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  1. #11
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    Predefinito di ADRIANO SOFRI

    Cari pacifisti, anche le armi
    possono fermare i massacri

    di ADRIANO SOFRI

    CARO Gino Strada, voglio litigare con te, di brutto. Sarebbe meglio farlo di persona, nel Panshir, magari a Pinerolo: peccato. Ma tu sarai così generoso da litigare senza scrupoli, come se fossimo tutti e due a piede libero, in un autogrill. Comincerò con l'elogio dello sminatore, che in questo momento storico è il mio eroe. Ne ho appena visto uno in tv, militare di professione, ora smina da volontario coi miei amici di InterSos in Afghanistan. Ne conobbi altri. Una giovane donna, in Bosnia - là si chiama diverzant, lo sminatore - mutilata, temeraria. Voleva salvare vite, dicevano di lei che volesse morire. Ho sentito dire di campioni dello sminamento, che erano stati in passato collocatori di mine: gente che tornava sui suoi passi, come dovrebbe fare l'umanità intera. Fin qui siamo d'accordo, anzi, tante cose le ho imparate da te. Ora lo sminatore - la sminatrice volontaria - è dunque il mio eroe: tuttavia bisogna che qualcuno si occupi della questione generale, di mettere al bando le mine, la produzione, lo smercio, l'impiego eccetera.

    Proprio tu ti impegnasti in questa campagna generale. Si striscia a disinnescare o a far brillare una mina dietro l'altra, per milioni e milioni di mine; si cura un mutilato dopo l'altro, si fabbrica una protesi su misura dietro l'altra - ma bisogna pure provare a interrompere, almeno a ridurre, la guerra, posatrice di mine e avida di mutilazioni. Tu curi la gente, e quanto alla questione generale, la guerra, che aborrisci, ti affidi all'educazione alla pace. Fra la mirabile cura chirurgica delle vittime di ogni colore, e un'umanità ricreata dall'educazione alla pace, c'è, a esser molto ottimisti, un enorme intervallo. È su questo intervallo che voglio litigare.

    Nella guerra, le guerre, afgane, più lunghe di quella di Troia, tu curavi la gente: ti chiedevi chi e come potesse far finire la guerra? (Non è una domanda retorica: non lo so davvero. Non lo ricavo neanche dal tuo bel libro: "Buskashi"). Non era certo affar tuo; forse credi che nessuno possa far niente per far finire le guerre, e che si possa solo curare, operare, sminare. Il problema nasce quando qualcuno prova a far finire la guerra. In Afghanistan non ci ha provato nessuno, a lungo: l'hanno combattuta ed eccitata, ognuno dalla sua parte, ogni potenza dalla sua parte, finché una specie di stallo ha consegnato gran parte del paese al truce fanatismo Taliban. Stato-non Stato, tirannide brutale contro donne e bambini, territorio infeudato a un'Internazionale del terrore.

    Bisognava o no che qualcuno si ponesse il problema di metter fine alla tirannia dei Taliban? Di strappare la frusta dalle mani degli squadristi? Prima dell'11 settembre, anni prima, io battevo le mani al lavoro afgano tuo e dei tuoi, e del dottor Cairo, e pensavo che la comunità internazionale dovesse intervenire a riportare le condizioni minime della convivenza civile in quel paese. Non sapevo come; condivisi l'illusione che Shah Massoud fosse il leader da sostenere. Massoud venne in Europa a chiedere aiuto, ignorato. Non era l'eroe senza macchia, benché fosse un eroe. Pensavo che la condizione delle donne equivalesse a uno smisurato campo di concentramento e di torture. Che si fosse nel caso in cui guerra e oppressione non sono state prevenute, e c'è bisogno urgente di soccorso. È così nella cura per la salute e la medicina, no? C'è un'educazione alla salute, c'è una medicina preventiva, c'è, quando si sia a quel punto, il ricorso alla chirurgia. Le persone possono trovarvisi, che abbiano gozzovigliato o seguito una dieta salutista, che si siano educate alla prevenzione o che abbiano creduto all'omeopatia: e però ormai devono affidarsi al chirurgo. E i paesi, i popoli? Nel tuo Afghanistan non successe niente.

