La notte dolorosa dell' «Atleta di Dio»

di VITTORIO MESSORI

Mi accompagna, da ieri, uno strano pensiero: che mi avverrebbe, cioè, se mi fosse dato di condividere la pena - e, insieme, di godere il privilegio - di coloro che vegliano le notti del Papa, nella sua stanza di malato all'ultimo piano dell'ospedale voluto dal tempestoso convertito, fra' Agostino Gemelli? Una seggiola in un angolo in penombra, null'altro impegno se non quello di starmene quieto, meditando in silenzio, lasciando ad altri, ovviamente, incombenze che non mi competono. Soffrire la pena, dico, di una simile situazione.

Non c’è, non può esserci sospetto di retorica, nel confermare che, per il cattolico, quest’uomo è ciò che il suo nome indica, pàpas . Dunque, ancora più che «padre»: un affettuoso, tenero «babbo», «paparino». Come non patire, allora, alla vista del corpo paterno piegato da un male che da anni, giorno dopo giorno, avanza implacabile, fissando nella rigidità le membra e il volto che abbiamo amati nel vigore della maturità, quando il mondo - sorpreso e affascinato - parlava di «atleta di Dio»? La forza dell’annuncio evangelico si univa alla forza dell’annunciatore, formando un’unione che avrebbe - tra l’altro - contribuito a incrinare e poi a far rovinare l’immensa prigione di cui egli stesso aveva conosciuto le sbarre, quel regime che proclamava l’inesistenza di Dio e che sembrava di un acciaio imperforabile. Alla fin troppo nota, beffarda domanda di Stalin sul numero e l’armamento delle «divisioni del Papa», questo successore di Pietro diede la più definitiva delle risposte.

Ho io stesso un ricordo diretto dell’energia anche fisica di questo prete singolare, cui la nomina a vescovo fu comunicata mentre era impegnato in rudi gare di canoa nei torrenti dei monti Tatra. Un ricordo di tredici anni fa, quando il Parkinson non si era ancora manifestato e i postumi delle pallottole di Ali Agca sembravano ormai superati. In un salone di Castelgandolfo, accanto alla porticina che, dallo sfarzo barocco, dava accesso a un mondo impensato - l’abitazione privata, una sorta di modesto alloggio polacco, con le suore in grembiule ai fornelli e un anziano cameriere in giacca bianca - accanto a quella porticina, dunque, vegliata dalla Guardia Svizzera, un segretario in talare e fascia rossa mi sussurrò che Sua Santità avrebbe tardato qualche minuto per il pranzo cui aveva voluto invitarmi. Seppi poi che quel piccolo ritardo era dovuto al fatto che Giovanni Paolo II si era trattenuto un po’ di più, per dare qualche altra bracciata vigorosa, nella piscina che - con una primizia storica, che scandalizzò qualche timorato - aveva voluto accanto alla villa estiva dei Pontefici. A tavola, poi, mi colpì, e mi mise allegria, il buon appetito di quel singolare padrone di casa: poche vivande e semplici, ma mangiate con il gusto evidente dell’uomo sano ed attivo. E se, nei piatti, la quantità del cibo era modesta, ciò non era per inappetenza ma per temperanza cristiana.

