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Discussione: L'ultima legione

  1. #1
    Orazio Coclite
    Ospite

    Predefinito L'ultima legione



    Mesi fa lessi 'L'ultima legione', il romanzo di Valerio Massimo Manfredi sugli ultimi giorni dell'Impero Romano d'Occidente, trovandolo interessante e stimolante soprattutto a cagione dell'argomento trattato. Certo, nulla che faccia gridare al miracolo, però trovai alcuni passaggi veramente avvincenti in quanto rievocazione e glorificazione di quella romanitas che in un certo qual modo sta alla base del nostro pensiero politico e ideale.
    Ho preso nota di alcuni di questi passaggi che voglio ora condividere con voi:



    Pagina 342:

    In quel momento la fitta nuvolaglia si aprì, la nebbia che serpeggiava sull’acqua si diradò e il sole incendiò la superficie del grande fiume, illuminando la distesa nevosa che ne copriva le rive e facendola brillare come un mantello d’argento. Tutti restarono incantati a quella vista, come davanti a una visione di speranza. Poi, da poppa, dal piccolo gruppo di veterani, la voce rauca di Elio Vatreno intonò, lento e solenne, l’inno al sole, l’antichissimo carmen saeculare di Orazio:

    Alme Sol curru nitido diem qui
    promis et celas...


    A quella voce se ne unì una seconda e poi una terza e una quarta, e poi quella di Livia e dello stesso Aurelio:

    aliusque et idem
    nasceris, possis nihil Roma
    visere maius...


    Romolo esitò, guardando Ambrosinus. «Ma è un canto pagano...» disse.
    È il canto della grandezza di Roma, figlio mio, che non sarebbe giunta a tanto splendore se Dio non lo avesse permesso. E ora che volge al suo tramonto, è giusto levare questo canto di gloria.» E si unì egli stesso al coro.
    Anche Romolo cantò. Levò la sua voce ancora limpida di fanciullo come non aveva mai fatto fino a quel momento, sovrastando quelle profonde e possenti dei suoi compagni, unendosi a quella di Livia tesa e fremente. E anche il barcaiolo, preso da quell’atmosfera così intensa, cantò con loro seguendo la melodia pur senza conoscere le parole.
    Alla fine il canto si spense mentre il sole, vinte le nubi e dissolta definitivamente la nebbia, trionfava splendente nel cielo invernale.
    Romolo si avvicinò al barcaiolo che ora taceva e aveva negli occhi una strana luce, come di commozione. «Sei romano anche tu?» gli chiese.
    «No» rispose il barcaiolo. «Ma vorrei esserlo.»



    Pagine 35-36:

    «So che mi disprezzi» disse Odoacre. «Barbari, ci chiamate, come se voi foste migliori, invece siete una razza sfinita da secoli di vizio, di potere e di corruzione. Ho fatto uccidere tuo marito perché lo meritava, perché mi aveva tradito venendo meno alla sua parola. Dovevo dare un sempio perché tutti capissero che non si può ingannare impunemente Odoacre, e l’esempio doveva essere così tremendo da incutere spavento a chiunque. E non contare su tuo cognato Paolo: le mie truppe lo hanno circondato e annientato. Ma basta, ora, con il sangue: non intendo infierire su questo paese. Voglio che rinasca, che rifioriscano le opere, il lavoro nei campi e nelle botteghe. Questa terra merita di meglio che Flavio Oreste e il suo imperatore bambino. Merita un vero sovrano che la guidi e la protegga come un marito guida e protegge la moglie. Quel sovrano sarò io e voglio che tu sia la mia regina.»
    Flavia, che era rimasta immobile e silenziosa fino a quel momento, finalmente reagì e la sua voce era tagliente come una lama. «Non sai ciò che dici. Io discendo da coloro che per secoli vi hanno combattuti e ricacciati nelle selve a vivere come le bestie cui somigliate in tutto. Mi ripugna il vostro fetore, la vostra ignoranza, la vostra selvatichezza, mi ripugna la vostra lingua e il suono della vostra voce, simile più all’abbaiare dei cani che a espressione umana, mi fa schifo la vostra pelle che non sopporta la luce del sole, i vostri capelli di stoppa e i vostri baffi sempre sporchi di avanzi di cibo. È questo il vincolo coniugale che desideri? Questo lo scambio di sentimenti? Puoi ammazzarmi anche adesso, non mi importa. Io non ti sposerò mai!»
    Odoacre serrò le mascelle: le parole sferzanti di Flavia lo avevano ferito e umiliato. Sapeva che non c’era forza né potere in grado di vincere quel disprezzo, ma dentro avvertiva forte il sentimento che lo aveva posseduto fin da giovane, quando era entrato nell’esercito imperiale: l’ammirazione per quelle città antichissime, per i fori e le basiliche, le colonne e i monumenti, le strade, i porti e gli acquedotti, le insegne e gli archi, le solenni iscrizioni di bronzo, i bagni e le terme, le case, le ville, così belle da sembrare residenze di dèi piuttosto che di uomini. L’Impero era l’unico mondo in cui valesse la pena vivere per un essere umano.



