L ’11 settembre di tre anni fa 19 martiri islamici per tre quarti sauditi, educati in quella madrassa a cielo aperto che è l’Europa delle comunità islamiche «moderate», tra Amburgo, Madrid e Milano, si sono infilati in quattro aerei commerciali e li hanno diretti contro il World trade center, cioè i due più alti campanili del capitalismo occidentale, contro il Pentagono, contro la Casa Bianca.
Le Torri furono distrutte, il Pentagono fu squarciato, la Casa Bianca fu risparmiata perché una rivolta dei passeggeri fece precipitare l’aereo in un campo della Pennsylvania. I morti furono quasi 3 mila, compresi i 19 martiri islamici che morirono sicuri di incontrare il paradiso. Quel loro paradiso fu il nostro inferno. La tecnica era quella del terrorismo, ma non era terrorismo se non in senso, appunto, tecnico: era martirio religioso.
Noi occidentali, se la parola avesse ancora un minimo senso, ci definimmo allora «tutti americani» e dicemmo, con altrettanta enfasi (essere radicali nel pensiero e guardarsi sempre dall’enfasi sentimentale è buona regola poco seguita) che «niente sarà più come prima». Il 2001 fu anche l’anno in cui si dispiegò senza tregua l’intifada islamica palestinese, quella fatta di uomini, donne e ragazzi trasformati in bombe che esplodono in mezzo ai civili su mandato dei loro capi religiosi e laici. Ci definimmo tutti ebrei, per poi definirci tutti madrileni quando saltarono i treni di Madrid-Atocha, e pensiamo ancora di essere tutti bambini nell’Ossezia del Nord.
Non è vero. Non è vero che niente sia più stato come prima, non è vero che siamo tutti americani, ebrei, madrileni, bambini fucilati nella schiena dai martiri. Siamo divisi. Siamo perfettamente divisi in due.
Ci sono occidentali che accettano la verità di una guerra religiosa e di civiltà, e rispondono al fuoco tra cento errori. E ci sono occidentali che non accettano questa realtà, odiano e combattono chi l’ha accettata, che scappano come José Zapatero o che predicano e praticano, senza mai commettere errori, quella strana cosa che chiamano pace e che è invece, lo sappiano o no non importa, resa o intesa con il nemico.
Le capitali del mondo libero che ha accettato di fare guerra all’intolleranza, con un ritardo di almeno un quarto di secolo (perché la data di inizio è la rivoluzione khomeinista, proceduta poi con la svolta wahhabi dei sauditi sunniti e puristi, passata attraverso il Libano, la Somalia, lo scannatoio intra-islamico algerino), sono Washington e Londra, con l’assistenza di un pugno di paesi incerti ma volenterosi tra cui l’Italia di Silvio Berlusconi. La capitale della resa e dell’intesa con il nemico è Parigi, dove un presidente che ha l’80 per cento dei voti nell’union sacrée contro Jean-Marie Le Pen e il 19 per cento dei voti alle europee bandisce la sua crociata del dialogo con l’Islam moderato attraverso il veto unilaterale all’Onu in difesa di Saddam Hussein e la tessitura di un’attiva alleanza con i gruppi islamisti radicali, e terroristi, quando è in gioco la vita, sacra per tutti noi, di due suoi concittadini. Ma solo di quei due suoi concittadini, e soprattutto del prestigio della Francia nel mondo, un paese occidentale che contrasta attivamente i suoi alleati storici in guerra, gli angloamericani che l’hanno liberato dal fascismo collaborazionista 61 anni fa.
La guerra è sempre un orrore senza fine. La guerra religiosa è un orrore che peserà su molte generazioni di occidentali. Esorcizzare l’orrore è umano, avvoltolarsi nel dubbio è umano, salvare la pace almeno nelle parole e nelle preghiere è umano e perfino tracciato divino nel cammino di una Chiesa, ma è diabolica invece la diserzione dal proprio mandato delle classi dirigenti. La gente che sfila per le strade con la bandiera arcobaleno e si affolla ad applaudire Michael Moore è umanissima, la tutela della pace e della serenità apparenti, anche oltre l’ultimo giorno utile per i propri bambini e per sé, è un’altra misura umana troppo umana; ma i direttori di giornale e i governanti che scommettono sulla paura della guerra, i tipi alla Chirac e alla Chamberlain che pensano di procacciarsi la pace per il nostro tempo nella solita agonia di Monaco ‘38, quelli che bisogna condannare il terrorismo per fare meglio la guerra a Bush e Blair, questi sono diabolici esempi di stupidità e indifferenza psicologica e morale.
L’Occidente che combatte ha appena cominciato, e con molta timidezza politica e militare, con molti errori, una guerra che gli è stata portata in casa con risolutezza profetica dal nemico islamico radicale. Falluja e Samarra sono ancora nelle mani dei sunniti, a Najaf vige un compromesso precario con gli sciiti di Al Sistani, a Sadr City Moqtada al-Sadr e le sue bande la fanno da padroni, il futuro dell’Iraq è incerto, i radicali islamici sanno bene che l’Occidente è diviso, contano sulla sua divisione, usano il petrolio per finanziare la morte di chi lo consuma, conoscono perfettamente le debolezze del nostro modo di vita, capiscono che la democrazia senza spada e il suo modo di vita spensierato sono punti deboli del loro nemico, cioè noi.
Sono arrivati prima loro, l’11 settembre, tre anni fa, e mantengono l’iniziativa. Poco è cambiato, e in apparenza siamo tutti egualmente americani, ebrei, nepalesi, turchi, osseti massacrati, ma alcuni di noi sono meno eguali degli altri.
Si disse allora: «Siamo tutti americani». Non è vero. C’è chi combatte e chi, come Zapatero e Chirac, pratica la resa o l’intesa con il nemico
Giuliano Ferrara