; ma la loro «sostanza», per la potenza della parola di Cristo e dell’azione dello Spirito Santo, si converte nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Sull’altare è così presente «veramente, realmente, sostanzialmente» il Cristo morto e risorto nell’interezza della sua umanità e divinità. Realtà eminentemente sacra, dunque! Per questo la Chiesa circonda di tanta riverenza questo Mistero, e attent amente vigila perché siano osservate le norme liturgiche poste a tutela della santità di così grande Sacramento.
    Noi sacerdoti siamo i celebranti, ma anche i custodi di questo sacrosanto Mistero. Dal nostro rapporto con l’Eucaristia trae il suo senso più esigente anche la condizione «sacra» della nostra vita. Essa deve trasparire da tutto il nostro modo di essere, ma innanzitutto dal modo stesso di celebrare. Mettiamoci per questo alla scuola dei Santi! L’Anno dell’Eucaristia ci invita a riscoprire i Santi che hanno testimoniato con particolare vigore la devozione all’Eucaristia (cfr Mane nobiscum Domine, 31). Tanti sacerdoti beatificati e canonizzati hanno dato, in questo, una testimonianza esemplare, suscitando fervore nei fedeli presenti alle loro Messe. Tanti si sono distinti per la prolungata adorazione eucaristica. Stare davanti a Gesù Eucaristia, approfittare, in certo senso, delle nostre «solitudini» per riempirle di questa Presenza, significa dare alla nostra consacrazione tutto il calore dell’intimità con Cristo, da cui prende gioia e senso la nostra vita.

    Un’esistenza protesa verso Cristo
    7. «Mortem tuam annuntiamus, Domine, et tuam resurrectionem confitemur, donec venias». Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, la memoria di Cristo nel suo mistero pasquale si fa desiderio dell’incontro pieno e definitivo con Lui. Noi viviamo nell’attesa della sua venuta! Nella spiritualità sacerdotale questa tensione deve essere vissuta nella forma propria della carità pastorale, che ci impegna a vivere in mezzo al Popolo di Dio, per orientarne il cammino ed alimentarne la speranza. È un compito, questo, che richiede dal sacerdote un atteggiamento interiore simile a quello che l’apostolo Paolo viveva in se stesso: «Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta...» (Fil 3,13-14). Il sacerdote è uno che, nonostante il passare degli anni, continua ad irradiare giovinezza, quasi «contagiando» di essa le persone che incontra sul suo cammin o. Il suo segreto sta nella «passione» che egli vive per Cristo. San Paolo diceva: «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21).
    Soprattutto nel contesto della nuova evangelizzazione, ai sacerdoti la gente ha diritto di rivolgersi con la speranza di «vedere» in loro Cristo (cfr Gv 12,21). Ne sentono il bisogno in particolare i giovani, che Cristo continua a chiamare a sé per farseli amici e per proporre ad alcuni di loro la donazione totale alla causa del Regno. Non mancheranno certo le vocazioni, se si eleverà il tono della nostra vita sacerdotale, se saremo più santi, più gioiosi, più appassionati nell’esercizio del nostro ministero. Un sacerdote «conquistato» da Cristo (cfr Fil 3,12) più facilmente «conquista» altri alla decisione di correre la stessa avventura.

    Un’esistenza «eucaristica» alla scuola di Maria
    8. Il rapporto della Vergine Santa con l’Eucaristia è molto stretto, come ho ricordato nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia (cfr nn. 53-58). Pur nella sobrietà del linguaggio liturgico, ogni Preghiera eucaristica lo sottolinea. Così nel Canone romano diciamo: «In comunione con tutta la Chiesa, ricordiamo e veneriamo anzitutto la gloriosa e sempre vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo». Nelle altre Preghiere eucaristiche, poi, la venerazione si fa implorazione, come, ad esempio, nell’Anafora seconda: «Donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la Beata Maria, Vergine e Madre di Dio».
    Insistendo, in questi anni, specie nella Novo millennio ineunte (cfr nn. 23 ss.) e nella Rosarium Virginis Mariae (cfr nn. 9 ss.), sulla contemplazione del volto di Cristo, ho additato Maria come la grande maestra. Nell’Enciclica sull’Eucaristia l’ho poi presentata come «Donna eucaristica» (cfr n. 53). Chi più di Maria può farci gustare la grandezza del mistero eucaristico? Nessuno come Lei può insegnarci con quale fervore si debbano celebrare i santi Misteri e ci si debba intrattenere in compagnia del suo Figlio nascosto sotto i veli eucaris tici. La imploro, dunque, per tutti voi, Le affido specialmente i più anziani, gli ammalati, quanti si trovano in difficoltà. In questa Pasqua dell’Anno dell’Eucaristia mi piace riecheggiare per ciascuno di voi la dolce e rassicurante parola di Gesù: «Ecco tua Madre» (Gv 19,27).
    Con questi sentimenti, di cuore tutti vi benedico, augurandovi un’intensa gioia pasquale.


    Avvenire - 19 Marzo 2005

 

 

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