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    RADICI DELL'ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO"
    Simposio organizzato dalla Commissione teologico-storica del Grande Giubileo dell'anno 2000


    CREARE E ALIMENTARE I SEGNI DI UN NUOVO DIALOGO

    Mons. Rino Fisichella (Vescovo Ausiliare di Roma) - Presidente della Commissione Diocesana per l'Ecumenismo e il Dialogo



    L'aggettivo "intraecclesiale" che accompagna e qualifica il Simposio sulle "Radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano" non è una scelta casuale. Esso, al contrario, intende specificare la natura della riflessione che viene compiuta e le finalità a cui tende. Ogni ricerca scientifica parte necessariamente da alcune premesse che orientano lo studio e impongono una metodologia che possa raggiungere dati concreti con gli obiettivi prefissati. La stessa cosa si verifica per questo Simposio che pone alla base lo studio sulle radici dell'antigiudaismo a partire dalla peculiare riflessione teologica.

    La teologia nel momento in cui si pone nell'orizzonte della scienza fa emergere in maniera chiara la sua peculiarità. Essa, infatti, procede attraverso una metodologia scientifica, sapendo tuttavia che la fede sta all'origine delle sue affermazioni. Ogni ricerca teologica che voglia essere scientifica, pertanto, deve partire dai contenuti della rivelazione e favorire un'intelligenza più chiara e più profonda della fede e della vita personale. Questa premessa non è ovvia nel momento in cui si vuole valutare la peculiarità del Simposio sulle radici dell'antigiudaismo e il suo obiettivo di fondo. L'aggettivo intraecclesiale, pertanto, dice che la componente che si riconosce in questa riflessione ha una matrice comune determinata primariamente dalla fede in Cristo. Ciò che sarà oggetto di studio e di dibattito mira a chiarificare il contenuto della fede, perché essa possa incidere meglio nella vita dei credenti. Altre argomentazioni, connesse con il tema in questione e che farebbero felici alcuni osservatori, non sono, quindi, l'oggetto né diretto né primario di queste giornate di studio. Rincorrere questi sentieri porterebbe, inevitabilmente, a deludere le aspettative di quanti attendono da questo Simposio risultati che esulano dalla sua competenza.

    La rivelazione di Dio all'umanità è stata fatta in tempi diversi e con modalità differenti, ma un punto decisivo e fondamentale è costituito dalla scelta di Israele come popolo dell'Alleanza. L'elezione di Israele come «popolo che Dio si è scelto» permane come il punto di non ritorno della sua rivelazione nella nostra storia. Non considerare questa realtà equivale a tradire il piano di salvezza e a non comprendere la storia della rivelazione. La teologia ha un compito non facile nel momento in cui deve salvaguardare i dati della rivelazione spiegandoli nei diversi contesti, e capire come storicamente essi sono stati compresi e interpretati. I cristiani, come tutti, sono figli del loro tempo. Ciò che essi hanno compreso ed espresso dei contenuti della loro fede è stato compiuto alla luce del comune maturare dell'intelligenza dell'uomo; ciò che essi hanno frainteso non compromette, in ogni caso, la verità dei contenuti rivelati.

    C'è, dunque, un punto di partenza essenziale in questa problematica che trova la sua espressione più qualificante nelle parole del Concilio Vaticano II: «La Chiesa di Cristo riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei Patriarchi, Mosè e i Profeti. Essa afferma che tutti i fedeli in Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo Patriarca e che la salvezza della Chiesa è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo la Chiesa non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza e che si nutre dalla radice dell'ulivo selvaggio che sono i Gentili» (Nostra Aetate, 4). Teologicamente, come si nota, si dovrà verificare la continuità e la novità nel rapporto tra i due Testamenti e i due popoli, senza possibilità alcuna di poter giungere a forme di contrapposizione. La fede non può giustificare alcuna forma di antigiudaismo né le radici di questo possono essere trovate nella parola del Signore trasmessa dalla sua Chiesa. La teologia che permette alla fede di raggiungere un'intelligenza più profonda dei suoi contenuti e con la forza dell'argomentazione ne permette la comunicazione coerente presso i contemporanei diventa, a questo punto, una seria provocazione per la cultura.

