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  1. #1
    Orazio Coclite
    Ospite

    Predefinito Contro l'ipotesi baltica. Una confutazione delle tesi del libro 'Omero nel baltico'

    Dato il clamore che il libro di Felice Vinci, 'Omero nel Baltico', riscuote da tempo anche nel nostro ambiente, purtroppo ancora prono a mitemi d'importazione come appunto quello del 'mito nordico', ritengo educativo pubblicare qui questa ampia disamina atta a dimostrare l'infondatezza della tesi che vorrebbe le antiche epiche dell'Iliade e dell'Odissea di origine baltica.
    Italiani su la testa!


    CONTRO L'IPOTESI BALTICA
    ALCUNE NOTE SU OMERO NEL BALTICO


    1. QUESTIONI DI METODO

    1.1 Plutarco


    All'origine della ricerca di Omero nel Baltico c'è, a detta dell'autore stesso, un'intuizione derivata dalla lettura di Plutarco, e precisamente di De facie quae in orbe lunae apparet. Poiché Plutarco colloca la mitica isola di Ogigia a cinque giorni di navigazione dalla Britannia, verso occidente, si è pensato di collocare l'intero teatro delle gesta omeriche nel nord dell'Europa.
    Le principali obiezioni sono di due ordini: uno di cultura geografica, e l'altro di cultura storico-letteraria. Dal punto di vista geografico c'è da dire che al tempo di Plutarco non era ancora nota alla civiltà greco-romana l'esatta conformazione dell'Europa del nord, e nemmeno delle isole britanniche. Si trattava di terre al confine del mondo, ed erano appena abbozzate sulle carte, come risulta dall'esame delle mappe di Tolomeo (di poco posteriore a Plutarco).
    Indicare una meta a occidente della Britannia significava dunque porla al di fuori del mondo conosciuto, col preciso intento di non identificarla con nessun luogo già noto. La collocazione di Ogigia nell'arcipelago delle Fær Øer, effettuata in Omero nel Baltico, ignora dunque l'indicazione di Plutarco, giacché le Fær Øer si trovano esattamente a nord della Gran Bretagna e non ad ovest. Inoltre non risulta che tali isole fossero conosciute dai cartografi dell'epoca, perciò la supposizione che Plutarco si riferisse a una terra a lui nota, implica quella seconda analisi di tipo culturale di cui si è detto sopra.
    Da quali fonti lo scrittore di Cheronea può aver appreso la nozione di un'Ogigia così lontana da essere ai confini del mondo? Esaminando molti secoli di letteratura greca non appare mai l'ombra di un'indicazione in tal senso; come fa allora Plutarco, all'improvviso, a sapere dov'è Ogigia? Non solo, ma anche accogliendo la supposizione che gli Achei in passato avessero abitato la Scandinavia e ne conoscessero perfettamente la conformazione, come mai si perse del tutto questo sapere geografico e le lande nordiche restarono per un paio di millenni "terre incognite"?
    Poi, all'improvviso, Plutarco "ricorda" le antiche origini della sua gente, e indica con sicurezza la posizione di Ogigia. Francamente, non sembra plausibile. I motivi di quella indicazione sorprendente della mitica Ogigia (perché, è bene ricordarlo, di un mito si trattava, e Plutarco ben lo sapeva) sono desumibili dalla lucida introduzione di Luigi Lehnus per l'edizione Adelphi de Il volto della luna. Riporto un breve commento sulla questione (nel corso di una corrispondenza informale) di E.C., fra i maggiori esperti italiani di letteratura greca:
    «A parte il fatto che Plutarco non è sempre affidabile nell'uso delle sue fonti, va comunque rilevato che gli aspetti 'geografici' dell'opera in questione non sono da prendere alla lettera, ma piuttosto da interpretare in chiave simbolico-misteriosofica.»
    E' proprio questa interpretazione simbolica che autorizza, da sempre, a pensare che Plutarco collocasse volutamente Ogigia in un punto imprecisato dell'oceano, al di fuori delle rotte conosciute. Con procedimento letterario simile nasceranno più tardi l'isola di Utopia di Thomas Moore, quella di Lilliput di Jonathan Swift, e perfino l'isola-che-non-c'è di James Barrie. Cercarle sull'atlante sarebbe altrettanto vano quanto cercare Ogigia.


    1.2 Omero

    La scelta di utilizzare i poemi omerici per ricostruire la geografia degli Achei è allo stesso tempo ovvia e stravagante. E' ovvia perché ricalca percorsi già battuti abbondantemente in passato: l'esercizio di ritrovare sulla carta geografica i luoghi omerici è infatti antico, anche se sempre attuale. Il più recente mi risulta essere dell'astrologo tedesco Winfried Huf, il quale ritrova nell'Adriatico, anziché nel Tirreno, tutte le somiglianze possibili, e impossibili, con i luoghi visitati da Ulisse nel suo decennale viaggio. Si visiti, per valutare la serietà degli intenti di Huf, il suo sito web. http://www.atlantis-astroagent.com/Odyssee.html.
    Su questo passatempo per grecofili entusiasti, come su altre interpretazioni non correlate alla geografia, ha riferito brevemente Donato Loscalzo, in postfazione all'edizione dell'Odissea curata dalla Fondazione Valla (1981) e pubblicata da Mondadori:
    La struttura del racconto e le caratteristiche delle varie tappe hanno dato luogo a numerose interpretazioni: i racconti originariamente dovettero essere indipendenti, e organizzati e ordinati solo successivamente; irrilevante è l'unico collegamento tra i vari episodi costituito dal vino di Ismaro, che Odisseo usa per neutralizzare Polifemo (IX, I93-2I5).
    Definire il tempo di durata dei viaggi di Odisseo è un tentativo disperato, anche perché il poema non menziona alcuni passaggi: non sappiamo, ad esempio, quanto dura il viaggio dai Lotofagi all'isola dei Ciclopi e poi dai Ciclopi ad Eolo: le indicazioni sommarie indicano che il tempo è puramente simbolico, distinto in breve durata (il giorno dopo) e lunga durata (da sei/sette giorni di viaggio all'intero anno di sosta, come succede presso Circe). Già nell'antichità Eratostene sottolineò il carattere essenzialmente fantastico dei luoghi e delle vicende narrate da Odisseo
    Si troveranno i luoghi delle peregrinazioni di Odisseo quando si troverà il ciabattino che ha cucito l'otre dei venti», Strab. I 2, 15).
    In epoca ellenistica, attraverso Porfirio (III sec. d.C.), fino al XVIII sec. la tesi preminente era quella «allegorica» secondo cui la poesia omerica è prevalentemente metaforica, quindi non considera il dato reale, tanto meno si preoccupa di fornire dati geografici reali. Il Vico (Scienza nuova, II 3, P- 381) parlò di «geografia poetica»: Omero, cioè, avrebbe descritto luoghi lontani e sconosciuti basandosi sulla somiglianza dei luoghi a lui vicini.
    Dopo i successi delle campagne archeologiche dello Schliemann, si fece strada l'ipotesi che Omero avesse descritto luoghi reali, per cui le ricerche di identificazione dei posti visitati da Odisseo si fece febbrile: nella vasta produzione di dati e di interpretazioni merita una menzione l'opera dei fratelli Hans-Hehnut e Arnim Wolf (Die wirkliche Reise des Odysseus. Zur Rekonstruktion des Homerischen Weltbildes, München-Wien 1990) i quali identificarono le varie tappe di Odisseo con alcuni luoghi del Mediterraneo e soprattutto dell'Italia meridionale.
    In questi ultimi anni, tuttavia, si è ritornati ad Eratostene, cosi G. Germain (Genèse de l'Odyssée. Le fantastique et le sacré, Paris 1994) prospetta l'ipotesi secondo cui Odisseo costruisca i suoi racconti alla corte di Alcinoo partendo da dati geografici reali (i Ciconi, Capo Malea), ma poi intessendoli sulla base di schemi geometrici (orizzontale, obliquo ecc.).
    G. Chiarini (Nostos e labirinto. Mito e realtà nei viaggi di Odisseo, «Quad. di Storia», XXI 1985, pp. 11-35) distingue tra tappe dispari (Ciclope, Lestrigoni, Ade, Scilla e Cariddi, Calipso) che sono caratterizzate «dall'elemento infero o occidentale», e tappe pari caratterizzate invece «dall'elemento solare o orientale», in uno schema simbolico di movimenti pendolari (Oriente-Occidente e viceversa), che ricorda la struttura del labirinto cretese. Secondo G.A. Privitera (L'alterno ritmo di morte ed ospitalità nelle avventure di Odisseo, «Giorn. It. di Filol. » XLIII, 1991, pp. 3 sgg.) le avventure sono state disposte secondo un ritmo alterno il cui fulcro tematico è costituito dall'ospitalità e dal suo contrario, cioè la morte: Odisseo distingue tra tappe ospitali o positive e tappe inospitali o negative, presso cui perde navi e compagni (Ciconi, Ciclopi, Lestrigoni, Ade, Scilla e Cariddi); la disposizione dei racconti è quindi simmetrica e segue criteri rigorosi: così Odisseo perde le navi presso i Lestrigoni, cioè nella tappa di mezzo. In questo modo è più facile spiegare alcune differenze che si riscontrano tra le prime cinque e le rimanenti tappe: nel primo caso Odisseo supera le prove con il solo contributo dell'astuzia e della sua intelligenza, mentre dalla 6" tappa in poi ha bisogno dell'aiuto di una forza superiore (Ermete, Circe, Tiresia).
    Secondo P. Vidal-Naquet (Le chasseur noir. Formes de pensée et formes de societé dans le mond grec, 1981) che riprende un'idea di W.B. Stanlord (The Ulysses Theme. A Study in the Adaptability of a Traditional Hero, Oxford 1954, p. 50) i viaggi di Odisseo rappresentano un percorso verso la conquista e l'accettazione dell'umanità passando attraverso l'infraumano (Circe) che tenta di ricondurre l'uomo alla bestialità, e il sovrumano (Calipso) che tenta di conferirgli la divinità. Molto si discute sulla tradizione folklorica che è alla base di questi racconti: D. Page (Folktales in Homer's Odyssey, 1973) sostiene che il poeta dell'Odissea ha attinto da una serie numerosa di racconti folklorici, eliminando, però, tutti gli elementi irreali tradizionali per rendere più verisimile il suo racconto.
    E.A. Havelock (The Greek Concept of Justice from Its Shadow in Homer to Its Substance in Plato, 1978) intende le avventure di Odisseo come parte del «bagaglio professionale dei narratori» perché sono facilmente memorizzabili e forniscono al cantore un facile contenitore di dati culturali.

