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Discussione: Legittima Difesa

  1. #1
    Con l'Iraq che si ribella
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    Predefinito Legittima Difesa

    Ieri a Roma c'è stata l'assemblea fondativa di Legittima Difesa, alla quale hanno partecipato un centinaio di compagni...

    Il Direttivo Nazionale è stato eletto e durerà fino al 1° congresso nazionale.
    Moreno Pasquinelli è stato eletto coordinatore nazionale.

    Allego il documento conclusivo...
    Skarm
    Alle europee io voto Codacons...e tu?

  2. #2
    Con l'Iraq che si ribella
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    LEGITTIMA DIFESA

    Documento conclusivo dell’assemblea fondativa



    L’assemblea fondativa, tenutasi a Roma il 30 gennaio 2005, decide la formale costituzione del movimento antiamericanista che assume la denominazione di Legittima Difesa.



    E’ giunto infatti il momento di costruire fattivamente l’opposizione al totalitarismo americano, è ora di cominciare a raccogliere ed organizzazione tutti coloro che intendono resistere al progetto di dominio planetario degli USA.

    La nostra opposizione all’americanismo sarà politica, culturale, ideale, etica e morale.

    Nominare il più grande nemico dell’umanità, dichiarare apertamente la necessità di combatterlo, ricercare l’unità con tutte le forze che nel mondo hanno questa stessa priorità, è il passo necessario per cominciare a contrastare il processo di americanizzazione della società italiana ed europea.



    Legittima Difesa nasce per rispondere all’esigenza di un nuovo movimento politico indipendente ed antagonista al sistema bipolare ed alla gabbia del “politicamente corretto” costruita dal partito americanista trasversale che domina la politica italiana.

    Il nostro antiamericanismo si connette immediatamente all’anticapitalismo, individuando nel modello capitalistico americano la forma vincente, più forte e quindi più pericolosa dell’imperialismo contemporaneo, così come ci parla direttamente della necessità di fare pulizia di un intero ceto politico, servile ed americanizzato, ormai insopportabile come i suoi privilegi.



    Contro il mondo pazzesco e inumano del trionfo della disuguaglianza, dell’arbitrio del più forte, del dominio delle oligarchie finanziarie, di una libertà cancellata dall’imposizione del nuovo diritto imperiale, di una democrazia sempre più virtuale, noi poniamo l’obiettivo di un nuovo universalismo democratico e popolare basato sui principi di libertà, fratellanza e uguaglianza, in termini sostanziali e non meramente formali



    L’assemblea assume come fondativi del movimento i documenti che hanno scandito i momenti più significativi della fase costituente, di fatto apertasi con il convegno del 25 maggio 2003 a Firenze, e cioè:
    1. Bozza di manifesto per un movimento di resistenza all’impero americano – giugno 2003;
    2. Un altro mondo è impossibile, è questo che vogliamo liberare – agosto 2003;
    3. Una forza popolare di liberazione – febbraio 2004;
    4. Rompendo gli indugi – novembre 2004.


    L’assemblea approva, nelle sue linee generali, la relazione introduttiva del compagno Moreno Pasquinelli e da inizio al lavoro di costruzione concreta del movimento, che si strutturerà per Comitati locali concepiti come strumenti per l’avvio immediato dell’attività politica e culturale.

    Ogni Comitato locale è chiamato a strutturarsi e, all’interno degli orientamenti generali del movimento, a dotarsi di un programma di azione che tenga conto delle specificità delle varie realtà territoriali.

    L’adesione a Legittima Difesa avverrà attraverso l’iscrizione ad un Comitato locale.

    Il direttivo nazionale avrà il compito di curare la campagna di tesseramento e la costruzione dei Comitati locali, ognuno dei quali – all’atto della sua costituzione – eleggerà un responsabile.

    Il direttivo nazionale, eletto insieme al coordinatore al termine dei lavori dell’assemblea fondativa, svolgerà le sue funzioni durante tutta la fase di formazione delle strutture del movimento e cioè fino al 1° congresso, da tenersi entro la fine dell’anno.

    Il direttivo nazionale è incaricato di:

    1. Approfondire l’elaborazione al fine di arrivare al 1° congresso con un documento politico a tesi.

    2. Proporre e sviluppare le iniziative politiche di carattere nazionale.

    3. Seguire e stimolare la nascita dei Comitati di Legittima Difesa.

    4. Sviluppare il confronto con tutte le realtà, nazionali e locali, interessate alla discussione sul progetto antiamericanista.

    5. Redigere una bozza di Statuto da mettere in discussione al congresso

    L’assemblea ritiene indispensabile che il movimento si doti, oltre che di un sito internet, di un foglio di agitazione politica, la cui redazione viene provvisoriamente affidata ai Comitati dell’Umbria.

    Sappiamo che ci attende un percorso in salita. Ma le lunghe marce iniziano sempre con un primo passo. Lo compiamo con la convinzione della sua assoluta necessità e improrogabilità.

    Roma – 30 gennaio 2005

    Approvato per acclamazione
    Alle europee io voto Codacons...e tu?

  3. #3
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    BOZZA DI MANIFESTO PER UN MOVIMENTO DI RESISTENZA ALL’IMPERO AMERICANO



    1. “Gli imperi non hanno bisogno di funzionare all’interno di un sistema giuridico internazionale. Essi hanno l’ambizione di essere loro stessi il sistema giuridico internazionale”.

    In questo modo si esprime Henry Kissinger nel suo libro del 1994 Diplomazia. Con il trasparente cinismo che possono avere solo i pensatori “imperiali” egli pone con chiarezza i termini fondamentali della questione, e cioè che siamo di fronte alla fine di ogni sistema giuridico internazionale e siamo già dentro una situazione a tutti gli effetti “imperiale”.

    Oggi l’impero è quello degli Stati Uniti d’America, al di là dei giudizi che si possono dare sulla forza o sulla debolezza in prospettiva del loro sistema economico propriamente detto, costruito appositamente per “drenare” denaro, forza-lavoro generica e specializzata e capitali da tutto il resto del mondo all’interno di uno strutturale deficit della bilancia dei pagamenti. In presenza di un impero, la cui esistenza non è più seriamente negata da nessuno, la coscienza del mondo intero è posta davanti ad una sfida ineludibile: adattarsi, e cioè sottomettersi, oppure opporsi, e cioè resistere.



    2. Chi pone con chiarezza questo dilemma è subito aggredito con un’arma culturale di distruzione di massa, e cioè con l’accusa di “antiamericanismo”. Nello stesso modo, e con ancora maggiore perfidia e virulenza, chi si oppone al sionismo israeliano è infamato con l’accusa di antisemitismo. La violenza contenuta in queste due accuse è fatta apposta per spaventare e disorientare, in particolare tutti coloro che non si orientano in base alla loro coscienza morale e politica, ma in base alle compatibilità editoriali e giornalistiche del cosiddetto “politicamente corretto”. Chi intende resistere all’impero deve prima di tutto resistere a questo ricatto culturale.

    Noi non “odiamo” alcun popolo e nessuna cultura, ed anzi tutta la nostra identità è costruita contro ogni odio di tipo religioso, nazionalista e razzista. Siamo perfettamente consapevoli che la cultura americana contiene anche elementi potenzialmente universalistici. Molti di noi amano la lingua inglese, la letteratura e l’arte cinematografica americana. Pensiamo che il popolo americano, come tutti indistintamente gli altri popoli del mondo, ha il pieno diritto di scegliere le proprie forme di convivenza politica e di espressione culturale. Non siamo “interventisti”. Tocca prima di tutto al popolo americano il compito di modificare gli elementi repressivi ed inaccettabili che la storia americana ha sedimentato negli ultimi tre secoli. In nessun caso possiamo essere identificati con chi respinge aprioristicamente un intero popolo ed un’intera cultura. Sono gli apologeti servili dell’impero americano che hanno l’interesse a dare di noi un’immagine tanto primitiva.

    Noi resistiamo all’americanismo come prodotto di esportazione imperiale esterna, imposto con interventi militari che respingiamo e veicolato da una forma di cultura di massa che non accettiamo. Si tratta di un elementare diritto all’autodifesa che contiene però anche un elemento universalistico. E questo elemento universalistico sta in ciò, che l’esportazione dell’americanismo è una forma di livellamento e di uniformazione forzata del pianeta, mentre la salvaguardia delle differenze politiche, culturali e sociali è il presupposto materiale imprescindibile per rapporti sani e creativi fra gli individui, i popoli e le nazioni del mondo.



    3. Gli intellettuali “organici” all’impero americano stanno inondando il mondo di libri in lingua inglese in cui sostengono che la pax americana è pur sempre meglio del disordine barbarico, ed il sistema giuridico internazionale multipolare è appunto simbolicamente assimilato al disordine barbarico. In questo modo questi intellettuali si rifanno ad una lunghissima tradizione culturale che vede nella formazione degli imperi un “fatto provvidenziale”. Vi è in questo stereotipo una vera e propria serie di luoghi comuni, da Polibio ad Agostino di Ippona.

    Gli intellettuali servili dei nostri proconsolati europei riprendono questo vero e proprio invito alla servitù, ovviamente in nome del “realismo” e della virile presa d’atto dei rapporti di forza diplomatici e soprattutto militari. Noi dovremmo nel prossimo secolo limitarci a fare pressione per un progressivo “incivilimento” ed “addolcimento” dei rozzi conquistatori texani.

    Questa gente da poco parla in nome della cultura, ma non sa neppure che cosa veramente sia la cultura. Non c’è cultura, infatti, senza dignità, autonomia di pensiero e rinuncia al servilismo. A sua volta, l’autonomia della cultura presuppone una base materiale che la renda possibile, e cioè anche e soprattutto un’autonomia economica, politica e di visione del mondo.



    4. Vi è oggi nel mondo una corrente maggioritaria soprattutto nei mezzi di comunicazione di massa che non ritiene che il problema fondamentale sia la resistenza all’impero americano, ma sia invece la contestazione della cosiddetta “globalizzazione” (No Global, New Global, eccetera). Noi riconosciamo il valore morale e politico di queste posizioni, ma riteniamo che esse siano ispirate da una interpretazione debole ed insufficiente dell’attuale situazione internazionale.

    La globalizzazione è oggi una parola d’ordine che viene prescritta autoritariamente, non una situazione irreversibile “oggettiva” che si pretende solo descrivere. Essa si presenta dunque come descrizione (c’è oggi nel mondo una irreversibile globalizzazione dei mercati), ma è in realtà una prescrizione (globalizzatevi e fatelo in fretta, lo vogliate o no!). La globalizzazione sta all’odierno impero americano come il libero scambio stava al vecchio impero britannico. I sostenitori della globalizzazione parlano, a nostro avviso del tutto erroneamente, di un capitalismo transnazionale unificato non più basato su stati potentemente “territorializzati” in senso diplomatico e militare, ma fondato su organismi “globalizzati” ormai deterritorializzati (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, eccetera).

    Questo capitalismo transnazionale unificato e non più territorializzato in stati potentemente armati in realtà non esiste, ed è solo la rappresentazione ideologica che il sistema dominante dà di sé stesso davanti ai propri “dominati”. Non è allora un caso che i gruppi dirigenti dei movimenti detti No Global siano scelti e legittimati per via esclusivamente mediatica, e cioè antidemocratica, e siano sostenuti potentemente da ONG (organizzazioni dette non governative) riccamente finanziate da stati capitalistici ed imperialistici. Al di là della buona volontà di innumerevoli persone in buona fede, si tratta esattamente della “opposizione di sua maestà” che il sistema imperialista odierno vuole. Non a caso l’immagine ideologica imposta dal sistema mediatico del movimento anti-globalizzazione è quella di un movimento che accetta integralmente il capitalismo, dando per scontato che la dissoluzione del comunismo storico novecentesco (1917-1991) segni anche la fine di qualunque anticapitalismo storico praticabile, e che perciò ci si debba limitare alla critica del neoliberismo ed alla riproposizione di fatto di un keynesismo rinnovato.

    Noi non possiamo e non vogliamo accettare questo terreno. Lo diciamo con molta pacatezza, ma anche con ferma determinazione.



    5. Una variante culturale solo apparentemente più radicale del movimento anti-globalizzazione sostiene che siamo in presenza di un Impero, ma questo impero non è più territorializzato e statalizzato, e dunque non coincide per nulla con gli Stati Uniti d’America, ma semplicemente si identifica con l’intero sistema economico capitalistico ormai globalizzato. Sono finiti gli stati nazionali e quelli territoriali, e dunque non esiste neppure più l’imperialismo.