    Questo Simposio intraecclesiale porta con sé una forza oggettiva che può favorire un'autentica promozione culturale. La cultura, come ben si sa, si estende su diversi livelli. È cultura il progresso scientifico che permette di raggiungere gradi del sapere sempre più profondi e manifestazioni della verità sempre più genuini. Sono altrettanto cultura il linguaggio e i comportamenti del popolo che esprimono il diverso grado di civiltà raggiunto. I risultati di questo Simposio tendono a muoversi su ambedue questi livelli pur nella peculiarità del soggetto che li propone. La Chiesa nel corso dei suoi duemila anni di storia non ha mai ostacolato il vero progresso della cultura, anzi, ne è stata spesso all'origine. Ci sono, tuttavia, due grandi nemici che attentano sempre al progresso della cultura: l'ignoranza e la reticenza. L'ignoranza purtroppo non ha confini e spazia dovunque; essa si esprime spesso nel ricalcare luoghi comuni o nel dare sfogo alla propria superbia con tesi preconcette e unilaterali. Ne deriva, il più delle volte, la rinuncia a dover pensare, per la presunzione di sapere già ogni cosa, la caduta nell'ovvietà è il destino più facile per chi persegue questa strada. La reticenza, invece, alberga presso una cerchia più ristretta di persone. Essa si fa forte del potere e pretende il possesso della verità. L'arroganza e la menzogna le sono spesso compagne di viaggio e, insieme, tramano per non consentire che la verità sia patrimonio di tutti.

    Anche un Simposio come il nostro può aiutare a ferire mortalmente questi due nemici e a creare le condizioni perché ognuno sia responsabile nel permettere che la strada verso la verità sia percorsa per intero. In un periodo come quello presente che ha sempre più sete di sapere e che, all'opposto e contraddittoriamente, presenta modelli di esistenza effimeri, si pone in maniera urgente l'esigenza di perseguire la strada della promozione culturale. Il Simposio punta il dito sulle "radici" dell'antigiudaismo proprio perché il male venga estirpato alla base, senza accontentarsi di operazioni estetiche che nascondono senza risolvere.

    Sarà in grado di produrre qualche effetto? Questo dipende da molti fattori. In primo luogo, dalla capacità di saper cogliere i suoi risultati con animo libero. Partecipano a queste giornate di dibattito i più grandi specialisti cristiani della materia; ciò che li raccoglie è il desiderio di condividere l'un l'altro i dati della propria ricerca alla luce di un dialogo scientifico in cui ognuno sa farsi carico del risultato dell'altro senza per questo pensare che sia alternativo al proprio. La comunicazione corretta non emarginata in poche righe, ma con il rilievo dovuto a una informazione che tende a promuovere cultura e non essere semplice notizia, può aiutare molto in questa fase. In secondo luogo, si dovrà valutare il coraggio per aver sollevato la questione. Nulla può essere preteso da nessuno se non l'amore per la verità. Questo Simposio, e in parte ancora più rilevante il prossimo sulle Inquisizioni, mostra che appartiene al centro della fede il vivere per la verità nella carità. Non si deve avere timore della verità; è l'unica strada per essere autenticamente liberi. Senza una verità storica sui fatti che coinvolgono tutti non è possibile progredire nel cammino verso forme di unità che sono alla base del vivere civile. Studiando le radici dell'antigiudaismo si potrà contribuire a superare i malintesi che possono avere diviso nel passato; si aiuterà a scoprire le peculiarità proprie alle due fedi e si spingerà a guardare al futuro con maggior serenità senza rinchiudersi in steccati che non hanno mai avuto ragione d'esistere.