    [Donato Loscalzo: Indice delle cose notevoli, in op. cit., pagg. 424-426]

    La scelta di Iliade e Odissea come "guide" all'antico mondo acheo è tuttavia anche stravagante, perché la genesi stessa di queste opere è oggetto di controversie, a partire dall'esistenza stessa di Omero. Non è il caso di ricapitolare qui l'annosa questione omerica, basterà tenere presente che, indipendentemente dall'esistenza del cantore in questione, ben pochi ormai sono gli studiosi che attribuiscono le due famose opere allo stesso autore. E' abbastanza certo che l'autore dell'Odissea non è quello dell'Iliade, come già sostenevano i chorizontes nell'antichità. L'Iliade, a sua volta, contiene libri che è difficile attribuire allo stesso periodo in cui nacque il corpus dell'opera. In particolare il libro II (Catalogo delle navi) e X (Dolonia) appaiono corpi estranei, componimenti molto più antichi inseriti successivamente nel poema.
    Tuttavia, per comodità, si assumerà qui un simbolico "Omero" come autore di entrambe le opere, non essendo la filologia la questione primaria in questo contesto.
    Ma in tali condizioni di incertezza e di sospetto, affidarsi indifferentemente a Iliade e Odissea per ricavarne informazioni geografiche è un'operazione quanto mai azzardata, forse addirittura dissennata. La geografia omerica è tutto fuorché una geografia, e le sue incongruenze sono note fin dall'antichità (si veda l'aforisma di Strabone, riportato da D. Loscalzo). Il tentativo di cercarvi una coerenza trapiantando tutte le località nominate in altra area (in questo caso, nel Baltico) può sortire qualche curiosa coincidenza, ma si tratta di un procedimento che comunque presuppone almeno tre condizioni di difficile accettazione:
    1) una lucida memoria di luoghi, e fenomeni ad essi legati (a volte descritti nei loro particolari), pur nel contesto di un completo oblio della patria originaria
    2) una stretta coerenza interna ai due poemi, pur essendo chiaro ai filologi che essa non esiste, o esiste in piccola parte
    3) la calcolabilità delle distanze e delle posizioni reciproche delle mete di Ulisse, pur avendo, come segnala D. Loscalzo, indicazioni temporali puramente simboliche sulla durata dei viaggi (e, aggiungo, sulle direzioni rispetto ai punti cardinali).

    Come spiegare, allora, quelle incongruenze dei testi, che tanto muovono a tentazione i lettori di Omero? La posizione dell'archeologo Louis Godart (tra l'altro uno dei maggiori esperti mondiali di scrittura Lineare-A) riassume il pensiero degli studiosi "ortodossi", che potrà apparire banale e contestabile, ma è tuttora quello che prevale in ogni ambiente accademico:

    Oggi si pensa che fu intorno al 700 a.C. che Omero compose L'Iliade e L'Odissea. Ricordiamo che L'Iliade racconta alcuni episodi legati alla guerra di Troia mentre l'Odissea narra il ritorno in patria di uno degli eroi che presero parte all'assedio della città di Priamo, Ulisse.
    Erano quindi trascorsi circa cinquecento anni quando i fatti esposti da Omero furono ordinati nei due grandi capolavori che conosciamo. E' decisamente molto, anche se, come fa notare John Chadwick, abbiamo altri esempi di poeti che hanno raccontato avvenimenti vecchi di circa mezzo millennio; la canzone di Orlando, ad esempio, è stata composta nel corso del XII secolo, ma tratta di un avvenimento verificatosi nel corso dell'anno 778.
    … Il mondo descritto e dipinto da Omero è molto lontano dalla Grecia del II millennio a.C. Gli eroi morti sul campo di battaglia o altrove sono bruciati sui roghi, mentre i principi micenei erano sepolti in grandi sepolcri familiari, le famose tombe a tholos di cui la letteratura omerica non parla mai. I funzionari degli stati micenei come il korete, il porokorete, il duma, l'eqeta o il lawagetas e altri ancora non sono mai menzionati nell'epopea omerica; appartengono certamente a un mondo di cui si è persa memoria.
    … Si possono notare le stesse incongruenze a proposito delle descrizioni geografiche. Abbiamo visto che Schliemann credeva ciecamente nella geografia omerica, tuttavia le cose non sono così semplici. Se consideriamo la descrizione di ltaca, dobbiamo riconoscere che l'Itaca di Ulisse non ha nulla a che vedere con l'Itaca moderna, al punto che molti hanno rifiutato di credere che si trattasse della stessa isola. La descrizione di Micene pone gli stessi problemi. Omero ci descrive Micene come la capitale della Grecia d'allora, ma si ha l'impressione che ignori completamente il luogo in cui sorgevano città e palazzo, infatti attribuisce al regno di Agamennone i territori situati sulla riva meridionale del golfo di Corinto, come se Micene fosse stata molto più a ovest.
    Altre anomalie si riscontrano nella descrizione del regno di Nestore. Nell'Iliade, il poeta ci parla di nove città sottomesse a Nestore: Pilo, Arenè, Tiro, Aipu, Ciparissia, Amfigeneia, Pteleo, Elo e Dorion. Le tavolette in lineare B rinvenute a Epano Englianos, invece, ci dicono che il regno di Messenia era suddiviso in due province comprendenti rispettivamente nove e sette città di cui l'Iliade non parla. Le località di cui parla Omero potrebbero corrispondere alle nove città della cosiddetta provincia citeriore del regno di Messenia. Ma anche qui i dati non concordano affatto. Innanzitutto, nelle tavolette Pilo non fa parte delle nove città della provincia citeriore e, inoltre, i nomi delle nove città, così come sono puntualmente descritti nelle tavolette Cn 608, Vn 20 e Jn 829, non corrispondono ai nomi che compaiono nell'Iliade.
    Le testimonianze geografiche che risultano dal passo conosciuto come «catalogo delle navi» non ci aiutano a comprendere la geografia politica del mondo miceneo.
    Emerge da tutti questi dati un solo fatto, che può sembrare banale e come tale va ricordato: Omero era un greco della Ionia che probabilmente conosceva molto male l'Egeo e non lo aveva mai percorso.
    Raccontava una storia vecchia di oltre cinquecento anni sulla base di testimonianze orali che egli stesso aveva raccolto e poi rielaborato secondo il suo genio. I fatti di cui parlava appartenevano ormai al mondo delle favole, dove la realtà si confonde con la leggenda. Lo scopo di Omero era di comporre una grande opera e di interessare il suo uditorio, non certo quello di istruire i suoi ascoltatori o di informarli su una civiltà che avevano dimenticato e che assomigliava ben poco alla loro. Per questi motivi i re e gli uomini dell'Iliade e dell'Odissea si muovono in un mondo che appartiene alla Grecia del I millennio a.C. e che, economicamente, politicamente e socialmente, non ha più nulla a che fare con l'universo palaziale inghiottito dal cataclisma del 1200. Gli eroi di Omero sono i discendenti dei greci micenei come gli abitanti della Firenze d'oggi sono i discendenti dei toscani del quattrocento. Là si ferma il paragone. E' sufficiente per parlare di continuità di razza e di lingua, ma anche per mostrare l'abisso che separa l'uno dall'altro questi due mondi.

    [Louis Godart: L'invenzione della scrittura, Torino, Einaudi 1992, pagg. 270-277]

    La banalità cui fa cenno Godart è senz'altro la maggior responsabile della spinta che muove i ricercatori dilettanti a trovare spiegazioni più soddisfacenti e, appunto, meno banali. Ma qualunque alternativa a tale banalità naufraga regolarmente nell'infido mare del "metodo", giacché se si tengono presenti tutti i dati che emergono dalle varie discipline che indagano nel passato dell'umanità, qualunque soluzione proposta al problema crea più incongruenze di quante creda di risolvere.
    A dispetto dell'impressionante apparato critico di Omero nel Baltico, la pretesa di accogliere alla lettera i riferimenti omerici quando essi sembrano asseverare la teoria dell'autore, salvo poi addebitare a licenze poetiche, imprecisioni della tradizione orale o altro, i passi che la inficiano, rappresenta sotto il profilo del metodo una pesante ipoteca sulla credibilità della tesi stessa.
    Nondimeno sono parziali e viziati da improvvise e forse volute vaghezze gli argomenti specifici addotti per giustificare le discordanze della tesi baltica con quanto finora si conosceva della civiltà achea: pur trattandosi di una ricerca interdisciplinare di grande respiro, che giustamente è stata lodata in quanto tale, in ognuna delle discipline affrontate si trovano conclusioni perlomeno azzardate a fronte di problematiche irrisolte, e talvolta perfino rovesciate rispetto a quelle comunemente accettate dagli studiosi del ramo.


    2. IL FATTORE CLIMATICO

    2.1 L'optimum climatico del III millennio a.C.

    Uno degli assunti fondamentali di Omero nel Baltico è la possibilità che gli Achei vivessero in Scandinavia prima di migrare verso la penisola balcanica, e che le antiche gesta in terre nordiche non siano riconoscibili come estranee all'ambiente mediterraneo (animali, vegetazione, ma anche e soprattutto abbigliamento umano) perché il clima non era, allora, così differente come lo è oggi.
    A tale tesi viene in soccorso il cosiddetto optimum climatico del III millennio a.C. , il quale permette all'autore di sostenere che le popolazioni che abitavano la Scandinavia godessero di condizioni particolarmente favorevoli, tali da poter confondere, nelle nebbie del tempo e delle narrazioni orali, un ambiente con l'altro.
    E' vero, l'optimum climatico ci fu, ma gli esperti sono quanto mai incerti nella datazione di questo periodo. Ci sono elementi che hanno fatto datare la fine del periodo più caldo intorno al 2700 a.C., altri al 2300 a.C., altri ancora invece permetterebbero di prolungare fino al 2000 a.C., sia pur con un progressivo raffreddamento, l'optimum in questione.
    L'autore è stretto tra queste date climatiche e le evidenze archeologiche dell'età del bronzo, perciò non colloca le gesta achee nel III millennio, quando sarebbe più facile sostenere che il Baltico avesse un clima simile a quello del Mediterraneo del millennio successivo: è costretto a collocarle in un imprecisato periodo all'inizio del II millennio, sul filo cioè di quel peggioramento del clima (nell'ottica delle attività umane) che secondo l'autore fu responsabile della migrazione degli achei verso sud.
    In alcuni passi, quando la natura omerica è rigogliosa e tipicamente mediterranea, l'autore richiama continuamente la panacea dell'optimum; in altri casi, quando si accenna a nebbie, tempeste e altri fenomeni atmosferici, ci ricorda che Omero non può riferirsi al clima mediterraneo, ma a quello nordico, notoriamente più rigido. Insomma, si ha l'impressione di una voluta indeterminazione del periodo e del clima, di un impreciso "punto di confine", forse perché sposare la causa dell'optimum climatico tout court può rivelarsi un'arma a doppio taglio.
    Infatti, volendo trovare a tutti i costi, tra le righe di Omero nel Baltico, una data per la guerra di Troia e i viaggi di Ulisse, la si può collocare tra il 2000 e il 1800 a.C., proprio nel periodo meno propizio climaticamente. Secondo l'autore, gli Achei se ne andarono dalla Scandinavia proprio intorno al 1800, per ricomparire nell'Egeo qualche secolo più tardi. Ma le più antiche tracce di civiltà del bronzo emerse in Scandinavia risalgono proprio al 1800, e sono sempre più abbondanti mano a mano che ci si avvicina all'epoca storica. In altre parole, se gli Achei se ne andarono per il freddo, furono subito soppiantati da un'altra popolazione che lasciò vistose tracce di sé per diversi secoli (presumibilmente gli attuali scandinavi).
    Perché allora le condizioni che non permettevano più la sopravvivenza agli Achei la permisero ad altri?
    Tornerò sull'incongruenza di questo repentino cambio di popolazione nella trattazione di altre discipline. Per ciò che riguarda il clima nell'Odissea farò qui qualche osservazione a margine.

