Ultimamente mi sono scaricato gratuitamente tutti i numeri della rivista Quaderni padani da internet. Già avevo avuto modo durante gli anni di apprezzarne la dozzinale pressappochezza sovente bordeggiante con la più crassa ignoranza, totale mancanza di obiettività e misura del ridicolo che questi promonavano a piene mani, trovandoli di fatto veramente irresistibili e immancabili per quella verve lisergica e trash tipicamente leghista che anche noi abbiamo imparato ad apprezzare grazie ai tanti deliranti contributi leghisti letti spesso qui su POL.
Procedendo nella lettura di questi quaderni di cultura (?) padana (?) mi sono letteralmente sbellicato dalle risa. L’eloquenza di titoli come “La 'Terra di Mezzo'. Il recupero del celtismo padano”, “Liutprando, un re della Padania”, “Giovannino Guareschi, monarchico localista”, “Annibale, eroe padano” o “L'anarco-capitalismo padano” sfonda con forza ogni barriera del ridicolo e del buon senso.
Su tale falsariga ho trovato particolarmente probante di quanto finora detto uno stupendo editoriale presente nel numero 14 di novembre-dicembre 1997, ‘L’obelisco di Axum’, dove tale Brenno (pseudonimo dietro il quale si cela uno dei miei imbrattacarte leghisti preferiti, forse perfino più divertente di Oneto, che risulta di una comicità irresistibile nel suo tentativo di trattare con compassata serietà questioni che risultano invece essere del tutto ridicole, come questa cosa che andiamo ora ad esaminare) si accalora per perorare la causa che lui definisce della “restituzione di tutta l’arte e dei reperti che si trovano in musei e gallerie pubbliche che provengono dalla Padania”!!!
Ma i commenti a dopo, pubblico ora di seguito l’editoriale di Brenno che merita veramente di essere letto nella sua interezza:
L’obelisco di Axum
di Brenno
Gli Etiopi, si dice, rivogliono l’obelisco di Axum, rapinato dai fascisti dopo la conquista coloniale del loro paese. L’obelisco ha antico valore simbolico, prima ancora che storico, artistico e fallico. È stato il segno di una aggressione maramaldesca, dell’ultima conquista in ordine di tempo dell’imperialismo romano in edizione da avanspettacolo, che di quello antico aveva alcuni dei caratteri fondamentali, come l’aggressività sanguinaria, la violenza contro popolazioni inermi (l’impiego dei gas) e le motivazioni razzistiche (la presunta superiorità della civiltà di Roma su tutti gli altri, considerati barbari), senza però averne né l’ordinata efficienza militare né la formale dignità del criminale professionista. È perciò del tutto legittimo che gli Etiopi rivogliano indietro il maltolto a completa chiusura di un vergognoso capitolo di storia. Gli Italioni possono sempre farsene una copia in materiale plastico per rispettare le loro memorie imperiali, per soddisfare l’estetica della piazza di Porta Capena vicino a cui è collocato l’obelisco e lenire il complesso di castrazione che l’asportazione del colossale pistolone scatenerebbe nel loro priapico patriottismo. La restituzione ribadirebbe un sano principio di giustizia riparatrice. Da sempre colonialisti prepotenti e razzisti hanno arraffato i beni altrui e se li sono presi come bottino, trofei di conquista o pezzi da museo. Dal nome dell’ambasciatore britannico che si è portato a casa le decorazioni del Partenone è addirittura stato coniato il termine di “elginismo” a indicare la ricollocazione di importanti parti architettoniche lontano dal luogo di origine. Ci sono, per fortuna, anche illustri precedenti di restituzioni di refurtive imperialiste: era successo con una (purtroppo piccola) parte del grisbi giacobino e napoleonico dopo il Congresso di Vienna e con un po’ delle opere trafugate dai nazisti. Ora, giustamente, i Greci e gli Irakeni pretendono gli arredi di alcune sale del British Museum, gli Egiziani rivogliono parte delle vagonate di reperti disperse nel mondo occidentale e gli Etiopi il loro obelisco costruito - secondo una antica tradizione - con i poteri del Tabot (l’Arca dell’Alleanza) custodito a Gonder. Alla fine dell’era coloniale sono rimasti allo stadio di colonie