    Non gliene fregava niente a quasi nessuno. Poi c'è stato il 9 settembre, l'assassinio di Massoud, e poi l'11 settembre. L'amministrazione americana - e la coalizione adunata attorno a lei col mandato dell'Onu - ha additato in Al Qaeda (che l'ha rivendicato) l'autrice dell'assalto a Manhattan e a Washington, ha preteso la consegna di Bin Laden, è intervenuta militarmente contro l'Afghanistan del mullah Omar. Ogni volta che si ricorre alla forza, tu dici, le vittime sono i civili innocenti. Ma in Afghanistan da anni e anni i civili innocenti erano vittime di guerre. Tu lo sapevi meglio di chiunque: li ricoveravi, li operavi. Nell'Afghanistan del dopo 11 settembre, non-Stato escluso dall'Onu, infeudato ad Al Qaeda, bisognava intervenire? Bisognava impegnare le proprie energie perché il modo di intervenire fosse il più rispettoso della vita e della dignità umana, o opporglisi comunque come a un'infamia bellicista?

    Credo questo: si può fare obiezione a qualunque decisione che, anche col proposito di salvare vite umane in numero ingente, sacrifichi la vita di innocenti, fosse pure un solo innocente. Questa obiezione di coscienza può segnare insuperabilmente il convincimento morale di un singolo individuo. Non quello di un responsabile pubblico, un militare o uno statista. Un responsabile pubblico misura relativamente la sua morale, che, per essere relativa, non è meno rigorosa. Non si illude di escludere in assoluto il sacrificio di vittime innocenti, ma vuole ridurne al minimo il rischio. Non ammazza né tortura prigionieri, anche i più colpevoli. Rifiuta, in Palestina, di far esplodere una vettura sulla quale, con un pericoloso capo terrorista, viaggiano persone innocenti, e dei bambini. Non ammette che, in nome del pericolo probabile ma futuro, si sacrifichino oggi degli innocenti. Apprezza l'incolumità della gente del "nemico" come quella della propria gente.

    Questo era il problema imposto dall'intervento in Afghanistan, e in qualunque altro luogo del mondo. Opporsi in assoluto a ogni ricorso internazionale alla forza equivale esattamente a negare l'esistenza di una polizia entro i confini di uno Stato. Solo il pregiudizio, e l'abitudine, impediscono ancora di vederlo.

    L'intervento in Afghanistan è avvenuto. È costato lutti evitabili e delitti cercati, ai civili e ai combattenti. Ti domando: i civili colpiti oggi in Afghanistan sono più numerosi o molto meno? Gli arti mutilati sono più o meno? Le mine collocate sono più o meno? Si mettono nuove mine o si smina? Le frustate alle donne sono più o meno?

    È vero, secondo una quantità di fonti attendibili, che la maggioranza delle donne indossa ancora il burqa. A Herat, è stato ripristinato l'obbligo. A Kandahar, lo portano pressoché tutte. A Kabul sono numerose quelle che se ne sono sbarazzate. Ti domando: quelle che possono scegliere di non indossarlo sono molte di più o no? Tu sei arrivato a dire che le uniche donne senza burqa sono pagate dai fotografi occidentali! Affermazione enorme, se fosse vera, e degna di verifica. Intuisco quanto ti stia a cuore quel paese. Ma allora: perché la - precaria, difettosa, mediocre - liberazione di Kabul non viene festeggiata con le lacrime agli occhi da te e da tutti noi? Perché nelle cose che dici e nell'espressione del tuo viso, al contrario, sembra di leggere un rammarico? Un rimpianto per la Kabul com'era? Perché il ritorno di due milioni e passa di profughi in Afghanistan non viene salutato con le lacrime agli occhi?

    Non smetto di chiedere perché i convinti pacifisti che non mossero un dito per liberare Sarajevo dall'assedio (il più lungo della storia moderna, più che a Leningrado) e dallo stillicidio delle bombe e dei cecchini, e anzi proclamarono la loro opposizione attiva a un intervento militare internazionale che sbloccasse l'assedio, e profetizzarono lo scoppio della Terza Guerra Mondiale, quando quell'intervento avvenne, con gli aerei della Nato, e in pochi giorni, e senza vittime innocenti, sbloccò l'assedio e liberò Sarajevo, non festeggiarono con le lacrime agli occhi? Non era la pace, si sapeva, lo sapevo: era solo (solo!) la fine del massacro quotidiano. L'interruzione del massacro, vegliata, ancora oggi, dalla polizia internazionale. Sono innumerevoli i posti della terra in cui si può pregare per la pace, ma per interrompere i massacri occorre mettere in campo una forza armata internazionale, e tenercela. E magari farle patrocinare libere elezioni, come a Timor est.