    Questa teorizzazione prende atto del fallimento storico dei progetti delle vecchie classi sociali “rivoluzionarie” e dei sistemi politici del comunismo storico novecentesco, e nello stesso tempo con un’ingiustificata fuga in avanti futurista sostiene che esiste già un nuovo soggetto potenzialmente comunista (le Moltitudini Desideranti e Disobbedienti già in possesso del General Intellect riproduttivo). Si tratta a nostro avviso di una teoria consolatoria unita ad un messianesimo tecnologico. Essa si basa su di una nozione falsa ed inadeguata di capitale, per cui il “capitale” non è (come correttamente pensava Marx) un campo antagonistico di molti distinti capitali in concorrenza appoggiati da stati imperialistici potentemente armati, ma è un unico soggetto che pianifica la propria riproduzione sistemica. Questo modello deve essere criticato perché falso, non scientifico ed in più ispirato da una cattiva filosofia irrazionalistica. Non è dunque sufficiente limitarsi a criticare le sue manifestazioni politiche organizzate. Occorre anche “restaurare” una perduta nozione di capitalismo e di imperialismo.



    6. Molte correnti politiche e culturali nel mondo comprendono bene che i fondamenti teorici della teoria della globalizzazione senza imperialismo (e della sua variante “imperiale” futurista e moltitudinaria) sono fragili ed inadeguati per un vero orientamento strategico di lungo periodo delle forze che si oppongono al capitalismo, all’imperialismo e all’impero americano, ma ritengono poi erroneamente che basti riproporre e rilanciare la vecchia prospettiva “marxista” e “leninista” tradizionale. A nostro avviso questo è un errore, che farà soprattutto perdere molto tempo per la formazione di un credibile movimento politico e culturale contro l’impero americano.

    Queste correnti ammettono l’esistenza dell’imperialismo, e dunque negano correttamente l’esistenza di una globalizzazione senza imperialismo, ma poi identificano semplicemente l’imperialismo con l’esportazione di capitali nel mercato internazionale, con la conseguenza che sono allora “imperialisti”, e quindi nemici allo stesso modo, tutti i paesi capitalistici della carta geografica e del mappamondo, dagli USA alla Germania, dalla Francia al Brasile, dall’Italia alla Grecia, dal Portogallo alla Turchia, eccetera. Niente lotta privilegiata all’impero americano, allora, ma lotta generale di tutti i salariati del mondo contro tutti i capitalisti del mondo.

    Questa posizione, a nostro avviso, è economicistica perché riduce la complessità dei rapporti sociali alla sola pur importante dimensione dei rapporti economici. A questa posizione è estranea la dialettica, a suo tempo studiata con cura da Lenin e da Mao, fra nemici principali e nemici secondari, ed ancora fra aspetti principali ed aspetti secondari delle contraddizioni politiche, culturali, diplomatiche e militari. E’ dunque poco importante che i sostenitori di queste posizioni si richiamino ideologicamente a Marx, a Lenin, a Trotzky, a Mao o a Bordiga, se poi di fatto hanno in comune una concezione teorica in cui c’è una ed una sola contraddizione, quella fra lavoro salariato e capitale, contraddizione “pura” che per Marx non esisteva nelle singole realtà concrete (le formazioni economico sociali), ma solo in un modello astratto generale (il modo di produzione capitalistico).

    Questa posizione economicistica non è in grado di cogliere la differenza qualitativa fra la strategia di dominio mondiale dell’impero americano, contraddizione principale e nemico principale delle classi, dei popoli e delle nazioni del mondo, e le singole realtà minori innegabilmente capitalistiche con aspirazioni “imperialistiche” frustrate. E’ necessario allora incalzare questa posizione teoricamente errata con un dibattito culturale serio, pacato e privo di settarismi e di fanatismi.



    7. Di fronte all’arroganza ed allo strapotere dell’impero americano divenuti palesi nel corso della guerra illegittima di aggressione all’Iraq del 2003, molti ritengono in buona fede e con ottime intenzioni che solo un’Europa forte ed unita in un unico superstato federale possa avere un futuro possibile ruolo. Astrattamente, si tratta di un’idea meritevole di essere presa in considerazione. Concretamente, si tratta di una posizione politica errata per un insieme di ragioni, che compendieremo qui brevemente in soli due punti.

    In primo luogo, le attuali oligarchie politiche e culturali (indifferentemente di “destra” e/o di “sinistra”) che possono accedere concretamente alla direzione dell’Europa non sono per nulla affidabili, perché sono intrise fino al midollo di servilismo e di subordinazione verso gli USA (scambiati per una presunta “identità occidentale”), ed hanno in mente una società totalmente dominata dai cosiddetti “mercati”, e cioè dallo strapotere dispotico del grande capitale finanziario. Le cose potrebbero forse cambiare in futuro, ma non certo con la copertura subalterna offerta oggi da forze ecologiste e “neocomuniste” pienamente integrate.

    In secondo luogo, è bene ricordare che le grandi conquiste normative (diritto al lavoro, pensioni, sanità, scuola, eccetera) frutto delle lotte dei lavoratori europei nel periodo 1945-1980 sono state acquisite nel quadro dello stato nazionale, che è anche per ora il solo quadro in cui le mobilitazioni di massa dei salariati e dei disoccupati possono avere un minimo di efficacia concreta. Non a caso, l’Europa viene oggi utilizzata come un nemico attivo di queste conquiste (livello delle pensioni, età pensionabile, gratuità della sanità di base, garanzie per il lavoro salariato, eccetera). E’ giusto allora difendere ed estendere queste conquiste, nonostante i ricatti della retorica neoliberale della “globalizzazione”, ma questo può avvenire per ora solo a livello nazionale. Livello dunque che va difeso, contro ogni fuga in avanti oligarchica di tipo “federale” o peggio “unitario”.



    8. Vi sono molti che pensano che l’attuale “americanismo”, o se si vuole il profilo culturale complessivo di esportazione dell’impero americano, sia di fatto il culmine ed il coronamento dell’intera tradizione occidentale, e cioè dell’“occidentalismo”. Si tratta di un grave e pericoloso errore di prospettiva. In realtà questo “americanismo” rappresenta un abbandono sostanziale ed un fraintendimento radicale della tradizione occidentale.

    L’ideologia dell’impero americano, e questo in tutte le sue varianti di destra e di sinistra e non solo in quella detta “neoconservatrice”, si basa sull’idea messianico-religiosa di Missione Speciale che Dio avrebbe conferito agli USA da considerare l’unica nazione speciale ed “indispensabile” del mondo. Questa concezione è per molti versi non occidentale, ma post-occidentale, questo sempre di più da quando la presunta civiltà “occidentale” ha condannato Auschwitz ed ha assolto Hiroshima, inaugurando così l’epoca del Bombardamento Legittimo. Si è così (giustamente) condannato lo sterminio ideologico, ma si è anche (ingiustamente) assolto lo sterminio tecnologico anonimo ed impersonale senza preventiva mobilitazione ideologica razzista. Questa disimmetria sta alla base di una civiltà che è ormai postoccidentale nei suoi elementi simbolici fondamentali.

    L’ideologia religiosa della Missione Speciale Imperiale rompe con molte tradizioni integralmente occidentali, prima di tutto con le quattro fondamentali (la tradizione greca classica, la tradizione cristiana autentica, la tradizione illuministica ed infine la tradizione marxista), che convergono sui principi universalistici di eguaglianza, fratellanza e libertà, e per ciò si aprono alle altre civilizzazioni, a cominciare da quella islamica. Non è dunque difficile capire perché l’americanismo le respinge.

    La tradizione della filosofia greca classica si basava sul dialogo razionale, i cui partecipanti non si appellavano ad una missione speciale voluta da un’oscura provvidenza divina, ma portavano argomenti universalistici ed universalizzabili ed ascoltavano le motivazioni critiche di risposta in un contesto democratico. La tradizione autentica del cristianesimo (da Gesù di Nazareth a Francesco di Assisi) si basava sull’amore, sull’eguaglianza e sulla solidarietà, e non certo sul premio divino per la ricchezza ed il successo visti come segnali della benevolenza divina. La tradizione dell’illuminismo, che il grande romanticismo europeo integrò e corresse senza cancellarla, si basava sul razionalismo e sulla consapevolezza della storicità, ed era anch’essa ovviamente ostile ad ogni missione speciale biblicamente autoproclamata. La tradizione marxista, infine, nonostante le terribili deformazioni e le semplificazioni cui fu fatta oggetto, ed al di là della fisiologica pluralità di interpretazioni e di proposte di ricostruzione credibile, è nell’essenziale erede dei caratteri razionalistici, umanistici e soprattutto universalistici delle tre tradizioni precedenti. Le grandi differenze epistemologiche non devono infatti nascondere i comuni caratteri filosofici.

    L’autoinvestitura religiosa della presunta Missione Speciale rompe con queste componenti positive della tradizione occidentale. Non ci stancheremo mai di dirlo e di chiarirlo. Non consegneremo ai bombardieri atomici l’eredità del nostro migliore passato e soprattutto i compiti emancipatori del nostro presente.



    9. Siamo ora, in Occidente, in una fase largamente preliminare della nostra volontà di resistenza all’impero americano. Sappiamo bene che questa prima fase largamente preliminare è ancora una fase di semplice testimonianza. Ma sappiamo anche bene che la semplice testimonianza non costruisce ancora resistenza, organizzazione, progetto e sbocco sociale e politico. Troppo spesso la semplice testimonianza è autoconsolatoria e rifluisce poco dopo essere stata appunto “testimoniata” (il caso del movimento pacifista è purtroppo esemplare per comprendere questo). La testimonianza, infatti, è per sua natura facilmente oggetto di ritualizzazione e di neutralizzazione.

    Bisogna dunque passare dalla testimonianza alla resistenza. Tuttavia il semplice appello alla resistenza rischia di essere ancora una parola vuota, se questa resistenza non è “concretizzata”, cioè specificata in forme programmatiche ed organizzative funzionanti. Non può essere però compito di questo manifesto politico e culturale scendere nel dettaglio delle forme di questa “concretizzazione”. Questa concretizzazione non può che essere frutto di un processo collettivo ed organizzato. E’ del tutto impossibile, e non sarebbe neppure serio, prefigurare e predeterminare qui le forme concrete di questo processo. Si tratta di una scommessa razionale, di cui questo manifesto vuole essere solo un segnale di avvio.

    Se in Occidente siamo ancora in una fase preliminare di testimonianza, in vaste aree del mondo, dove l’imperialismo si manifesta in tutta la sua brutale tirannia, la resistenza è invece ampia, accanita e irriducibile. Questa multiforme resistenza, in quanto è oggi il principale baluardo contro l’americanizzazione globale, ha un’importanza storico-mondiale. Essa è per noi un retroterra imprescindibile, come di vitale importanza è la tenuta della lotta di liberazione del popolo palestinese, una lotta che si confronta con il sionismo (di cui Israele è incarnazione secolare), vera punta di diamante dello schieramento imperialista ed esempio più sfrontato di colonialismo e razzismo.

    E’ per criminalizzare e reprimere questa resistenza che gli Stati Uniti hanno messo all’indice (“Lista Nera”) un centinaio di movimenti di liberazione con l’accusa di terrorismo. Ed è sempre per questa ragione che essi minacciano tutti i paesi che non si piegano al loro dominio definendoli “Stati canaglia”, arrivando ad affermare, con la dottrina della “Guerra preventiva permanente”, che non accetteranno mediazione alcuna, che chi non è con loro è contro di loro, e chi gli si pone contro sarà spazzato via con ogni mezzo.



    10. Il movimento di resistenza all’impero americano che noi auspichiamo, e che ci impegneremo a concretizzare progressivamente partendo dalle nostre modeste forze, vuole essere un movimento unitario, plurale e democratico. In quanto movimento unitario non porremo nessuna precondizione di tipo ideologico, e non chiediamo neppure di condividere senza discussione i rilievi da noi fatti in precedenza. Per essere ancora più chiari, non chiederemo neppure di condividerli dopo un’ampia discussione, dal momento che sappiamo bene che i tempi dei convincimenti e delle convergenze sulle questioni teoriche e culturali sono tempi medi e lunghi, e non sono i tempi nervosi e frettolosi delle piattaforme politiche. Abbiamo però voluto esprimerci senza lasciare equivoci, perché crediamo profondamente che senza un fondamento teorico convincente ogni convergenza puramente politica sia fragile ed insicura.

    L’impero americano intende omogeneizzare forzatamente il mondo con la forza militare e con il pretesto ideologico-religioso della Missione Speciale. Sarebbe dunque ridicolo che noi volessimo opporglisi con una proposta simmetrica e di fatto complementare di una Contromissione Speciale, altrettanto omologatrice. Per questo abbiamo parlato di movimento plurale e democratico. E possiamo permetterci di farlo perché anche se a breve termine non possiamo non avere una valutazione realisticamente pessimistica sui rapporti di forza militari e culturali attuali, in una prospettiva più ampia non possiamo non avere quel moderato ma fermo ottimismo basato sulla profonda convinzione di avere ragione nell’essenziale, e di condurre una lotta universalistica di ampio respiro e di vasta partecipazione da parte di forze sociali, politiche, religiose, filosofiche, scientifiche e artistiche di differente origine.
    Alle europee io voto Codacons...e tu?