    Questo Simposio, infine, è stato pensato per corrispondere al vivo desiderio di Giovanni Paolo II quando ha scritto nella Tertio Millennio Adveniente «La Chiesa non può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi, nel pentimento, da errori e infedeltà, incoerenze e ritardi. Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio che ci aiuta a rafforzare la nostra fede» (TMA n.33). Non è possibile al momento sapere quali risultati il Simposio raggiungerà e non è giusto dare per acquisito ciò che ancora deve essere dimostrato. In ogni caso, già l'aver preso coscienza di questo fatto è fondamentale per ribadire una cultura del perdono che in questi anni sta subendo un autentico attentato. La Chiesa che si fa carico di chiedere perdono per le colpe dei suoi figli dà segno di estrema efficacia nei confronti di una cultura che tende a nascondere le responsabilità e a preferire la vendetta e l'odio al perdono. Questi sentimenti, d'altronde, non appartengono alla nostra cultura sorta, invece, all'orizzonte dell'amore universale che sa farsi carico anche della colpa distrutta nella morte dell'innocente. Saper chiedere perdono non è un atto di debolezza; al contrario, esprime una grande libertà, per questo è segno di autentico progresso.

    La sfida, dunque, si pone nella capacità di sapere creare nuove espressioni culturali con nuovi linguaggi e comportamenti che siano in grado di aiutare soprattutto le nuove generazioni a guardare verso ogni persona e popolo per la ricchezza che possiede e non per i limiti che vengono arbitrariamente stabiliti. Se il Simposio potrà contribuire a questo cammino anche solo aiutando a discernere le necessarie e dovute distinzioni che una così complessa problematica comporta, allora avrà raggiunto un risultato non certo trascurabile.

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    Perché le fede cristiana ha bisogno del giudaismo

    Card. Roger Etchegaray

    Il cristianesimo ha bisogno del giudaismo? Quando ero ragazzo, una domanda del genere mi sarebbe parsa insolita, forse improponibile. Nel mio piccolo villaggio basco, non ho mai incrociato l'«ebreo errante». Una volta l'anno, la liturgia del Venerdì Santo mi faceva pregare «per gli ebrei infedeli». Quando mia madre mi conduceva nella vicina Bayonne per comprare il vestito buono, da un sarto che mi diceva essere ebreo, ero sorpreso nell'incontrare un uomo come gli altri; e fu lui stesso a confezionare la mia prima tonaca! In Seminario, sull'«insegnamento del disprezzo» prevaleva quello dell'insignificanza: l'ebreo non contava nulla, e io non ho mai avvertito alcun bisogno religioso di Ebraismo.

    Ho provato il primo shock l'anno della mia ordinazione sacerdotale, esattamente 50 anni fa, quando non so come mi capitarono sotto gli occhi i «dieci punti di Seelisberg», elaborati in Svizzera da un piccolo gruppo di ebrei e cristiani. Oggi, quel testo che allora era tanto profetico e coraggioso, mi sembra abbastanza banale. Nel 1965, da esperto del Concilio Vaticano II, ammirai la dolce ostinazione dispiegata dal cardinale Bea per far votare la dichiarazione sugli ebrei Nostra Aetate. Otto anni dopo, quando ero arcivescovo di Marsiglia, grande città portuale in cui convivevano pacificamente 80 mila ebrei e 80 mila musulmani, fui, insieme ad altri tre vescovi francesi, cofirmatario di uno dei più aperti orientamenti sulle relazioni con gli ebrei offerto, non senza ripensamenti, da un episcopato. Ma fu soprattutto all'interno del Comitato internazionale di collegamento fra Chiesa cattolica ed Ebraismo mondiale che imparai fino a che punto il dialogo fosse difficile da una parte e dall'altra per via di una profonda asimmetria fra i protagonisti.

    Questo preambolo mi consente di entrare senza indugi nel vivo della questione con vigore e con rigore. Il cristianesimo ha bisogno del giudaismo? La risposta spontanea è sì, un sì franco e deciso, un sì che esprime un bisogno vitale e quasi viscerale. Ma, naturalmente, io non posso che rispondere a nome della mia Chiesa, «scrutando» il suo «mistero» secondo la bella espressione della Nostra Aetate, nel pieno rispetto della maniera diversa in cui l'ebraismo vede e definisce se stesso. Per me, il cristianesimo non può pensare se stesso senza l'ebraismo, non può fare a meno dell'ebraismo. Fin dall'inizio del suo pontificato (12 marzo 1979) a Magonza, Papa Giovanni Paolo II osò dichiarare: «Le nostre due comunità religiose sono legate al livello stesso della loro identità». Ricordo ancora (ero presente) le sue parole folgoranti nella grande sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986: «La religione ebraica non ci è "estrinseca" ma, in un certo senso, è "intrinseca" alla nostra religione. Noi abbiamo dunque verso di lei dei rapporti che non abbiamo con nessun'altra religione. Voi siete i nostri fratelli preferiti e, in un certo senso, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori».