    Sono contrario alla guerra minacciata contro l'Iraq e alla sua filosofia, e spaventato dalla sua ignota modalità. Ma mi sembra pazzesca l'assimilazione fra Saddam Hussein e Bush, che tu proclami a muso duro. Pazzesca l'indifferenza alla democrazia, per formale e imperfetta e violata che sia. Alla distanza fra governi eletti a suffragio universale e sanguinarie dittature assirobabilonesi. So darmene solo una, ma inadeguatissima, spiegazione. Io credo che la - brutta, difettosa, violata - democrazia debba essere la condizione della convivenza civile in ogni parte del globo.


    Tu forse pensi - come certi etnologi relativisti che non sono ancora tornati a casa, come i leader cinesi, come i capi tribali patriarcali, come i fedeli della sharia - che la democrazia sia il pregio o il tic di un pezzetto di mondo, e sia fuori posto e disadatta a tanta altra parte del globo. Non riesco a capacitarmene, e mi spaventa. Mi spaventano le persone che mi sono care, note e ignote, che ripetono generosamente di essere sempre e comunque contro l'impiego della forza. Si sono dimenticate di Auschwitz, e non hanno voluto imparare dov'è Srebrenica, e che cosa è successo, e quando.


    Adriano SOFRI

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  2. #12
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    Predefinito malgrè lui.....

    ....nonostante tutto, Martelli europarlamentae e Cohn Bendit, lo vogliono candidare alla guida dei verdi italiani.
    Sembra che per Martelli e Cohn Bendit il tempo dei giochi non passa mai.
    Ciao.

  3. #13
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    Predefinito lotta continua

    Abbiamo capito perchè quel movimento si chiamasse Lotta Continua, il fatto è che volevano continuare a fare politica in Italia, anche sotto altre spoglie.
    Oggi a distanza di 30 anni dalla fondazione e a distanza di 20 anni dallo scioglimento, il movimento e i suoi rappresentanti continuano a romperci i coglioni, Ferrara, Lehrner, Sofri e tanti altri hanno costituito una cupola giornalistica che non si sa dove ci porterà, ma loro sanno benissimo cosa porterà al loro conto in banca.
    Saluti fraterni.

  4. #14
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    Predefinito

    Beh, a me questo paragrafo di Adriano Sofri e' proprio piaciuto....me lo sono riletto piu' volte....e ve lo ripropongo....perche' mi sembra che faccia giustizia di tanta pseudo-sinistra demagoga e girotondista, che cerca sempre di cavalcare l'onda del popolismo, sempre e comunque al di sopra del vero bene comune del Popolo.

    nuvolarossa

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    .........Non smetto di chiedere perché i convinti pacifisti che non mossero un dito per liberare Sarajevo dall'assedio (il più lungo della storia moderna, più che a Leningrado) e dallo stillicidio delle bombe e dei cecchini, e anzi proclamarono la loro opposizione attiva a un intervento militare internazionale che sbloccasse l'assedio, e profetizzarono lo scoppio della Terza Guerra Mondiale, quando quell'intervento avvenne, con gli aerei della Nato, e in pochi giorni, e senza vittime innocenti, sbloccò l'assedio e liberò Sarajevo, non festeggiarono con le lacrime agli occhi? Non era la pace, si sapeva, lo sapevo: era solo (solo!) la fine del massacro quotidiano. L'interruzione del massacro, vegliata, ancora oggi, dalla polizia internazionale. Sono innumerevoli i posti della terra in cui si può pregare per la pace, ma per interrompere i massacri occorre mettere in campo una forza armata internazionale, e tenercela. E magari farle patrocinare libere elezioni, come a Timor est..........

    Adriano Sofri

  5. #15

  6. #16
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  7. #17
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    Predefinito Da Il Foglio, 8 novembre 2002

    Lettera di Berlusconi al Direttore de "Il Foglio" per Adriano Sofri
    ..."credo in coscienza che sia matura una decisione favorevole alla grazia"...