  4. #4
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    Predefinito UN ALTRO MONDO E' IMPOSSIBILE, è questo che vogliamo liberare

    UN ALTRO MONDO E' IMPOSSIBILE, è questo che vogliamo liberare

    1. L'IMBROGLIO DELLA GLOBALIZZAZIONE


    La globalizzazione viene spacciata dai suoi paladini come come una nuova epoca dell'oro, per la destra è una "manna dal cielo", per la sinistra una "scopa di Dio". Per entrambi essa è presentata come un processo naturale, una tappa ineluttabile del progresso storico davanti alla quale gli uomini non possono che soggiacere.
    Se questa concezione del mondo è falsa, poiché sono gli uomini a fare la storia e a decidere del loro destino, non viceversa, il mito della globalizzazione si rivela come un colossale imbroglio.
    Scienziati autorevoli, osservando i processi di degrado della biosfera, affermano che «Tra un secolo, di questo passo, il pianeta Terra sarà mezzo morto e gli esseri umani anche».
    La distruzione dell'ecosistema che minaccia da vicino la vita sulla terra e quindi il futuro dell'umanità, non è frutto di una maledizione divina, né, come alcuni affermano, dell'esplosione demografica. La sovrappopolazione è, al pari dell'inquinamento forsennato, una conseguenza del modo di produrre capitalistico, del folle meccanismo per cui tutto deve essere subordinato al profitto, al denaro, all'opulenza e ad un livello di consumi insostenibile perché incompatibile con l'ecosistema. E' proprio ciò che gli apologeti del sistema chiamano progresso o sviluppo la causa prima del rischio mortale che incombe sulle civiltà. Si dovrebbe produrre l'indispensabile e consumare il necessario per vivere, invece il mercato è diventato un'immensa discarica di merci il cui scopo non è soddisfare bisogni reali, ma rendere gli uomini tossicomani del consumismo. La legge dell'entropia ci obbliga a rovesciare il paradigma antropocentrico per cui l'uomo sarebbe al centro del mondo e in virtù di questa posizione disporre della natura a suo piacimento. Per quanto specie superiore esso è solo una parte della natura e con non essa deve recuperare una relazione di equilibrio e simbiosi.
    I guasti sociali della cosiddetta globalizzazione, ovvero del capitalismo mondializzato, non sono meno devastanti. Se l'Occidente ha ancora un altro secolo prima di precipitare nell'abisso, i quattro quinti dell'umanità ha già varcato questa soglia.
    Noi non neghiamo l'evidenza, che cioè il sistema capitalistico conservi un dinamismo che gli consente di sviluppare le forze tecniche e produttive. Notiamo che questo sviluppo è regressivo oltre che sperequato, poiché distrugge a due livelli le basi stesse della vita: saccheggiando irreversibilmente le risorse naturali da una parte e, dall'altra, gettando la maggioranza delle persone in condizioni di vita indegne e disumane, le quali fuggono come possono dalla barbarie per cercare un rifugio nell'Occidente opulento. Ma questo rifugio inizia a traballare. La mondializzazione non solo non incoraggia uno sviluppo degno di questo nome nei paesi che il colonialismo aveva rapinato, produce anche in Occidente nuove ingiustizie, diseguaglianze, esclusione sociale, l'emarginazione di chiunque non sia in grado di partecipare o non voglia partecipare alla folle corsa in nome del progresso capitalistico.


    2. GLI USA SONO IL PRINCIPALE NEMICO DA BATTERE


    Invece di farsi da parte il capitalismo mondializzato, ben lungi dal mollare la sua presa sul mondo, accentua i suoi tratti dispotici e assolutistici. Il sistema imperialistico, contrariamente a quanto affermano certi futurologi che lo descrivono come una struttura orizzontale, senza centro e periferia, è invece un organismo gerarchico, piramidale, di cui gli Stati Uniti d'America rappresentano al contempo il nucleo, l'epicentro e il cervello. Essi detengono tutte le principali leve di comando nei vari campi in cui si decidono le sorti dell'umanità; economico-finanziario, tecnologico-scientifico, militare, delle comunicazioni di massa.
    Colpiti l'11 settembre nei loro simboli più sacri "la ricchezza smodata, l'onnipotenza militare, il dispotismo invulnerabile" gli Stati Uniti d'America, invece di fare un passo indietro, si sono gettati in una isterica offensiva militare per rafforzare la loro supremazia mondiale. L'aggressione all'Iraq del 1991 era solo un antipasto. Da allora, chiunque sia stato alla Casa Bianca, ha insistito in un'offensiva a tutto campo, politica, diplomatica e militare, allo scopo di imporre, anche agli alleati, la propria supremazia. Qualsiasi paese che non sia disposto a diventare succube degli Stati Uniti, che non accetti di rinunciare alla sua sovranità, deve essere spazzato via. Qualsiasi movimento di resistenza che osi sfidare l'imperialismo è messo sulla lista nera del terrorismo internazionale. L'Imperatore in pectore si e' arrogato il diritto di colpire come vuole, quando vuole, dove vuole, calpestando senza esitazione ciò che resta del Diritto e della legalità internazionali.
    Siamo davanti ad un colossale piano di destabilizzazione terroristica del pianeta, ovvero dentro una guerra mondiale, sistemica, ininterrotta. La Casa Bianca dichiara apertamente il suo disegno strategico. Apparentemente questo disegno consiste nella difesa dell'attuale ordine monopolare emerso dopo l'implosione dell'URSS. In realtà la dottrina della "guerra preventiva permanente" nasconde un obiettivo più ambizioso: quello di forgiare (come sancito dal "Progetto per il Nuovo Secolo Americano" - PNAC) un vero e proprio Impero a stelle e strisce. Un Impero che, per la prima volta nella storia, non avrebbe confini e in cui le diverse nazioni, pur conservando una formale autonomia, sarebbero ridotte al rango di province asservite e dipendenti.
    Siamo adesso nella fase iniziale, di incubazione. Per ora gli U.S.A. si limitano a colpire i bersagli più facili, cioè i più poveri, male armati ed isolati fra i cosiddetti "Stati canaglia", cioè quei paesi che non hanno intenzione di rinunciare alla loro sovranità nazionale, non senza cercare di spazzare i movimenti antimperialisti e di liberazione attivi in diversi paesi. In un futuro non troppo lontano, la stessa sorte potrebbe toccare anche alla Cina, all'Europa, alla Russia, se queste potenze regionali non accettassero di sottomettersi. Gli U.S.A. vogliono trasformare l'intero pianeta nel loro "cortile di casa".
    E' dunque iniziata una partita epocale, che sarà lunga e sanguinosa, poiché l'Impero americano, più di quelli che l'hanno preceduto, può costituirsi solo attraverso un'intera epoca di guerre e di catastrofi. Nessun popolo che abbia una dignità accetterà mai di diventare schiavo e lotterà con ogni mezzo prima di essere sopraffatto. Oltre a quella Cubana, l'indomita lotta palestinese è un esempio per noi e un monito per i nordamericani, che proprio in Iraq, nonostante la momentanea vittoria, devono fare i conti con una crescente resistenza armata che chiede apertamente il loro immediato ritiro dal paese.


    3. CONTRO L'AMERICANISMO


    Di contro alla tesi per cui l'Amministrazione Bush sarebbe solo un incidente di percorso (un "colpo di Stato"), noi pensiamo che il gruppo di neo-conservatori insediati alla casa Bianca, pur in forme che potranno cambiare, esprime gli interessi strategici del blocco dominante negli USA. Il punto di forza di questo blocco è che esso non è formato solo dalle grandi corporations, esso ingloba infatti vastissimi settori della società nordamericana, arroccati attorno alla consapevolezza che l'opulenza americana, possibile solo grazie al saccheggio imperialistico, debba essere difesa con la forza in ogni luogo del pianeta. I plebei nordamericani non sono la medesima cosa che i patrizi, ma davanti alla rivolta degli schiavi essi hanno sino ad oggi preferito l'alleanza coi patrizi medesimi. Spezzare quest'alleanza è uno degli elementi decisivi della lotta antimperialista.
    Questo blocco, costitutivamente imperialista, oltre a comuni interessi ha una medesima visione del mondo. Sono gli stessi lacchè della Casa Bianca ad aver dato un nome a quest'ideologia: Americanismo. Essa si fonda sul presupposto per cui gli Stati Uniti avrebbero una "missione speciale" da compiere: quella di uniformare il mondo imponendo, assieme al loro sistema di vita il pensiero in cui si rappresenta.
    Questa fanatica pretesa non nasconde la sua stretta parentela con la tesi sionista del "popolo eletto". Anche in Europa, chiunque si opponga a questa ideologia totalitaria, imperialista e razzista è bollato come "antiamericanista" e per questo additato al pubblico ludibrio. Questa martellante campagna ideologica, volta a silenziare ogni pensiero critico, è tutta tesa a dimostrare che l'impero americano sarebbe l'ultimo e più alto baluardo della civilizzazione umana, caduto il quale all'umanità non resterebbe che precipitare nella barbarie. Intellettuali di destra e di sinistra, dopo aver decretato la fine delle ideologie e della storia, dopo aver abbracciato il più nichilistico relativismo culturale, si sono convertiti a questo fondamentalismo manicheo, si sono arruolati come volontari nell'esercito crociato a stelle e strisce urlando ai quattro venti che gli USA stanno, malgrado tutto, dalla parte del giusto, e tutti i suoi nemici dalla parte sbagliata.
    I dogmi di questo culto sono il denaro, il consumismo, l'individualismo, il darwinismo sociale, il tecnoscientismo. Per strada questo pensiero si è sbarazzato come di una zavorra di valori quali la giustizia sociale, la libertà, la fratellanza, la solidarietà.
    Occorre contrastare e battere questa deliberata e intossicante falsificazione delle cose, consapevoli che quello dei noeconservatori non è un mero "pensiero reazionario", che si tratta di un "pensiero forte" che presume addirittura di essere rivoluzionario e futurista. L'americanismo è l'ultimo baluardo ideologico del pensiero liberale e liberista, l'allegoria del capitalismo, la fede negli USA come insostituibile paese guida del capitalismo internazionale.
    Senza affatto dimenticare la storica lotta dei popoli latino-americani in nome di un'America libera contro quella dell'imperialismo yankee, noi rivendichiamo il diritto di essere, dirci e sentirci antiamericanisti. Ove per antiamericanismo non intendiamo respingere in blocco i risultati raggiunti dalla società statunitense, ma contrastare tutti i suoi connaturati tratti imperialistici e razzisti, la sua pretesa di essere "nazione eletta" (pretesa che non a caso lo stesso Hitler ammirava).
    La difesa del diritto di ogni popolo a non essere inghiottito nell'Impero, ad autodeterminare il proprio destino, equivale a propugnare la de-americanizzazione, la decontaminazione dall'americanismo.


    4. DESTRA, SINISTRA E AMERICANISMO


    Gli americanisti sono all'offensiva in ogni campo, anche in quelli politico, culturale e ideologico. Quest'offensiva sta definitivamente demolendo la secolare opposizione sinistra-destra. L'americanismo ha tagliato infatti in maniera trasversale i due tradizionali schieramenti. Mentre tutti i principali leader politici fanno a gara a chi è più filo-americano (Berlusconi scende in piazza con la bandiera a stelle e strisce ma Rutelli o Pecoraro Scanio non sono da meno), nel campo culturale, gli americanisti hanno arruolati in servizio permanente effettivo, intellettuali delle più disparate provenienze. Attraverso reti TV, giornali, editrici e fondazioni milionarie l'americanismo è imposto ossessivamente come pensiero unico e chiunque vi si opponga è considerato un nostalgico del passato, un eretico da mandare al rogo. Impossibile stabilire chi sia più americanista: Sofri o Ferrara? Scalfari o Veneziani? Negri o Ostellino? Ognuno di loro si sceglie l'aspetto che preferisce, ma alla fine tutti convergono in due punti: il Œ900 europeo è stato un incubo e per fortuna nostra siamo entrati in una nuova epoca storica, quella postmoderna; gli USA rappresentano la spinta rivoluzionaria della globalizzazione, e chiunque dissenta è condannato all'ostracismo come un nemico del popolo nordamericano. E' la stessa indegna operazione ordita contro chiunque sostenga la indomita lotta palestinese, per cui se si è antisionisti si è inevitabilmente antisemiti.
    Ma mentre sinistra e destra convergono al centro e competono per accreditarsi come i migliori amici dell'America di Bush, emergono, da più parti voci anche autorevoli di dissenso.
    Interpretiamo questi processi come i segnali che nasce una resistenza alla tracotanza imperiale USA, come indicatori della consapevolezza che l'Europa è una zona di frontiera, forse il principale campo di battaglia in cui si decidono il successo o la disgrazia dell'Impero americano. Sta nascendo uno schieramento antiamericano che è simmetricamente trasversale a quello filo-americano. Queste voci di dissenso non vengono solo da ambienti radicali, di destra e di sinistra, ma pure dal mondo liberale e da quello cattolico. La tendenza ad una nuova polarizzazione politica è ineluttabile, è un portato del pensiero unico americanista. Nel medio periodo la scena politica tenderà a cristallizzarsi in due schieramenti opposti, pro e contro gli USA: ogni corrente politica, necessariamente, sarà obbligata a schierarsi. Non si tratterà solo di combattere la supremazia nordamericana. Il nemico non è solo al di là dell'Atlantico. L'americanismo è qui, il nemico ce l'abbiamo anche dentro casa. E' il sistema bipolare o bypartisan, in cui destra e sinistra sono soci in affari, le due facce dello stesso blocco di potere dominante asservito alla medesima oligarchia capitalista che fa capo a quella USA.