    Queste parole, in fondo, non hanno nulla di nuovo o di audace; si ispirano all'immagine paolina della Lettera ai Romani (11,16-24) dell'ulivo buono che è Israele sul quale sono stati innestati i rami d'ulivo selvatico che sono i pagani. E san Paolo, l'antico fariseo divenuto «l'apostolo delle nazioni» dirà al pagano-cristiano: «Non menar tanto vanto; non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te» (Rom. 11, 18)…è l'ebreo che ti porta. E non è forse nel Vangelo di Giovanni, che si vorrebbe intriso di antigiudaismo, che Gesù proclama solennemente alla Samaritana: «La salvezza viene dai giudei» (Gv. 4,22). Se le cose stanno veramente così, come spiegare il fatto che nel corso dei secoli tanti cristiani abbiano vissuto come se avessero dimenticato le loro radici, o peggio disprezzando il loro fratello maggiore? Comprendo bene la reazione del Rabbi Askenazi che diceva: «Non siamo neppure fratelli separati, perché non ci siamo mai incontrati». Di fatto, avvertiamo tutti la dolorosa ferita di quella che Fadiey Lovosky chiamava significativamente «la lacerazione dell'assenza».

    Ma allora, per quale miracolo ebrei e cristiani si incontrano dopo duemila anni, o si mettono ad esaminare insieme i rapporti rovesciati che hanno avuto nel corso della storia? Perché c'è stato bisogno della Shoah per aprire l'era del dialogo? A dire il vero, la rottura non era forse cominciata con lo «scandalo» della croce di Cristo? Il passo ispirato di Jules Isaac presso Giovanni XXIII non è certamente estraneo all'avvio di una primavera tardiva e ancora timida. Ora cominciamo a prendere coscienza del fatto che la nostra identità cristiana è una identità ricevuta da altri, e che questo altro è il popolo eletto che esiste solo in quanto derivato da Dio. Il processo in atto va ben oltre la semplice constatazione della ebraicità carnale di Gesù ormai affermata senza difficoltà e da parte di tutti, con tutte le conseguenze culturali e cultuali nella liturgia e nella vita della Chiesa, oggi ammesse abbondantemente e senza imbarazzo da autori sia ebrei che cristiani. Giovanni Paolo II, ancora una volta, ricevendo l'11 aprile scorso la Pontificia Commissione Biblica, ha ricordato che non si può esprimere pienamente il mistero del Cristo senza ricorrere all'Antico Testamento. Fin dal secondo secolo, contro Marcione, la Chiesa dava testimonianza di questo rapporto vitale, in seguito molto oscurato se non camuffato. Da parte mia, amo ricordare che la Chiesa cattolica celebra costantemente la festa della Presentazione di Gesù al Tempio. E non finirò mai di scoprire fino a qual punto la mia preghiera, compresa la preghiera che Cristo insegnò ai suoi discepoli, il «Padre nostro», è impastata di citazioni e salmodie ebraiche. Tutto in me respira la pietà e la saggezza degli «anawim», i poveri del Signore.