    Signor direttore - Affido al suo giornale alcune riflessioni sul caso giudiziario di Adriano Sofri, condannato per il delitto Calabresi a ventidue anni di carcere, a ventotto anni dai fatti.
    Non ho niente da eccepire a un percorso processuale così tormentato (otto sentenze nell'arco di dodici anni).
    Non entro cioè nel merito delle decisioni dei giudici, e mi tengo per me valutazioni che hanno importanza solo per la mia coscienza di cittadino.

    Diverso è il discorso per la situazione umana e civile in cui ci troviamo alla fine della vicenda.
    Sofri ha esercitato per dodici anni, con molto rigore e nel rispetto sostanziale di sentimenti e opinioni a lui avversi, una difesa nella legge e nel pieno riconoscimento dello stato di diritto.
    E' stata obiettivamente una testimonianza di pacificazione e di civiltà per una generazione di giovani uscita dalla crisi della fine degli anni Sessanta con molti equivoci in testa.
    E' entrato in carcere per due volte con le sue gambe, pur considerando oltraggiosa l’accusa formulata contro di lui e dichiarandosi non colpevole.

    Dai suoi scritti e dal suo comportamento in generale si deduce, fuori da ogni pregiudizio contrario o favorevole, che la società non può attendersi dalla sua detenzione un qualunque beneficio in termini di rieducazione, e che la pena rischia di risultare soltanto afflittiva.

    Nel più assoluto rispetto per le valutazioni del capo dello Stato e per le prerogative specifiche del governo sotto il profilo istruttorio, e nella massima considerazione per i sentimenti della esemplare famiglia Calabresi (a me assai cara), credo in coscienza che sia matura una decisione favorevole alla grazia.

    Ci sono momenti in cui, del tutto a prescindere da valutazioni politiche o di parte, una piccola testimonianza può aiutare, almeno spero, la formazione di una volontà autonoma, e sovrana, nell’ambito di un caso molto controverso, che richiama per di più una forte attenzione internazionale.

    Con molta cordialità,
    Silvio Berlusconi

  8. #18
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    Predefinito

    Giuliano da Empoli, Overdose. La società dell’informazione eccessiva, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 111, euro 9,00

    Un agile libretto sul tema della sovrabbondanza delle informazioni. Argomento cruciale, se si pensa che i servizi americani avevano a disposizione i dati per prevenire la tragedia delle Torri gemelle, ma nessuno ha saputo estrarli dal mare di informazioni “superflue” in cui erano immersi. Il saggio è ben costruito e mostra la capacità dell’autore di spaziare attraverso varie discipline, fino a un ripensamento non banale sulla democrazia, sulla sua “praticabilità” effettiva oggi.
    -----------------------------------------------------------------------------------

    tratto da il
    Pensiero Mazziniano

  9. #19
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    Predefinito tratto da www.radioradicale.it

    Sofri: Marco Pannella a Radio Radicale, "Importante l'intervento di Berlusconi"

    Dopo l'intervento del premier, il leader radicale invita a moltiplicare e concentrare gli sforzi per raggiungere l'obiettivo della concessione della grazia ad Adriano Sofri
    Roma, 8 novembre 2002 - Con un intervento a Radio Radicale Marco Pannella ha commentato l'intervento di Silvio Berlusconi pubblicato su "Il Foglio" nel quale il premier espressamente afferma di ritenere "maturi" i tempi perchè sia concessa la grazia ad Adriano Sofri. (vai al testo della lettera di Berlusconi)

    "L'intervento di Berlusconi è di grande importanza" - ha dichiarato Pannella - "poichè svela in modo conclusivo la necessità per la giustizia, per la repubblica, per la società italiana che l'istituto della grazia venga usato nei confronti del condannato Adriano Sofri".

    Pannella ha poi ricordato "con un pò di fierezza" che "alla prima notizia dell'aggressione giudiziaria nei confronti di Sofri, quando ancora pochi reagivano, io pubblicamente auspicai che Sofri assumesse la presidenza effettiva non onoraria del PR".

    "Adriano ebbe buoni motivi per rinunciare, ma questo rappresentò il nostro modo di reagire a quella iniziativa giudiziaria: per noi significava che se Adriano Sofri proclamava la sua innocenza e i suoi accusatori non documentavano la sua colpevolezza, noi facevamo piena fiducia ad Adriano. I dodici anni che sono trascorsi, grazie ad Adriano, ci hanno dato clamorosamente ragione".

