Mesi fa lessi 'L'ultima legione', il romanzo di Valerio Massimo Manfredi sugli ultimi giorni dell'Impero Romano d'Occidente, trovandolo interessante e stimolante soprattutto a cagione dell'argomento trattato. Certo, nulla che faccia gridare al miracolo, però trovai alcuni passaggi veramente avvincenti in quanto rievocazione e glorificazione di quella romanitas che in un certo qual modo sta alla base del nostro pensiero politico e ideale.
Ho preso nota di alcuni di questi passaggi che voglio ora condividere con voi:
Pagina 342:
In quel momento la fitta nuvolaglia si aprì, la nebbia che serpeggiava sull’acqua si diradò e il sole incendiò la superficie del grande fiume, illuminando la distesa nevosa che ne copriva le rive e facendola brillare come un mantello d’argento. Tutti restarono incantati a quella vista, come davanti a una visione di speranza. Poi, da poppa, dal piccolo gruppo di veterani, la voce rauca di Elio Vatreno intonò, lento e solenne, l’inno al sole, l’antichissimo carmen saeculare di Orazio:
Alme Sol curru nitido diem qui
promis et celas...
A quella voce se ne unì una seconda e poi una terza e una quarta, e poi quella di Livia e dello stesso Aurelio:
aliusque et idem
nasceris, possis nihil Roma
visere maius...
Romolo esitò, guardando Ambrosinus. «Ma è un canto pagano...» disse.
È il canto della grandezza di Roma, figlio mio, che non sarebbe giunta a tanto splendore se Dio non lo avesse permesso. E ora che volge al suo tramonto, è giusto levare questo canto di gloria.» E si unì egli stesso al coro.
Anche Romolo cantò. Levò la sua voce ancora limpida di fanciullo come non aveva mai fatto fino a quel momento, sovrastando quelle profonde e possenti dei suoi compagni, unendosi a quella di Livia tesa e fremente. E anche il barcaiolo, preso da quell’atmosfera così intensa, cantò con loro seguendo la melodia pur senza conoscere le parole.
Alla fine il canto si spense mentre il sole, vinte le nubi e dissolta definitivamente la nebbia, trionfava splendente nel cielo invernale.
Romolo si avvicinò al barcaiolo che ora taceva e aveva negli occhi una strana luce, come di commozione. «Sei romano anche tu?» gli chiese.
«No» rispose il barcaiolo. «Ma vorrei esserlo.»
Pagine 35-36:
«So che mi disprezzi» disse Odoacre. «Barbari, ci chiamate, come se voi foste migliori, invece siete una razza sfinita da secoli di vizio, di potere e di corruzione. Ho fatto uccidere tuo marito perché lo meritava, perché mi aveva tradito venendo meno alla sua parola. Dovevo dare un sempio perché tutti capissero che non si può ingannare impunemente Odoacre, e l’esempio doveva essere così tremendo da incutere spavento a chiunque. E non contare su tuo cognato Paolo: le mie truppe lo hanno circondato e annientato. Ma basta, ora, con il sangue: non intendo infierire su questo paese. Voglio che rinasca, che rifioriscano le opere, il lavoro nei campi e nelle botteghe. Questa terra merita di meglio che Flavio Oreste e il suo imperatore bambino. Merita un vero sovrano che la guidi e la protegga come un marito guida e protegge la moglie. Quel sovrano sarò io e voglio che tu sia la mia regina.»
Flavia, che era rimasta immobile e silenziosa fino a quel momento, finalmente reagì e la sua voce era tagliente come una lama. «Non sai ciò che dici. Io discendo da coloro che per secoli vi hanno combattuti e ricacciati nelle selve a vivere come le bestie cui somigliate in tutto. Mi ripugna il vostro fetore, la vostra ignoranza, la vostra selvatichezza, mi ripugna la vostra lingua e il suono della vostra voce, simile più all’abbaiare dei cani che a espressione umana, mi fa schifo la vostra pelle che non sopporta la luce del sole, i vostri capelli di stoppa e i vostri baffi sempre sporchi di avanzi di cibo. È questo il vincolo coniugale che desideri? Questo lo scambio di sentimenti? Puoi ammazzarmi anche adesso, non mi importa. Io non ti sposerò mai!»
Odoacre serrò le mascelle: le parole sferzanti di Flavia lo avevano ferito e umiliato. Sapeva che non c’era forza né potere in grado di vincere quel disprezzo, ma dentro avvertiva forte il sentimento che lo aveva posseduto fin da giovane, quando era entrato nell’esercito imperiale: l’ammirazione per quelle città antichissime, per i fori e le basiliche, le colonne e i monumenti, le strade, i porti e gli acquedotti, le insegne e gli archi, le solenni iscrizioni di bronzo, i bagni e le terme, le case, le ville, così belle da sembrare residenze di dèi piuttosto che di uomini. L’Impero era l’unico mondo in cui valesse la pena vivere per un essere umano.
Pagina 155:
Non ero ancora nato quando le ultime aquile delle legioni romane Lasciarono la Britannia per non farvi mai più ritorno. L’imperatore aveva bisogno di tutti i suoi soldali e così la mia terra venne abbandonata al suo destino. Per un certo periodo di tempo non accadde nulla. I maggiorenti continuarono a governare le città con gli ordinamenti dei padri, con le leggi e le magistrature dell’Impero, e continuarono a mantenere contatti con la lontana corte di Ravenna sperando che prima o poi le aquile sarebbero ritornate. Ma un giorno i barbari del Nord che abitavano oltre il Grande Vallo invasero le nostre terre seminandovi morte, distruzione e fame con continue incursioni e saccheggi. Chiedemmo ancora aiuto all’imperatore sperando che non ci avesse dimenticati, ma egli non poteva certo ascoltarci: una marea barbarica minacciava le frontiere orientali dell’Impero, cavalieri feroci e instancabili dalla pelle olivastra e dagli occhi obliqui erano giunti dalle sterminate pianure sarmatiche come spettri dalle profondità della notte e avanzavano tutto distruggendo al loro passaggio. Non si riposavano mai né dormivano: bastava loro un breve reclinare del capo appoggiati al collo delle irsute cavalcature, e il loro cibo era carne macerata sotto la sella dal sudore dei cavalli.