    Ma questo radicamento, per quanto importante, mi lascia ancora sulla soglia del problema, del vero problema contro il quale mi scontro e per il quale mi batto. Ciò che mi urta, ciò che oggi mi sconvolge, è la perseveranza del popolo ebreo nonostante tutti i pogròm, la sua sopravvivenza dopo i forni crematori. Non c'è, lì, la testimonianza invincibile di una vocazione permanente, di un significato attuale per il mondo, ma soprattutto nel seno stesso della Chiesa? Ciò è molto più che scoprire la ricchezza di un patrimonio comune; è scrutare nel disegno di Dio la missione che il popolo ebreo deve ancora e sempre compiere. Che cosa significa per me, cristiano, questo faccia a faccia permanente che è l'ebreo? Che cosa significa per la mia Chiesa questo popolo ebreo che non cessa di far risaltare il tempo dell'Antico Testamento in un tempo che io credevo esser divenuto una volta per tutte il tempo del Nuovo Testamento? Affermando, con san Paolo, che la seconda Alleanza non ha cancellato la prima, perché «i doni di Dio sono irrevocabili» (Rm. 11,29), la Chiesa arriva al punto di riconoscere all'ebraismo una funzione di salvezza dopo il Cristo? Per la mia coscienza cristiana, il confronto con questo volto ebreo che finora avevamo dissimulato se non sfigurato, con questa Sinagoga davanti alla quale avevamo chiuso gli occhi, comporta al tempo stesso un profondo mistero e una gigantesca sfida.

    Parlare di «mistero» alla maniera di san Paolo (Rm. 11,25) vuol dire riconoscere che il significato ultimo della storia della salvezza ci sfugge poiché la sua chiave è in Dio, e ammettere che non tutto è svelato perché non tutto è compiuto. Certo, la Chiesa proclama chiaramente che Gesù Cristo è l'unico Salvatore del mondo; e vive in tutto il suo essere della sua morte e resurrezione. Ma la perennità d'Israele non è il segno di ciò che le manca per la completa realizzazione della sua missione? Di fronte al «già» della Chiesa, Israele è la testimonianza del «non ancora», di un tempo messianico non pienamente concluso. Il popolo ebraico e il popolo cristiano si ritrovano così in una situazione di contestazione o meglio di emulazione reciproca. Quando noi cristiani ci rallegriamo per il «già», gli ebrei ci ricordano il «non ancora», e questa tensione feconda è nel cuore dell'intera vita della Chiesa, fino a raggiungere la liturgia eucaristica, quando la Chiesa ogni volta lancia il suo grido lancinante: «Vieni, Signore Gesù». La Chiesa annuncia, prefigura già il «Regno», la città in cui Dio sarà «tutto in tutti», come dice san Paolo (1 Cor. 15,28). Ci conforta il sapere che questo Regno nascosto, questo spazio infinito di salvezza offerto a tutti, supera di molto i limiti visibili della Chiesa. La quale non è che il «Sacramento», il luogo in cui il Regno è celebrato da coloro che l'hanno già accolto.

    Karl Barth diceva: «La questione decisiva non è "che cosa può essere la Sinagoga senza Gesù Cristo?", ma piuttosto "che cosa è la Chiesa se per tanto tempo si trova di fronte ad un Israele che le è estraneo?"». Detto in altro modo, per la Chiesa la perennità d'Israele non è solo un problema di relazioni esterne da sviluppare, ma un problema di relazioni interne da approfondire, un problema che tocca il proprio essere. Il sentiero sul quale ci troviamo corre lungo un crinale ancora poco esplorato dall'esegesi e dalla teologia, ma è su questa strada, mi sembra, che dobbiamo procedere, altrimenti il dialogo ebraico-cristiano resterà superficiale, limitato e pieno di riserve mentali. Questo dialogo, è stato detto, è appena uscito dall'età della pietra e non potrà proseguire se gli interlocutori da una parte e dall'altra non metteranno nel conto la contemporaneità dell'altro. Il cristianesimo è l'albero che cresce dal seme dell'ebraismo e copre tutta la terra con le sue fronde, ma il frutto dell'albero contiene di nuovo lo stesso seme. Nella Divina Commedia, Dante invita gli ebrei ad abbandonare la loro speranza: «Lasciate ogni speranza».

    Franz Rosenzweig, scioccato da quel verso, commentava: «Quando l'ebreo comparirà davanti al trono celeste, gli sarà posta una sola domanda: "hai sperato nella redenzione?"». Tutte le altre domande, aggiungeva Rosenzweig, «sono per voi cristiani. Fin d'ora prepariamoci insieme, nella fedeltà, a comparire davanti al nostro Giudice». Per prepararci insieme, dobbiamo considerarci tutti eredi della Bibbia, ma io credo che per mettere bene a frutto questa eredità i cristiani hanno in modo particolare bisogno degli ebrei perché gli ebrei hanno con la Scrittura una sorta di familiarità carnale, perché al contrario di ogni dualismo che inaridisce essi sono testimoni dell'unità vivente dell'uomo interpellato da Dio, perché restano il popolo che ha distrutto gli idoli e denunciato le ideologie, antiche e moderne.