    Pannella ha poi sottolineato come con l'intervento di Berlusconi si crei "un problema un pò delicato" per "il contraccolpo negativo che poteva esserci rispetto al Quirinale, che poteva essere dispiaciuto di essere incalzato addirittura dal Presidente del Consiglio. Ma se Berlusconi lo ha fatto è perchè evidentemente vi era la convinzione che questo fosse necessario perchè il presidente Ciampi fosse libero e capace di adottare il provvedimento".

    Il leader radicale ha poi concluso con un ringraziamento alla 'sorta di Satyagraha', al digiuno in corso da molto tempo da parte da oltre 2000 persone: "Adesso occorre moltiplicare e concentrare gli sforzi perchè veda la luce quel provvedimento che oggi è auspicato da ogni parte significativa o di una qualche consistenza".
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    Per ascoltare l'intervento di Marco Pannella in RealPlayer cliccare su questa frase


  10. #20
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    Predefinito

    Il despota e il tiranno

    Sarà una semplice coincidenza, ma è indicativo che siano usciti pressoché contemporaneamente due studi di grande ampiezza sulla tirannia e sul dispotismo, due concetti che, pur avendo una storia secolare, sono quasi scomparsi dal linguaggio politico corrente.
    Si tratta di Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico, a cura di Domenico Felice (ed. Liguori) e di Tyrannie et tirannicide de l'Antiquité à nos jours di Mario Turchetti (Presses Universitaires de France).
    Anche se il concetto di tirannia ha conosciuto nel ‘900 una breve stagione di gloria negli scritti di Élie Halévy (L'ère des tyrannies, 1936), di Leo Strauss (On Tyranny, 1948) e altri, il male politico dominante del secolo è stato il totalitarismo.
    Accanto al totalitarismo hanno avuto un loro spazio i concetti di "regime dittatoriale", "autoritarismo", "autocrazia", ma tirannide e dispotismo sono rimasti nell'ombra. Come spesso avviene con gli studi che ripercorrono le interpretazioni di un concetto dall'antichità ai giorni nostri, l'opera di Mario Turchetti e la raccolta di saggi curata da Domenico Felice ci fanno riflettere su aspetti dimenticati o sottovalutati della tirannide e del dispotismo che hanno un'indubbia attualità.
    Nel linguaggio corrente, ad esempio, la parola tirannia evoca l'usurpazione del potere, la dittatura, l'ingiustizia, la violenza, la crudeltà, l'oppressione. Nel suo significato antico, che fa la sua apparizione in Grecia dal VII secolo a.C., il termine tirannia indica invece, in primo luogo, il potere arbitrario e assoluto.
    Questa accezione del termine si trova in Erodoto, che chiama tiranno il sovrano che non deve rendere conto a nessuno delle sue azioni, e in Aristotele. Inteso quale potere arbitrario anziché potere conquistato e tenuto con la violenza, la tirannia esiste nel mondo contemporaneo nella forma di potere invisibile delle grandi corporazioni multinazionali che sfuggono al controllo delle leggi nazionali e internazionali e impongono i loro interessi, sostiene Noam Chomsky.
    I tiranni di oggi non sono sovrani ma "senatori camuffati", veri e propri "tiranni privati" che, giusta la definizione classica, non rendono conto a nessuno.
    In realtà, come osserva Turchetti, definire tirannia il potere delle grandi corporazioni è più una forzatura polemica che una descrizione precisa dello stato delle cose. È tuttavia innegabile che sia gli Stati nazionali sia la comunità internazionale hanno serie difficoltà a richiamare le grandi multinazionali al rispetto del diritto.
    Il mondo contemporaneo ha conosciuto e conosce anche tiranni che opprimono con la violenza i loro popoli e violano i diritti umani. Eppure, nonostante ci siano i tiranni, è di fatto scomparsa la dottrina del tirannicidio che per secoli è stata parte integrante delle teorie della tirannide.
    Nella sua formulazione storicamente più influente, che è quella di Cicerone, la dottrina del tirannicidio afferma che l'individuo che uccide il tiranno non si macchia del crimine di assassinio, ma compie un gesto glorioso.
    Un'eco lontana della dottrina classica del tirannicidio sopravvive nelle formulazioni moderne del diritto di resistenza. Con la differenza, sostanziale, che tale diritto nei limiti in cui è riconosciuto, appartiene ai popoli e non ai singoli.
    La risoluzione 2625 dell'Onu, ad esempio, sancisce che se i popoli vittime di coercizione nell'esercizio del loro diritto all'autodeterminazione "reagiscono e resistono", hanno il diritto di chiedere il sostegno delle Nazioni Unite.