    "Per diciassette giorni navigò traversando l'abisso./al diciottesimo apparvero i monti ombrosi/della terra feacia: era già vicinissima,/sembrava come uno scudo, là nel mare nebbioso" (Od. V, 278-281).
    Dopo aver notato che questi versi si attagliano molto meglio all'immensità dell'Atlantico che alle limitate dimensioni del Mediterraneo, soffermiamoci per un attimo sull'aggettivo "nebbioso" ("eeroeidés" in greco): esso viene usato in modo sistematico per caratterizzare il mare, sia nell'Odissea che nell'Iliade; e altrettanto frequente è il termine "livido" ("oìnops"): ambedue evocano l'immagine di un mare nordico, non certo quella solare del Mediterraneo durante la stagione della navigazione. Cosi pure l'aggettivo "ioeidés", anch'esso usato da Omero con riferimento al mare, significa "violaceo, cupo, fosco": lo ritroviamo infatti in contesti inequivocabilmente riferibili a delle burrasche (Il. XI, 298; Od. XI, 107), ed anche Esiodo lo usa nello stesso senso (Teogonia, 844). È altamente significativo il fatto che tale caratterizzazione non sia episodica, ma continuamente ricorrente: essa è perfettamente in linea con tutto il quadro meteorologico - freddo, umido e generalmente perturbato - che, come vedremo meglio in seguito, si riscontra in entrambi i
    poemi. [O.n.B., III ediz., pagg. 30-31]


    Le nebbie non sono infrequenti nel Mediterraneo, e certamente la loro presenza dipende dalla stagione.
    Donato Loscalzo annota che «i viaggi erano limitati al periodo dell'anno in cui la stagione era più favorevole, cioè da primavera (primi di aprile) fino a ottobre, quando giungeva l'autunno.» [op.cit. pag. 438]
    Chiunque abbia preso il mare qualche volta in ottobre, sa che deve aspettarsi banchi di fitta nebbia, e quindi non direi che fosse un fenomeno tanto straordinario per i navigatori dell'Egeo. Quanto alle burrasche, credo che il gran numero di imbarcazioni antiche che giacciono sui fondali mediterranei testimonino di un mare non così benevolo come si vorrebbe credere. Le perturbazioni del Nord Atlantico sono sì di ben altra violenza, ma è proprio per questo che era inesplorato – e lo sarebbe stato ancora per tanti secoli. Ma il punto della questione è un altro. Nella traduzione di G.A. Privitera per la Fondazione Valla, il mare, al verso 281 del libro V, non è nebbioso. E' fosco. Come sempre quando è in burrasca. Non è stata rilevata da nessun altro un'insolita frequenza della nebbia, mentre il mare troppo spesso in burrasca è ovviamente una conseguenza dell'inimicizia di Poseidone. Mi sembra azzardato (per usare un eufemismo) che Omero si inventi questa inimicizia per giustificare un clima intrinsecamente burrascoso. Anche perché i Feaci, protetti dallo stesso dio del mare, non sembrano affatto considerare particolarmente perigliosa la navigazione.
    Sempre all'interazione degli dei sono da addebitare, piuttosto, le "nebbie" che provvidenzialmente nascondono i personaggi alla vista degli altri. Si tratta ovviamente di un fenomeno magico e non meteorologico, ed è quindi fuorviante invocare la frequenza della parola "nebbia" nel poema:
    E, a proposito della nebbia, l'Odissea - come d'altronde anche l'Iliade - non si limita a menzionarla solo in riferimento al mare: infatti Ulisse, allorché arriva in città e si sta dirigendo verso la reggia di Alcinoo, vi si trova completamente avvolto (Od. VII, 41-42); più in generale, si tratta di un fenomeno che, come verificheremo in molte altre occasioni, rappresenta una caratteristica costante del mondo omerico - ad Itaca, a Troia, fra i Ciclopi, nel Peloponneso - e sottolinea la dimensione tipicamente settentrionale del mondo cantato nei due poemi. [O.n.B., III ediz., pag. 32]

    Il quadro « freddo, umido e generalmente perturbato » richiamato dall'autore viene dunque incontro alla nostra approssimativa conoscenza del clima scandinavo attuale: ma come, non doveva esserci il famoso optimum climatico? Come già detto più sopra, l'autore sembra utilizzare il concetto di optimum solo quando occorre spiegare un clima che poco ha a che fare con l'immagine odierna della Scandinavia, lasciando invece che quell'immagine ci suggestioni non appena se ne presenti l'occasione.
    Nell'immediato seguito del brano del libro V più sopra riportato, Ulisse naufraga:
    A questo punto una tempesta scatenata da Poseidone distrugge la zattera; Ulisse però si mette a cavalcioni di un tronco e riesce a salvarsi grazie ai provvidenziali interventi di una divinità marina (Ino Leucotea, che gli dà un magico salvagente) e della dea Atena, la sua protettrice: "Ella degli altri venti incatenò le vie/ordinò a tutti di fermarsi e dormire;/destò solo il rapido Borea, e l'onde gli ruppe davanti,/sicché tra i Feaci amanti del remo arrivasse" (Od. V, 383-386).
    Dopo due giorni e due notti alla deriva in direzione sud (Borea è il nome del vento che soffia dal nord), finalmente il tempo migliora, ma per il naufrago prender terra è difficile. [O.n.B., III ediz., pag. 31]


    Sopravvivere 48 ore nell'Atlantico in burrasca, al largo della Norvegia, con venti che soffiano da Nord, è assolutamente impossibile. L'ipotermia uccide in pochi minuti, altro che due giorni e due notti (impresa possibile solo nei mari molto caldi). E' pur vero che la ninfa Ino presta ad Ulisse un velo immortale che lo aiuterà a sopravvivere, ma il poeta non fa alcun cenno alle sue proprietà di isolante termico: sembra che serva solo al galleggiamento, per non affogare tra i flutti.
    A questo punto sembrerebbe necessario invocare l'espediente dell'optimum climatico, sostenendo magari che le acque erano sufficientemente calde per permettere una lunga permanenza a mollo di un uomo nudo. Supposizione smentibile facilmente in sede scientifica, ma in Omero nel Baltico questo episodio viene utilizzato, al contrario, per alcune sottolineature sul clima freddo e pungente, tipico della costa norvegese.
    D'altronde il clima della Scheria non è certo dei più temperati: "Se veglio qui presso il fiume la notte affannosa,/temo che insieme la mala brina e l'umida guazza/non mi finiscano il cuore, stremato dalla fatica:/un vento freddo spira dal fiume avanti l'aurora" (Od. V, 466-469); io conferma il fatto che le ancelle di Nausicaa si affrettano a fornire al nostro eroe "manto, tunica e veste" (Od. VI, 214) e che la regina dei Feaci "al focolare siede, nella luce del fuoco" (VI, 305). Eppure, come avremo modo di rilevare anche in seguito, tutte queste vicende sono ambientate nella stagione della navigazione. [O.n.B., III ediz., pag. 32]

    Non è sufficiente rifarsi a una generica "stagione della navigazione", la quale, come già ricordato, andava da aprile a ottobre. Occorrerebbe sapere con precisione di quale mese si trattava, perché di giornate freddine (soprattutto per un uomo nudo, reduce da una prolungata permanenza in acqua) ce ne sono anche in ambiente mediterraneo. Ma ammettiamo pure, per comodità, che si tratti di un clima rigido, simile a quello che ci possiamo aspettare dalla Norvegia.


    2.2 Vegetazione e fauna

    Con un tale clima sulle coste norvegesi, addolcito comunque dalla corrente del Golfo, com'è possibile, allora, credere che la Tracia degli Achei si trovasse sulle sponde del Golfo di Botnia?
    Diventa altresì agevole identificare anche la posizione della Tracia "dalle fertili zolle", da cui proviene un contingente di alleati dei Troiani (Il. II, 844): poiché da un lato l'eroe Ifidamante, partito da lì e diretto a Troia, deve viaggiare per mare (Il. XI, 221-230), dall'altro Omero accenna al "vino, che le navi dei Danai/ogni giorno dalla Tracia sul largo mare ("ep'euréa pònton") trasportano" (Il. IX, 71-72) per rifornire l'accampamento acheo, se ne deduce che la Tracia omerica si trovava sul lato occidentale del Golfo di Botnia, lungo l'attuale costa della Svezia centro-settentrionale. Tale regione doveva estendersi per un certo tratto anche verso l'interno, perché l'lliade menziona anche "i monti nevosi dei cavalieri traci" (XIV, 227): in effetti, mentre il versante finlandese del Golfo di Botnia è generalmente quasi pianeggiante, quello opposto è marcatamente più montuoso. [O.n.B., III ediz., pag. 201]

    L'autore ci fa sapere, in punti diversi di Omero nel Baltico, che la temperatura media in Scandinavia era di 4 gradi centigradi superiore all'attuale, e che durante il medioevo, a causa di un altro optimum di minor durata e intensità, nella parte meridionale della penisola si coltivava la vite. Ma nonostante 4 gradi in più di media siano influenti sul clima più di quanto generalmente si creda, il Golfo di Botnia è ed è sempre stato proibitivo per coltivazioni come quella della vite, la cui pianta muore a temperature inferiori ai –15°C.
    Il golfo è gelato, attualmente, sei mesi all'anno, e per gelare il mare le temperature devono essere talmente basse che anche 4 gradi in più non trasformerebbero in temperato il territorio circostante. Per chiarire: là dove dovrebbe esserci stata la Tracia attualmente la temperatura media annua oscilla tra -1 e –2, e anche se oscillasse tra +2 e +3 la vite non potrebbe sopravvivere. Non è per caso che a nord di una certa linea l'umanità abbia fatto fermentare l'orzo per ottenere la birra, piuttosto che l'uva per ottenere il vino.

    I paesaggi innevati, che secondo F. Vinci sono descritti da Omero senza ombra di straordinarietà, quasi fossero una realtà quotidiana, meriterebbero un discorso a parte. Per ora mi limito ad osservare che, anche ammesso si trattasse di antichi ricordi "esotici", Omero si rivolgeva a un uditorio mediterraneo che aveva perso ogni nozione della propria provenienza, e avrebbe quindi dovuto stupirsi non poco di simili descrizioni lontane dall'esperienza climatica contemporanea. I commentatori più antichi non hanno invece mai sollevato il problema, e ciò dovrebbe ragionevolmente provare che le condizioni climatiche di Iliade e Odissea non apparivano insolite ed esotiche ai Greci dell'età classica.
    A parte questo, è indubbio che le popolazioni avvezze alla neve avessero sviluppato, già molti millenni fa, sistemi di trasporto idonei, privilegiando il traino a slitta piuttosto che a ruote. Non c'è menzione di ciò in nessun passo dei poemi omerici, il che rappresenta un grave pregiudizio per la teoria cara a F. Vinci.