    La Bibbia ebraica fa ascoltare al mondo intero la voce del Dio unico. Anche là dove non vive alcun ebreo ma la Bibbia è proclamata dalla Chiesa, l'ebreo è spiritualmente presente perché è percepito dalle nazioni che ricevono la Parola divina come appartenente al popolo per il quale il Signore si è fatto conoscere sulla terra. Se il bersaglio del neopaganesimo, radice profonda di ogni antisemitismo, è la Bibbia che svela in ogni uomo l'immagine di Dio, dobbiamo oggi più che mai testimoniare la nostra fedeltà comune alla Parola e alla Legge che strutturano ogni coscienza umana. Dobbiamo salire insieme sulla montagna santa del Sinai e lassù tenerci per mano senza batter ciglio davanti al volto di Dio, interamente occupati, come in una notte d'uragano, a ricevere l'acqua e il fuoco dal cielo per lasciarci purificare. Non dobbiamo, noi tutti, essere «grondanti della parola di Dio» come diceva Péguy al suo amico ebreo, Bernard Lazare? Non siamo tutti come quei primitivi che ricevettero il Decalogo divenendo così i veri civilizzatori dell'umanità?

    Questa misteriosa differenza e questa incredibile parentela fra ebrei e cristiani ci portano insieme sulla via del pentimento, della teshuva. È l'insegnamento biblico fondamentale, comune a tutti noi. Perché, ebrei e cristiani, siamo tutti peccatori, attraversiamo la storia nel dualismo Chiesa-Sinagoga prodotto dall'indurimento degli uni e degli altri, ciascuno essendo interno all'indurimento dell'altro. E nella mia esperienza spirituale di fronte a Cristo, io cerco di misurare e di comprendere la distanza che mi separa dall'ebreo, senza mai pensare di fare dell'ebreo un «cristiano in potenza».

    È vero che Gesù ci divide, che è fra di noi segno di contraddizione, pietra d'inciampo. Mi piace molto la formula sconvolgente di S. Ben Chorin: «La fede di Gesù ci unisce ma la fede in Gesù ci separa». E tuttavia oso dire - è la verità profonda di ogni paradosso - che Gesù ci unisce nel medesimo istante in cui ci divide. Perché questa lacerazione riguarda solo noi. Un buddista, un indù, non ha alcun motivo d'esser chiamato in causa da Gesù Cristo: non lo incontra mai nella sua storia. Anche un musulmano lo sfiora appena. Ma noi, ebrei e cristiani, che lo si voglia o no, prima o poi siamo costretti a chiederci davanti al mondo come assumere insieme questa lacerazione interna che c'è fra di noi, questa lacerazione che è tutta nostra e che ha provocato il primo scisma, quello che un esegeta (Claude Tesmontant) ha chiamato «il prototipo degli scismi» dentro il corpo unico della famiglia di Dio? Perché, gli uni e gli altri, siamo i soli a poter annunciare la Parola divina rivolta a tutti gli uomini, siamo anche sospesi insieme alla stessa Parola e testimoni di una stessa promessa per l'umanità intera.

    In questo senso, anche il futuro del movimento ecumenico fra le diverse Chiese cristiane è legato alla consapevolezza che il legame con l'ebraismo è il test della fedeltà del cristianesimo allo stesso Dio. F. Lovsky, nell'ultimo capitolo del suo bel libro, parla dell'incontro ebraico-cristiano nell'intercessione. E constata che le nostre preghiere - quando pensiamo gli uni agli altri - sono le preghiere delle nostre sofferenze comuni e dei nostri risentimenti reciproci, ma deplora che non siano anche le preghiere delle nostre vocazioni complementari. Per quanto diverse siano le nostre preghiere, sono apparentate e devono diventare sorelle.