    5. QUESTA EUROPA NON E' ALTERNATIVA ALL'AMERICA


    Vi è una destra populista che si considera radicalmente antiamericana ma il cui orizzonte e tutto schiacciato su un apparente realismo geo-politico, sull'idea che solo una Europa forte e riarmata, possibilmente alleata della Russia, potrà battere l'egemonismo della Casa Bianca. L'Europa di cui la destra parla non è solo quella Carolingia, ma quella odierna, strutturata su basi capitalistiche (Maastricht). Un¹Europa capitalista che sgomiti per avere un posto di prima grandezza nell'arena mondiale non può che essere imperialista a sua volta.
    Noi respingiamo questa visione. Ci battiamo contro la supremazia americana perché vogliamo farla finita con questo sistema, dunque non siamo interessati ad essere arruolati come truppa ausiliaria di un imperialismo contro l'altro, non vogliamo fare la guerra per il Re di Prussia. Non ci interessa sostituire ad un predone con un altro. Ci poniamo dal punto di vista dei popoli oppressi. La loro liberazione dalla catene imperialistiche non confligge solo con la supremazia nordamericana, ma con l'imperialismo in quanto tale, quale sia la sua bandiera. Il compito che ci poniamo è costruire in Italia e in Europa un nuovo movimento politico di massa che si stringa in una decisa alleanza con i popoli resistenti, quindi non al servizio delle oligarchie europee, ma contro di esse. Queste oligarchie sono oggi insofferenti alla supremazia americana, ma per decenni hanno scelto di restare asservite a Washington consentendo all'americanismo di prendere piede e di dilagare. Non vanno cambiati solo i fattori, ma lo stesso risultato.
    Il discorso della destra populista, che viene fatto proprio non solo da ambienti europeisti liberali ma pure in quelli di certa sinistra di tradizione riformista, oltre a vedere di buon occhio le ambizioni vetero-imperialistiche europee, è falsamente realistico. Senza colossali sconvolgimenti politici che portino al crollo del sistema bipolare destra-sinistra, è una pia illusione sperare che avvenga uno sganciamento dagli USA, e questi profondi mutamenti politici non avverranno senza radicali sommovimenti sociali. E' questi che noi dobbiamo promuovere e assecondare, nel contesto di un'alleanza internazionale antimperialista coi popoli del Sud del mondo.
    Tutto questo non significa affatto che siamo indifferenti alla contesa euroamericana. Moduleremo la nostra politica a seconda di ciò che é vantaggioso alla resistenza antimericana e antimperialista, ciò che implica sempre un'analisi concreta della situazione concreta, cercando di utilizzare le contraddizioni tra imperialisti per battere il nemico principale.
    Né possiamo restare impassibili davanti al tentativo di alcune potenze regionali di opporre, all'ordine monopolare un ordine multipolare, anzi. Non resteremo con le mani in mano, le svolte radicali sono sempre preparate da mutamenti di minor entità. Siamo per un ordine multipolare, perché esso rappresenterebbe una sconfitta per le smanie unilateraliste nordamericane, e una simile sconfitta avrebbe effetti salutari per la lotta di liberazione antimperialista e sarebbe un passo verso una Confederazione mondiale di tutti i paesi e i popoli resistenti alla supremazia USA.
    Da questa pietra angolare giudicheremo la politica europea, che sarà sostenibile se, oltre a contrastare davvero gli USA, getterà un ponte ai popoli del Sud del mondo e accetterà un'alleanza fondata sulla pari dignità, sulla solidarietà, e quindi sulla fine di ogni politica di rapina.


    6. LE ALLEANZE PER BATTERE L'IMPERO AMERICANO


    Noi concepiamo la battaglia contro l'imperialismo americano come una lotta internazionale di liberazione, di cui i popoli oppressi sono oggigiorno la vera forza motrice. Un'analisi obiettiva della storia recente conferma che è nei luoghi in cui la prepotenza nordamericana è più sfrontata, dove la loro politica si fonda sull'aggressione e il sopruso, che la resistenza è non solo più accanita, ma a carattere di massa. La stessa speranza di evitare la fondazione dell'Impero americano sarebbe ferita a morte se queste fiaccole di resistenza venissero spente. Nostro compito primario e immediato è dunque quello di sostenere i movimenti di resistenza, quali che siano i metodi che essi scelgono di adottare.
    Ma queste lotte non possono sperare di vincere singolarmente, isolate, senza un allargamento a scala internazionale del conflitto antimperialista. Pur non essendo l'Italia un paese di prima linea, noi riteniamo che la costruzione qui ed ora di un movimento di resistenza all'impero americano e di un'alleanza con tutti quanti condividono con noi che che gli USA sono il nemico principale, sono i principali contributi che noi possiamo fornire ai popoli oppressi. La loro sconfitta sarebbe quasi certa se non in Occidente non sorgerà e rafforzerà una resistenza la più ampia e determinata.
    Nella cornice della solidarietà stringente con le lotte dei popoli oppressi, noi dovremo rianimare la fiaccola della speranza, di una nuova saldatura tra Occidente e Oriente, tra i popoli resistenti del mondo, iniziando una lotta di lungo respiro per colpire senza esitazione i simboli e gli interessi nordamericani. Senza venir meno alle nostre idee e ai nostri presupposti, dediti anzitutto a rafforzare il nostro movimento, dovremo essere capaci di allargare quanto più possibile l'opposizione antiamericana, raggruppando tutti i soggetti e le forze che accettino di collaborare con noi, se non per i nostri obiettivi finali, almeno allo scopo di sconfiggere i nostri nemici dichiarati: non solo gli USA, ma i loro alleati. Si può strappare l'Italia dal controllo nordamericano e riconsegnargli la sovranità nazionale, senza fare alcuna concessione al nazionalismo delle classi dominanti, cioè alle loro ambizioni imperialistiche.
    Siamo dunque disposti a costruire un fronte di liberazione con chi, pur non condividendo tutte le nostre idee, voglia chiudere le basi militari USA, far uscire l'Italia dalla NATO, ritirare le truppe italiane dai paesi in guerra contro gli USA, battersi per la neutralità e il non allineamento, se necessario anche uscendo dall'Unione Europea. Chiedono dunque una radicale ricollocazione del nostro paese a fianco dei popoli del Sud del mondo coi quali vogliamo cooperare e non batterci per soggiogarli.


    7. STRATEGIA, TATTICA E MEZZI DEL NOSTRO MOVIMENTO


    Il nostro Movimento è plurale. Entro il perimetro dei principi della libertà, della fratellanza e dell'eguaglianza, coabitano in esso diverse concezioni del mondo e idee differenti su quale debba essere il punto di approdo finale della nostra lotta. Ci unisce la consapevolezza che senza battere l'imperialismo americano tutti i discorsi sul futuro lontano del mondo sono solo aria fritta. Il futuro prossimo è per noi tutti più importante di quello lontano. Questo obiettivo è difficilissimo e implica da solo sforzi straordinari.
    Definito l'obbiettivo strategico che ci lega assieme, assieme stabiliremo le tattiche, e i mezzi che dovremo darci per andare avanti. Il regime bipolare tenterà in ogni maniera di far fallire la nostra iniziativa. I suoi mezzi sono potenti. Non commetteremo l'errore di sfidarlo in campo aperto, coi metodi della lotta frontale - terreno su cui il sistema avrebbe facile gioco. Ci atterremo alle leggi costituzionali italiane (a maggior ragione in un contesto in cui lo stesso Parlamento legifera spesso violandone il dettato) che, per quanto ampiamente svuotate, ci assicurano, se non altro sul piano giuridico-formale, il pieno diritto di batterci per le nostre idee e scopi. La democrazia, che assicura libertà non solo di pensiero, ma di parola, di stampa, di manifestazione, è un terreno di sfida quanto mai truccato e svantaggioso (poiché la libertà e di diritti sostanziali ci sono solo per chi ha potentissimi mezzi economici), ma noi non possiamo che accettarlo, dedicando la nostra attenzione alla ricerca dei mezzi adeguati per ottenere il consenso più ampio, consenso senza il quale la nostra lotta si spegnerebbe presto. In una società dominata dai mezzi di comunicazione di massa, caratterizzata dal monopolio di questi mezzi, la nostra battaglia appare persa in partenza. Non è così. Anche in società blindate come la nostra idee forti possono farsi strada se esprimono i sentimenti e la volontà di ampi strati della popolazione. Ci anima la certezza che la resistenza all'impero americano non sia un'idea artificiale, un'invenzione politica verticale, ma rappresenti un comune sentire diffuso orizzontalmente in ampi strati della popolazione. Noi non stiamo inventando un bisogno, stiamo dando voce ad un'esigenza, dignità politica ad un sentimento, diritto di parola a coloro a cui viene negata.
    La nostra impresa implica dunque, anzitutto, la nostra capacità di comunicare in maniera adeguata, cioè di esprimere in maniera quanto mai semplice e convincente le idee di cui siamo portatori. Allo stesso tempo il Movimento, oltre ad essere una leva per la mobilitazione più ampia, deve essere un luogo di riflessione culturale e politica, e per questo servono gli intellettuali. Noi vogliamo anzitutto unire le migliori intelligenze di questo paese, poiché senza di esse mai potremo smuovere grandi masse a dare loro una speranza.
    Il nuovo cammino che ci accingiamo ad intraprendere implica perciò una serie di tappe. La prima di queste è dare forza al nostro Movimento. Solo se guadagneremo una sufficiente massa critica potremo passare alla seconda tappa, quella della formazione di un vero fronte di liberazione a carattere popolare.
    Luglio 2003
    Alle europee io voto Codacons...e tu?

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    Con l'Iraq che si ribella
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    Predefinito UNA FORZA POPOLARE DI LIBERAZIONE

    UNA FORZA POPOLARE DI LIBERAZIONE

    I motivi e le idee della resistenza all’impero americano




    Un anno fa alcuni di noi si fecero promotori di un testo dal titolo Peoples smash America che in poco tempo raccolse centinaia di adesioni. Non era solo un grido di allarme contro la guerra, era un appello al movimento che dilagava per le strade del paese a non fermarsi alla difesa della pace, ad attrezzarsi per la necessaria resistenza all’Impero americano. La nostra esortazione cadde sfortunatamente nel vuoto, che della “seconda superpotenza mondiale”, non appena i carri armati di Bush entrarono a Bagdad, non restò traccia. Neanche l’eroica resistenza del popolo iracheno risvegliò il movimento per la pace dalla sua catalessi.

    Rifiutandoci di seguire la corrente di riflusso noi ritenemmo, pur disponendo di forze modeste, che fosse necessario rilanciare l’iniziativa, a due livelli. Occorreva sostenere subito la resistenza irachena contro gli occupanti, ma pure avviare un lavoro che sapevamo essere di medio periodo, quello di fondare un nuovo movimento che non solo raccogliesse l’ostilità alla politica imperiale americana ma organizzasse anche qui una Resistenza all’americanismo e all’imperialismo.

    Non ci saremmo aspettati tanto fuoco di sbarramento. La manifestazione del 13 dicembre “Con il popolo iracheno che resiste” (presenziata dal portavoce della Resistenza Awni Al Kalemji) e al cui successo abbiamo contribuito, è stata oggetto, oltreché di un boicottaggio senza precedenti da parte di ampi settori della sinistra, di una vera e propria campagna di demonizzazione e criminalizzazione dei principali mezzi di informazione.

    Stessa sorte è toccata all’idea che ci sta più a cuore, quella di fondare un movimento politico antiamericanista, su cui è stato detto tutto e il contrario di tutto.