    Pagina 155:

    Non ero ancora nato quando le ultime aquile delle legioni romane Lasciarono la Britannia per non farvi mai più ritorno. L’imperatore aveva bisogno di tutti i suoi soldali e così la mia terra venne abbandonata al suo destino. Per un certo periodo di tempo non accadde nulla. I maggiorenti continuarono a governare le città con gli ordinamenti dei padri, con le leggi e le magistrature dell’Impero, e continuarono a mantenere contatti con la lontana corte di Ravenna sperando che prima o poi le aquile sarebbero ritornate. Ma un giorno i barbari del Nord che abitavano oltre il Grande Vallo invasero le nostre terre seminandovi morte, distruzione e fame con continue incursioni e saccheggi. Chiedemmo ancora aiuto all’imperatore sperando che non ci avesse dimenticati, ma egli non poteva certo ascoltarci: una marea barbarica minacciava le frontiere orientali dell’Impero, cavalieri feroci e instancabili dalla pelle olivastra e dagli occhi obliqui erano giunti dalle sterminate pianure sarmatiche come spettri dalle profondità della notte e avanzavano tutto distruggendo al loro passaggio. Non si riposavano mai né dormivano: bastava loro un breve reclinare del capo appoggiati al collo delle irsute cavalcature, e il loro cibo era carne macerata sotto la sella dal sudore dei cavalli.



    Pagine 161-162:

    Che ne era mai del nobile sangue latino! Le campagne erano infestate da bande di briganti, le fattorie abitate da contadini miserabili vessati da insopportabili gabelle. Sulle vecchie, gloriose strade consolari, quelle che un tempo erano state urbi possenti cinte di bastioni turriti non erano ormai che fantasmi di mura cadenti e semidistrutte fra cui s’insinuavano i cupi tralci dell’edera. Mendicanti macilenti alle soglie delle case dei ricchi contendevano gli avanzi ai cani e si azzuffavano fra di loro per disputarsi brandelli d’intestini maleodoranti d bestie macellate. Non c’erano sui colli le viti e gli olivi d’argento che avevo sognato leggendo fanciullo nelle scuole di Carvetia i poemi d’Orazio e Virgilio, né bianchi buoi dalle cona lunate trainavano aratri a rivoltare la terra, né l’ampio gesto solenne del seminatore completava quell’opera. Solo irsuti pastori inselvatichiti spingevano mandrie di pecore e capre su pascoli aridi, o branchi di porci sotto i boschi di querce spesso contendendo loro le ghiande per la fame.
    Dove avevamo mai riposto le nostre speranze! L’ordine, se così si può chiamare, era mantenuto da torme di barbari che componevano ormai in gran parte l’esercito imperiale, più fedeli ai loro capi che ai pochi ufficiali romani. Essi vessavano il popolo assai più di quanto non lo difendessero. L’Impero non era più che una larva, una vuota parvenza come il suo imperatore, e coloro che erano stati i signori del mondo giacevano ora sotto il tallone di oppressori rozzi e arroganti. Quante volte scrutai quei volti abbruttiti, quelle fronti sudicie, grondanti di sudore servile, cercandovi i nobili tratti di Cesare e Mario, i maestosi lineamenti di Catone e di Seneca! Eppure, come un raggio di sole penetra d’un tratto fra una fitta nuvolaglia nel colmo di una tempesta, così talvolta, senza apparente ragione, da quegli sguardi lampeggiava improvvisa la fiera prodezza degli antenati e questo m’induceva a pensare che forse non tutto era perduto.
    Nelle città e nei villaggi la religione di Cristo aveva vinto dovunque e il Dio crocefisso guardava i suoi fedeli da altari scolpiti nel sasso e nel marmo, ma nelle campagne, nascosti e quasi protetti dalle fitte boscaglie, ancora si ergevano i templi delle antiche divinità degli avi. Mani sconosciute deponevano offerte davanti ai simulacri spezzati e mutilati e talvolta il suono dei lauti e dei tamburi risuonava dal folto delle selve o dalle vette dei monti per chiamare ignoti fedeli a evocare le Driadi dai boschi, le Ninfe dai ruscelli e dai laghi. Nei luoghi più isolati, nelle profondità delle grotte, fra muschi odorosi, poteva apparire inaspettata l’immagine ferina di Pan dall’unghia fessa, con l’enorme fallo sporgente dall’inguine osceno, testimonianza di orge non dimenticate né spente.
    I sacerdoti di Cristo predicavano l’imminenza del suo ritorno e del suo giudizio finale ed esortavano ad abbandonare il pensiero della Città terrena per levare sguardo e speranze alla sola Città di Dio. Così, ogni giorno moriva nei cuori della gente romana l’amore per la Patria, svaniva il culto degli antenati e delle memorie più sacre lasciate agli studi puramente accademici dei retori.



