I DUE CORPI DEL PAPA
di SERGIO LUZZATTO
Chissà se il giovane «fotografo di un'agenzia milanese» il quale, stando al Corriere di ieri, si è travestito con un camice bianco e ha cercato di giungere fino al capezzale del Papa, chissà se il baldo giovanotto ha mai sentito parlare del professor Riccardo Galeazzi Lisi. Forse, l'intraprendente reporter nulla sa delle drammatiche circostanze dell'autunno 1958, quando il corpo di un papa agonizzante - Pio XII - entrò di prepotenza nella storia moderna dei media. Con l’archiatra pontificio che vende ai rotocalchi immagini e parole dell’agonia e il mondo sbigottito che scopre in diretta come il corpo del Papa rischi di essere, da ultimo, un corpo come gli altri.
Quasi mezzo secolo è trascorso da allora: ma a dispetto di quella memorabile agnizione, il corpo del Papa continua ad apparire allo sguardo dei credenti come diverso dagli altri, un corpo speciale. Difficile, anche da laici, stupirsene. Se pure, secondo le parole di San Paolo, tutti i cristiani sono membri del corpo di Cristo, il Pontefice lo è più di chiunque altro, in quanto immagine vivente di Cristo in terra. E’ questo lo straordinario privilegio della sua condizione ed è anche la sua ineludibile difficoltà. Perché il corpo del vicario di Cristo è chiamato a rendere testimonianza delle due nature di Gesù Nazareno: quella umana e quella divina. Umano, il corpo del Papa non può essere che fragile, mortale, deperibile. Divino, il corpo del Papa dev’essere forte, immortale, immarcescibile.
Da ottocento anni in qua, dai tempi di Innocenzo III ai tempi di Giovanni Paolo II, la Chiesa di Roma e la comunità dei credenti chiedono al Vicario di Cristo di vincere questa scommessa: gli chiedono di avere, insieme, un corpo umano e un corpo sovrumano. Né bisogna pensare che soltanto in anni recenti la scienza sia intervenuta, con tutta la forza dei suoi strumenti diagnostici e terapeutici, per garantire al Papa sano un massimo di benessere e al Papa malato un massimo di cure. Durante il breve pontificato di Bonifacio VIII, dal 1294 al 1303, ben sette medici si avvicendarono nel ruolo di archiatri pontifici. Intanto, una schiera di chierici e di trattatisti si preoccupava di teorizzare e di praticare a beneficio del Papa un insieme di gesti intesi alla recreatio corporis (già nel Medioevo i pontefici andavano in villeggiatura!), alla cura corporis (i medici del Papa erano immancabilmente i più famosi di Roma), alla prolungatio vitae (ancora nel Cinquecento, si trovavano dottori pronti a raccomandare ai Papi tre o quattro diversi elisir di lunga vita...).
Quando pure si voglia riconoscere che l’infermo del Gemelli partecipa di una storia lunghissima, si deve comunque ammettere che la scommessa di Karol Wojtyla sui due corpi del Papa è stata qualcosa di unico nel suo genere. In effetti, questo Papa non si è limitato a presentarsi - nel modo già «televisivo» di un Pio XII - come l’immagine vivente di Cristo sulla Terra. Piuttosto che semplicemente vivo o suggestivamente ieratico, Giovanni Paolo II ha voluto apparire, finché le forze glielo hanno consentito, vitale di una vitalità giovanile, prorompente, incontenibile. Mai nella storia della Chiesa si era investito altrettanto sul potenziale carismatico del corpo di un Papa. Se lo sfortunato predecessore di Wojtyla, Albino Luciani, si era contentato di esibire la dolcezza del proprio sorriso («Ha sorriso solo trentatré giorni» recitava il titolo postumo del Corriere della Sera ), il Papa polacco non ha esitato a parlare un linguaggio corporale fatto di una bellezza da attore e di una prestanza da atleta: fino a offrire lo spettacolo di un Vicario di Cristo canoista, nuotatore, sciatore.
Dentro la favola di un Papa superomistico prima che sovrumano, la pallottola dell’attentatore turco era penetrata tuttavia già nel 1981, con la forza di un atto - criminale o politico che fosse - che segnava in un orizzonte profano l’irruzione del sacro. Agli occhi di molti credenti, fu il dito di Dio a muovere i ferri dei chirurghi in quella prima, febbrile operazione al Gemelli. Nel momento stesso in cui un colpo di pistola riconsegnava il corpo umano del Papa alla sua terrena fragilità, l’intervento salvifico della Provvidenza pareva attestarne l’ultraterrena potenza. Più tardi, lo stesso Giovanni Paolo II avrebbe suggerito un nesso tra l’esito felice del decorso post-operatorio e il divino mistero del segreto di Fatima.
In una prospettiva cristiana, la sequela di malattie che hanno poi bersagliato Papa Wojtyla non ha fatto che confermare la sacralità del suo corpo specialissimo. Secondo la logica più necessaria dell’ Imitatio Christi , sul Vicario sono andate iscrivendosi - mutate soltanto nella forma - le piaghe del Figlio. Dopodiché, quanto è sembrato rendere soprattutto notevole questa rinnovata Passione è stata la maniera in cui Giovanni Paolo II ha deciso di viverla nell’età della comunicazione totale: senza nasconderne nulla, anzi assumendola sino in fondo come uno spettacolo sacro. Ma, a ben vedere, anche in questo - nella scelta di esibire urbi et orbi la mortificazione della sua propria carne - il Papa polacco è stato erede di una lunghissima tradizione. Raccontano gli studiosi del Medioevo come sofisticati rituali (l’imposizione di ceneri sul corpo del Papa, l’accensione al suo cospetto di fascetti di stoppa) ricordassero al Pontefice quanto il suo potere fosse transitorio e il suo corpo caduco. L’autoumiliazione che Papa Wojtyla si infligge ogni giorno davanti alle telecamere racconta coraggiosamente una storia vecchia di mille anni.
Un significato ulteriore di questa sacra rappresentazione va riconosciuto - con inevitabile anticipo sui tempi della vita - nell’ambito storico delle esperienze di santità. Se mai, presto o tardi dopo la sua scomparsa, Papa Wojtyla verrà elevato agli altari, non lo sarà probabilmente nella maniera di un Padre Pio, per avere «fatto il miracolo». Il suo carisma non è del genere taumaturgico. Ai cattolici la santità del Papa polacco apparirà forse evidente nella maniera cosiddetta delle «virtù eroiche»: per la forza e per la dignità con cui avrà vissuto il suo quotidiano martirio. In questi giorni al Gemelli, e da anni in Vaticano, Papa Wojtyla agisce e patisce come un futuro San Carlo.
Non c’è bisogno di sentirsi cristiani per restare colpiti da una frase di Giovanni Paolo II, che ha spiegato di non avere scelta nel sopravvivere alle proprie piaghe, perché non è dato di «dimettersi da Papa». Né c’è bisogno di credere nella natura cristica del Pontefice per guardare affascinati allo spettacolo della scommessa ancora una volta rilanciata, secondo cui ogni corpo di Papa partecipa insieme dell’umano e del divino. Quantunque malato, o malatissimo, un Papa non può dimettersi per la semplice ragione che il suo corpo non è suo. Nel privilegio di un Papa sta anche la condanna: le membra piagate di Karol Wojtyla non appartengono a lui, ma alla Chiesa universale.
Sergio Luzzatto
Corriere della Sera - 4 febbraio 2005