Pagine 161-162:
Che ne era mai del nobile sangue latino! Le campagne erano infestate da bande di briganti, le fattorie abitate da contadini miserabili vessati da insopportabili gabelle. Sulle vecchie, gloriose strade consolari, quelle che un tempo erano state urbi possenti cinte di bastioni turriti non erano ormai che fantasmi di mura cadenti e semidistrutte fra cui s’insinuavano i cupi tralci dell’edera. Mendicanti macilenti alle soglie delle case dei ricchi contendevano gli avanzi ai cani e si azzuffavano fra di loro per disputarsi brandelli d’intestini maleodoranti d bestie macellate. Non c’erano sui colli le viti e gli olivi d’argento che avevo sognato leggendo fanciullo nelle scuole di Carvetia i poemi d’Orazio e Virgilio, né bianchi buoi dalle cona lunate trainavano aratri a rivoltare la terra, né l’ampio gesto solenne del seminatore completava quell’opera. Solo irsuti pastori inselvatichiti spingevano mandrie di pecore e capre su pascoli aridi, o branchi di porci sotto i boschi di querce spesso contendendo loro le ghiande per la fame.
Dove avevamo mai riposto le nostre speranze! L’ordine, se così si può chiamare, era mantenuto da torme di barbari che componevano ormai in gran parte l’esercito imperiale, più fedeli ai loro capi che ai pochi ufficiali romani. Essi vessavano il popolo assai più di quanto non lo difendessero. L’Impero non era più che una larva, una vuota parvenza come il suo imperatore, e coloro che erano stati i signori del mondo giacevano ora sotto il tallone di oppressori rozzi e arroganti. Quante volte scrutai quei volti abbruttiti, quelle fronti sudicie, grondanti di sudore servile, cercandovi i nobili tratti di Cesare e Mario, i maestosi lineamenti di Catone e di Seneca! Eppure, come un raggio di sole penetra d’un tratto fra una fitta nuvolaglia nel colmo di una tempesta, così talvolta, senza apparente ragione, da quegli sguardi lampeggiava improvvisa la fiera prodezza degli antenati e questo m’induceva a pensare che forse non tutto era perduto.
Nelle città e nei villaggi la religione di Cristo aveva vinto dovunque e il Dio crocefisso guardava i suoi fedeli da altari scolpiti nel sasso e nel marmo, ma nelle campagne, nascosti e quasi protetti dalle fitte boscaglie, ancora si ergevano i templi delle antiche divinità degli avi. Mani sconosciute deponevano offerte davanti ai simulacri spezzati e mutilati e talvolta il suono dei lauti e dei tamburi risuonava dal folto delle selve o dalle vette dei monti per chiamare ignoti fedeli a evocare le Driadi dai boschi, le Ninfe dai ruscelli e dai laghi. Nei luoghi più isolati, nelle profondità delle grotte, fra muschi odorosi, poteva apparire inaspettata l’immagine ferina di Pan dall’unghia fessa, con l’enorme fallo sporgente dall’inguine osceno, testimonianza di orge non dimenticate né spente.
I sacerdoti di Cristo predicavano l’imminenza del suo ritorno e del suo giudizio finale ed esortavano ad abbandonare il pensiero della Città terrena per levare sguardo e speranze alla sola Città di Dio. Così, ogni giorno moriva nei cuori della gente romana l’amore per la Patria, svaniva il culto degli antenati e delle memorie più sacre lasciate agli studi puramente accademici dei retori.
Pag. 191-192:
A poca distanza, in una camera degli appartamenti imperiali, Ambrosinus e Romolo si preparavano alla fuga indossando vesti comode, calzature di feltro atte a muoversi con rapidità e nel più assoluto silenzio. Il vecchio raccolse quanto poté delle sue cose nella bisaccia da viaggio: del cibo, e in più le sue polveri, le erbe, gli amuleti. E vi aggiunse l’Eneide.
«Ma è un peso inutile» disse Romolo.
«Tu credi? E invece è il carico più prezioso, figlio mio» rispose Ambrosinus. «Quando si fugge e ci si lascia tutto alle spalle, l’unico tesoro che possiamo portare con noi è la memoria. Memoria delle nostre origini, delle nostre radici, della nostra storia ancestrale. Solo la memoria può consentirci di rinascere, dal nulla. Non importa dove, non importa quando, ma se conserveremo il ricordo della nostra passata grandezza e dei motivi per cui l’abbiamo perduta, noi risorgeremo.»
Ma tu vieni dalla Britannia, Ambrosine, sei un Celta.»
«È vero, ma in questo momento così terribile in cui tutto crolla e si dissolve, in cui l’unica civiltà di questo mondo è colpita al cuore, non possiamo non dirci romani, anche noi che veniamo dalla più remota periferia dell’Impero, anche noi che fummo abbandonati, tanti anni fa, al nostro destino...
Pagine 388-389:
«Se essere pagano significa fedeltà alla tradizione degli antenati e alle credenze dei padri, se significa vedere Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio, se significa rimpiangere amaramente una grandezza che non tornerà mai più, ebbene sì, sono pagano.»