    Pag. 191-192:

    A poca distanza, in una camera degli appartamenti imperiali, Ambrosinus e Romolo si preparavano alla fuga indossando vesti comode, calzature di feltro atte a muoversi con rapidità e nel più assoluto silenzio. Il vecchio raccolse quanto poté delle sue cose nella bisaccia da viaggio: del cibo, e in più le sue polveri, le erbe, gli amuleti. E vi aggiunse l’Eneide.
    «Ma è un peso inutile» disse Romolo.
    «Tu credi? E invece è il carico più prezioso, figlio mio» rispose Ambrosinus. «Quando si fugge e ci si lascia tutto alle spalle, l’unico tesoro che possiamo portare con noi è la memoria. Memoria delle nostre origini, delle nostre radici, della nostra storia ancestrale. Solo la memoria può consentirci di rinascere, dal nulla. Non importa dove, non importa quando, ma se conserveremo il ricordo della nostra passata grandezza e dei motivi per cui l’abbiamo perduta, noi risorgeremo.»
    Ma tu vieni dalla Britannia, Ambrosine, sei un Celta.»
    «È vero, ma in questo momento così terribile in cui tutto crolla e si dissolve, in cui l’unica civiltà di questo mondo è colpita al cuore, non possiamo non dirci romani, anche noi che veniamo dalla più remota periferia dell’Impero, anche noi che fummo abbandonati, tanti anni fa, al nostro destino...



    Pagine 388-389:

    «Se essere pagano significa fedeltà alla tradizione degli antenati e alle credenze dei padri, se significa vedere Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio, se significa rimpiangere amaramente una grandezza che non tornerà mai più, ebbene sì, sono pagano.»

  2. #2
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    Predefinito

    «Quando si fugge e ci si lascia tutto alle spalle, l’unico tesoro che possiamo portare con noi è la memoria. Memoria delle nostre origini, delle nostre radici, della nostra storia ancestrale. Solo la memoria può consentirci di rinascere, dal nulla. Non importa dove, non importa quando, ma se conserveremo il ricordo della nostra passata grandezza e dei motivi per cui l’abbiamo perduta, noi risorgeremo.»

    «Se essere pagano significa fedeltà alla tradizione degli antenati e alle credenze dei padri, se significa vedere Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio, se significa rimpiangere amaramente una grandezza che non tornerà mai più, ebbene sì, sono pagano.»





    Osservando l'immagine noto: Aquila, croce e mezzaluna e mi chiedo se è un simbolo certo, cioè un documento vero ???'

  3. #3
    ardimentoso
    Ospite

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    buona lettura.
    non ricordo alla letlera le parole, ma è interessante anche la storia della spada ritrovata del Divino Giulio Cesare.

    e la fine lega molto con l'altro post su re Artù......

  4. #4
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    "Miracolo italiano, le legioni di Manfredi spaventano i re dei bestseller". Così titolava lo scorso aprile il Corriere della Sera recensendo il nuovo romanzo di Valerio Massimo Manfredi. Si tratta di un libro bello e, almeno per me, commovente, che come insegnante sarei felice che tutti gli studenti italiani leggessero, fuor da ogni obbligo, così che userei le stesse parole che nel romanzo il precettore Ambrosinus (che poi è mago Merlino) dice al giovinetto Romolo Augustolo: "E anche tu dovresti dedicarti alla scrittura, o almeno alla lettura. Aiuta a dimenticare gli affanni, libera l'anima dall'angoscia e dalla noia del quotidiano, ci mette in contatto con un mondo diverso".

    Il "mondo diverso" della scrittura e della lettura è, per Valerio Massimo Manfredi, fin dai suoi esordi come narratore, il mondo antico. Ma questo mondo antico, mediterraneo in particolare, è un mondo in continua, misteriosa interazione col nostro, sia sotto il profilo collettivo che individuale: oracoli, profezie, sono sovente il ponte tra passato e presente. è insomma un mondo magico, per cui valgono queste altre parole di Ambrosinus: ". Esiste un altro mondo, oltre a quello che noi conosciamo, il mondo dei sogni, dei mostri e delle chimere, il mondo delle farneticazioni, delle passioni e dei misteri. E' un mondo che in certi momenti ci sfiora e ci induce ad azioni che non hanno senso, oppure, semplicemente, ci fa rabbrividire, come un soffio d'aria gelida che passa nella notte, come il canto di un usignolo che sgorga dall'ombra. Non sappiamo fin dove si estende, se ha confini o se è infinito, se è dentro o fuori di noi, se assume le sembianze del reale per rivelarsi oppure per nascondersi. Le profezie sono simili alle parole che un uomo addormentato pronuncia nel sonno. Apparentemente non hanno senso, in realtà vengono dagli abissi più nascosti dell'anima universale".Nel romanzo L'oracolo vi era un corto circuito tra la Grecia degli anni 70, al tempo dei colonnelli, e la Grecia micenea. In Palladion, tra Italia romana, Italia medievale e Italia di oggi. Ne Il faraone delle sabbie tra l'antico Mediooriente e l'attualissimo conflitto israelo-palestinese, con particolari perfino profetici, dopo l'11 settembre. Se L'ultima legione appartiene a quel gruppo di romanzi svolgentisi del tutto nell'antichità (vedi Le paludi d'Esperia e il ciclo su Alessandro Magno), tuttavia parla al nostro presente attraverso continui rimandi che il lettore attento non può non cogliere.