    A riprova della scarsa rilevanza del principio di resistenza nel nostro tempo, la risoluzione si applica quasi esclusivamente ai casi di dominio coloniale e ai movimenti di liberazione nazionale. Anche la Costituente prese in considerazione di inserire nell'articolo 50 il diritto di resistenza: "Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all'oppressione è diritto e dovere del cittadino".
    I costituenti decisero, dopo una discussione di alto livello, di omettere questo comma dall'articolo. Se fosse stato inserito nella nostra Costituzione, questo principio sarebbe forse rimasto lettera morta, anche per le evidenti difficoltà di applicarlo; o forse avrebbe aiutato la formazione di una mentalità civica meno docile e remissiva.
    Dalla mentalità docile, o meglio servile, prende le mosse anche la storia del dispotismo che si svolge parallela a quella della tirannia. Aristotele definisce infatti il dispotismo come una forma di monarchia in cui il monarca governa per il suo interesse su popoli schiavi per natura che "sottostanno al dominio dispotico senza ritrosia". A differenza della tirannide, il dispotismo è dunque legittimo e non è vissuto come governo oppressivo o violento.
    Esso ha inoltre una caratteristica geografica destinata a diventare nei secoli parte integrante del concetto: mentre la tirannia è un male sopportato dai Greci, il dispotismo è proprio dei barbari e dell'Oriente.
    Machiavelli parlando della monarchia in cui uno è signore e "li altri sono sua servi" cita quale esempio "la monarchia del Turco".
    Montesquieu, dopo aver definito dispotico quel governo in cui uno solo, senza legge e senza regola, trascina tutto secondo la sua volontà e il suo capriccio, senza divisione dei poteri e con il sostegno della religione, cita anch'egli la monarchia dei turchi. Fondato sull'ansia ossia il senso d'insicurezza; o sul terrore, l'angoscia violenta e paralizzante, il dispotismo vive se non è costretto a sottoporsi a regole e limiti.
    Ma fin quando si conserva nella sua forma tipica esso fa di un popolo una moltitudine di schiavi politici simili agli schiavi domestici. Sulla scia di Montesquieu il dispotismo diventa nel pensiero politico del Settecento l'antitesi della libertà perché presuppone e incoraggia la mentalità servile e dunque distrugge, con lo strumento della paura, la stessa radice morale e interiore del vivere libero.
    Con l'eccezione, gravida di conseguenze, dell'idea giacobina di un dispotismo della libertà che Marat formula su Le Moniteur del 6 aprile 1793: "è con la violenza che bisogna realizzare la libertà, ed è giunto il momento di organizzare il dispotismo temporaneo della libertà per distruggere il dispotismo del re".
    Paradossalmente, con l'affermazione dei regimi politici liberali e democratici che avrebbe dovuto rappresentare la vittoria sul dispotismo, la storia del concetto si arricchisce di contributi nuovi e inquietanti: Benjamin Constant mette in guardia contro "il dispotismo dei moderni" che prende forma di un potere oppressivo esercitato questa volta "con l'autorità e a nome di tutti"; Alexis de Tocqueville individua nella società democratica un dispotismo "di nuova specie", un "potere immenso e tutelare" che "avvilisce gli uomini senza tormentarli"; John Stuart Mill denuncia il dispotismo dell'opinione pubblica che manipola le idee e, diversamente dalla tirannia, non opera solo sulle azioni ma anche sulla mente.
    Nonostante la sua indubbia novità nella storia dei regimi politici, il totalitarismo che ha dominato la scena del Novecento ha in comune con il dispotismo la capacità di estendere il dominio fino alla coscienza: il suddito docile è tale non perché non può ribellarsi ma perché non vuole ribellarsi e addirittura si identifica nel capo.
    C'è da chiedersi perché tirannia e dispotismo non sono più parole chiave del nostro linguaggio politico, vista la continuità storica che i due studi mettono in evidenza. Fra le varie risposte possibili la più inquietante è che le forme contemporanee della tirannide e del dispotismo del nostro tempo sono diventate talmente scaltre da cancellare i nomi che le descrivono e al tempo stesso le condannano senza appello quali modi perversi di dominio.
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    tratto da il
    Pensiero Mazziniano


 

 
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