Frammenti di ricordi che, ne sono certo, mi pungolerebbero e mi darebbero malinconia e dolore se - dalla mia sedia - mi fosse dato di vegliare la notte dolorosa dell’atleta che il morbo ha trasformato in un tronco piegato e sempre più irrigidito. Ma, accanto alla pena, sarei consapevole della concessione di un privilegio: un’occasione unica di riflessione; quasi un corso - drammaticamente condensato - di esercizi spirituali. In quel mio angolo appartato, avrei incombente, quasi palpabile, il senso del mistero. Quel mistero che ogni papa rappresenta. Come gli ricordai nella prima delle domande che egli stesso mi chiese di rivolgergli, davanti a lui - come, nei secoli, davanti a ciascun uomo vestito di bianco e che si proclama, ed è creduto, «Vicario in terra di Gesù Cristo» - occorre scegliere. O la persona che avanza una simile pretesa è davvero l’enigmatica testimonianza vivente del Creatore stesso dell’universo; oppure è il maggior responsabile di una illusione millenaria che duemila anni di persistenza hanno reso tanto più grottesca ed alienante.
Chi è, davvero, colui il cui respiro difficoltoso si leva da quel letto di ospedale? Conosco, conosco sino in fondo le ragioni del rifiuto, dell’incredulità, dell’agnosticismo: quelle ragioni (che non è lecito sottovalutare, che sembrano volute dal Dio stesso che ama rivelarsi nel chiaroscuro per salvare la nostra libertà di rifiutarLo) furono anche le mie, furono quelle della mia giovinezza. Ma da tanto tempo, e non per mio merito, un’evidenza irrefutabile ha squarciato la coltre di un dubbio che pur mi pareva impenetrabile. Non esito dunque: quell’ottuagenario che pena tra le lenzuola è in rapporto tanto misterioso quanto diretto con il Dio qui fecit coelum et terram . Quell’uomo che trae il respiro a fatica adempie per i suoi fedeli, oggi, al compito che fu affidato dal Messia risorto all’ebreo Simon Pietro, sulle rive del lago di Tiberiade: «Pasci le mie pecore». Quest’uomo è il garante di una verità che pretende di gettare in faccia cose paradossali, assurde, per coloro che vogliono restare nell’ambito della ragione della modernità. Autentici scandali, a cominciare da quell’eucaristia che, con l’uso di alcune antiche parole, dice di trasformare il pane e il vino nientemeno che nella carne e nel sangue di un Crocifisso a Gerusalemme, venti secoli or sono. A pensarci appena un poco, ecco la vertigine, il brivido, ecco il sacro spavento che non avvertiamo più, troppo spesso, occupandoci di Vaticano come istituzione di potere, giudicando le ricadute politiche delle sue scelte, guardando a colui che ne è al vertice come a un grande fra i grandi della terra. Forse perché ci obbligherebbe a prendere posizione, a scegliere, a scommettere, abbiamo rimosso l’enigma provocatorio che ogni papa incarna. E che anche Giovanni Paolo II rappresenta.
Soffrendo della sua sofferenza, avvertirei al contempo la seduzione e il disagio («Terribile è questo Mistero», grida la Scrittura stessa) di ciò che circonda quel letto di un ospedale romano. Ciò che gli occhi del corpo non vedono ma che, pur nella caligine che ci assedia, scorgono gli occhi della fede: angeli, arcangeli, cherubini, serafini, troni e dominazioni e poi il corteo trionfante dei santi e la gloria di Maria regina e infine quel Cristo stesso che regna nel fulgore dei Cieli e al contempo continua la sua passione nel patire di quel vecchio malato, che un giorno accoglierà con il suo «vieni, servo buono e fedele...», dandogli premio eterno per averlo rappresentato tra gli uomini. Dalla penombra della mia sedia, mi chiederei come spalle di mortale possano reggere una simile consapevolezza, quale forza sia infusa a chi è chiamato a questo ministero - sconvolgente ben più che desiderabile - che non ha pari sulla terra.
Ovunque, in ogni religione, gli «uomini di Dio» non sono che mediatori, annunciatori, maestri, giudici, testimoni dell’Eterno. Solo nel cristianesimo - anzi, solo nella sua versione cattolica - un uomo, il Papa, rappresenta, in qualche modo rende visibile, il Figlio stesso di Dio che cammina nella storia. Comprenderei bene, in quella stanza del Gemelli, perché la Chiesa faccia obbligo a ogni suo sacerdote, anzi a ogni suo fedele, di orare cotidie pro Pontifice nostro . Pregare perché sappia reggere, innanzitutto, un peso umanamente intollerabile. Ora, forse, quel peso è alleviato a Giovanni Paolo II: dirlo può sembrare sorprendente, ma non lo è nella prospettiva di fede. Karol Wojtyla, così vecchio e malato, è chiamato a testimoniare innanzitutto con la sofferenza che lo accomuna al suo Capo, il Cristo. Il Papa sulla croce rinvia a Gesù stesso, purché - come fa - accetti con coraggio, umiltà, rassegnazione di bere quel calice amaro che, nel Getsemani, atterrì Gesù stesso. Il Pontefice che ha scritto più encicliche e pronunciato più discorsi, è ormai quasi inabile a scrivere e parlare, ma sembra pronunciare proprio adesso la sua omelia più convincente: quella che scaturisce dal dolore cristianamente assunto e, dunque, trasfigurato. Su tutto questo, grato, rifletterei se, per un caso impensabile, vegliassi accanto a quel letto romano.


Corriere della Sera - 03 febbraio 2005