    Ridotta allo scheletro, anche per non togliere il gusto della lettura, la trama del romanzo è questa. Myrdin Emreis, druido cristianizzato del bosco sacro di Gleva che i Romani chiamarono Meridius Ambrosinus, racconta le vicende avventurose che portarono Romolo Augustolo, il fanciullo ultimo imperatore d'Occidente deposto dal barbaro Odoacre dopo averne ucciso i genitori, Oreste e Flavia Serena, fino in Britannia. Vicende cui partecipano tre superstiti della legione nona invicta costituita segretamente da Oreste come ultimo baluardo della romanità imperiale d'Occidente, cui si aggiungeranno poi due veterani greci liberati dalla schiavitù, un'eroina tanto coraggiosa quanto bella e ovviamente Merlino-Ambrosinus stesso, il quale, anch'egli avventurosamente giunto in Italia per chiedere l'aiuto di Ravenna contro i Pitti e i Sassoni minaccianti la Britannia celto-romana, insegue il sogno di una profezia: "Verrà un giovane dal mare meridionale / con una spada portando pace e prosperità. / L'aquila e il dragone torneranno a volare / sulla grande terra di Britannia".La spada è quella di Giulio Cesare, ritrovata da Romolo Augustolo, destinata a esser conosciuta in Britannia come la mitica Excalibur. L'aquila e il drago sono le insegne dell'"ultima legione" romana in terra britannica, ammainate dopo la partenza di Meridius Ambrosinus, ma che i nostri eroi riporteranno in auge gettando il seme di una nuova storia.

    Non voglio essere io a trattare di aspetti squisitamente storici. Preferisco quelli ideali e ideologici. Questo romanzo riporta con grande sapienza narrativa al centro della nostra attenzione il grande rimosso della cultura italiana del dopoguerra: Roma, l'Impero Romano. Intendiamoci, gli archeologi, gli antichisti, come sono, ed autorevolmente, i nostri stessi ospiti, han sempre fatto il loro bravo lavoro. Ma che è ne stato di Roma, di cui volenti o nolenti siamo gli eredi più diretti, nel nostro immaginario collettivo? Dopo il fascismo, negli anni della cd "I Repubblica", verso questo tema gli accenti dominanti sono stati il fastidio e il pudore. Poi è venuto il leghismo che ha diffuso l'idea di Roma come radice d'ogni nequizia passata e presente inventandosi un celtismo italiano del tutto immaginario, e forse un ancor più immaginario venetismo antiromano. Il successo di questo romanzo forse potrà riparare molti di questi guasti.

