Una gita a Pyong Yang, capitale della Corea del Nord, il dimenticato paese a nord del 38° parallelo. Grande povertà dappertutto e uno spettacolo coreografico per turisti, l'Arirang, con migliaia di persone nello stadio più grande del mondo. Qui, con scarsi approvvigionamenti di acqua e luce, i mondiali di calcio sembrano distanti una galassia
PIO D'EMILIA - PYONG YANG
Benvenuti in Paradiso. O nell'Impero del Male, come dice Bush. O al Truman Show, edizione Pyong Yang. Lo sgangherato Ilyushin 62 della Koryo Airlines, la compagnia di bandiera nordcoreana, è in perfetto orario, virtù irrinunciabile di ogni regime che si rispetti. Quello nel quale abbiamo messo appena piede sembra sia davvero alla frutta, ma non rinuncia alle impennate di orgoglio. A bordo nessuna spiegazione sulle procedure d'emergenza, metà delle cinture di sicurezza sono inceppate. A nessuno viene in mente di controllare se ci sono giubbotti e salvagenti. Siamo nell'impero della Juche, vangelo dell'autosufficienza e - borbottano i soliti iconoclasti - dell'arte di arrangiarsi. In compenso ci sono le tendine ricamate a mano, i poggiatesta di lino, bicchieri di cristallo anche per i passeggeri della classe economica, riviste patinate che celebrano le conquiste del regime. Il numero che abbiamo tra le mani, oltre alle celebrazioni dei vari anniversari (tutti multipli di dieci, novanta anni di Kim Il Sung, che è morto ma continua a sorridere e proteggere i suoi sudditi, 70 dalla fondazione dell'Esercito del Popolo...) parla di Rajin Songhan, una mitica Zona per il Libero Scambio al confine settentrionale. Nel giro di dieci anni sarà «il nuovo centro del mondo». Esagerato, certo. ll menù di bordo è più che decente, meglio di certi voli interni nostrani. Dicono ci sia la carestia, che milioni di cittadini crepino di fame, che il regime non riesca a sfamare un cittadino su tre. Bah. Il primo commento, rubato ad un funzionario del WFP (World Food Program) incontrato a bordo, è inquietante. Il mondo si sta dimenticando ancora una volta della Corea del Nord. Il Giappone ha chiuso i rubinetti, gli Stati Uniti hanno dimezzato il loro contributo. Se non succede qualcosa, a luglio si chiude. Il mondo della solidarietà si trasferisce in Afganistan. «Poco male - commenta, fuori dal coro e con grande convinzione, il rappresentante italiano della cooperazione, Massimo Urbani, che ci viene gentilmente ad accogliere all'aereporto - così la smetteremo con i piagnistei e le elemosine senza senso. Questo paese non ha bisogno di medicine, ma di sapone. E di professionisti seri, non di giovani alle prime armi, mandati qui a fare esperienza....». Il volo che ci sta portando in Corea del Nord è pieno: il solito caravenserraglio che due volte alla settimana trasporta da Pechino a Pyong Yang diplomatici e funzionari di partito, imprenditori e trafficoni, volontari e dirigenti superpagati delle varie organizzazioni internazionali. La novità è che cominciano ad arrivare anche i giornalisti. Chi camuffato da turista, chi ospite delle sempre più numerose ambasciate, chi, come nel nostro caso, con regolare visto giornalistico limitato però alla copertura del grande festival di Arirang, la mega rappresentazione di giochi ginnici e coreografie agiografiche che per ben due mesi coinvolgono, ogni sera, oltre 100 mila persone. La maggior parte sono addetti ai lavori. I turisti, sia interni che stranieri, sono pochini, diciamo la verità. Ma tant'è. La Juche è anche questo. Se non si raggiunge l'autosufficienza, accontentiamoci dell'autorereferenzialità. Danzo, ballo e applaudo. Dunque sono. Alla vigilia della Coppa del Mondo, dove ogni tentativo di coinvolgere Pyong Yang è miseramente fallito, il regime socchiude le sue porte e tenta un'impacciata quanto apprezzabile operazione di pubbliche relazioni. Siate i benvenuti. Venite a vedere le nostre meraviglie, nella fattispecie Arirang e lo stadio più grande del mondo, ma chiudete gli occhi sulle magagne. Una parola. I giornalisti sono una brutta razza, più cerchi di tenerli sotto controllo, più ti sgusciano via. L'invito è per scrivere dell'Arirang, ma dopo aver assistito la prima sera a questa imponente quanto inquietante manifestazione, sorta di schermo umano a 100 mila pixels (senza peraltro avere la possibilità di parlare con i vari atleti/attori) la voglia di aprirsi un varco, possibilmente da soli, è molto forte. Gli ordini sono -ci sembra di capire - di controllarci con discrezione. In teoria siamo liberi di andare dove ci pare, ma il programma che ci hanno predisposto, decisamente interessante (scuole, ospedali, gita alla zona smilitarizzata del 38 parallelo) è talmente fitto che è impossibile svicolare. E poi dove vai? I taxi sono pochi e hanno l'ordine di non caricare stranieri non accompagnati. E l'ostacolo della lingua impedisce, in genere, ogni