    Sono notazioni marginali, come si è detto, dato che la quantità di dubbie illazioni basate su questo clima un po' troppo fluttuante tra il temperato e il freddo umido, costringerebbe a scrivere un intero libro in risposta.
    C'è chi ha ricordato, per esempio, che nei periodi interglaciali più caldi lo scioglimento dei ghiacci aumentava l'umidità generale, provocando fenomeni legati ad essa in tutti i punti del pianeta. Ma per far tesoro di queste preziose indicazioni sulla fisica dell'atmosfera, dovremmo avere dati precisi, ad iniziare dall'epoca in cui si svolgono i fatti narrati: intorno al 2000, comunque non più tardi del 1800, come sostiene Felice Vinci, oppure intorno al 1200 come si è sempre pensato finora? Questa indeterminazione impedisce di utilizzare i dati climatici eventualmente ricavabili a computer. Sempre che Omero (o chi per esso) tramandi memoria di un clima passato, e non descriva invece – come appare più logico – il clima a lui contemporaneo. E in ogni caso il clima era per lui conseguenza del capriccio degli dei...
    Sull'ipotesi scandinava grava infine un'omissione a dir poco clamorosa: le foche. Questi animali furono per secoli (all'incirca dal 2300 al 1800 a.C.) la maggior risorsa alimentare delle popolazioni costiere, e Omero non ne fa alcuna menzione.
    Non più tardi del 2300 a.C. nell'interno della Svezia fu introdotta l'agricoltura. Di conseguenza, le comunità della ceramica ad alveoli videro il loro territorio limitarsi alla costa e aumentare la loro dipendenza dalle foche. Una volta distrutta la loro economia equilibrata, esse si trovarono male equipaggiate per far fronte alle fluttuazioni nella popolazione delle foche che, tra il 2000 e il 1800 a.C., si accompagnarono a un mutamento del clima. L'economia della caccia e raccolta scomparve ben presto, e la popolazione della ceramica ad alveoli fu probabilmente assorbita da quella agricola dell'interno.
    [Marek Zvelebil, Le Scienze n. 215, luglio 1986]

    Anche le renne sembrano essere del tutto sconosciute a Omero, pur essendo essenziali per le popolazioni più a nord nell'interno, dedite alla pastorizia e a una rudimentale agricoltura. Poiché la renna è l'unico cervide addomesticato dall'uomo, la sua importanza non è legata all'attività di caccia (come accade per i cervidi selvatici in altre zone del globo), bensì alla pastorizia. La renna produce carni, latticini, e inoltre è un ottimo animale da tiro. La sua domesticazione risale a un'era imprecisata, anteriore a quella del bronzo.
    Ma l'autore non prende affatto in considerazione questa peculiarità della fauna, limitandosi ad osservare che l'abbondanza di bovini piuttosto che di ovini, nelle narrazioni omeriche, proverebbe che esse si svolgono non nella montuosa Grecia, bensì nelle pianure scandinave. Ipotesi assai discutibile, dato che nell'Odissea pecore, capre e maiali sono menzionati assai più dei buoi (D.Loscalzo), ma comunque assolutamente meno pregnante dell'inspiegabile assenza di foche e di renne nel contesto subartico presupposto.


    3. GEOGRAFIA, ASTRONOMIA

    3.1 Geografia fisica e morfologica

    Nonostante, come già si è detto a proposito delle questioni di metodo, la geografia omerica sia stata attribuita quasi unanimemente, nel corso di 25 secoli, alla fantasia dell'artista, la ricerca di coincidenze tra le sommarie descrizioni di Omero e luoghi realmente esistenti nell'area scandinava, è uno dei punti di forza di Omero nelBaltico. E' effettivamente impressionante la quantità di "riconoscimenti" di isole e luoghi di terraferma che l'autore compie, al punto di ricostruire l'intero mondo omerico sulle rive del Baltico e del mare del Nord.
    Però, ad un'analisi più attenta, risultano arbitrari quasi tutti i predetti riconoscimenti. E non potrebbe essere altrimenti, giacché (si è detto) le relazioni geografiche tra i vari luoghi sono indicate da Omero attraverso un tempo di navigazione ritenuto simbolico e attraverso grossolane indicazioni di direzione (oriente, occidente, settentrione, meridione). Identica schematicità presentano i venti, essendone menzionati solo quattro: Borea, Euro, Noto e Zefiro, tutti spiranti dai punti cardinali puri. Euro e Noto (rispettivamente da Est e da Sud) sono inoltre considerati contrari alla navigazione (D. Loscalzo). Condizioni che non sono verificabili né nel Baltico né nel Mediterraneo.
    Non si può dunque, con tutta la buona volontà dello studioso, accettare che nei poemi siano rintracciabili elementi che permettano di ricostruire una qualsivoglia geografia reale.
    Non lo si pretende dalle descrizioni salgariane della Malesia (con tutto che Salgari aveva a disposizione carte geografiche ben più precise e dettagliate), e ancora più assurdo è pretenderlo da Omero.
    Ai suoi tempi non disponeva di una cartografia, e le cognizioni geografiche erano appannaggio di marinai e mercanti, classi sociali che poco avevano a che fare con i destinatari della poesia epica. Le terre lontane e misteriose sono da sempre il luogo privilegiato della fantasia, piuttosto che della curiosità scientifica, com'è evidente dal resoconto fiabesco che Marco Polo fece del Catai, che pur aveva visitato personalmente.

    Pensare che Omero ripetesse parola per parola antichi miti, sopravvissuti per oltre mille anni, senza comprenderli appieno, è un'ipotesi di scarsissima credibilità. La tradizione orale si corrompe facilmente attraverso aggiunte, omissioni, fraintendimenti verbali; la lingua stessa si evolve in un millennio rendendo di difficile comprensione il testo originale, anche ammesso che giunga integro.
    Così, anche nella convinzione che i miti narrati fossero davvero molto antichi (e lo sono a sufficienza, anche nella tradizionale ipotesi che data al 1200 a.C. la guerra di Troia) l'ipotesi più convincente rimane quella che attribuisce ad Omero un rimaneggiamento narrativo, con parole proprie e con l'idea (molto vaga) che egli aveva della civiltà achea. I filologi sono più che convinti che le esigenze della metrica e della retorica fossero assai più importanti per un aedo che non il naturalismo geografico, e se di una terra dice piatta o montuosa ciò dipende dalle sue esigenze del momento, e non perché tale indicazione fosse parte integrante della narrazione originale. L'eccesso di aggettivazione, e soprattutto la reiterazione di questa aggettivazione, sono elementi tipici della poesia epica dei tempi di Omero, un espediente stilistico che ben difficilmente si può ricondurre a un testo preesistente, nel quale, con ogni probabilità, era presente il crudo nome delle località.

    Assumendo, per assurdo, che sia vero il contrario, e che le descrizioni risultino esatte, se solo si sposta altrove il teatro delle gesta, alcuni interrogativi irrisolti discenderebbero da questo assunto. Per esempio, una caratteristica fisica che è peculiare dell'area scandinava, è la presenza di un numero di laghi, grandi e piccoli, che ha del prodigioso: oltre 60.000 nella sola Finlandia. Nella parte meridionale della Svezia i laghi sono meno numerosi, ma di grandi dimensioni. Attorno a questo elemento lacustre si svilupparono civiltà caratteristiche, con propri moduli abitativi, con imbarcazioni diverse da quelle destinate ai mari, e con un'economia fondata sulla pesca. Ebbene, nulla di tutto ciò trapela dai poemi omerici.
    In minor misura si può lamentare l'assenza di ogni accenno ai fiordi, benché questi siano una caratteristica della costa norvegese (in Omero nel Baltico vi si collocano i Feaci, i Lestrigoni e i Ciclopi), eppure la presenza di tali barriere naturali ha da sempre attirato l'attenzione dei visitatori, in età storica.
    Si dovrebbe concludere che Omero descriva il territorio in modo inesatto e lacunoso, eppure le sue indicazioni sono in grado di far coincidere quasi alla perfezione i luoghi di Ulisse con località scandinave.
    Un'ipotesi che suscita scarsi entusiasmi, e che fa preferire la spiegazione "banale" che finora ha riscosso il maggior credito presso gli studiosi: e cioè che nessuna delle descrizioni di Omero è una vera descrizione geografica.

    Un episodio sul quale l'autore si sofferma, e che ritiene probante ai fini dell'individuazione geografica della terra dei Feaci, è il fiume che cessa di scorrere.
    E qui accade un fatto estremamente significativo: il fiume "subito fermò la corrente, trattenne l'ondata,/gli fece bonaccia davanti e in salvo l'accolse/ dentro la foce" (V, 451-453). Il fenomeno dell'inversione del flusso, incomprensibile nel mondo mediterraneo - dove l'altezza delle maree è assai limitata e la corrente dei fiumi si dirige incessantemente verso il mare - è invece normale sulle coste atlantiche, dove l'ondata dell'alta marea risale periodicamente gli estuari.
    Questa è la migliore conferma della correttezza del ragionamento sin qui seguito, a partire dall'indicazione iniziale di Plutarco riguardo all'ubicazione di Ogigia. (O.n.B., III ediz., pag. 31)


    Molte sono le obiezioni che si possono muovere a questa interpretazione. Innanzitutto, non viene "invertito il flusso", come sostiene l'autore, ma semplicemente arrestato. Anche le modeste maree mediterranee sono in grado di controbilanciare il flusso di un fiume di scarsa portata. Però si potrebbe sostenere che il fenomeno sia assolutamente singolare per l'esperienza di Ulisse, al punto di doverlo accreditare all'intervento della dea Atena anziché a normali cause naturali. Tuttavia Ulisse aveva già avuto, secondo la ricostruzione geografica dell'autore, altri approdi sulle coste norvegesi, e questo fenomeno avrebbe dovuto essergli familiare.
    D'altra parte, se "incomprensibile nel mondo mediterraneo", doveva essere ben conosciuto dagli Achei nel loro periodo nordico: perché dunque scomodare l'intervento divino per un banale fenomeno fisico?
    Si dovrebbe supporre che Omero racconti una storia giuntagli con questo inesplicabile episodio, senza spiegazione appunto perché usuale, e ci aggiunga di suo l'intervento di Atena, tanto per giustificarlo ai suoi uditori. Ma decidere cosa Omero metta di suo e cosa invece è tramandato parola per parola da oltre un millennio, è un'operazione talmente assurda e velleitaria che non convincerà mai nessuno.


    3.2 Geografia e toponimi

    Uno dei punti più controversi della teoria esposta in Omero nel Baltico è la coincidenza della maggior parte dei toponimi usati nei poemi omerici, con località effettivamente esistenti nel Mediterraneo.
    L'autore spiega questa coincidenza con un fatto senza precedenti nella storia delle migrazioni umane: gli Achei, giunti nelle loro nuove sedi, avrebbero riutilizzato tutti i toponimi già in uso nel Baltico, con particolare attenzione alla loro disposizione rispetto ai punti cardinali (nei limiti del possibile). La paziente ricerca di ogni tassello posizionato in modo errato ha consentito a F. Vinci di riposizionare nel Baltico, con maggior soddisfazione, le località omonime del Mediterraneo.
    Ma è credibile che gli Achei si siano comportati così? Che avessero una precisa intenzione di rinominare le nuove terre con nomi familiari, in ricordo del loro habitat precedente? Non si può escludere alcuna stravaganza, nel comportamento delle popolazioni, come ben sanno gli antropologi. Ma le probabilità che ciò giustifichi l'esistenza di una Creta nel Mediterraneo, e di un'altra - in terraferma - sulle rive dell'odierna Polonia, sono alquanto basse. Perciò l'autore è andato in cerca di assonanze improbabili (come si vedrà nelle note linguistiche) al fine di provare l'origine "grecheggiante" di molti toponimi baltici. Basta un fiume, un monte, un villaggio che richiami vagamente un nome di luogo noto ai Greci, ed ecco che prende forma questa presunta doppia denominazione dei luoghi in aree così diverse.
    L'errore fondamentale di questo metodo è il non chiedersi l'origine dei nomi delle terre, dei fiumi e dei monti del Mediterraneo, perché i nomi di luogo non vengono dati per capriccio, né sono assegnati partendo da un "catalogo" di nomi disponibili. Se l'autore riuscirà a dimostrare etimologicamente che c'era una ragione per chiamare Aygiptos il fiume Vistola, e non c'era invece per designare con quel nome il Nilo, allora la sua teoria (secondo la quale nel secondo caso il nome deriva dalla coincidente posizione geografica rispetto alle sedi achee) avrà una freccia in più al proprio arco. Fino a quel momento si potrà dire solo l'inverso, e cioè che l'identificazione di Aygiptos con la Vistola non ha altra giustificazione che la posizione geografica a sud delle presunte sedi achee nel Baltico.