    Innanzitutto, vorrei porre l'accento sulla scelta dell'epoca fatta da Manfredi. Proprio il tempo in cui l'impero d'Occidente si estingue e nascono i regni-romano barbarici. Epoca di decadenza, certo. Di questa decadenza la figura di Romolo Augustolo è spesso stata presa a modello. Un giovinetto insulso dal nome roboante. In un suo dramma, La morte di Romolo, Durremant lo prende, proprio come Manfredi, quale protagonista. E ce lo mostra nella sua villa-prigione campana che alleva galline a cui ha dato il nome dei Cesari. Di Romolo Augustolo in verità non sappiamo quasi niente, e quindi è un personaggio assai adatto per una costruzione narrativa. E Manfredi ha scelto la strada della costruzione eroica. Certo, per necessità della fiction avventurosa. Ma non solo, io penso. Manfredi ha voluto disegnare, attraverso vari personaggi, anche attraverso alcune semplici comparse, un quadro dimacchie residue di autentica romanità, nel senso dei valori tradizionali romani, fortidudo, gravitas, virtus, pietas, persistenti anche al tempo della romanità ravennate ed oltre. E questo non è privo di fondamento storico, poiché accanto all'incipiente medioevo germanico esiste un incipiente medioevo romano-italico, gallo-romano, celto-romano, i cui estremi poli geografici Manfredi individua giustamente nella nascente Venezia e nel meno fortunato regno di quell'Artù che sempre più gli storici tingono di purpurei colori romani. Già Pascoli, padano come Manfredi, aveva scritto nei distici Aemilia dedicati alla romanità ravennate: "Questi furono i nuovi Romani della seconda Roma. L'impero durò meno, ma animo e mente furono uguali: ebbero a cuore allo stesso modo le armi e le arti. Ma non pensare che siano stati miti i cuccioli dell'antica lupa" - Già la scelta di fare dei protagonisti della nostra storia dei legionari di una legione che il padre di Romolo, Oreste, ha voluto porre al comando di un patrizio discendente dalla nobilitas repubblicana, tutta "composta solo di romani, italici e provinciali", il cui campo è detto "un lembo di Roma, terra sacra degli antenati" e grazie alla quale - come dice Aurelio, il principale eroe del romanzo "Oreste voleva che la gente rivedesse un'aquila d'argento scintillare al sole, voleva che i Romani recuperassero il loro orgoglio, rivedessero i fanti marciare con le antiche armature e i grandi scudi, i reparti far tremare il terreno sotto il passo cadenzato. Voleva la disciplina contro la barbarie, l'ordine contro il caos" - già questa scelta dice molto dell'orientamento ideale del romanzo, che, pur dichiarando l'Autore ufficialmente che il punto di vista è quello dei personaggi, è giocato nei confronti dei barbari secondo il modulo petrarchesco virtù contro furore.Tutto il romanzo è attraversato dall'idea che Roma costituisca la civiltà per eccellenza. Ma se c'è una sorta di preferenziale etnica verso l'Italia, che ne è la culla, Roma viene esplicitamente dichiarata grande, civile e immortale come idea eterna perché "Roma non si identifica con una razza, o un popolo, o un'etnia. Roma è un ideale e gli ideali non si possono distruggere". E così che allorché Romolo obietta a Merlino, che lo invita alla memoria culturale e storica: "Ma tu vieni dalla Britannia, Ambrosine, tu sei un Celta" - proprio al celta Merlino Manfredi fa dire: "E' vero, ma in questo momento così terribile in cui tutto crolla e si dissolve, in cui l'unica civiltà di questo mondo è colpita al cuore, non possiamo non dirci romani, anche noi che veniamo dalla più remota periferia dell'impero, anche noi che fummo abbandonati, tanti anni fa, al nostro destino...". E intrepido legionario Romano è il simpatico Cornelio Batiato, un gigante etiope, come gli altri suoi compagni "Romano per romano giuramento". E l'etnia di questo personaggio non è forse casuale: gli etiopi nell'Eneide, il poema che Merlino porta sempre con sé esortando Romolo a leggerlo, stanno con i troiani, ed etiopi sono pure stati gli ultimi combattenti di razza nera del nosto ultimo, effimero ma non inglorioso impero.Morta Roma, essa, proprio perché idea immortale, genera nuove, piccole Rome. Manfredi ricorda a tutti noi, attraverso l'eroina Livia Prisca, profuga di Aquileia, che Venezia è creatura interamente italiana e romana. Commossa Livia ne descrive gli albori: "Eravamo tutti Veneti a parte un Siciliano e due Umbri dell'aministrazione imperiale : la chiamammo Venetia". "Dividiamo ciò che abbiamo e ci aiutiamo l'un l'altro. Eleggiamo i nostri capi con il voto di tutti, abbiamo riesumato l'antica costituzione repubblicana dei nostri antenati, quella di Bruto e Scevola, Catone e Claudio".