    Per parte mia, non cesso di pregare in vista del giorno in cui Dio sarà «tutto in tutti»(1 Cor. 15,28), ebrei e non ebrei. Tale è la Gerusalemme celeste di cui la nostra preghiera deve affrettare la venuta, la preghiera di noi che siamo in esilio ovunque nel mondo…anche io a Roma! Oh! Gerusalemme, preferita da Dio, di te ognuno può dire: «Ecco mia madre, in te ogni uomo è nato» (Sal. 97), e le nazioni salgono verso la luce. Oh, Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh Gerusalemme, «Città salda e compatta» dove si riuniscono tutti i figli di Abramo e in cui si concentra la preghiera per la pace (Sal. 122). Oh Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh! Gerusalemme, le cui colline piangono di desolazione e danzano di speranza, monte Moriah e Golgota, muro del Tempio e memoriale Yad Vashem, sepolcro vuoto dove l'angelo invita a non cercare fra i morti Colui che è Vivente (Lc. 24,5). Oh! Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh! Nuova Gerusalemme, tu che discendi dal cielo vestita come una sposa nel giorno delle nozze, tu che non hai più tempio, perché il tuo tempio «è il Signore, il Dio onnipotente e l'Agnello» (cf. Ap. 21)! Oh Gerusalemme del cielo, noi camminiamo verso di te.

    Al di là di ogni forma di testimonianza personale, resto convinto che la mia fede cristiana per essere fedele a se stessa ha bisogno della fede ebraica. Lungi da ogni teologia cristianizzante del giudaismo e da ogni teologia giudaizzante del cristianesimo, ho cercato di testimoniare ciò che Martin Buber ha espresso così bene: è l'Alleanza dello stesso Dio vivente che ci fa esistere, ebrei e cristiani, e che crea una comunità oltre la rottura. «L'ebraismo e il cristianesimo - scriveva al professor Karl Thieme - sono entrambi escatologici, ma allo stesso tempo hanno un posto nel disegno di Dio. Di qui derivano le differenze che separano ebrei e cristiani e la relazione che li unisce».

    Se l'altro è «un mistero e una sfida», la differenza è l'essenza stessa del nostro incontro, ed è anche la possibilità di ascolto reciproco e di mutuo arricchimento. Lungi dall'allontanarci gli uni dagli altri, non cessiamo di incrociarci attorno al Messia. Edmond Fleg ce lo insegna in Ascolta Israele:

    «Ed ora entrambi siete in attesa
    Tu che Egli venga e tu che Egli ritorni;
    Ma a Lui domandate la stessa pace
    E le vostre mani, che Egli venga o che Egli ritorni,
    a Lui tendete nello stesso amore! E dunque cosa importa?
    Dall'una e dall'altra riva
    Fate che Egli arrivi
    Fate che Egli arrivi!»

    Fate che Egli arrivi! Lo stesso Edmond Fleg, in un altro libro (Gesù raccontato dall'ebreo errante), stimola tutti, ebrei e cristiani: «Perché il Messia arrivi, grida con me: felici coloro che getteranno via le armi, perché partoriranno il Messia».

  3. #3
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    DALLA "NOSTRA AETATE" L'AVVIO DI UN PIÙ FRATERNO DIALOGO

    Card. Roger Etchegaray

    Da più di un anno, sotto la guida di Padre Cottier, la Commissione teologico-storica ha accuratamente preparato questo Colloquio che, grazie alla vostra partecipazione numerosa e qualificata, lascia ben sperare per l'esito dei suoi lavori, dei quali possiamo misurare tutta l'importanza sul lungo cammino della riconciliazione tra cristiani ed ebrei. Analizzare «Le radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano» significa sottolineare i limiti ma anche le profondità della ricerca progettata. Partire dall'antigiudaismo piuttosto che dall'antisemitismo, vuol dire centrare lo studio sulle motivazioni religiose le quali, poiché toccano la coscienza, sono molto più pregnanti e determinanti delle semplici motivazioni razziali o politiche.