    3.3 Astronomia

    Uno dei punti-cardine della ricerca di F. Vinci è, come si è detto, la collocazione di Ogigia nelle isole Fær Øer. Ignorando l'indicazione di Plutarco (5 giorni di navigazione verso occidente) l'autore sposta molto più a nord, in asse con la Britannia, il luogo dove cercare l'isola. D'altronde, a cinque giorni verso ovest non c'è proprio niente. Per avvalorare la propria teoria, egli utilizza alcuni versi del libro V dell'Odissea:
    Finalmente Ulisse, dopo essersi costruito una zattera, riesce a partire da Ogigia, puntando dritto verso oriente, con gli occhi fissi sulle costellazioni, in particolare l'Orsa: "Quella infatti gli aveva ordinato Calipso, la dea luminosa,/ di tenere a sinistra ("ep'aristerà cheiròs echònta") nel traversare il mare" (Od. V, 270-277). Da questi versi si deduce inequivocabilmente che la rotta del ritorno è rivolta in direzione est. [O.n.B., III ediz., pag. 30]

    Però quella relativa all'Orsa non è la sola indicazione astronomica presente in quel brano. Su segnalazione di alcuni archeoastronomi (F.R., F.C. e A.C.) sono stati analizzati i seguenti versi:
    Egli dunque col timone guidava destramente, / seduto: né il sonno gli cadeva sugli occhi / guardando le Pleiadi, Boote che tardi tramonta, / e l'Orsa che chiamano anche col nome di Carro / che ruota in un punto e spia Orione: / è la sola esclusa dai lavacri di Oceano. (Od. V. 270-275)

    Identico concetto (con identiche parole!) è espresso pure nell' Iliade:
    e l'Orsa, che chiamano col nome di Carro: / ella gira sopra se stessa e guarda Orìone, / e sola non ha parte ai lavacri d'Oceano. (Il. XVIII, 487-490)

    Attraverso simulazioni al computer eseguite con appositi programmi, che permettono di illustrare il cielo visibile in qualsiasi epoca e a qualsiasi latitudine, gli archeoastronomi hanno stabilito che all'altezza delle isole Fær Øer (circa 62° N) sono ben più di uno i corpi celesti che non tramontano mai.
    Boote non è tardo a tramontare, non tramonta proprio. Molti altri corpi celesti sono circumpolari a quelle latitudini, ma la difficoltà consiste nel sapere se erano conosciuti, nell'antichità, dagli scandinavi.
    Lo stesso Sirio (alfa Canis Orionis), menzionato nell'Iliade, è visibile con crescente difficoltà sull'orizzonte fino ai 60-64°N, e ciò dovrebbe renderlo assai meno popolare, come punto di riferimento, di quanto lo sia nel Mediterraneo.
    In definitiva, il cielo stellato nei poemi omerici sembra concordare assai più con quello dell'astronomia classica mediorientale che con quello dell'estremo Nord d'Europa.


    4. ARCHEOLOGIA

    4.1 Le civiltà scandinave.

    Già si è accennato, a proposito di climatologia, alla presenza di una civiltà della "ceramica ad alveoli" che dipendeva largamente dalla caccia alla foca. L'introduzione dell'agricoltura nelle ridotte aree coltivabili dell'interno, a partire dal 2300 a.C., emarginò questa civiltà verso la fascia costiera, rendendola sempre più dipendente dalla caccia e dalla raccolta. Poco si sa dell'antagonista civiltà agricola dell'interno, ma se la popolazione costiera era quella della ceramica ad alveoli e della caccia alla foca, è ragionevole pensare che fosse anche costruttrice di imbarcazioni. Quindi, nell'ipotesi di F. Vinci, anche la protagonista dei poemi omerici. Archeologicamente se ne perdono le tracce proprio con la fine dell'optimum climatico, tra il 2000 e il 1800 a.C., il periodo che viene appunto indicato come quello della "diaspora" achea. Senonché quella cultura non conosceva il metallo, era presumibilmente neolitica, e le teorie più accreditate spiegano la sua scomparsa con l'assorbimento (o forse l'asservimento) da parte della cultura agricola dell'interno, a sua volta in difficoltà per via del mutamento di clima e dunque riversatasi sulle coste. Questo avvenimento viene datato generalmente intorno al 1800 a.C., e ciò rende quanto mai problematico identificare l'avanzata civiltà del bronzo achea in quell'area.
    In Omero nel Baltico si sottolinea, tra l'altro, l'assenza della ceramica nelle stoviglie descritte nei poemi: i ricchi avevano recipienti di metallo, più o meno prezioso; i poveri li avevano di legno. Ma niente ceramica.
    Come mettere in relazione allora gli Achei con una civiltà connotata dalla sua ceramica, che non aveva ancora raggiunto l'età del bronzo? Siamo sempre più in difficoltà nel confrontare l'ipotesi baltica con questi elementi archeologici.
    Da qualunque testo divulgativo emerge che l'età del bronzo scandinava inizia appunto verso il 1800 a.C., con rari reperti di probabile importazione, per poi svilupparsi e raggiungere un considerevole sviluppo intorno al 1200 a.C. (manufatti locali di ottima fattura, comparabile con quelli di altre aree, si trovano con una certa abbondanza in reperti databili intorno al 1500).
    L'ipotesi di F.Vinci si basa invece sulla supposizione di una ben più antica arte del bronzo, databile almeno dal 2200 al 1800 a.C. (per il livello metallurgico dei "suoi" Achei parla di una media età del bronzo, escludendo che sia in piena fioritura: ma di questo si parlerà più avanti). Si dilunga poi a descrivere i mirabili reperti del bronzo scandinavo, contenuti nei musei della zona: ma non accenna minimamente alla datazione di quei reperti. Né sembra preoccuparsi del fatto che se gli Achei, in Grecia, avevano al XVI secolo a.C. un modesto know-how metallurgico, assolutamente incomparabile con quello dei popoli mediterranei, sembra poco probabile che i reperti di un bronzo così "maturo" siano databili all'epoca in cui essi vivevano in Scandinavia.
    Poiché la tesi della migrazione achea prevede che quel popolo abbandonasse una Scandinavia dal clima diventato invivibile, per essere sostituito più tardi da stirpi germaniche (i cui discendenti sono gli attuali scandinavi) c'è da chiedersi chi lasciò evidenti tracce di una crescente abilità metallurgica proprio a partire dall'epoca della diaspora achea. Perché le condizioni climatiche che agli Achei dovevano sembrare invivibili permisero, senza soluzione di continuità, la sopravvivenza di un popolo germanico? Una cosa è certa: i mirabili reperti bronzei magnificati da F.Vinci, come conseguenza della sua stessa teoria, non possono essere che un prodotto di quella civiltà che sostituì gli Achei.
    La comune teoria sulla preistoria scandinava prevede invece che, a seguito della fusione dei due gruppi (quello interno e quello costiero) si sviluppasse una civiltà di navigatori e di mercanti, ben presto messasi in contatto con aree culturali più avanzate. La presenza, nel XVIII sec. A.C., di pochi manufatti metallici di pregiata fattura, che spiccano dalla primitività di altri, viene appunto giustificata dall'intraprendenza commerciale, dato che gli scandinavi avevano una risorsa pregiata come l'ambra, una novità richiesta e apprezzata nel mondo mediterraneo almeno fino alla fine di quel millennio.
    Anche la presenza di manufatti di avanzata fattura nelle isole britanniche è spiegata col commercio (in tarda età del bronzo), piuttosto che con la presenza di evolutissimi Achei, come suggerito in Omero nel Baltico.
    Le teorie dell'autore sono solo teorie, e in quanto tali rispettabilissime, ma per ribaltare le convinzioni che si sono formate in un secolo di ricerche archeologiche ci sono troppe incongruenze, a volte molto evidenti.


    4.2 Localizzazione di Troia

    Nell'intento di localizzare tutte le località omeriche nell'area nordica, F. Vinci affronta l'annoso problema di Troia. Poco importa, ai fini archeologici, che egli identifichi in Toija (una cittadina dell'odierna Finlandia) la città teatro della più famosa guerra dell'antichità. Importano assai di più le motivazioni che adduce per sfatare la convinzione che il sito presso Hissarlik, dove Schliemann credette di trovare la città descritta da Omero, non nasconde le rovine della "vera" Troia.
    Come si sa, gli archeologi sono abbastanza divisi sulla questione. Pur senza mettere mai in dubbio la collocazione in Anatolia della mitica città, molti hanno sostenuto, in passato e ancora oggi, che le rovine di Hissarlik siano di qualche altra città, ma non quella di Priamo.
    In Omero nel Baltico si parte addirittura dalla Geografia di Strabone, lo stesso storico che riteneva impossibile ricostruire la geografia omerica, e dunque inascoltato da F. Vinci, che qui però ritiene di dargli ragione: « L'antica I lio non si trova qui» [Geografia, XI I I , 1,27)
    Non è affatto chiaro cosa intenda Strabone per qui, è assai improbabile che si tratti del luogo dove scavò Schliemann, ma comunque la sua descrizione del luogo non coincide con quella del sito archeologico di Hissarlik, e questo è un fatto assodato. Però mi chiedo, come ho fatto con Plutarco, da quali fonti Strabone avesse saputo dov'era Troia, a distanza di una dozzina di secoli dalla sua distruzione. Eppure le sue indicazioni sono prese molto sul serio dagli avversari della tesi-Schliemann:
    "Strabone riferisce che la pianura era un'insenatura marina al tempo della guerra di Troia, in seguito riempita dal limo portato giù dal fiume
    Schliemann era ansioso di smentire questa affermazione perché era uno dei principali argomenti contrari alla teoria Troia-Hissarlik. Se il mare a quel tempo lambiva le mura di Troia, come potevano i greci e i troiani scorrazzare avanti e indietro nella pianura fra la città e il mare stesso, come dice Omero? (...)
    Grazie ad una serie di carotaggi eseguiti nel 1977, ora sappiamo che in epoca preistorica la pianura era ricoperta da un vasto braccio di mare, che arrivava fino a Hissarlik nel periodo Troia IV e assai più a monte nel periodo Troia II, ma che al tempo di Strabone si era ridotto ad una piccolissima baia alla foce del fiume.
    Strabone aveva quindi ragione e le conclusioni di Schliemann, basate su campioni inadeguati, erano errate".
    Questa affermazione di David Traill, professore di lettere classiche all'Università di California, attesta i fortissimi dubbi degli studiosi riguardo all'identificazione della Troia omerica con la città a suo tempo riportata alla luce da Heinrich Schliemann nel sito anatolico di Hissarlik, situato davanti allo Stretto dei Dardanelli. (O.n.B. III ediz. Pag. 114)