    Attraverso il filtro della romanità, Manfredi ha il merito di rimettere in gioco anche valori che hanno conosciuto presso di noi una vera eclissi, grazie anche alla fine di ogni tipo di educazione eroica - sarebe interessante studiare la barbarizzazione dello stesso estremismo politico in Italia, dalle militanze di destra e di sinistra ancora vincolate a certe etiche cavalleresche degli anni sessanta-settanta a quelle barbariche odierne dei naziskin e dei black-block. E qui devo finalmente parlare degli eroi del romanzo. Non solo del piccolo Romolo Augustolo, che già riflette la sofferta maturazione di un principio di grande importanza che è quello riassumibile nella formula noblesse oblige, ma dei veterani della distrutta ultima legione di Oreste. Innanzitutto, il vero eroe del romanzo. Aureliano Ambrosio Ventidio (Aurelio), un uomo la cui unica famiglia è sempre stata l'esercito, i suoi compagni di reparto, e cui cui grava il tormento di una oscura vicenda passata, che peraltro lo lega indissolubilmente alla stessa Livia. E poi Rufio Vatreno, spagnolo di Sagunto, veterano di molte battaglie, e il già citato Cornelio Batiato, gigante etiope nero come un tizzone. Sono eroi veramente romani, cioè umanissimi, la cui vita è quella dell'agere et pati, come Enea coraggiosi in guerra ma con un intimo, connaturato desiderio di pace. Sono uomini per cui il gusto di combattere, arte in cui peraltro non hanno uguali, conta in verità meno che esercitare le virtù dell'onore e della fedeltà. Dirà Aurelio: "C'è una cosa che mi è rimasta, l'unico patrimonio che mi resta: la mia parola di Romano. Un concetto obsoleto, lo so, roba che sta solo sui libri di storia, eppure un'ancora di salvezza per uno come me, un punto di riferimento se vuoi. E io questa parola l'ho data a un uomo morente". E mi è parso particolarmente bello che i valori di cui questi uomini sono i portatori siano visti, ammirati atraverso gli occhi femminili, e non già per riproporre una sorta di maschilismo, ché la protagonista femminile è figura modernissima (ma con ancoraggi nell'epica antica) di donna indipendente, ma per rivendicare il valore perenne di certi modi d'essere spesso svalutati :"Livia li guardava senza parlare. Il cameratismo virile era una manifestazione che l'affascinava, vi vedeva concentrate tutte le virtù migliori dell'uomo: l'amicizia, la solidarietà, lo spirito di sacrificio, l'entusiasmo. Persino il loro turpiloquio castrense, cui non era certo abituata, non la infastidiva in quella situazione"In un'epoca in cui la barbarie trionfa, i nostri eroi, come altri incontrati in Gallia e in Britannia, rappresentano il dovere perenne dell'uomo di coltivare il giardino della civiltà: che è cultura (i nostri eroi hanno tutti buone letture), impegno pubblico, coraggio non disgiunto, in guerra, dalla pietà. Manfredi, attraverso le istruzioni di Merlino a Romolo, spiega che il mondo non si divide in buoni e cattivi, che gli uni e gli altri possono trovarsi nel campo della civiltà come in quello della barbarie. Che la corruzione è certo più facile entro la civiltà, ma che questo non può essere un alibi per "passare ai barbari"."Tutto si paga a questo mondo, ragazzo mio: se un popolo raggiunge un grande livello di civiltà sviluppa contemporaneamente anche un certo tasso di corruzione. I barbari non sono corrotti perché sono barbari, per l'appunto, ma anche loro impareranno presto ad apprezzare le belle vesti, il danaro, i cibi ricercati, i profumi, le belle donne, le belle residenze. Tutto questo costa e, per averlo, è necessario tanto denaro, tanto quanto solo la corruzione può dare. In ogni caso, non c'è una civiltà che non abbia in sé una certa quantità di barbarie e non c'è barbarie che non abbia qualche germe di civiltà". Ma "civiltà significa leggi, ordinamenti politici, certezza del diritto. Significa professioni e mestieri, strade e comunicazioni, riti e solennità. Scienza, ma anche arte, soprattutto arte; letteratura, poesia come quella di Virgilio (...): attività dello spirito che ci rendono molto simili a Dio. Un barbaro, invece, è molto simile a una bestia. Non so se mi spiego. Essere parte di una civiltà ti dà un orgoglio particolare, l'orgoglio di partecipare a una grande impresa collettiva, la più grande che sia data all'uomo di compiere".Della barbarie pura il rappresentante nel romanzo è Wulfila, uomo di Odoacre, che insegue i nostri eroi fino in Britannia per impadronirsi della spada di Cesare. Ma questi non raggiunge tuttavia l'abissale malvagità di Wortirgern, il tiranno della Britannia dal volto sfigurato e però celato da una maschera d'oro che lo ritrae immutabile nello splendore della gioventù, maschera diabolica fusa con l'oro di un calice da messa. Wortirgern, di padre celtico e madre romana è, come il Catilina di Sallustio, nobili genere natus, è stato un uomo in gioventù non privo di virtù etico-.militari tipicamente romane, ma la libido dominandi lo ha trasformato in un mostro. Questa mostruosità non è appunto altro che la barbarie che si annida entro la civiltà, che cresce e divora tutto quando il compito romano di esercitare la forza non disgiunta dalla giustizia viene meno. Il volto giovanile, e non invecchiato, non corrotto, del potere, quando la virtù viene meno, è solo una maschera, non a caso d'oro: il metallo della virgiliana auri sacra fames. Quella stessa maschera, non a caso, la ritroveremo sul volto di Wulfila, il barbaro che crede che il potere, la forza di Roma, rappresentata dalla spada di Cesare cui anela, sia pura forza bruta, vittoria sugli altri e non, prima di tutto, su se stessi, sul caos delle nostre passioni.