    Proprio trentadue anni fa (il 28 ottobre 1965), il Concilio Vaticano II con la dichiarazione Nostra Aetate, «scrutando il mistero della Chiesa» (n.4), ha dato uno slancio straordinario al dialogo tra cristiani ed ebrei. Malgrado tutti i nostri sforzi, tale dialogo resterà fragile o troppo superficiale finché non ci interroghiamo in un modo più decisivo sulla natura religiosa del legame che unisce le due comunità «al livello stesso della propria identità», secondo le parole che Giovanni Paolo II ha usato all'inizio del suo pontificato (Magonza, 12 marzo 1979). È al cuore di tale interrogativo che si situa questo Colloquio, con uno scopo puramente esegetico, teologico e storico. Il vostro compito non è facile, perché si tratta di esaminare delle relazioni troppo spesso contrapposte tra Giudaismo e Cristianesimo, nonché di penetrare attraverso una spessa sedimentazione di questioni accumulatesi nel corso dei secoli, fin dai testi neo-testamentari.

    Il tal campo, come in molti altri, Giovanni Paolo II ci ha invitato a purificare la nostra memoria per superare con un passo più leggero la soglia ormai prossima dell'Anno 2000, che dovrà essere tutto sfavillante per il sole della misericordia sorto dalla nascita di Cristo Redentore. Lo sguardo fraterno che rivolgiamo qui verso la religione ebraica non può farci dimenticare che la Chiesa è ugualmente attenta alle altre religioni del mondo, e in particolare alla religione islamica che onora anch'essa il Dio di Abramo.


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    Predefinito Riporto il passo (di Nostra Aetate) che si riferisce ai fratelli di religione ebraica

    La religione ebraica

    4. Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.

    La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti.

    Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso. Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell'apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua razza: « ai quali appartiene l'adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine.

    Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo.

    Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata; gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. Tuttavia secondo l'Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e « lo serviranno sotto uno stesso giogo » (Sof 3,9).

    Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo.

    E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo.

    E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo.

    La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell'amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia.

  6. #6
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    fammi capire, Thomas, ma non c'era una certa differenza fra giudaismo ed ebraismo?
    "

  7. #7
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    Non mi risulta...


  8. #8
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    Quando, dove e non sò più, ebbi a manifestare perplessità in merito a tal documento conciliare, non voleva essere un rigetto in blocco del medesimo. Questa parte, da Thomas ben evidenziata, la credo illuminante. Solo le parti riguardanti le religioni non cristiane od estranee alle radici giudaico-cristiane mi lasciano insodisfatto e perplesso. Lo evidenzio onde non essere frainteso.
    OPUS DEI, BELLUM DOMINI, GESTA DEI.

  9. #9
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    Nostra Aetate non fa altro che approfondire l'insegnamento della Chiesa, così come sempre è stato fatto.


  10. #10
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    Il tal campo, come in molti altri, Giovanni Paolo II ci ha invitato a purificare la memoria......

    Se la tanto decantanta purificazione della memoria si concretizza in una dimenticanza "tattica" della Storia per miope calcolo alla luce delle emergenze presenti.... ogni meaculpismo indiscriminato rivela l'insipienza della testimonianza presente.


    Lo sguardo fraterno che rivolgiamo qui verso la religione ebraica non può farci dimenticare che la Chiesa è ugualmente attenta alle altre religioni del mondo, e in particolare alla religione islamica che onora anch'essa il Dio di Abramo.

    Osservazione egualmente strabica ed afflitta da uno strabismo acquisito i cui effetti son solo di diplopia conseguente.

    L'ebraismo nulla ha a che spartire con l' islamismo.

    In troppi ascoltiamo le Sacre Scritture non volendo renderci conto che le risposte fondamentali del Cristianesimo, in cospetto di Nostro Signore Gesù Cristo, ebbero a darle Ebrei come Lui.

    La figura di Abramo come recepita dallo pseudoprofeta nulla ha che spartire con la Sua originale persona Biblica. Come tutte le altre, menzionate dal corano.

    Non esiste confronto teologico e concettuale alcuno tra CRISTIANESIMO e ISLAM.

    La Fede Cristiana non è confrontabile con il secondo perchè con saggezza e sapienza già ben definita come: IMPARAGONABILE !
    OPUS DEI, BELLUM DOMINI, GESTA DEI.

 

 
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