    L'interpretazione di quel qui, in Omero nel Baltico, è come al solito radicale: Strabone vuol dire che non si trova affatto in Anatolia, e nemmeno nel bacino mediterraneo. Come facesse a saperlo solo lui, rimane un mistero.
    Senonché recenti e approfonditi studi sugli Hittiti e la loro civiltà, hanno portato a concludere che la città di Wilusa, frequentemente menzionata in vari reperti archeologici e sicuramente trovantesi in Anatolia, fosse proprio la città chiamata anche Ilio, in alternativa a Troia. Me ne ha relazionato G.C. in modo informale, precisamente in questi termini:
    Più e più volte i luoghi citati nell'Iliade di Omero sono stati documentati per l'età del bronzo ed identificati nei relativi testi Hittiti. Recenti (anno 2001) studi sembrano non lasciare dubbi sul fatto che i toponimi Wilusa e Taruisa citati negli scritti Hittiti siano da identificare con Ilios e Troia; essendo stata scartata ogni altra possibile locazione.
    Più recentemente quindi l'attenzione degli studiosi si è fermata sull'esatta relazione tra Taruisa e Wilusa.
    Parallelamente si sono cercate altre corrispondenze per nomi di popoli quali Greci, Danaioi e Achei.
    I Danaioi appaiono già in iscrizioni Egizie come abitanti del sud della Grecia (in specie il Peloponneso), per gli Egizi le loro città maggiori erano Micene, Messene, Nauplion, Citera.
    Gli Achei sono invece conosciuti nei testi Hittiti come gli Ahhijawa; secondo questi scritti essi provenivano dalla Grecia centrale e del Nord, e controllavano buona parte delle isole dell'Egeo e qualche avamposto sulla costa dell'Asia Minore.
    E' però da dire che un'identificazione alternativa degli Ahhijawa come un regno dell'Anatolia Occidentale non è stata ancora del tutto esclusa.
    Già in un testo risalente al 1600 a.C. in Luviano, lingua parlata nell'Anatolia occidentale ed affine all'Hittita parlato nell'Anatolia centrale, viene citata la "ripida Wilusa" ("Canzone di Istanuwa" CTH 772; KBo 4.11:45-46; vedi anche Calvert Watkins "The language of Trojans" e Machteld Mellink "Troy and Trojan war).
    Nell'Iliade un'espressione simile è spesso usata per designare Troia.
    Ricordiamo che a Hissarlik-Troia, nello stato VII B è stato trovato un sigillo con iscrizioni in Luviano.
    Nella lista degli appartenenti alla "lega di Assuwa", sconfitta dal Gran Re Hittita Thudaliya I (circa 1.400 a.C.), sono citati i Lukka (Licii), Wilusiya e Taruisa (CTH 142); ciò è paragonabile a quello che afferma Omero nei II ed XI dell'Iliade, secondo cui l'esercito Troiano era composto da Troiani, Lici e Dardani (a proposito dei Dardani, essi sono citati, con il nome di "Drdny" dagli Egizi ai tempi di Ramesses II e di Kadesh).Allo stesso Re, dopo una vittoria, viene regalata un vassoio con l'iscrizione "Tarwiza" (Hittita_Taruisa), in Luviano.
    Infine esiste un trattato tra il Re Hittita Muwatalli II (1295 - 1272 b.C.)e tale "Alaksandu" (Alessandro ? - come il secondo nome di Paride) di Wilusa (CTH 76; HDT 13; vedi Gary Beckmann, Hittite diplomatic texts, Scholar Press 1986).
    Da notare che nel trattato viene invocato il dio Appalliunas (Apollo, una delle divinità protettrici della Troia Omerica), ed una sorgente sotterranea di Wilusa; ed effettivamente a Hissarlik-Troia è stata scoperta una fonte in un tempio sotterraneo.
    Nel contesto di questo trattato viene citato per la prima volta il nome di Piyamaradu (Priamo) (vedi lettera Manapa - Tarhunda; CTH 191).
    Anche negli archivi dei Re Hittiti successivi, da Hattusili III (1267 – 1237 a.C.) a Tudhaliya IV (1237 – 1209 a.C ) e fino in epoca Neo Hittita sono frequenti i riferimenti a Wilusa - Troia.


    Tuttavia in Omero nel Baltico viene contestata l'ipotesi che la Wilusa hittita sia la città in questione, ipotesi che la riporterebbe indiscutibilmente in Anatolia, con la motivazione che Wilusa è "lontana dal mare".
    E Wilusa? È stata ipotizzata una relazione tra il nome di questa città hittita e l'omerica Ilio, l'altro nome di Troia. In realtà "Wilusa si trovava probabilmente nella ricca pianura di Eskisehir, distante più di 300 km. dall'area dei Dardanelli". (O.n.B. III ediz. Pag. 115)
    Come da nota a piè di pagina, la citazione usata da F. Vinci è tratta da James G. Macqueen: Gli Ittiti, un impero sugli altipiani, Roma 1975, pag. 43. La frase, estrapolata dal contesto, pare denotare una grande sicurezza in proposito, ma J.G.Macqueen non è poi così sicuro, se si legge il periodo per intero:
    Arzawa è il centro focale dell'area, circondata dalla "Unione dei paesi di Arzawa", legati ad essa da vincoli linguistici e dinastici. Essi sono Mira, ad est di Arzawa, Hapalla, a sud-est, e la Terra del fiume Seha, a nord. Talvolta si è definito "paese di Arzawa" anche Wilusa; si trovava probabilmente nella ricca pianura di Eskisehir, o nei dintorni, anche se molti studiosi ritengono giusto far equivalere il suo nome a (W)ilion, annettendola così nel luogo di Troia.

    Più avanti nel testo, lo stesso Macqueen (che scriveva 25 anni fa) annette comunque una grande importanza strategica a questa città, riguardo la quale, come riporta G.C., recentemente è "stata scartata ogni altra possibile locazione" all'infuori di Ilio/Troia.
    Se ci domandiamo quale importanza avesse Wilusa, basterà dare un'occhiata alla carta geografica, perché questa città incrociava proprio un'altra antica arteria commerciale, quella che andava dalla Terra di Hatti alll'Anatolia nord-occidentale e, attraverso gli stretti, all'Europa. [op.cit., pag. 45]
    L'esatta individuazione geografica di Ilio/Wilusa/Troia/Taruisa può avere ancora dei margini di dubbio, ma che ci si riferisca alla città omerica, e che questa si trovi in Anatolia, non è più motivo di discussione da almeno un decennio.


    5. LINGUISTICA

    5.1 Radici indoeuropee e semplici assonanze

    A dire il vero il disinvolto rapporto con la linguistica presente in Omero nel Baltico è stato criticato in altre sedi, rappresentando il più macroscopico esempio di pura "suggestione" insinuata nel lettore.
    Per esempio, il prof. Claudio Cerreti, nella sua recensione per il Bollettino della Società Geografica Italiana, annota: «Meno convincenti si mostrano i tentativi di trovare corrispondenze linguistiche tra nomi di località nordiche e mediterranee (la finlandese Toija=Troia, la svedese Lemland=Lemno e via dicendo); meno convincenti, per la verità, soprattutto o solo perché ne manca una dimostrazione filologica, e troppo spesso l'autore si ferma all'assonanza, per quanto impressionante sia in molti casi.»

    Le dimostrazioni filologiche sono assenti anche perché impossibili. L'argomento linguistico è uno dei punti deboli della teoria dell'autore, il quale pare volerlo evitare anche nel corso delle conferenze cui partecipa.
    Riporto la testimonianza di S.A., studioso di filologia greca, che ha assistito ad una di esse.
    Io ho sentito Vinci in una conferenza a Chiavari, invitato da un gruppo che si interessa a problemi "esoterici" (e già questo è indicativo). Trovo assai labile la parte linguistica del suo ragionamento (che Vinci, nel corso di una sapiente costruzione retorica del suo ragionamento, colloca alla fine come argomento inoppugnabile")

    Inoltre il glottologo G.P. ha brevemente analizzato tre osservazioni linguistiche (a caso) presenti in Omero nel Baltico:

    1) Il toponimo Mykines (Färöer) è "grecheggiante.
    -es non è una desinenza ma parte della radice. Il toponimo è un composto così riducibile: Myki-nes.
    Le Färöer furono raggiunte dai Vichinghi (e coperte di toponimi norreni) solo verso l'800 (d. C.,
    ovviamente).

    [a proposito di Mykines altri hanno osservato che un accostamento ai funghi, come suggerirebbe la radice se fosse greca, è incongrua per le Färöer in quanto l'elevata salinità non ne permette la crescita]

    2) Il norreno _skerja_ "scoglio" richiamerebbe la Scheria.
    Skerja è termine documentato a partire dal XIII secolo (sempre d. C.).
    La forma di partenza, ricostruibile comparativamente, è *skarjon-, morfologicamente accostabile ai temi greci femminili in nasale.


    3) Tåsinge = Zacinto.
    Dov'è lo yod che dovrebbe spiegare questo caso di zetacismo da _t_?
    -inge è un suffisso germanico usatissimo per la formazione di toponimi e significa "gente di...".
    -inthos è un suffisso di origine mediterranea pre-indoeuropea.
    Non esiste alcuna legge fonetica, in norreno, che possa giustificare l'evoluzione k > s. Il passaggio inverso (s > k) non è testimoniato da alcuna lingua documentata.


    E' evidente che il numero di suoni diversi (meglio, di sillabe) che possono essere usati per i toponimi non sono infiniti. Ad una omofonia non corrisponde necessariamente un'identità di concetto, e tra greco e norreno, pur appartenenti allo stesso ceppo, le differenze sono tali da poter escludere che facili assonanze rappresentino una qualsivoglia parentela linguistica. E questo vale maggiormente per la forma scritta delle parole. A volte invece le reali parentele sono occultate da morfologie così differenti, da essere riconoscibili solo dagli esperti.


    5.2 Intelligibilità delle lingue

    Nella geografia omerica ricostruita da F. Vinci intorno alla penisola scandinava, Ulisse si trova spesso sulle coste di quella che oggi chiamiamo Norvegia. Precisamente nelle avventure coi Ciclopi, coi Lestrigoni, e infine nella terra dei Feaci. Costoro, secondo l'autore, possono essere gli antenati dei vichinghi, e a riprova di ciò cita antiche leggende norvegesi che sembrano accennare pur esse a Ciclopi ed altri esseri mitici già presenti nella mitologia greca. I Feaci, oltretutto, sono anche abilissimi navigatori, e perciò «A questo punto ci pare di poter ipotizzare una diretta continuità tra i Vichinghi e i loro antenati Feaci "dai lunghi remi" (Od. VIII, 191) "sapienti tra gli uomini tutti / a reggere l'agile nave sul mare" (Od. VII, 108-109)» (O.n.B. III ediz. Pag. 14).
    Quindi le popolazioni della costa norvegese, a differenza di quelle affacciantesi sul Baltico, non avrebbero abbandonato le loro sedi in seguito al peggioramento climatico della fine del III millennio. Se, nel capitolo che F. Vinci dedica ai problemi linguistici, dobbiamo supporre che nella Svezia meridionale si parlasse greco, e che solo in seguito una nuova ondata migratoria portò con sé una lingua di ceppo germanico, alla luce di questa "diretta continuità" tra Feaci e Vichinghi si deve concludere che alla corte di Alcinoo si parlasse già la lingua norrenica, il che comporterebbe non pochi problemi a un parlante greco...
    La diretta continuità ipotizzata dall'autore diventa molto più di una semplice ipotesi, se si rintracciano nel testo i numerosi riferimenti al folklore norvegese, intesi ad asseverare l'origine nordica della mitologia greca.
    Ancora di più la diventa quando l'autore insiste, in punti diversi, sulla completa estraneità dei Feaci al mondo mediterraneo (...l'introvabilità di popoli come i Feaci e di regioni come la Scheria... famosi navigatori,peraltro del tutto sconosciuti nel Mediterraneo...) e la conseguenza di questa continuità è, come si è detto, una netta frattura linguistica tra le coste norvegesi e quelle baltiche.
    Difficile da spiegare, storicamente, archeologicamente e antropologicamente. Ulisse non ha mai problemi linguistici, sembra che ovunque vada la sua lingua sia intelligibile a tutti i popoli. Il che non è ovviamente credibile nemmeno nel classico teatro mediterraneo, ma lo è ancor meno alla luce delle ipotesi appena analizzate. Ancora una volta, la conclusione a cui pervengono gli omeristi è banale: quello dell'Odissea è un mondo fiabesco, dal quale non si possono trarre indicazioni reali di alcun genere.
    I Feaci non sono mai esistiti, sono mitici al pari dei Ciclopi, dei Lestrigoni e dell'isola Ogigia.
    Il valore simbolico che si può attribuire ai Feaci è esemplificato da questo brano di Pietro Citati:
    Una generazione prima di Alcinoo, ai tempi di Nausitoo, i Feaci abitavano a Iperéa: la «terra oltre l'orizzonte». Là vivevano come i loro vicini, i Ciclopi, nell'età dell'oro. Non dovevano lavorare i campi, né piantare né arare: perché grano e orzo spuntavano senza seme e aratro, e le viti producevano vino maturato dalla pioggia di Zeus. Come nell'età dell'oro di Esiodo, forse ignoravano la vecchiaia, e morivano «vinti dal sonno».
    I Ciclopi, loro vicini, che incarnavano il volto barbarico ed empio dell'età dell'oro, li depredavano. Allora Nausitoo condusse i Feaci, non sappiamo attraverso quali peregrinazioni, fino a Scheria. Qui costruì una città, la cinse con un muro, spartì i campi, fece templi agli dèi. Quando Ulisse viene gettato sulla spiaggia di Scheria, Alcinoo regna sui Feaci. Ormai essi sono usciti dall'età dell'oro: lavorano campi, coltivano le vigne, conoscono la vecchiaia: vivono in un'età intermedia, non più nell'età dell'oro, non ancora nel tempo a cui appartiene Ulisse, che è il nostro tempo.