    Infine - anche se tante altre cose vorrei dire - mi è particolarmente caro, di questo romanzo, lo spirito religioso. Siamo nella seconda metà del V secolo. Quella che qui si rappresenta è una romanità in cui il paganesimo è già stato da tempo abolito. Ma Manfredi ha voluto ritrarre alcuni personaggi come ancora ancorati alle credenze, alle memorie pagane. Nella sua nota storica finale, egli scrive che tale presenza è "storicamente non facilmente sostenibile alla fine del V secolo, ma forse non del tutto improbabile alla luce di alcuni segnali nelle fonti più tarde". Comunque stiano storicamente le probabilità, è un fatto che Manfredi non se l'è sentita di fare del suo eroe principale, Aurelio, un cristiano. Mi permetto di dire, forze forzando le cose, che non poteva. I più genuini valori romani sono così consustanzialmente legati al paganesimo che sarebbe suonato un po' stonato l'eccesso di romanità di cui Aurelio dà prova.Innanzitutto, il romanzo è tutto compenetrato dell'idea non cristiana che non è possibile il perdono dell'ingiusto finché questo non è piegato e vinto: parcere subiectis ac debellare superbos. E di fronte alle devastazioni e alle crudeltà inenarrabili di quell'epoca, in cui, come racconta lo stesso Merlino, tanta parte della nobiltà romana aveva lasciato le magistrature e le armi per la vita ecclesiastica, di Aurelio è detto: "Non si era mai rassegnato, non aveva mai condiviso il sogno della città di Dio proclamato da Agostino di Ippona né aveva mai visto città in cielo fra le nubi: l'unica città per lui era l'Urbe dei sette colli, cinta dal muro aureliano, adagiata sul Tevere divino, l'Urbe violata eppure immortale, madre di tutte le terre e di tutte le terre figlia, scrigno delle memorie più sacre". E le simpatie pagane di Manfredi sono così malcelate che, se l'eroina del romanzo è cristiana, tuttavia è nipote di un romano che alla battaglia del Frigido - teatro dell'ultimo conflito armato tra pagani e cristiani, stava dalla parte di Eugenio, e cioè dei primi. La stessa spada di Cesare, Excalibur, è rinvenuta da Romolo in "una specie di sacrario creato in segreto chissà da chi, forse da Giuliano, che i cristiani avevano condannato all'infamia con il nome di apostata".E il mondo pagano che Aurelio rimpiange è, da un lato l'essenza stessa di Roma (in Britannia lo vediamo prendere religiosamente dalla vecchia sede della legio xii draco una carta con l'ode a Roma di Rutilio Namaziano: "Exaudi me regina mundi, inter sidereos Roma recepita polos", detta "l'ultimo commosso inno alla grandezza di Roma, scritto settant'anni prima, alla vigilia del sacco di Alarico". Aurelio, scrive sempre Manfredi, "Sospirò e infilò quella piccola pergamena sotto il corsetto, sul cuore, come un talismano".Dall'altro lato il mondo pagano cui guarda Manfredi è anche quello di quella straordinaria pluralità religiosa che l'Impero romano conobbe e garantì e di cui Merlino stesso è l'apologeta: "Non esiste che un Dio, Cesare. Sono solo diverse le vie che gli uomini percorrono per cercarlo". E ancora, parlando del vischio druidico che porta al collo: "Rappresenta il legame con il mondo in cui nacqui, con un'antica sapienza. Non indossiamo forse panni diversi quando passiamo da un paese caldo a uno freddo? E così è per la nostra visione del mondo. La religione è il colore che la nostra anima assume a seconda della luce a cui si espone. Mi hai visto nella luce mediterranea e mi vedrai nelle tenebre delle foreste di Britannia e sarò un altro, ricordalo, e tuttavia lo stesso. Ed è inevitabile che così debba essere".Ma è ancora una volta Aurelio a fare una volta per tutte piena, struggente professione di paganesimo: "Se essere pagano significa fedeltà alla tradizione degli antenati e alle credenze dei padri, se significa vedere Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio, se significa rimpiangere una grandezza che non tornerà mai più, ebbene sì, sono pagano".E se con il celta Merlino alla fine di questo libro ci sentiamo propensi a pronunciare le sue già citate parole "non possiamo non dirci romani", con l'eroe Aurelio ci sentiamo alla fine spinti, capovolgendo una famosa frase di Croce, a formulare un nostro: "Perché non possiamo non dirci pagani"

    di SANDRO CONSOLATO

  5. #5
    Crocutale
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    Tante parole e romanzi solo per nascondere un concetto: noi odiamo Dio, averlo crocifisso non ci basta, vogliamo cancellarlo dal ricordo e dalle coscienze per poterci illudere indisturbati di poter essere dei a noi stessi. Ma è proprio del nemico nascondere le cose semplici dietro a nubi di parole.

    Roma poteva essere solo cristiana perchè dalla sua nascita era stata concepita dalla provvidenza come culla della cristianità, è la provvidenza divina che l'ha scelta tra tante città e ne ha fatto un esempio di cosa puo diventare la terra quando sia sottomessa alla legge del cielo. Per questo i Romani hanno avuto l'onore di essere esecutori del sacrificio di Cristo sulla croce, poi ripetuto all'infinito attraverso la messa. Sacrificio infinitamente superiore a quello offerto dalle forme religiose precedenti, ebraica compresa, perchè la vittima offerta non è più una creatura finita, ma l'infinito stesso. Sacrificio che ha riempito il vuoto lasciato dalle religioni antiche, che erano già morte, come capiva anche Giuliano Augusto quando diceva che in tutto l'Impero non si trovava una persona che ricordasse la maniera corretta di offrire i sacrifici.
    E se leggete qualunque opera di quelle religioni, Teogonia, Bhaghavad Gita, vedrete che il sacrificio è tutto, non si regge il mondo se i sacrifici non vengono amministrati correttamente, è per questo che è stato necessario rinnovarli quando si sono esauriti, rinnovati da Dio stesso con l'offerta di Lui stesso.
    Il cristianesimo è stato donato a Roma come ultima possibilità di salvezza dalla sua decadenza : quando gli imperatori volevano essere adorati come divinità da folle obbedienti chi è che ha rifiutato di inginocchiarsi, come avrebbe fatto Catone, e ha mantenuto la propria dignità, la propria gravitas anche di fronte al martirio? Chi ha tentato, inutilmente, di estirpare il vitium graecum che soffocava lentamente lo spirito romano come l'edera che si stringe all'olivo? Dove era Roma allora?