    E’ necessario a questo punto precisare le ragioni per cui riteniamo di dover andare avanti, iniziando proprio dall’analisi della situazione sociale, allo scopo di verificare se ciò che stiamo proponendo è velleitario o se, come pensiamo, poggia su obiettive tendenze materiali e spirituali. Di proposte politiche se ne possono infatti fare molte, si affermano però solo quelle che incontrano un’effettiva domanda sociale.

    Ribatteremo infine, punto per punto, alle critiche e alle accuse che in questi mesi ci sono state rivolte.

    La crisi italiana

    Il nostro paese vive da lunga data una crisi complessiva, che è economica, sociale, politica e culturale. Essa si inscrive in quella internazionale segnata da due fattori: l’incapacità del capitalismo di soddisfare i bisogni, anche primari, della maggioranza degli esseri umani, e le tensioni dovute al passaggio dall’estinto ordine bipolare all’impero americano.

    I gruppi dominanti che negli anni ‘90 si sono trovati al potere, approfittando del collasso del regime democristiano, portarono un attacco demolitore alle conquiste del movimento operaio e alle secolari tradizioni popolari, solidaristiche ed egualitarie (che pur in modo parziale sono state fissate nella Costituzione). Questi gruppi importarono il modello americano, non solo sul piano economico, ma pure su quelli politico, istituzionale e culturale. Ma questa americanizzazione, invece di risolvere la crisi l’ha aggravata, e da essa non si uscirà con semplici aggiustamenti, con mezze misure, ma solo con soluzioni radicali.

    Quali sono? O l’americanizzazione verrà completata, portata alle sue ultime conseguenze con devastanti lacerazioni sociali, o al suo posto si affermerà la contro-tendenza opposta, una sostanziale de-americanizzazione, economica, politica, sociale e culturale.

    Il paese non può, pena il naufragio, galleggiare e oscillare ancora a lungo tra Scilla e Cariddi. Il momento della scelta è più vicino di quanto si pensi. Sotto traccia, impercettibilmente, matura una nuova polarizzazione sociale, si vanno formando gli eserciti destinati ad affrontarsi in campo aperto. Dall’esito di questa battaglia dipenderà il futuro.


    L’opposizione all’americanizzazione

    Gli artefici dell’americanizzazione liberista non possono dunque né restare a lungo in mezzo al guado né fare marcia indietro. Sono obbligati ad andare avanti. Essi debbono accelerare il processo di americanizzazione su tutti i piani: economico, sociale, istituzionale e culturale. Ma più essi procedono, più si separano dalla “società civile”, più alimentano la resistenza. Le recenti proteste sociali, da quelle dei dipendenti del trasporto urbano a quelle dei medici, da quelle dei siderurgici a quelle ambientaliste, da quelle dei lavoratori dell’Alitalia a quelle dei magistrati, pur profondamente diverse l’una dall’altra, hanno un oggettivo comune denominatore: il rifiuto del modello sociale e istituzionale americano-liberista.

    Questa tendenza era stata preceduta da alcuni fenomeni di grande importanza politica. Il movimento no global e quello per la pace, hanno mostrato che la società non è stata normalizzata, che l’americanizzazione si è fermata alla superficie; che in essa vanno anzi crescendo non solo l’opposizione al corso degli eventi ma pure una domanda di cambiamento, un desiderio ancora confuso di svolta.

    I sondaggi di opinione commissionati dagli stessi governi confermano lo iato tra la “società civile” e la sua rappresentazione politica, di destra e sinistra, di vecchi e nuovi reazionari, mostrano che i sentimenti antiamericanisti si vanno consolidando. Emblematico quello compiuto a scala europea, in base al quale la maggioranza dei cittadini ritiene che Israele e gli USA siano le due principali minacce alla pace mondiale.

    La vergognosa successiva campagna di intossicazione, centrata sull’accusa di “antisemitismo”, è stata la più chiara conferma che questa discrasia diventa una voragine, che le forze politiche sistemiche (in un contesto in cui ai governi nazionali non restano che margini del tutto residuali di azione) non possono rappresentare queste spinte sociali e questi sentimenti culturali.

    Siamo davanti alle avvisaglie di una crisi sociale che potrebbe dunque diventare una crisi politica e istituzionale senza precedenti. E’ questa fibrillazione sociale, è la resistenza popolare trasversale che rende virulenta e imprevedibile la guerra per bande dentro le istituzioni, che spiega l’instabilità politica crescente, la sostanziale paralisi dei governi nonostante essi godano di maggioranze parlamentari senza precedenti.


    Chi rappresenta chi?

    Chi darà voce a queste istanze profonde? Questo è il problema più scottante di questo periodo, la domanda che ci siamo posti quando abbiamo avanzato l’idea di un nuovo movimento popolare di liberazione antiamericanista.

    Noi muoviamo da tre convinzioni: che le tradizioni storiche di questo paese (che i liberali liquidano con l’epiteto di “catto-comunista” intendendo in realtà l’egualitarismo sociale e un universalismo umanistico) sono refrattarie all’americanismo e chiedono di essere rappresentate; che si sta aprendo, fuori dal campo bipolare, uno varco che diventerà un vero e proprio spazio politico di massa; che questo spazio ora vuoto, prima o poi, sarà occupato.

    Stiamo appunto proponendo di rompere gli indugi, di porsi l’obbiettivo di dare voce alle istanze che vanno prendendo piede tra le masse e che non noi, ma i maître a penser del regime hanno bollato, in maniera dispregiativa, come antiamericaniste.

    I tempi sono stringenti. Il fattore tempo, in politica, è cruciale, è quello che separa le potenziali avanguardie che vogliono imprimere una data direzione agli eventi storici, da coloro che non potranno che assistere fatalisticamente ai fatti.

    Sappiamo bene che il nostro slancio, affinché produca il risultato sperato, ha bisogno che certi processi sociali, ancora incipienti, giungano ad una certa maturazione. Occorre anzitutto che la resistenza si stabilizzi e si rafforzi, che entrino in scena, oltre agli strati sociali contrattualmente forti, quelli più deboli afferrati nell’universo del lavoro precario e flessibile, dell’esclusione sociale. Occorre che questa nuova opposizione sociale incontri la diffusa ostilità culturale e spirituale al Moloch americano-liberista.

    Questa evoluzione non dipende da noi, ciò che dipende da noi è costruire per tempo un saldo punto di riferimento e di ancoraggio a istanze sociali e politiche che stanno oltre al mero sindacalismo sociale, che contengono un’esigenza generale di fuoriuscita dalla globalizzazione imperialistica e dalla sfera geopolitica del dominio americano. Non abbiamo nulla da perdere, se non le catene di un paralizzante minoritarismo.


    Il populismo

    Ciò che deve spingerci ad accelerare il passo è che il varco politico che sta tra la “società regale” e quella “reale”, vista la refrattarietà dei ceti politici istituzionali, rischia di essere occupato da un nuovo populismo, un populismo che troverà quasi certamente i suoi catalizzatori fuori dal perimetro istituzionale. Non si tratta di un fulmine a ciel sereno: da un decennio, non solo in Italia ma in mezza Europa, vediamo tutti sintomi dell’avvento di movimenti populisti (Italia, Austria, Francia, Olanda, Belgio, ecc.).

    Non si tratta di fare esorcismi. Col populismo in fieri occorre fare i conti, individuando anzitutto le sue cause, che risiedono nella fine delle “aspettative di benessere crescente”, nel lento processo di pauperizzazione dello stesso ceto medio, nella percezione che la caduta di rango sociale è inarrestabile. Certi sociologi parlano dello “effetto di spaesamento e sradicamento” indotto dai processi di globalizzazione. Questo “spaesamento” è amplificato dal pensiero unico americanista dominante che batte in modo martellante su un unico tasto: la globalizzazione è una ineluttabile e auspicabile fatalità.

    Quattro sono gli elementi principali dell’incipiente populismo:

    1. la resistenza alla pauperizzazione e alla degradazione del proprio rango sociale;
    2. il rifiuto della modernità realmente esistente e la renitenza davanti al mito della globalizzazione;
    3. la rivolta contro il fatalismo che presenta la globalizzazione come fenomeno inarrestabile;
    4. l’avversione verso il carattere iper-oligarchico del capitalismo, che è anche astio verso il sistema politico che protegge gli interessi di queste oligarchie.

    Possiamo considerare queste istanze come reazionarie? No, non possiamo.

    Esse, pur presentandosi mescolate ad altre meno nobili e inaccettabili (è un vizio dei dottrinari la spocchia verso ciò che non è “puro e limpido” come vorrebbero) sono istanze legittime, hanno un valore che osiamo definire progressivo. Esse sono tuttavia aperte ad esiti non solo diversi ma opposti: possono essere utilizzate sia da forze politiche anticapitaliste e antisistemiche, che neocapitaliste e neoimperialiste.

    E’ indiscutibile che chiunque voglia fuoriuscire dal capitalismo non può prescindere da queste istanze, deve anzi rappresentarle per declinarle in maniera adeguata.

    Tra le istanze populiste inaccettabili due spiccano sulle altre: la xenofobia e la pulsione allo “Statofortismo”. Pur respingendo l’ideologia della “società multietnica” (che si traduce nei fatti nell’americano melting pot, ovvero nel sistema segregazionistico dei ghetti) e ogni feticismo parlamentare; noi vogliamo invece difendere i diritti degli immigrati, che sono le prime vittime della globalizzazione capitalistica, e le tradizioni e le norme democratiche che a caro prezzo il movimento operaio e le classi subalterne hanno strappato in lotte secolari.


    La sinistra sistemica inorridisce davanti al rischio “plebeo e antipolitico” del populismo in fieri aggrappandosi ostinatamente al PTPC (Partito Trasversale Politicamente Corretto) e ai dogmi dell’americanismo. Quali sono questi dogmi? Il capitalismo come sistema sociale eterno, il diritto dell’Occidente imperialista ad esercitare la propria supremazia mondiale, gli Stati Uniti come Stato guida del sistema, Israele come suo avamposto inviolabile.

    La sinistra radicale, pur rappresentando forze sociali che resistono all’americanismo, si rifiuta pudicamente di ammetterlo, restando impigliata, via Rifondazione, nell’orbita del PTPC. Si illude di contrastare il populismo con l’anatema, opponendo un sindacalismo sociale vagamente classista declinato con un massimalismo politico privo di costrutto. In realtà questa sinistra è già populistizzata: il massimalismo non è infatti altro che un populismo declinato a sinistra. Essa tende sì a rappresentare istanze sociali anticapitaliste ma non va oltre a slogan astratti e generici, avanzando l’idea velleitaria di una “umanizzazione della globalizzazione” (“un altro mondo è possibile”), rifiutando di porre sul tappeto la fuoriuscita dal capitalismo. E’ un massimalismo che ha reciso i suoi ponti col marxismo, “politicamente corretto”, imbelle e senza prospettive.

    Questa sinistra non vuole accettare che il fenomeno della mondializzazione imperialista, avendo causato devastanti sconquassi sociali planetari non meno violenti della rivoluzione industriale, ha travolto le sovrastrutture e le rappresentazioni ideologiche, tra cui le categorie di scaturigine ottocentesca di “progressista e conservatore”, “riformatore e reazionario”, “innovatore e passatista”.

    Un’altra possibilità

    Se adottassimo la tradizionale categorizzazione per cui progressista è accogliere la modernità, lo sviluppo della tecnica e della scienza, il primato categorico dello sviluppo delle forze produttive; progressisti e di sinistra sarebbero proprio gli artefici e i partigiani americanisti della globalizzazione imperialista. Non a caso i cantori di quest’ultima condannano addirittura il movimento no global come “conservatore” e spesso “reazionario”. Di converso, ove assumessimo altri paradigmi e pietre angolari - una concezione antieconomicistica e anticonsumistica della qualità della vita umano-sociale, il creativo lavoro umano come principale forza produttiva, la salvaguardia della natura e delle biodiversità, la difesa di culture, costumi e tradizioni in cui si incardina un’intera civilizzazione, la difesa delle prerogative degli stati nazionali - saremmo effettivamente dei “conservatori”; in quanto bisogna “mettere al riparo” le basi della civilizzazione, ciò che resta di naturale e di umano, dallo schiacciasassi dello sviluppo imperialistico, in quanto effettivamente “salvaguardare” significa anche “conservare”. Senza questa preservazione nessun futuro storico di liberazione sarebbe possibile.

    Non stiamo dicendo che queste categorie sono prive di ogni contenuto di senso: stiamo dicendo che esse vanno riprecisate e riformulate se davvero vogliamo cambiare questo mondo. Così come occorre respingere l’ideologia “progressista” che considera la scienza e la tecnologia come fossero fenomeni neutrali. Scienza e tecnica sono invece fattori sociali, che il sistema forgia e utilizza per perpetuare determinate relazioni classiste di oppressione. Non è quindi il concetto di modernità in sé che respingiamo, ma la modernità realmente esistente, quella che porta le stimmate della globalizzazione imperialista. Lo sviluppo scientifico può essere un fattore distruttivo se non lo si strappa dalle mani dell’oligarchia imperialista per porlo sotto il controllo sociale.