    [Pietro Citati: La mente colorata, Mondadori 2002, cap.II]


    6. LA TECNICA NEL MONDO OMERICO

    6.1 Metallurgia

    Pur magnificando le qualità artistiche e tecniche dell'età del bronzo scandinava in un capitolo di Omero nel Baltico, l'autore sparge qua e là osservazioni sulla primitività del bronzo acheo, soprattutto in fatto di armi (stante il persistente uso di pietra e di legno), ai tempi della guerra di Troia. Non sorprende più di tanto questa contraddizione: come già accennato, F.Vinci si trova stretto tra due date, e cioè la fine dell'optimum climatico (2000 a.C., nel migliore dei casi) con conseguente peggioramento del clima ed esodo degli Achei, e il diffondersi della tecnologia del bronzo nel Nord dell'Europa.
    Si è osservato, nelle note sull'archeologia, che la fioritura dell'età del bronzo in Scandinavia è senza alcun dubbio una conquista delle popolazioni di stirpe germanica, i cui discendenti l'abitano tuttora.
    Le evidenze archeologiche attestano una diffusione in Europa della metallurgia del bronzo a partire da circa il 1800 a.C., e il suo punto di irradiazione si trova in Boemia. Le facili vie fluviali che sboccano nel Baltico permisero a questa tecnologia di raggiungere per la prima volta le culture scandinave tra il 1800 e il 1700. Si distinguono, a partire da allora, periodi del primo, medio e tardo bronzo, prima che la tecnologia del ferro soppiantasse la precendente. La coesistenza, in strati archeologici omogenei, di oggetti bronzei di diversa fattura, alcuni dei quali più avanzati tecnologicamente, prova che altrove (nel Mediterraneo, com'è ovvio) la civiltà del bronzo è sempre stata, in ogni periodo, più avanzata di quella nordica.
    Sembra volutamente fuorviante, dunque, la descrizione dei tesori d'arte bronzea (e orafa) custoditi nei musei senza indicarne, in nemmeno un caso, la datazione approssimativa (risalgono in realtà ai secoli XIV-XI a.C.)
    Così si insinua nel lettore la convinzione che si tratti di reperti di quella età del bronzo nordica di matrice achea, supposta da F. Vinci, la quale nemmeno trova una collocazione temporale molto precisa.
    D'altronde è risaputo che l'invasione achea del Peloponneso, e poi di Creta, è considerata "barbara", ad opera cioè di una cultura di livello inferiore a quelle esistenti in loco. La fioritura dell'età del bronzo micenea avvenne più o meno contemporaneamente a quella nordica, ma sotto influssi culturali differenti.
    Alla luce di ciò, la tesi baltica si trova in difficoltà nel collocare la civiltà achea, come descritta da Omero, in un'area e in un'epoca che ancora non conosceva il bronzo. L'espediente di "sfumare" le gesta achee un po' oltre il 2000 a.C., e di considerare ancora primitiva l'abilità metallurgica degli Achei (che si suppone la portassero con sé, senza "lasciti" alle altre popolazioni scandinave), sembra voler aggirare il problema, ma in effetti non vi riesce.
    Era primitiva l'età del bronzo descritta da Omero? Coloro che datano intorno al 1200 a.C. la guerra di Troia la collocano, in realtà, nel pieno dello splendore miceneo, ma le osservazioni marginali di Omero non paiono descrivere un mondo così sfarzoso. Tuttavia l'età del bronzo omerica è tutt'altro che primitiva, come testimonia Donato Loscalzo:
    Armi e arnesi sono prevalentemente di bronzo, poco diffuso è il ferro, di cui si fa esplicita menzione a proposito del tesoro di Odisseo (XXI 11) e delle ricchezze da lui ammassate presso Fidone (XIV 32.4); per il resto esso compare prevalentemente nelle espressioni proverbiali (XV 329, XVI 294), che riflettono non il momento storico in cui sono ambientati i fatti narrati - l'Età del Bronzo -, ma il mondo contemporaneo del poeta. Il bronzo sembrerebbe quindi il metallo con cui si forgiavano gli strumenti militari e quelli di uso quotidiano, mentre il ferro fa la sua comparsa prevalentemente nelle espressioni metaforiche e nelle similitudini: l'espressione proverbiale «il ferro da solo attira un uomo» (XVI 294, XIX 139) non è da intendere quindi come interpolazione, ma come testimonianza della civiltà contemporanea al poeta dell'Odissea, d'altro canto la formula «il cielo di ferro» (XV 329, XVII 565) inteso dalla Lorimer (op. cit., p. 118) come derivante da una conoscenza del ferro meteorite, in realtà sembrerebbe denotare la solidità e l'eternità della volta celeste (cf. Schol. A ad II. XVII 424 a). Il ferro costituiva inoltre un articolo di importazione: Atena, nell'aspetto di Mente re dei Tafi, dice di recarsi a Temesa per avere ferro e dare in cambio bronzo (I 180-4): i Tafi erano forse una popolazione scomparsa in seguito alle migrazioni della fine dell'età del bronzo, mentre Temesa era identificata dagli antichi con Tamassos di Cipro (cf. Strab. VI 1, 5).
    [op.cit., pag. 436]

    Ancora una volta pesa, sull'attendibilità delle descrizioni omeriche, la sua "posteriorità" rispetto ad un'era del passato, che come tale è sempre percepita, dalla cultura greca, come un'età mitica e migliore dell'attuale. E' vero che la civiltà descritta sembra senz'altro più antica di quella micenea al suo apice, ma Omero semplicemente immagina l'età del bronzo, non ne ha alcuna conoscenza specifica, e vi riversa quell'atteggiamento pessimistico tipico della filosofia del suo tempo:
    L'umanità è vista in continuo degrado, è difficile che un figlio sia migliore del padre, spesso succede il contrario (II, 276-7); questa visione di un continuo degrado dell'umanità trova una sua esplicazione nel mito esiodeo delle razze (Op. 106-201), secondo cui da una generazione «aurea» che viveva del solo raccolto di quello che la terra spontaneamente offriva, si giunge all'«età del ferro», in cui il padre non sarà simile al figlio e viceversa, saranno aboliti i diritti di ospitalità e il rispetto per gli anziani.
    [D. Loscalzo, op. cit., pagg. 439-440]

    E ancora a proposito di armi, lo stesso Loscalzo individua incongruenze e anacronismi sia nell'Iliade che nell'Odissea, completando il quadro di un'età del bronzo priva di riscontri archeologici, nella quale si trovano mescolate tecnologie appartenenti a secoli diversi del II°, o addirittura al I° millennio a.C.
    L'Odissea, come del resto l'Iliade, conosce la panoplia oplitica, che consisteva in un'armatura di bronzo che proteggeva gran parte del corpo del guerriero. Un'eco di questo è nell'epiteto "ricoperti di bronzo" che è comunemente riferito agli Achei (I 286, IV 496): Ettore in Il. XIII 191-2 è descritto «tutto coperto di bronzo». L'elmo di bronzo di Odisseo (XVIII 378, XXII 102) aderente alle tempie e legato alle guance è una sopravvivenza micenea, mentre il balteo d'oro di Eracle che ha incise figure di animali (XI 609-11) ricorda l'arte orientalizzante, contemporanea al poeta (cf. Kl. Fittschen, Der Schild des Achilleus, «Archaeol. Hom.» N. Göttingen 1973, pp. 1-17).
    La spada di bronzo con l'elsa d'argento che Eurialo regala ad Odisseo (VIII 403-5) in una guaina d'avorio risulta essere un oggetto privo di paralleli archeologici. Nell'Età del bronzo l'elsa e la spada sono di un unico pezzo e solo l'elsa era decorata, soltanto nell'Età del Ferro elsa e spada sono di materiali distinti.
    L'asta aveva di bronzo soltanto la punta (XV 182). Lo scudo era fatto di strati di pelle (XXI 122): nell'Iliade (XV 479) si parla di quattro; "omphaloide" che viene usato come epiteto dello scudo (XIX 32) può indicare sia il fatto che aveva un omphalós centrale, sia che era pieno di omphaloi, comunque ricorda la struttura degli scudi che hanno al centro una protuberanza o un disco, databili alla fine dell'età del Bronzo.


    Pur con tutte le incertezze che derivano dalla scarsa attendibilità del poeta, rimarcata ormai da tutti gli studiosi alla luce di una cronologia abbastanza precisa, derivata dai ritrovamenti archeologici e dalla decifrazione di antiche lingue, è senza dubbio impossibile datare al XIX o XX sec. a.C. armi e manufatti descritti in Omero. Alcuni oggetti sono fin troppo raffinati per il XIII secolo, mentre la civiltà in generale sembra essere più arcaica, ma non certo al confine tra il neolitico e l'età bronzea. Per sostenere che gli Achei avessero raggiunto uno stadio di civiltà simile a cavallo tra il III e il II millennio, bisognerebbe supporre che il loro know how si fosse perso completamente durante i secoli della loro migrazione verso sud, e che le vestigia di quella civiltà abbiano resistito finora alla curiosità dell'archeologia. E tutto ciò che rimase agli Achei di questa loro "vita" precedente, si riduce dunque a storie trasmesse oralmente, che fanno riferimenti a oggetti, situazioni, istituzioni che non hanno più alcun senso per i micenei, sono parole che hanno solo un "suono". Difficile davvero da credere.