    Vi è capitata sottomano l'operetta di Plutarco sulla e di Delfi? vi è capitato di leggere quel passaggio in cui dice che quando fu ammesso tra i sacerdoti gli fu insegnato che Dioniso e Apollo e gli altri Dei sono in realtà una divinità unica? Lo sapevano i sacerdoti greci e romani come lo sanno tuttora i Brahmani, come lo sapevano gli Egizi dell'antico regno, quando dicevano che Aton trasse tutto l'esistente da sè perchè solo lui esisteva. E allora come potevano dare torto ai cristiani quando proclamavano la Verità per ogni strada e paese? Ancora Giuliano Augusto vedeva che non si trovava un sacerdote in tutto l'impero che potesse controbattere seriamente al loro insegnamento.

    Roma è caduta non per il cristianesimo, ma per avergli voltato le spalle, e per questo è stata consumata dalla corruzione e infine sostituita da sangue migliore. Quando vediamo le orde barbariche di oggi, afrosemiti, balcanozingari, pensiamo che anche i barbari di quel tempo fossero così, dimentichiamo che essi erano la razza bianca, lo stesso sangue della Grecia e di Roma, ma come erano all'inizio prima che il meticciamento con i semiti gli tarpasse le ali.

  6. #6
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    In origine postato da Perseo
    Vi è capitata sottomano l'operetta di Plutarco sulla e di Delfi? vi è capitato di leggere quel passaggio in cui dice che quando fu ammesso tra i sacerdoti gli fu insegnato che Dioniso e Apollo e gli altri Dei sono in realtà una divinità unica? Lo sapevano i sacerdoti greci e romani come lo sanno tuttora i Brahmani, come lo sapevano gli Egizi dell'antico regno, quando dicevano che Aton trasse tutto l'esistente da sè perchè solo lui esisteva. E allora come potevano dare torto ai cristiani quando proclamavano la Verità per ogni strada e paese? Ancora Giuliano Augusto vedeva che non si trovava un sacerdote in tutto l'impero che potesse controbattere seriamente al loro insegnamento.
    No, in effetti non ho letto quell' operetta di Plutarco ma non mi stupisco di quanto vi si riferisce a proposito degli dei e della divinità unica. Del resto chiunque abbia approfondito appena
    lo studio delle religioni è condotto a simili conclusioni.
    Il punto è che la divinità unica non è certo il dio della Bibbia...

  7. #7
    Crocutale
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    In origine postato da Otto Rahn

    Il punto è che la divinità unica non è certo il dio della Bibbia...
    Bentornato dall' India.

    Di grazia è possibile sapere quali sono le basi di questa teoria per cui Dio non sarebbe Dio ?

  8. #8
    Paul Atreides
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    Il passo plutarcheo va inserito nel suo contesto. Il passo che immediatamente lo precede, infatti, è una riproposizione della teoria dell'essere di stampo tipicamente parmenideo. Pertanto, il passo sulla ''unicità del Dio'' è una ''traduzione'' sul piano 'religioso' del principio ontologico parmenideo.

    La qual cosa potrebbe anche indurre a pensare che Plutarco abbia semplicemente trasposto gli attributi dell'essere alla Deità, senza voler esporre una precisa e autonoma dottrina sull'unicità della Deità*.

    Tra l'altro, l'epiteto di ''Ièo'', ''unico'', riferito ad Apollo, è molto tardo, ossia neopitagorico.

    *Uso ''Deità'' semplicemente per uniformarmi al testo plutarcheo.

  9. #9
    Paul Atreides
    Ospite

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    Aton fu unicamente una parentesi, frutto dell'insania di Amenofi IV, cioè Ekhnaton.

    Tant'è vero che, alla morte nel 1338 del faraone, il suo nome fu cancellato dagli elenchi dei re, abbattuti i suoi monumenti, distrutte le sue raffigurazioni e le sue epigrafi. E, ovviamente, vennero ripristinati i culti e gli Dei.

    Non a caso, la 'religione' di Amarna venne scoperta solo sul finire dell'Ottocento.

  10. #10
    Orazio Coclite
    Ospite

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    Complimenti a Paul Atreides per la disamina. Ora sono curioso di leggere cosa risponde Perseo.
    Piuttosto mi domandavo se il monoteismo è stata una devianza del tutto semita oppure se anche altre culture hanno manifestato concretamente questa tendenza all'unificazione e semplificazione del sacro.
    Ringrazio fin d'ora quanti interverranno.
    Saluti.

 

 
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