solo pochi scampoli di mondo, qualche isola tropicale e alcune nazioni negate. In Europa è la Padania la più grossa colonia tuttora esistente. Nel suo processo di liberazione la Padania deve ricomprendere anche la legittima richiesta di restituzione di tutto il maltolto artistico. Non è certo pensabile di chiedere il ritorno della refurtiva tout-court vista l’entità della rapina cui è stata sottoposta in duemila anni di estorsioni curiali e in 150 anni di rapine italiane. Ci contenteremo infatti, purché la partita sia proprio chiusa, di pretendere la restituzione del solo maltolto artistico. E, anche qui, solo di quello di pubblica proprietà e lontano dalla sua collocazione originaria. Non cercheremo di riprenderci perciò - ad esempio - i quadri dipinti per chiese e palazzi e lì rimasti, anche se sono stati eseguiti da artisti padani e toscani retribuiti con denaro “raccolto” in Padania e Toscana. Ci si limiterà a pretendere la restituzione di tutta l’arte e dei reperti che si trovano in musei e gallerie pubbliche che provengono dalla Padania o che sono stati eseguiti da artisti e artigiani padani. Tutto ciò che è ligure, celtico, veneto, longobardo e goto se ne dovrà tornare qui, assieme a tutti gli oggetti d’arte (quadri e sculture, ma anche oreficeria, oggettistica, mobili eccetera) prodotti da artisti padani. Non solo i musei romani, ma anche quelli di tutte le altre città peninsulari sono infatti pieni di nostri prodotti finiti (si sa come...) in latitudini più calde. Lo stesso vale per gli arredi di troppi palazzi e uffici governativi che sono stati “abbelliti” con quanto tolto dalle regge preunitarie. Oltre a quel che ci appartiene per provenienza ci sono anche beni che ci spettano per significato simbolico. Non c’è una “pietra del destino” padana (come quella restituita di recente agli Scozzesi dall’Inghilterra) ma esistono oggetti che hanno significato altrettanto forte nell’immaginario collettivo e nei sentimenti di identità dei popoli padano-alpini, come il “Galata morente” del Museo Capitolino e le colonne che reggevano in Campidoglio il carroccio milanese che Federico II raccontò di avere catturato a Cortenuova. Nessuna paura: non pretenderemo nulla che non sia nostro, che non sia “mobile” e di proprietà pubblica. Ai rapporti con lo stato straniero vaticano (e alla sua parte di refurtiva) penseremo quando stipuleremo un concordato. Non ci prenderemo neppure quel gigantesco vespasiano patriottico che è il Vittoriano (l’espressione e l’eventuale “avviso” per “depressione del sentimento nazionale” sono di Mino Maccari) anche se è costruito con padanissimo marmo di Botticino. Ma saremo anche giusti e corretti: se ci sono da noi opere fatte da Italioni a spese loro, se le vengano pure a prendere. Di più: gli daremo anche tutti i monumenti a Garibaldi, Vittorio, Mazzini e compagnia cantante non perché siano roba loro (sono purtroppo “roba” nostra ...) ma in ricordo di una comune sciagura e perché ne facciano quel che vogliono. Li mettano in piazza se vorranno perseverare nel sentirsi italiani e li usino come bersagli da tiro a segno se finalmente decideranno di essere liberi e Ausoni: sono infatti quelli (ma non solo quelli) i responsabili di tutti i guai. Nostri e loro.
Al di là delle bojate varie ivi contenute (obelisco di Axum, "imperialismo" romano, ecc.), mi si consentano alcune considerazioni di carattere prettamente storiografico riguardo questo buffo editoriale, giusto per sottolineare ulteriormente, e impietosamente, la pressappochezza e profonda ignoranza con cui sono solitamente infarciti questi articoletti presenti nei risibili 'Quaderni padani'. L’apice dell’assurdo viene infatti toccato quando Brenno dichiara che “oltre a quel che ci appartiene per provenienza ci sono anche beni che ci spettano per significato simbolico” (boom!!!) portando come esempio di questo supposto valore simbolico del sedicente popolo padano nientepopodimeno che la statua del ‘Galata morente’ conservata ai musei capitolini di Roma e le colonne che reggevano il carroccio milanese custodite in Campidoglio a Roma.
