L'Europa di Le Goff


Da Parigi Nathalie Crom

Jacques Le Goff, che ha appena festeggiato i suoi 80 anni, è uno dei più famosi storici viventi. Medievista e appassionato d'Europa, ha pubblicato molte opere fra cui La nascita del Purgatorio e La civilizzazione dell'Occidente medievale. In Italia è da poco in libreria Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell'Europa, edito da Laterza.
Professor Le Goff, in che modo la conoscenza della storia d'Europa fa luce sull'attuale posta in gioco della costruzione europea?
«La costruzione dell'Europa non potrà essere solida se chi la fa - dai politici che dirigono le operazioni fino ai semplici cittadini - non è consapevole che bisogna tener conto della storia. Non voglio dire, con ciò, che la storia detti il da farsi, ma essa consente di vedere quali sono i sentieri sui quali l'Europa si è incamminata da secoli, quali si sceglie di continuare e quali si abbandonano. Senza profondità storica non c'è Europa possibile».
Leggendo il suo ultimo saggio, si ha la sensazione di una continuità tra passato e presente: un movimento che, nel lungo periodo, va in direzione della costruzione di un'entità europea. È così?
«Esiste una continuità, ed è solida, poiché si fonda su una base culturale importante. Quello che, secondo me, nel Medioevo ha fatto incamminare l'Europa verso una certa unità è stato innanzitutto un incrocio etnico e sociale, prodottosi tra le antiche popolazioni dell'Impero romano e quelle rimaste fuori dall'impero, i cosiddetti "barbari", ossia celti, germani e poi slavi, entrati dentro nuove frontiere, nuove istituzioni, a partire dal IV secolo. Si tratta di una prima base culturale europea: la seconda è stata il cristianesimo, che ha costituito veramente il cemento tra quelle popolazioni. D'altra parte, e contrariamente a un'idea oggi diffusa che vuole contrapposte l'unità europea e la diversità delle nazioni, mi sembra chiaro che l'Europa è al tempo stesso unità e diversità, e che la costruzione europea non risale al tempo dell'Impero romano unitario, ma a quando si sono formate le nazioni. L'apparire di nuove nazioni, lungi dall'indebolire l'Europa, l'ha rinvigorita. L'ho dimostrato per il Medioevo, ma il processo continua fino all'epoca contemporanea o quasi, poiché l'unità tedesca e quella italiana, risalenti solo al XIX secolo, sono state l'ultima grande base necessaria alla costruzione europea. A imbrogliare le carte è l'idea ambigua di sovranità: se viene intesa come elemento di coesione nazionale, va bene; se la si definisce come rifiuto di ogni istituzione sovranazionale, a mio parere è una deformazione, uno slittamento e un elemento deleterio».
Che ruolo ha svolto esattamente il cristianesimo nella storia dell'unità europea?
«Identificare Europa e cristianità sarebbe sbagliato. Si può dire che nella cristianità c'è una prefigurazione dell'Europa, ma si tratta di due realtà diverse. D'altra parte è bene precisare che, se il cristianesimo ha svolto un ruolo fondamentale nel preparare l'Europa unita, l'Europa non è uno spazio religioso. E, per come si costruisce oggi, a mio parere può essere solo un'Europa laica, rispettosa delle religioni e della pratica religiosa. Detto questo, storicamente, il cristianesimo ha operato alla presa di coscienza di un'unità europea. La prima organizzazione territoriale dell'Europa furono i vescovadi, le parrocchie. In seguito, le credenze e le pratiche cristiane hanno modellato tutti gli uomini e le donne che vivono nello spazio europeo. Infine, il cristianesimo ha portato a quegli uomini e a quelle donne principi che hanno definito l'Europa e la sua originalità. Penso, ad esempio, alla separazione tra Chiesa e Stato: anche nel periodo di onnipotenza della Chiesa, il cristianesimo ha predicato agli europei che bisogna "dare a Cesare quello che è di Cesare". È una differenza fondamentale, sia rispetto al cristianesimo ortodosso che all'islam e all'ebraismo».
Secondo lei, è negativo che oggi sia l'economia il motore dell'unità europea?
«Intanto bisogna osservare che si tratta di un fatto nuovissimo nella lunga storia dell'Europa. Taluni lo deplorano. Personalmente penso che, se si dovesse rifare, bisognerebbe partire dalla cultura, assegnarle un posto centrale nell'unità europea. Ma non deploro che si sia partiti da una base economica. L'euro, in particolare, mi sembra una garanzia di solidità per l'Europa. Il frazionamento monetario della civiltà medievale è stato una delle sue principali debolezze, che ha ritardato la formazione dell'Europa».
Da storico, cosa pensa dell'eventuale ingresso della Turchia nell'Europa unita?
«Sono contrario. Ma se, ai miei occhi, la Turchia non fa parte dell'Europa non è assolutamente per motivi religiosi. Islam ed Europa non sono in contraddizione: del resto i bosniaci, gli albanesi, in larga maggioranza musulmani, sono europei e prima o poi entreranno nell'Europa unita. Le motivazioni del mio rifiuto sono geografiche, storiche e culturali. Esiste una data definizione geografica di Europa e, anche se è difficile definirne le frontiere orientali, è chiaro che esiste anche un'unità geografica vicino-orientale cui appartengono l'Anatolia, la Siria, la Palestina… È un altro mondo geografico e culturale, che ha una sua coerenza. Non auspico certo un'Europa chiusa, e occorre che essa trovi una forma di collaborazione bilaterale privilegiata con la Turchia. Ma se, integrando la Turchia, si spingono le frontiere dell'Europa fino all'Iraq, fino alla Mesopotamia, dove si arriverà? Bisogna sapersi fermare».
(traduzione di Anna Maria Brogi
per gentile concessione di «La Croix»)

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