    Non si contrasta il populismo che cova tra le masse demonizzandolo, confondendo le istanze legittime con quelle inaccettabili, la spinta sociale con la sua eventuale rappresentazione politica.
    Il fatto è che il populismo in fieri si va nutrendo non dentro gli angusti e improbabili confini del neofascismo, ma dentro il nostro universo, quello antiamericanista e antiliberista. Lo stesso nazionalismo di ritorno di cui il populismo si farà senz’altro interprete non può essere liquidato come “reazionario”. A certe condizioni è invece un fattore positivo, in quanto la richiesta di un maggiore interventismo nazionale e pubblico, non solo traduce la legittima richiesta di stato sociale (di tutela pubblica dalla globalizzazione liberista e dalle cieche leggi di mercato); esprime anche il rifiuto della supremazia americana e contesta la sovranità limitata a cui l’Italia e l’Europa soggiacciono con l’avallo delle classi e dei blocchi politici bipolari dominanti. Possiamo e dobbiamo accogliere, anche nel nostro paese, l’istanza di una piena indipendenza nazionale, declinandola in maniera antimperialista, coniugandola anzi con una politica estera di solidarietà coi popoli del sud del mondo, a partire da quelli del Mediterraneo e del Medio Oriente.

    In questa cornice noi non accettiamo l’Unione Europea, non solo in quanto le sue fondamenta sono imperialistiche (NATO) e liberiste (Maastricht), ma anche in quanto questa Unione è stata intrinsecamente concepita come alleata subordinata e cobelligerante degli Stati Uniti – un segmento sull’asse Washington–Tel Aviv. L’unità europea che vogliamo passa per il rovesciamento degli attuali regimi e la rottura dei legami di sudditanza con gli USA.


    Il nostro è dunque un grido di allarme: se non sarà un soggetto anticapitalista a rappresentare queste legittime istanze, declinandole in modo universalistico sarà senz’altro il populismo a farlo, con il rischio che esso, come accadde già col fascismo, diventi la clava con cui il capitale prima colpirà i suoi avversari, poi rinsalderà il suo dominio statuale. Non si tratta dunque di allearsi al populismo, ma di contrastarlo, di fermarlo occupando il suo spazio sociale.

    Per questo occorre un nuovo soggetto politico, una forza popolare di liberazione, saldamente ancorata ai principi anticapitalisti e socialisti di uguaglianza, fratellanza e libertà.



    *****


    UNDICI OBIEZIONI



    Sul piano teorico e politico undici sono le obiezioni principali che sono state mosse contro l’antiamericanismo. Risponderemo mostrando che quella che appare come mera negazione contiene in verità una molteplicità di dirimenti affermazioni; che i nostri motivi e le nostre idee principali non trovano corrispondenza né nei partiti tradizionali, né nei movimenti che si agitano fuori dal perimetro sistemico; che essi sono sufficienti a costituire un nuovo movimento politico e culturale.

    La prima. Gli USA, nonostante gli errori eventuali dei suoi governi, sono un paese democratico, il punto più alto del progresso del genere umano.

    Questa è l’obiezione dei liberali di ogni parrocchia.

    Gli USA sono invece un paese oligarchico, ideocratico, fondato sull’esclusione sociale e politica della maggioranza della popolazione. Attraverso un sistema elettorale blindato e censitario, per mezzo di due partiti del tutto speculari e un Presidente con poteri di tipo assolutistico, una ristretta oligarchia di milionari detiene tutto il potere. Ciò che gli Stati Uniti esportano con i mezzi più sanguinari (da Hiroshima all’Iraq) non è dunque la democrazia, ma un sistema liberticida e neocolonialista in cui tutti i popoli sono costretti alla sottomissione. Riguardo alla “civiltà”, gli USA si pongono agli antipodi della tradizione umanistica europea. I principi universali di uguaglianza, fratellanza e libertà sono rimpiazzati dal darwinismo sociale, dall’egoismo individualista, dal primato incondizionato della ricchezza materiale. L’americanismo non è solo una variante liberista del liberalismo, è “pensiero forte”, pervasivo e fondamentalista, una concezione del mondo, la pretesa di imporre un “progresso” che più avanza più pregiudica il futuro della natura e dell’umanità. E’ l’ideologia con cui si legittima la pretesa nordamericana di sottomettere il mondo al loro impero unico.


    La seconda. L’antiamericanismo, avendo una matrice storica fascista, implica accettare un’antisemita alleanza rosso-nera.

    E’ l’obiezione che ci viene mossa dai sionisti e da certi loro sinistri sodali “antifascisti”.
    I sionisti pensano sia loro tutto concesso a causa delle persecuzioni subite. Noi riteniamo che Israele, che è la principale base militare americana, applichi verso i palestinesi lo stesso trattamento che il nazismo riservò alle minoranze ebraiche in Europa. L’antiamericanismo non ha affatto scaturigini fasciste. E’ vero il contrario. Non è un mistero che gli USA erano per Hitler un modello poiché vedeva in esso l’applicazione più conseguente di una sistema fondato sulla supremazia ariana e la segregazione razziale. Come è nota l’ammirazione che il fascismo italiano ha nutrito verso gli USA, almeno fino alla seconda guerra mondiale – né si può negare che l’americanismo, almeno fino alla crisi del ‘29, esercitò il suo fascino pure sul movimento comunista.

    Successivamente, fino al crollo dell’URSS, i fascisti, in nome dell’anticomunismo, sono stati i cani da guardia degli interessi strategici americani, mentre l’antiamericanismo è stato la bandiera dei movimenti antimperialisti di liberazione e della migliore sinistra occidentale. E’ vero che oggi alcune sette fasciste si considerano antiamericaniste, anticapitaliste o socialiste. Una ragione in più per non lasciar loro il patrocinio su tradizioni e valori che col fascismo hanno mostrato di essere inconciliabili.

    La terza. E’ sbagliato declinare l’antiamericanismo coi valori di uguaglianza, fratellanza e libertà. Questa è una maniera per connotarla a sinistra, mentre l’antiamericanismo implica il definitivo superamento delle divisioni tra sinistra e destra.

    Questa è l’obiezione ci viene rivolta da alcuni intellettuali moderati “differenzialisti”.

    Non nutriamo verso gli Stati Uniti un’aprioristica ostilità. Il nostro antiamericanismo in quanto negazione dei dogmi su cui si fonda l’egemonia statunitense (il darwinismo sociale, l’egoismo individualistico, il primato incondizionato della ricchezza materiale, il capitalismo come sistema sociale eterno, il diritto dell’Occidente imperialista ad esercitare la propria supremazia mondiale, gli Stati Uniti come Stato guida del sistema, Israele come suo avamposto inviolabile) è dunque affermativo dei valori più alti della tradizione umanistica e universalistica europea che la storia ha fissato nei principi di uguaglianza, fratellanza e libertà. Le destre di ogni tipo, non hanno solo calpestato questi principi, li negano a priori.

    E’ certo che i “socialismi reali” non sono riusciti a coniugare eguaglianza e libertà, mentre è un fatto inoppugnabile che quei principi universalistici sono stati per duecento anni il vero e proprio DNA di ogni movimento anticapitalista.

    Se per sinistra si vuole significare chi si senta erede del “socialismo reale” o addirittura imparentato coi Prodi e i D’Alema, noi non lo siamo affatto. Se invece si intende la difesa di quei tre principi universali, e la subordinazione dell’economia alla politica e all’etica, allora ci si dica pure che siamo di sinistra.


    La quarta. L’antiamericanismo è un’assurdità, poiché gli Stati Uniti hanno dato alla civiltà mondiale contributi preziosi e inestimabili nei campi culturale, artistico e scientifico.

    Questa è l’obiezione ci viene invece mossa dall’intellighenzia che si considera progressista o “politicamente corretta”.

    E’ vero, gli USA non sono solo lo sterminio dei nativi indiani, lo schiavismo, la segregazione razziale, Hiroshima, Bush e la Coca Cola.

    Siamo i primi a riconoscere il valore di certa cultura americana. Tuttavia questo aspetto non è solo secondario, esso è utilizzato come rivestimento ideologico per legittimare l’americanismo, la supremazia imperialistica e imperiale a stelle e strisce, e chi non lo riconosca rischia di essere arruolato come truppa ausiliaria nell’esercito dello Zio Sam. Del resto, padroni quasi assoluti dell’industria culturale mondiale, gli americani ci propinano non il meglio ma il peggio della loro cultura. I fatti ineludibili sono che il mondo è sommerso dalla spazzatura “culturale” americana, che a causa dei mezzi inusitati con cui è propagata provoca un vorace processo di assimilazione di ogni sapere, di ogni conoscenza, di ogni creatività artistica, di ogni pensiero che non siano compatibili con l’universo a stelle e strisce. L’americanismo sta uccidendo la civilizzazione mondiale e dunque la stessa cultura indipendente americana. Per questo va fermato, prima che sia troppo tardi.

    La quinta. L’Amministrazione Bush è solo un effimero colpo di coda, mentre la tendenza all’Impero di cui gli USA sono artefici è, nonostante tutto, progressiva, perché conduce al superamento degli Stati-nazione e così avvicina e unifica i popoli.

    Questa è l’obiezione di alcuni futurologi, tra cui Toni Negri.

    I “Neocons” esprimono, pur nella forma sfrontata e fondamentalista del “secolo americano” e della “missione speciale”, una tendenza costitutiva alla tirannide imperiale, determinata a fagocitare ogni altra civiltà e annientare ogni resistenza. Questa tendenza, fattasi incalzante soprattutto dopo il crollo dell’URSS, è condivisa anche dai notabili del Partito democratico, che non sono meno decisi dei repubblicani a consolidare la supremazia statunitense. Interpretare questa spinta al dominio imperiale mondiale come se essa fosse, suo malgrado, progressista, è una pura e semplice follia. L’espansionismo USA conduce ad un’epoca di guerre catastrofiche che causerà nuove resistenze, nuove fratture, nuovi nazionalismi e il paventato “scontro di civiltà”. Quello americano non è un imperialismo internazionalistico, ma ultranazionalista e razzista.


    La sesta. E’ sbagliato considerare il popolo degli Stati Uniti un avversario, mentre il nemico è solo il governo di quel paese.

    Questa è la critica che ci viene mossa da alcuni ambienti del movimento no global.

    Il nostro bersaglio è in effetti il governo americano, non certo tutti gli abitanti che vivono negli Stati Uniti. Il fatto è che gli USA, oltre ad essere una nazione costruita sul genocidio dei nativi e la schiavizzazione dei neri, sono un paese multinazionale dove la supremazia spetta ad un popolo soltanto (quello Wasp, i bianchi di origine anglosassone e di religione protestante), che costituisce la vera base sociale dell’imperialismo americano. La metà degli abitanti è di fatto composta di “esclusi”, di nuovi schiavi che non esercitano nemmeno i diritti civili. Riferirsi ad un indistinto “popolo americano” non è solo falso, è politicamente sbagliato, poiché conduce a porre un segno di uguaglianza tra oppressi e oppressori.


    La settima. L’America è un continente composto di tanti paesi, non solo dagli USA. Semmai ci si dovrebbe proclamare “antistatunitensi”.

    Questa è l’obiezione di certi nostri fratelli latinoamericani.

    Non dimentichiamo affatto la lunga tradizione di lotte anticolonialiste e antimperialiste dei popoli latinoamericani, da Bolivar a Che Guevara, passando per Villa e Zapata. Essi hanno combattuto per la liberazione dei popoli oppressi in nome di un’America libera dal tallone dei gringos-yankees. Tuttavia noi viviamo in Europa, dove gli USA sono l’America, dove il concetto di “americanismo”, oltre ad essere sinonimo di imperialismo americano, è diventato senso comune. Del pari, quando qui si parla di “antiamericanismo”, nessuno fraintende: si sta parlando dell’opposizione al modello sociale statunitense, della resistenza alla sua tirannia.


    L’ottava. L’aggressività americana esprime in realtà il loro profondo e inarrestabile declino mentre la prima potenza mondiale, in prospettiva, è l’Unione Europea.

    Questa è l’obiezione tipica degli economicisti, sia di sinistra che liberali.