Riguardo al ‘Galata morente’ sarebbe veramente da capire per tramite di quali contorsionismi logici si può arrivare a considerarla un’opera da restituire al popolo padano (sempre ‘sedicente’) come forma di riparazione simbolica. Riparazione di cosa non è poi dato sapere, visto che la statua del II secolo a.c. è in primis una riproduzione eseguita da artisti romani, per commissione di Giulio Cesare che la volle per abbellire i suoi horti sul Quirinale, da un originale, probabilmente in bronzo, parte del donario dedicato da Attalo I re di Pergamo ad Athena dopo la sua vittoria sui Galati, i Galli latini. E in secundis dal fatto che i Galati (il termine in greco significa “barbari”) erano popolazioni si di origine celtica ma stanziate in Asia minore, quindi ben poco attienti con gli ex-abitanti della Gallia Cisalpina.
Dovrebbe quindi Brenno avere l’amabilità di spiegarci su quali criteri si basa la sua richiesta di restituzione se l’oggetto del contendere è un prodotto della statuaria romana, ossia non rientrante nella categoria delle opere d’arte trafugate di cui l’articolo va lamentando, e soprattutto che cosa c’entrerà mai una statua facente parte di un monumento che era dedicato alla vittoria dei Pergameni sui Galati, con l’Italia settentrionale e i deliri padan-leghisti?
C’è qualche anima pia, leghista o meno, in grado di darmi una risposta dotata di senso compiuto?
Discorso affine si può fare poi anche al riguardo delle colonne che reggevano il carroccio milanese, ora site nella sala dei Capitani in Campidoglio a Roma, che catturato da Federico II a Cortenuova, la battaglia in cui l’armata ghibellina inferse un pesante colpo alla Lega dei comuni italiani (che nulla ha ovviamente a che vedere con quel partito che ne ha usurpato il nome), fu successivamente inviato come monito da parte dello Stupor Mundi direttamente al Pontefice romano.
La domanda qui da porre è la seguente: “Che cosa c’entrerà mai la Lega Nord con la Lega Lombarda storica quando la rivolta della Lega dei comuni italiani, secondo la lettura che se ne diede durante il Risorgimento, altro non fu che un grande atto di patriottismo verso l’invasore straniero (cosa che tra l’altro io non condivido del tutto e per varie ragioni)?
Le poche similitudini che io colgo sono il solo fatto che combattendo al soldo del Papa contro l’Imperatore, i comuni combattevano di fatto contro il sogno di Federico II di un’Italia finalmente unita. E che i comuni italiani, cambiando bandiera dal giorno alla notte, alleandosi a volte con l’Imperatore e a volte contro, solamente in relazione al fatto di poter colpire i propri nemici storici dei comuni confinanti, perseguendo così solamente i propri biechi interessi e massacrandosi allegramente tra di loro, con somma gioia del Papa e degli imperi d’oltralpe, altro non rispecchia che la situazione politica della moderna Lega Nord, tutta presa a dire tutto e il contrario di tutto.
Quindi, ad un più attento esame, anche questa mi sembra una richiesta totalmente fuori di senno. E anche qui aspetto speranzoso (seee) che qualche legaiuolo venga finalmente a illuminarmi al riguardo. Ma è forse chiedere troppo a chi, da irriducibile secessionista, si è andato a scegliere come inno del proprio partitucolo una piece musicale del buon Giuseppe Verdi, che anche i sassi sanno essere stato grande e fervente patriota...
Sarei infine assai curioso di sapere a quali grandi capolavori dell’arte “ligure (qui da intendersi come popolo pre-romano), celtica, veneta, longobarda e gota” si riferisca Brenno nel suo bel editoriale... Dove stanno e quali sono questi capolavori? Mi si renda edotto al riguardo. Grazie.
Questo è quanto. Avrò premura in futuro di proporre ulteriore materiale da questi quaderni sedicentemente culturali () editi dalla Libera Compagnia Padana, perché ritengo che, specialmente oggigiorno, tra le mille preoccupazioni della vita, regalare un sorriso o una risata sia ancora una di quelle azioni impagabili e necessarie. Quindi un grazie di cuore alla Libera Compagnia Padana per le risate a e i sorrisi che che ci ha fin qui regalato.
Saluti.