    6.2 Navigazione

    Oltre alla già accennata ipotesi secondo cui i Feaci sono i diretti antenati dei vichinghi, in Omero nel baltico si fanno altre e più ardite illazioni sui rapporti tra la civiltà achea della Scandinavia e la successiva grande espansione dei popoli del Nord. Ci corrono più di 2500 anni, comunque, e ci si chiede cosa abbiano fatto nel frattempo della propria abilità marinara i Feaci...
    Uno degli argomenti chiave di questa tesi è l'abilità navigatoria non solo dei Feaci, ma anche degli Achei. Si azzardano paralleli tra la tecnica di costruzione navale degli antichi abitanti scandinavi, e quella che consentì ai Drakkar di diventare la Formula Uno delle imbarcazioni medievali. In realtà sono ben pochi gli argomenti addotti da F. Vinci a favore di questa tesi. Una vaga somiglianza del profilo tra le navi dei due periodi, la smontabilità dell'albero, un pescaggio ridotto. Tutte caratteristiche che permetterebbero di confrontare a iosa le imbarcazioni primitive di tutte le culture antiche, con gli specializzatissimi drakkar vichinghi.
    Né le osservazioni sul numero dei componenti l'equipaggio sono probanti di alcunché, nonostante F.Vinci si dilunghi a cercare paralleli. Il vero problema delle costruzioni navali è un altro, e di questo problema non viene offerta soluzione.
    Per quanto fosse ormai stata individuata la forma ottimale per una nave a remi e vela, per quanto l'albero smontabile fosse un'innovazione tecnologica di rilievo per il II millennio a.C., il problema fondamentale restava quello della robustezza. Il fasciame era tenuto insieme da corde, e da cavicchi di legno. Vale a dire che in situazioni di mare grosso, la barca tendeva a sfasciarsi completamente, sotto l'urto di onde anche di media grandezza. La navigazione avveniva, nel II millennio, quasi esclusivamente in vista della costa, e in caso di cattivo tempo (vento e mare grosso) i marinai guadagnavano al più presto una posizione riparata in qualche insenatura naturale. Questo nei mari chiusi. L'oceano era assolutamente proibitivo per tali imbarcazioni, la maggior forza delle perturbazioni distruggeva completamente le navi. Non è quindi un mito legato a chissà quale tabù, quel "limite del mondo" rappresentato dalle Colonne d'Ercole. Era la consapevolezza di non poter affrontare il mare aperto con i gusci di noce di cui si disponeva.
    Bisogna attendere l'età del ferro, e i progressi tecnologici dei Fenici (tra l'altro menzionati più volte da Omero quali predoni del mare, come sarebbero poi stati i vichinghi) per disporre di navi tenute insieme da chiodi di ferro, dotate di trincarini di rinforzo (pure in ferro), di un abbozzo di ponte, e spesso anche di un castello. Sono queste le navi che permisero ai Greci di età classica di esplorare finalmente il Mediterraneo occidentale, e perfino di uscire nell'Oceano e raggiungere latitudini Nord del tutto sconosciute alle altre civiltà (senza peraltro insidiare il primato nautico dei Fenici, ai quali viene accreditato addirittura il periplo dell'Africa).
    Siamo dunque in pieno I millennio a.C., quando l'arte della navigazione diventa "maggiorenne". Nulla a che vedere con le barchette dei micenei, e tanto meno con quelle che all'inizio del II millennio navigavano nello stretto Baltico. Eppure, per ancora una dozzina di secoli, la navigazione oceanica rimarrà un'impresa rischiosa destinata agli ardimentosi, giacché le vie privilegiate del commercio europeo resteranno quelle fluviali già note da tempo.
    L'avvento del drakkar costituisce perciò una rivoluzione epocale per la navigazione: più agile, robusto e veloce di qualsiasi altra imbarcazione mai vista prima, affrontava il mare con insolente sicurezza, e risaliva i fiumi come un salmone. Non si tratta di una lenta evoluzione della tecnica: è proprio un'esplosione tecnologica che proietta i vichinghi sulla scena europea senza preavviso, alla fine dell'VIII secolo.
    Nella sua disamina delle presunte parentele tra le imbarcazioni degli Achei e quelle dei vichinghi, F. Vinci non spiega perché questi discendenti dei Feaci, in possesso di un know how così avanzato già 2500 anni prima, non si fecero mai notare prima di allora. Appaiono come dal nulla, e così insolentemente superiori dal punto di vista tecnico. Se erano in grado di affrontare la navigazione oceanica già nel 2000 a.C., con le loro "navi dai lunghi remi", ne avrebbero saputo qualcosa i Britanni, o gli Iuti, o i Frisoni. Li avrebbero descritti i Greci e senza dubbio, successivamente, i Romani.
    Sembra assennato quindi concludere che la tecnica navale dei drakkar fosse recentissima, quando i vichinghi fecero la loro prima memorabile scorreria a Lindisfarne, e che mai prima di allora avessero avuto i mezzi per raggiungere mete anche relativamente vicine.
    Ma oltre alla tecnica di costruzione navale, esiste un altro aspetto, che si può chiamare più propriamente arte della navigazione: la capacità di stabilire dove ci si trova, e in quale direzione andare per raggiungere la meta prefissata. Com'era possibile navigare, prima dell'introduzione della bussola? Anche a questo aspetto Omero nel Baltico dedica una lunga disquisizione, illustrando le tecniche più antiche di abilissimi popoli navigatori, tutte basate sulle conoscenze astronomiche.
    Qualcuno ha osservato che la navigazione astronomica, nel Nord Atlantico, non era certo facilitata da una nebbiosità che – ben peggiore di quella simbolica dell'Odissea – impediva di osservare il cielo stellato per giorni e giorni. Inoltre le conoscenze astronomiche degli scandinavi appaiono piuttosto grossolane, se rapportate a quelle di Egizi e Caldei, per esempio. Parlare di "abilissimi navigatori" a proposito di popoli come quello vichingo, almeno fino a medioevo inoltrato, sembra una forzatura retorica derivante dalla suggestione delle loro gesta in epoca storica, e non suffragata da alcun fatto precedente.
    Tuttavia F. Vinci ipotizza che gli Achei del Baltico, in possesso di un know how avanzatissimo in campo nautico, lo avessero poi messo a frutto nelle loro nuove sedi mediterranee, diventando la civiltà più avanzata dell'area. Che abbiano mantenuto quella preminenza navale dopo aver soggiornato due e tre secoli in mezzo al continente, è cosa difficile da credere. Più logico è pensare, come pensano quasi tutti gli storici, che gli Achei appresero gli elementi tecnici, soprattutto metallurgia e cantieristica navale, dalle civiltà più avanzate del bacino mediterraneo, in primis da quella cretese. Gli Achei erano fra i popoli del mare, non erano il popolo del mare.


    CONCLUSIONI

    Omero nel Baltico è un libro troppo ricco di argomenti, citazioni, notazioni a margine, per poter pensare di confutare più di qualche sparso elemento senza scrivere un libro di uguale mole. Con questo non si vuol dire che non contenga nemmeno un dato condivisibile, anzi: la ragione del suo successo e della sua crescente fama è proprio l'enorme quantità di dati corretti e facilmente verificabili.
    E' piuttosto l'uso che l'autore ne fa, a lasciare perplessi. Ci sono libri che propongono un solo, misero dato di fatto, sfuggito per decenni ai ricercatori, e questo solo e misero dato è capace di suscitare un enorme interesse, di promuovere convegni, conferenze e mostre. Qui siamo di fronte invece a una teoria rivoluzionaria, implicante una dozzina almeno di discipline scientifiche, la quale solleva dubbi inediti e dà pure loro immediata risposta. Una tesi prêt-a-porter, insomma, che richiede solo di essere letta ed approvata.
    Può sembrare un po' troppo pretenzioso, se si considera che Copernico si era limitato a suggerire di fingere che la Terra ruotasse intorno al sole, perché così si semplificavano i calcoli, e non aveva costruito nessuna complicata cosmologia.
    Ciò può spiegare le scarse simpatie incontrate negli ambienti accademici, abituati ad avere a che fare con teorie di proporzioni più modeste. Non spiega invece le attestazioni di stima che riceve da una piccola parte del mondo accademico. E' probabile che alcuni nomi eccellenti tra gli studiosi e i ricercatori abbiano ravvisato, nel mare magnum di quest'opera, uno o più elementi in sintonia con i loro studi più problematici e perciò ne abbiano tessuto le lodi, senza peraltro pronunciarsi sulla tesi di fondo che, essendo essenzialmente interdisciplinare, non compete loro giudicare.
    Ma il punto nodale della questione è che le argomentazioni espressamente addotte a sostegno della tesi sono imprecise, lacunose, e spesso volutamente fuorvianti. Per esempio, quando l'autore colloca la tessera "Tracia" in una punto proibitivo del quadro scandinavo (me ne sono occupato nelle note di climatologia) non si perita di risolvere le evidenti incongruenze insite in questa scelta, ma svia immediatamente il discorso individuando un toponimo in zona, Trekilen (che nulla ha che vedere col nome della Tracia: non più di Star Trek, direi); poi rileva quanto il culto di Thor sia tipico di quelle parti, e fa dunque un parallelo con Ares, che presso i traci godeva della stessa devozione. Da Ares il discorso si sposta infine sul pianeta Marte e sulle sue caratteristiche astronomiche, e attraverso una semplice assonanza si arriva - dopo tre pagine - agli Arii e alla mitologia indiana. A questo punto, "dimostrato" che la Tracia va bene lì dove è stata messa, l'autore può prendere in esame la prossima tessera e darle un'altrettanto inoppugnabile sistemazione in Scandinavia.
    Di tattiche dilatorie simili è pieno il libro, e siccome si tratta di divagazioni quasi sempre basate su fondatissime basi scientifiche, il consenso del lettore verso l'intero discorso tende ad essere molto elevato.
    E' difficile esimersi da un moto di ammirazione verso tanta conoscenza in svariate discipline; per il lettore di media e alta cultura risulta evidente che non si tratta delle farneticazioni di un visionario, ma di un elaborato saggio di cultura enciclopedica. Però la conoscenza giusta, dove occorre, latita quasi sempre, anche se il lettore probabilmente non se ne rende conto. Nell'ansia di dare una risposta a tutto, spesso l'autore è infatti costretto a una specie di quadratura del cerchio do-it-yourself. Giunge a fare affermazioni indimostrabili, incongruenti e forse false, ad usare tattiche elusive, a citare testi estrapolati dal loro contesto, pur di poter dire che la sua teoria non presenta "buchi", e abbisogna solo di prove documentali (conclude con «è tempo ormai che la parola, galileianamente, passi alla vanga.»)
    E' un parere invece molto diffuso che la teoria abbisogni di "puntelli" più validi di quelli esposti nel libro.
    L'autore è partito da presupposti assai poco accettabili dal mondo scientifico (e cioè che Omero, o Plutarco, siano depositari di un sapere reale sulla storia più antica dei Greci) ed ha finito per sposare acriticamente le tesi di Martin P. Nilsson sull'origine scandinava dei popoli indoeuropei, tesi che è ben lungi dall'essere accettata, a dispetto dell'acclarata fama del Nilsson, in quanto accusata di pregiudizi razziali.
    Non entrerò nel merito di quelle accuse, ma non è che spostando più o meno arbitrariamente le gesta omeriche in Scandinavia, tale teoria ne esca rafforzata. I capitoli finali, aggiunti alla III edizione, che trattano dell'espansione degli Arii nel mondo, sono ancora meno accettabili di una Troia in piena Finlandia, e un lettore che si sia mantenuto fino a quel punto scettico, da lì in poi non può concedere nemmeno un briciolo di credibilità. Così com'è concepito, Omero nel Baltico potrà avere un suo seguito di aficionados tra i cultori dell'esoterismo, della fantarcheologia, dei culti misterici, ma ben difficilmente convincerà qualche facoltà di archeologia a prendere la vanga e a scavare.

    Piero Fiorili
    Milano, agosto 2003

  2. #2
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    opss che malloppo!!

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  4. #4
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    Fracamente, lo dico senza polemica, non riesco a capire come degli italiani possano appassionarsi tanto a queste teorie. E' ocme se un tedesco o uno scandinavo non vedesse l'ora di dimostrare che la mitologia nordica in realtà è stata inventata in Medioriente e poi importata nel nordeuropa.
    Capisco l'atteggiamento dei mondialisti che si affannano a dimostrare che l'uomo viene dall'Africa, perché sono mondialisti e distruttori e perseguono degli scopi iconoclasti che, per quanto riprovevoli, sono coerenti con la loro aberrante logica.
    Ma noi che siamo identitari dovremmo avere un'avversione naturale verso ogni teoria che cerchi di confondere le acque e di dimostrare che dall'Italia e dal Mediterraneo non è nato un cazzo e che le civiltà si sviluppano per irradiazione da luoghi lontani, colonizzandone altri. Questo francamente è mondialismo di destra.

 

 

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