    Questi critici commettono l’errore di misurare la potenza solo con criteri quantitativi, ed esagerano deliberatamente i punti deboli del capitalismo americano. Gli USA detengono una posizione di assoluta supremazia in quattro settori cruciali (finanziario, militare, scientifico, delle comunicazioni di massa), mentre continuano ad essere la prima potenza nella produzione industriale e agricola. Quello imperialista è certo un sistema conflittuale, segnato dalla competizione tra le diverse potenze, ma non c’è alcun automatismo che conduca dalla competizione economica e geopolitica al contrasto bellico. E’ certo vero che il capitalismo europeo centrale (quello renano), tenti di superare la sua posizione di sudditanza e di impotenza; il fatto è che l’attuale asse carolingio punta ad un riequilibrio dei rapporti di forza, ad un regime imperialistico di condominio, e non invece ad uno strutturale capovolgimento di fronte. Questa ambizione si scontra del resto con la strategia imperiale americana che tende a consolidare la propria primazia e considera l’Europa come una provincia. Che questi rapporti di forza imperialistici possano un giorno subire un violento capovolgimento è teoricamente possibile, ma ciò implica, proprio in Europa, un rovesciamento dei gruppi oggi al potere che sono costitutivamente filoamericani. Se gli USA sono oggi la potenza dominante da combattere in prima istanza, non stiamo certo proponendo di fare la guerra per il Re di Prussia, perorando la supremazia dell’imperialismo europeo al posto di quello americano.


    La nona. Quello americano è solo un imperialismo tra gli altri, che vanno combattuti tutti assieme. Occorre essere antimperialisti punto e basta.

    Questa è l’obiezione che ci rivolgono certi ambienti di ultrasinistra.

    Il sistema imperialistico è una formazione mondiale piramidale, rigidamente strutturata per linee verticali e convergenti, una mimesi del capitalismo di cui è espressione. L’imperialismo americano è sotto ogni punto di vista il principale pilastro economico e politico di questo sistema, dalla cui stabilità dipendono tutti gli altri, che sono con esso in completa simbiosi. Gli USA, possedendo basi militari e distaccamenti nella grande maggioranza delle nazioni, attraverso una fitta rete di alleanze esercitano un’indiscussa supremazia militare, e sono di fatto il principale guardiano dell’ordine mondiale. Solo dei ciechi possono ad esempio affermare che la Svizzera, che certo è un paese imperialistico, è un nemico per gli iracheni al pari degli Stati Uniti, o che per i palestinesi Israele è un antagonista al pari dell’Europa. Una sconfitta delle ambizioni imperiali americane sarebbe un colpo letale per tutto il sistema imperialistico.


    La decima. La sola contraddizione che va presa in considerazione è quella tra proletari e borghesia. Occorre combattere il capitalismo in quanto tale e in ogni sua forma.

    Questa è l’obiezione che nella sua forma chimicamente pura ci viene rivolta dagli anarchici.
    Noi non neghiamo che vi sia una contraddizione tra le principali classi sociali, ma che essa sia quella principale dipende da una serie di fattori sociali e storici. Anche la contraddizione primaria è determinata, condizionata. Spesso poi una contraddizione secondaria diventa principale e viceversa. Oggi il conflitto fondamentale, ovvero quello che spiega e trascina tutti gli altri, non si manifesta nei paesi capitalisti più forti, nella fattispecie tra lavoro salariato e capitale: si manifesta su scala mondiale e oppone l’imperialismo, quello USA in primis, alla grande maggioranza dei popoli, che sono oppressi e la cui resistenza è il fattore più importante del cambiamento. Il proletariato occidentale non è oggi l’avanguardia della lotta contro l’imperialismo, chiunque si ostini a non vedere questo fatto ha la testa fra le nuvole. La tesi per cui occorre combattere il capitalismo in ogni sua forma e ad ogni latitudine, apparentemente rivoluzionaria, è infine una foglia di fico “massimalista” per camuffare una posizione di equidistanza tra i movimenti di liberazione dei popoli oppressi (a cui viene rimproverato di essere interclassisti) e l’imperialismo.


    L’undicesima. Un nuovo movimento politico va costituito, ma esso abbisogna di basi teoriche e programmatiche più solide che non i principi di eguaglianza, fratellanza e libertà, che sono generici, deboli, quindi insufficienti.

    Questa critica ci viene rivolta dai comunisti più intransigenti.

    Essi ritengono che la ripresa dei capisaldi della rivoluzione francese implichi la rinunzia a quelli “classisti” delle rivoluzioni socialiste. In verità, se le rivoluzioni socialiste sono potute accadere è solo perché esse hanno non negato ma assunto i principi di eguaglianza, fratellanza e libertà. Le classi oppresse possono infatti guidare un processo di liberazione solo a condizione che la loro lotta superi i limiti angusti dei propri interessi di classe e venga percepita come lotta universale, che porta con sé la liberazione generale di tutte le forze produttive sociali, della grande maggioranza della popolazione.

    Non stiamo per questo affermando che questi tre principi siano autosufficienti. Nient’affatto. Sono per noi solo dei presupposti sulla base dei quali il movimento che proponiamo deve articolare una vera e propria piattaforma politica. L’elaborazione di questa piattaforma è appunto compito di coloro che prenderanno parte al processo costituente, ai quali non si chiede alcuna abiura, né di rinunciare alla loro eventuale appartenenza a gruppi organizzati. Il movimento di cui parliamo vuole infatti avere la forma di fronte politico e culturale, non rimpiazzare i raggruppamenti esistenti ideologicamente strutturati. Vuole anzi essere il luogo in cui differenti concezioni e convincimenti, sulla base di regole e vincoli mutualmente condivisi, si confronteranno. Se il nuovo movimento non potrà che venire rafforzato da questa dialettica costituente, gli stessi raggruppamenti partitici, in quanto il razionale dialogo è il solo terreno su cui può affermarsi una nuova concezione del mondo, non potranno che trarne un guadagno.



    *****


    La gravità del momento, l’urgenza di rappresentare una resistenza che altrimenti potrebbe alimentare una svolta populista, la certezza delle nostre idee, ci spingono a procedere innanzi, ad avviare il processo costituente che vorremmo concludere entro la fine del 2004 con un atto pubblico che dia ufficialmente vita ad una nuova forza popolare e di liberazione.

    Invitiamo tutti coloro che condividono questo documento, a sottoscriverlo, prendendo dunque parte e promuovendo questo processo costituente. Accanto a questo documento affianchiamo la “Carta di navigazione” già in circolazione, che costituisce la bozza di piattaforma del movimento medesimo.



    Moreno Pasquinelli, Costanzo Preve, Leonardo Mazzei



    Firenze, 22 febbraio 2004
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  6. #6
    Con l'Iraq che si ribella
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    Predefinito Rompendo gli indugi

    Rompendo gli indugi

    «La terra interamente illuminata dalla civiltà americana splende all’insegna della più trionfale sventura»

    La netta vittoria elettorale di G.W. Bush, mentre smentisce la tesi che l’ascesa al potere dei Neocon fosse solo un evento accidentale e conferma che il nuovo corso politico americano ha solide radici e uno slancio di lungo periodo, simboleggia e sancisce che l’Umanità è entrata in una fase nuova, diversa da quelle precedenti e con caratteristiche sue proprie.


    LA TERZA GUERRA MONDIALE

    Nel mondo diviso in due blocchi contrapposti emerso dalla seconda guerra mondiale, gli USA avevano conquistato la piena egemonia di quello imperialistico. Dopo la triplice dissoluzione (dell’URSS, del movimento comunista e dei regimi sorti dalle lotte di liberazione nazionale), gli Stati Uniti, lungi dal contrattare coi loro alleati un equilibrio multipolare, hanno cercato di occupare unilateralmente e con l’uso spregiudicato della forza armata tutti gli spazi lasciati liberi da quel triplice crollo. Hanno insomma agito per trasformare l’egemonia di blocco in una vera e propria supremazia globale. Per essere più precisi: dalla tradizionale politica di espansionismo aggressivo, presa al balzo la palla dell’11 settembre, la Casa Bianca è passata ad una vera e propria politica di costituzione imperiale. Essa non ha esitato a sbandierare la sua nuova dottrina geostrategica, la “guerra preventiva e asimmetrica”, di cui gli USA si fanno portatori sbarazzandosi dell’ONU, servendosi di alleanze a geometria variabile, senza nascondere che la lotta “contro il terrorismo” è solo uno dei motivi per significare il sogno del “nuovo secolo americano”, ovvero l’obbiettivo strategico di fondare il proprio impero unico mondiale. L’aggressione all’Afghanistan prima e quella all’Iraq poi indicano che l’umanità ha già varcato la porta d’ingresso della terza guerra mondiale, una guerra di lunga durata, una vera e propria guerra imperialistica di civiltà.

    Dichiarando solennemente: “O con noi o contro di noi”, Bush ha messo in chiaro che non ci sono né zone franche né vie di mezzo cosiddette multipolari: o gli USA riusciranno a mettersi il mondo sotto i piedi o il mondo metterà gli Stati Uniti sotto i suoi.


    STORIA E CIVILTÁ

    E’ falso il dogma principale degli americanisti, quello per cui gli Stati Uniti sarebbero il punto più alto della civiltà occidentale e l’unico erede di quella europea. In realtà gli USA hanno sviluppato e portato alle estreme conseguenze solo il suo lato peggiore, dato che non hanno mai digerito quello rivoluzionario e infatti mai generato un partito antagonista di massa. La titanica battaglia tra capitalismo e socialismo che ha segnato il secolo scorso è stata solo l’ultima tappa del conflitto incessante tra oppressi e oppressori che ha contraddistinto un intero millennio. Questa battaglia ha forgiato la civiltà europea, impregnando di sé ogni aspetto della vita sociale e politica. Mentre l’Europa, in nome della libertà fondata sui principi universalistici di fratellanza e uguaglianza entrava nel periodo delle grandi rivoluzioni, esiliò oltre l’Atlantico quelle comunità fondamentaliste protestanti per le quali l’uomo non ha alcun libero arbitrio, la giustizia apparterrebbe solo all’al di là, la libertà sarebbe dono di una Provvidenza mosaica che premia i forti e punisce i deboli, mentre la fratellanza è legame esclusivo dei credenti che in virtù della fede sono in diritto di sterminare o schiavizzare gli “infedeli senz’anima”, siano essi nativi indiani o neri africani. Il sistema americano, sulla base di uno spirito messianico per cui gli Stati Uniti erano la nuova Terra Promessa e avevano una salvifica missione mondiale, si consolidava dunque come ideocratico e oligarchico. Nella Costituzione del 1828 si scolpiva una democrazia assolutistica, aristocratico-censitaria o patrimoniale. Liberalismo yankee e fondamentalismo sudista erano le due maschere di questa medesima sostanza. Che quest’ultimo abbia preso il sopravvento e che il primo sia ferito a morte, significa che dopo secoli di incubazione il Moloch americano taglia il suo cordone ombelicale con la storia europea e tende a rappresentarsi come civiltà a se stante. Questo è il sostrato su cui poggia il fervore imperiale dei neocon, che consente a Bush di atteggiarsi a vicario di Dio, che alimenta la spinta bellicista che scandisce il ritmo degli eventi mondiali.


    IMPERO E IMPERIALISMO

    La furia imperialista con cui i Neocon stanno ingegnando il loro disegno ha prodotto due effetti immediati, uno primario e un altro collaterale. L’effetto principale è l’aver polarizzato l’umanità in due campi contrapposti: quello filoamericano e quello antiamericano, capeggiato quest’ultimo da quei popoli e quelle nazioni che la geopolitica USA ha scelto come agnelli sacrificali. Quello collaterale è l’aver diviso lo stesso capitalismo internazionale in due fronti, quello di chi ritiene necessaria e incontrovertibile la trasformazione della supremazia americana in impero, e quello di chi, pur non contestando questa supremazia respinge il passaggio imperiale illudendosi di convincere gli Stati Uniti ad un equilibristico regime di condominio imperialistico multipolare. Questi fattori sono collegati tra loro, ma se non sono della stessa importanza non possiedono nemmeno la stessa natura. Nella gerarchia dei fattori quello principale non è la renitenza degli imperialismi minori o subimperialismi, ma la Resistenza antimperialista dei popoli e delle nazioni oppressi che si trovano sulla linea di fuoco americana. L’Iraq è il banco di prova dell’impero in fieri, il campo minato dove gli USA debbono compiere il salto mortale, il passaggio oltre il quale avremmo un vero superimperialismo a stelle e strisce. A chi concentra tutta l’attenzione sulla scissione del fronte imperialista (che in linea teorica potrebbe causare, come già avvenuto per ben due volte nel secolo scorso, un nuovo immane conflitto tra potenze imperialistiche) diciamo che è inammissibile nascondersi all’ombra dello spettro del possibile conflitto tra grandi potenze e non vedere la guerra già in atto, quella che gli USA hanno dichiarato a tutti i popoli e le nazioni ostili. E’ questa Resistenza l’ostacolo antagonista realmente esistente alle ambizioni imperiali americane, ed è essa che va non solo sostenuta ma attivamente fomentata affinché si consolidi e si estenda, giungendo al di qua della nuova cortina di ferro che gli USA si stanno cingendo attorno, affinché essa diventi protagonista della stessa scena occidentale.