incursione autonoma nel ventre del regime. Nel nostro caso però siamo fortunati. Uno dei colleghi con cui viaggio parla il coreano (virtù nascosta ai nostri amici interpreti). E un prezioso contatto nel settore delle Ong ci mette a disposizione macchina e autista. Con i nostri amici, tuttavia, giochiamo pulito: seguiamo buona parte del programma ufficiale, e non andiamo a caccia di missili o di impianti nucleari. Fino al 2003 c'è la moratoria, non saremo certo noi a rispolverare vecchie polemiche. Niente missili dunque, niente inchieste sui profughi, sui «desaparecidos». Ma un mercato? Apriti cielo. Vietatissimo. Perfino il nostro autista si rifiuta di indicarcelo. Così scendiamo, e ce lo troviamo da soli. E' un'altra Corea. Al mercato nero si trova di tutto. E sono subito guai. A cacciarci, dopo qualche foto ed il tentativo di attaccare bottone, sono i coreani, non la polizia. Perché il regime, che più che sul terrore e la repressione fonda il suo potere su un efficace sistema di educazione e di orgoglio nazionale (non bisogna dimenticare che i coreani hanno subito prima la colonizzazione dei nipponici e poi i bombardamenti americani) si vergogna della povertà in cui sono ridotti i suoi cittadini e fa di tutto per nasconderla. Per la gente sei un americano, dunque un nemico. Parlare con la gente è difficile. Ti guardano con sospetto, sinceramente impauriti. Un gruppo di bambini,che si erano timidamente avvicinati al nostro gruppo, sono scappati via urlando quando uno di noi, con un gesto forse un po' brusco, ha tirato fuori dalla sacca una macchina fotografica. Nessuno vuole essere fotografato, e forse hanno ragione. «Tu con questa foto guadagni più di quanto riesco a metter da parte in una vita intera» osserva con grande fierezza Hue Sung Li, capo di un villaggio di contadini nei pressi di Kesong, l'antica e bellissima capitale della vecchia Corea unita. Il raccolto quest'anno è decisamente migliore. Il regime sta allentando la presa: i contadini oramai possono vendere i loro prodotti liberamente: «ma per noi è difficile - racconta Hue Sung Li - riusciamo a malapena a sfamare il nostro villaggio».
Una ventina di case, c'è la luce (vediamo i fili, ma è giorno e ci fidiamo sulla parola), ma l'acqua è un problema. «Noi la beviamo, ma se la bevete voi vi ammalate di certo». Il ghiaccio è rotto, donne e bambini si avvicinano. Sono sporchi, ma hanno l'aria serena. «Vanno tutti a scuola, e quasi tutti suonano uno strumento fin dalle elementari - spiega una donna, forse una figlia del capo villaggio - i primi anni di vita sono duri. Quest'anno nel villaggio ne sono morti tre, di bambini». Vita dura, certo. Ma ti chiedi dove si stia meglio. Qui, o negli indecenti slums di Manila? Qui i villaggi sono poveri, ma puliti e ordinati. Non c'è una carta fuori posto, e non è che ci aspettavano, come i bambini dell'ospedale o i bibliotecari della grande Sala Studio del Popolo, dove in effetti le nostre visite sembrano essere una sorta di Truman Show. Entri in una sala e trovi cento persone che smanettano altrettanti computer (gli unici visti in giro, oltre a quelli dell'aereporto). Ci ripassi dopo un po', perché hai dimenticato una sacca, e sono spariti. Tutto spento. Dicono ci siano 3 milioni di libri, in questa biblioteca. Oltre a tutte le opere del vecchio e giovane Kim (rispettivamente «Grande» e «Caro» leader) si trova di tutto. Agli italiani, chissà perché, fanno vedere come esempio un manuale di cerealicoltura del bresciano, anno 1981. Chiedi qualcosa di più sostanzioso, tipo Gramsci e dopo lunghe consultazioni ti portano una lista di 130 opere. Sempre meno di quelle di Kim Il Sung, che oltrettutto sono tradotte in 65 lingue, ci dicono. E Internet? «Ci sarebbe - risponde convinta una bibliotecaria - ma non ci serve». Anzi no. Dopo affannate confabulazioni, si corregge, non era stata informata del nuovo corso. «Presto saremo connessi. L'ha promesso il caro leader». Stessa solfa in ospedale. Tutto funziona, apparentemente, corridoi puliti, lenzuola stirate, medici che illustrano le miracolose terapie indigene che guariscono ogni malattia...«E allora? L'emergenza?» Mi ritornano in mente le parole di Massimo Urbani, il nostro uomo a Pyong Yang, che per inciso è anche medico. «Infezioni, dissenteria, dermatiti, morti post-parto: non sono mica malattie. Qui ci vuole meno cortisone e più tubature. Solo che nessuno vuole ammetterlo. L'Occidente ricco pensa di lavarsi le coscienza mandando carichi di medicine, ed il regime evita di dover ammettere che non è in grado di garantire le minime infrastrutture». Il punto è proprio qui. Che senso ha costruire decine di grattacieli, alberghi di lusso, missili e satelliti, quando non puoi lavare il sedere dei tuoi bambini?
il manifesto 31 maggio 2002
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