    ANTIAMERICANISMO
    Anche in Europa e nel nostro paese l’Opposizione alla globalizzazione, ovvero all’assimilazione integrale che viene dagli USA, tradizionalmente confinata a minoranze antimperialiste, si va lentamente estendendo, anzitutto nei sempre più numerosi strati esclusi dall’opulenza capitalistica. Non siamo in Palestina o in Iraq. In paesi ricchi, dove la coesione sociale è forte, questa Opposizione è a bassa intensità o passiva. Essa è però destinata a consolidarsi e a radicalizzarsi davanti all’inarrestabile tracotanza americana e alla complementare sudditanza delle classi dominanti europee, le quali mentre giurano fedeltà eterna all’atlantismo, lanciano contro il crescente disprezzo popolare verso la politica e la cultura americane l’anatema dell’antiamericanismo, un anatema che rimbomba da destra a sinistra, da Lisbona a Mosca, da Roma e Berlino. Non ci nascondiamo dietro ad un dito, non neghiamo l’accusa rivoltaci di essere antiamericanisti, concordiamo anzi coi nostri accusatori, solo che, appunto, puntiamo in direzione opposta. Il tempo gioca a nostro favore: più esso scorre più le speranze di contrastare la prepotenza americana con i pannucci caldi della diplomazia si riveleranno illusorie, mentre il Rifiuto della politica americana e di ciò che gli USA rappresentano si allargherà tendendo a diventare un vero e proprio movimento di popolo. Alcuni ambienti delle classi dominanti percepiscono questa tendenza e sono già all’opera per contrastarla e soffocarla. Come? Giocando la carta della paura: del terrorismo, dell’Islam, dell’immigrato, della guerra. In altre parole evocando i sentimenti più retrivi e torbidi che covano nelle masse, allo scopo sia di giustificare l’americanizzazione delle istituzioni (ovvero il finale passaggio dal sistema democratico a quello oligarchico) che di preparare il terreno per una mobilitazione reazionaria delle masse. E’ in questo contesto che si spiega la comparsa di forze populiste conservatrici e xenofobe, alle quali è stata data la facoltà di usare una demagogia antisistema per incatenare in realtà i popoli al sistema medesimo. Questi populismi sono stati autorizzati dalle classi dominanti a raccogliere la confusa protesta popolare, domani potrebbero essere utilizzati come salvagente e testa d’ariete per fermare un’opposizione popolare antiamericanista che considerano a ragione una nuova incipiente resistenza anticapitalista.


    IL DECLINO EUROPEO

    La crisi dei capitalismi europei non è passeggera ma strutturale, risultato di una “globalizzazione” che li ha indeboliti e resi ancor più subordinati a quello nordamericano e che è percepita dai popoli non come sinonimo di prosperità ma come crisi. Questa impone una competizione selvaggia a scala mondiale e richiede la sostanziale abolizione di quello “Stato sociale” che nell’immaginario collettivo equivale a benessere, equità, sicurezza e tolleranza. L’Unione Europea, nata come appendice della NATO in funzione antisovietica, non è affatto, per le classi dominanti, una barriera contro l’invasione americana (vedi la fitta rete di basi militari americane che sono la Spada di Damocle con cui l’Unione accetta la propria sovranità limitata), essa è piuttosto la leva per spingere gli USA ad accettare l’Europa come suo primo socio in affari. E’ infine la modalità con cui le classi dominanti vogliono americanizzare il continente, adottando non solo i suoi meccanismi istituzionali e giuridici ma pure la sua paccottiglia culturale. I gruppi strategici che tirano i fili della politica sanno che l’Europa ha già imboccato la via del tramonto, sanno che per tentare di invertire la rotta occorrerebbe una cura da cavallo, obbligando le masse lavoratrici ad un lungo periodo di sacrifici sociali. E sanno che incontreranno una tenace opposizione e per questo si preparano blindando il sistema, trasferendo la sovranità politica e quella giuridica dai parlamenti nazionali alla cosca tecnocratica di Bruxelles, sempre avendo nella manica l’asso del populismo reazionario, da tirar fuori come estrema ratio. Questi gruppi strategici sanno che nessuna terapia potrà essere imposta di punto in bianco, senza prima aver dissodato il terreno. Quando diciamo che essi per primi vogliono americanizzare l’Europa intendiamo che debbono portare a compimento l’opera intrapresa a suo tempo in Gran Bretagna: liberalizzare e privatizzare a tutto spiano, stroncare la forza contrattuale dei lavoratori, imporre la massima mobilità del mercato del lavoro, obbligare i popoli all’ineluttabilità del liberismo. Noi siamo certi che la resistenza delle classi lavoratrici, che avverrà nel contesto di una incessante guerra imperialista di civiltà, sfalderà l’attuale blocco sociale dominante per determinarne un altro, rimetterà all’ordine del giorno la questione delle sovranità nazionali perdute, tenderà a sposarsi con il vituperato antiamericanismo e quindi ad incontrarsi con i popoli. Non è solo questione di politica estera, è questione di concezioni del mondo, di modelli culturali e di vita, che chiamano in causa le radici democratico-rivoluzionarie europee, la nostra memoria, il nostro futuro. Come apprendisti stregoni gli USA hanno evocato gli spiriti della guerra di civiltà pensando di circoscrivere la spinta espansiva di quella islamica, ma questa sta già trascinando nel gorgo quella europea, che viene dunque obbligata a lottare per la propria esistenza.


    CRISI MORALE

    La furia fondamentalista americana mette a nudo la crisi delle classi dominanti europee, che è anche una crisi di egemonia e di prospettiva storica. Vincendo la minaccia del socialismo esse hanno si privato il proletariato della speranza, ma in tal modo hanno modificato il corredo genetico europeo. Rimuovendo l’universalismo egualitario hanno strappato via la parte più sana e vitale delle proprie radici. Nel tentativo di seppellire il novecento si è andato affermando in seno alle classi dominanti un brutale relativismo morale, un nichilismo valoriale, un minimalismo individualista che hanno consegnato inerme la società intera all’invasiva penetrazione della religione americana e dell’american way of life. Dopo avere importato questa roba come antidoto alle pulsioni rivoluzionarie degli anni ‘70, ora l’Europa si sente dire, proprio dal popolo d’oltre oceano, che si tratta di merce avariata, di una moneta fuori corso. Legate inestricabilmente agli USA le nostre classi dominanti, ostentano un ibrido euroamericanismo, un americanismo depotenziato: accolgono l’americanismo di prima generazione, il culto inferiore del razionalismo scientifico (refrattario a qualsiasi considerazione sui fini, ostile ad ogni posizione critica riguardo alla macchina sociale capitalistica); ma vorrebbero fare a meno del culto superiore, del suo messianismo religioso sciovinista. Questo spiega lo sbandamento dei dominanti e lo stato di fibrillazione europeo. I cervelli pensanti, sapendo che questo americanismo di seconda generazione in salsa fondamentalista sarà rigettato dai popoli europei, temono la sua penetrazione come destabilizzante. Sono in un cul de sac, perché non sanno come fermarlo, quale rimedio porvi. Navigano a vista e sentendosi mancare il terreno sotto i piedi si aggrappano alla sottana dei “liberatori”, insistono a comando con l’asfissiante propaganda tesa a presentare l’Islam come il nemico esterno comune dell’Occidente cristiano, il terrorismo come male assoluto, ma così facendo non solo lasciano il campo libero all’incessante iniziativa americana, si separano inesorabilmente dalla parte più viva della società reale, in seno alla quale invece avanza, dietro alle istanze antiamericane, un bisogno di senso, di riappropriazione della propria memoria storica, di ristabilimento della verità. Questo è il luogo dove verrà fecondato un nuovo blocco storico europeo. La tendenza di lungo periodo è infatti quella alla polarizzazione non più tra i due tradizionali fronti, quello socialdemocratico e quello conservatore, ma tra americanismo e antiamericanismo.


    LEGITTIMA DIFESA

    In base a queste considerazioni, dopo due anni di discussioni accompagnate dall’ostracismo dichiaratoci dal PATPC (Partito Americanista Trasversale Politicamente Corretto), noi dichiariamo di voler invece procedere innanzi, aprendo ufficialmente un processo costituente il cui punto d’arrivo deve essere la fondazione di un nuovo movimento politico indipendente e antagonista rispetto all’attuale sistema bipolare o del PATPC. Scopo del movimento, vista la latenza dello scontro di civiltà tra America ed Europa, è quello di contribuire alla rinascita della civiltà europea, ovvero del suo universalismo democratico e popolare basato sugli imperituri principi di libertà, fratellanza ed uguaglianza. Questa rinascita sarà possibile a due condizioni: rompere ogni rapporto di sudditanza con gli Stati Uniti, innescare la radicale decostruzione dell’attuale Unione Europea. Una nuova, federativa e libera Unione dei popoli europei implica infatti la cacciata delle attuali oligarchie economiche e politiche dominanti, che sono il cavallo di Troia americano, e ciò sarà possibile solo facendo un passo indietro, riconsegnando la piena sovranità alle diverse comunità nazionali. Contrastare il processo di americanizzazione prima che sia troppo tardi, prima che l’americanismo divori gli ultimi anticorpi, è quindi il primo compito nostro. Siamo consapevoli che una battaglia puramente contrastiva, di opposizione, non è da sola sufficiente per vincere, ma è solo grazie ad essa che avvicineremo la vittoria, che sarà ottenuta anzitutto con il consenso e la mobilitazione popolare. Il Tallone d’Achille dell’americanismo è che esso, pur non essendo un messaggio universalistico, vorrebbe imporsi ai popoli come risposta globale totalizzante, come pensiero unico. Questo unicalismo americanista, come Giano, ha due facce. Esso è un mostro che sposa il diavolo con l’acqua santa: una concezione mondana fondata sul becero razionalismo individualista liberale (ostile ad ogni etica sociale egualitaria); ed un irrazionalismo extramondano escatologico e neo-oscurantista. La medesima sentinella di un capitalismo che priva di senso l’esistenza e fa dell’uomo un demone antisociale, presume poi di essere il demiurgo che riscatta e santifica la sua anima. Questo americanismo di seconda generazione, che in effetti chiude l’epoca della modernità borghese, non si presenta dunque come una mera politica, ma come una autentica concezione del mondo che pretende di penetrare in ogni poro della società. Tra la nostra gioventù anzitutto, che prima viene gettata nel vortice di un consumismo servile o intruppata come carne da macello nella guerra infinita contro “il male”, poi la si consola con la chimera di una Provvidenza che premierà chi abbia seguito la linea di condotta del consumatore-soldato. Il peggio del materialismo e il peggio dell’idealismo. La nostra opposizione, per quanto politica, sarà quindi anzitutto culturale, ideale, etica e morale. Il nostro universalismo è al tempo stesso rivoluzionario e conservatore. Rivoluzionario perché anela ad una società nuova fondata sulla fratellanza e la giustizia e in cui siano quindi debellati lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e quello dissennato della natura. Conservatore perché rifiutiamo il feticcio del progresso ad ogni costo e il mito nichilista della tecnica, perché vogliamo salvare le nostre radici e la parte più nobile e umanistica delle nostre tradizioni. Il futuro spetta a chi, pur senza amarlo, saprà creare disordine, poiché è da esso che sorgerà un ordine nuovo.
    Alle europee io voto Codacons...e tu?

  7. #7
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    Predefinito

    Si presenterà alle elezioni o no?
    "Gli idoli di legno possono vincere, le vittime umane venir sacrificate."
    Karl Marx

  8. #8
    FIGHTER
    Ospite

    Predefinito

    Noi camerati siamo andati ad un convegno di Legittima Difesa ieri.
    Siamo stati ben accolti, abbiamo discusso di tematiche importanti (soprattutto antimperialismo ed anticapitalismo), abbiamo pianificato azione futura congiunta sui temi comuni, che non sono pochi.
    Unità delle forze antimperialiste!

  9. #9
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    Question Voi camerati cosa?

    In origine postato da FIGHTER
    Noi camerati siamo andati ad un convegno di Legittima Difesa ieri.
    Siamo stati ben accolti, abbiamo discusso di tematiche importanti (soprattutto antimperialismo ed anticapitalismo), abbiamo pianificato azione futura congiunta sui temi comuni, che non sono pochi.
    Eh???

  10. #10
    Bestia in via d'estinzione...
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    Predefinito Re: Voi camerati cosa?

    In origine postato da Capitano Nemo
    Eh???
    Si: LD sono fascisti praticamente...
    "Gli idoli di legno possono vincere, le vittime umane venir sacrificate."
    Karl Marx

 

 
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