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Viltà anticostituzionali
di Adriano Sansa
(dalla Rivista MicroMega 5/2004)
Non so chi fui, perì di noi gran parte. Potrebbe dire la nostra Costituzione, se fosse approvata, dopo il laborioso cammino parlamentare e referendario, la revisione di un blocco di 43 disposizioni. Ma, prima, potremmo e dovremmo dirlo noi. Stupefatti, quelli che credevano nella bontà e, almeno, nella serietà della Costituzione. Al di fuori e contro ogni retorica, sapevamo come essa fosse nata dopo la dittatura del fascismo e avesse concluso un lungo e sofferto cammino civile e morale del paese, finalmente arrivato tra le democrazie. Sentivamo la sua importanza e perfino la sua grandezza. Non un testo immutabile, dal momento che prevede il percorso della propria revisione, ma neppure così facilmente avvicinabile e manipolabile. Avevamo negli occhi e in mente l¹assemblea costituente, le parole e i volti di alcuni suoi componenti, uomini di qualità morale e civile elevata , al cui cospetto gli attuali costituenti, se si possono chiamare così quelli che hanno fatto il giochetto, sembrano e sono piccoli e spesso indecorosi. Però ci sbagliavamo. Quella costituzione, e il suo spirito, non erano penetrati nel costume e nella coscienza dei cittadini nel modo stabile, vorrei dire - di nuovo imprudentemente- definitivo, che credevamo. La difesa della Costituzione è stata opera convinta solo di èlites. Di una parte soltanto delle opposizioni politiche. Non certo della massa della popolazione, meglio del popolo al quale essa riconosce la titolarità della sovranità. E’ lecito dire che l’Italia è un po’ più vile di quanto pensassimo? È pur vero che l’entrata in vigore delle modifiche sarà per il 2010, forse molto oltre. Ma il cambiamento è considerevole, di quelli che potrebbero conseguire, se non a una rivoluzione, a un profondo rivolgimento. A meno che questo non ci sia stato davvero, senza che ce ne siamo accorti. Senza moti esteriori palesi, ma per fatti e atti significativi, non bene visti o voluti vedere.
L’imposizione di situazioni incompatibili, che perdura e anzi si è aggravata dopo la farsesca legge che finge di eliminarle, era il preannuncio del turbamento degli equilibri. Se non possono stare insieme il possesso di tanti mezzi di comunicazione - televisivi, di stampa, di pubblicità- e la titolarità del governo, ma tuttavia vengono fatti stare insieme, è con una forzatura. Una violenza all’equilibrio delle istituzioni. Moderatamente combattuta dall’opposizione che non aveva avuto il coraggio di regolare la materia quando era al governo. Rassegnatamente subita dai cittadini. I quali, se avesse ragione Giovanni Sartori quando parla di “homo videns” facilmente manipolabile dai mass media, sarebbero insieme autori e vittime del guaio. Sartori ha rammentato di recente che la democrazia è un meccanismo complicato che si regge su un difficile equilibrio tra realtà e aspirazioni, tra fatti e ideali. Ma la democrazia è altrettanto complessa quanto le sue istituzioni, sicchè la debolezza della cultura contemporanea “in cui l’idolatria dell’immagine ha sostituito con la facilità della suggestione visiva lo sforzo faticoso, ma fecondo, del pensiero e dell’analisi concettuale, la insidia”.
E ancora: “la televisione si esibisce come portavoce di una pubblica opinione che in realtà è l’eco di ritorno della propria voce”. Per questa via l’incompatibile detenzione dei mass media e del governo si lega alla disinvolta manipolazione costituzionale. E l’una aggrava il peso dell’altra.
E tuttavia, si può ben rinviare l’entrata in vigore di una riforma costituzionale che il parlamento, uscendone menomato, ha probabilmente approvato a malincuore, ma proprio per obbedienza al troppo potente primo ministro (o capo del governo, come meglio dovremo tornare a dire).
Diceva Bobbio, con la sua definizione minima della democrazia, che essa è “un insieme di regole-primarie e fondamentali- che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive vincolanti e con quali procedure”. Ora l’aumento del potere del premier, dominatore dell’”homo videns”, indebolisce ed erode il governo della ragione, dell’opinione e del bene comune, che quelle regole vorrebbero garantire.
Ben prima del 2011 o del 2016 entrerà in vigore il nuovo ordinamento giudiziario, poiché non è fatto con legge costituzionale. Ridurrà l’indipendenza dei giudici, li obbligherà a speranze e timori verso il governo; li sottoporrà a concorsi ed esami abilmente intrisi di controlli di uomini graditi al ministro della giustizia e quindi al governo; li renderà timorosi di parlare, di esporre in pubblico il progressivo decadimento della loro funzione, perfino di innovare la giurisprudenza; li farà, nelle procure, soldati sotto un sergente a sua volta controllato dall’esecutivo. Un risultato così importante per l’alterazione dell’equilibrio dei poteri da far dubitare che la riforma costituzionale sgangherata e differita non stia a cuore quanto questa legge presto in vigore dopo la sua approvazione. E così ardua da capire, così apparentemente tecnica, dedita a tante mosse sullo scacchiere dell’ordinamento dei giudici- dall’ingresso in magistratura alla separazione delle carriere, dai concorsi ai corsi di aggiornamento con frequenti pagelline, dai limiti per l’associazione e l’espressione alla minaccia disciplinare, dal ridimensionamento del Consiglio Superiore alla distorsione del ruolo della Cassazione- da poter sfuggire anche a un cittadino ancora abbastanza vigile. Impreparati e incolti sì, maldestri a volte, ma capaci di destrezza i campioni di questa destra. Forse gli basta la riduzione e l’avvilimento della funzione giudiziaria, per il momento: non più mani pulite. Meno vigore contro mafie e corruzione, o altre P 2; meno orgoglio dei diritti in ogni campo, dalla sanità al lavoro. Cittadini sì, ma non troppo. Forse. Ma se il disegno per così dire “costituente” andasse avanti, se pure non subito?
Le leggi di revisione occupano un grado inferiore a quello della Costituzione nella gerarchia delle fonti. Scriveva Mortati: “da tale inferiorità deriva per esse una serie di limiti, e primo tra essi, quello del divieto di mutare la costituzione nel suo complesso, seguendo l’obbligo… di rispettare i principi essenziali del tipo di stato quale risulta dall’ordinamento in atto. Divieto che deve ritenersi implicito in ogni costituzione. Non si può ricondurre alla volontà costitutiva di un certo tipo di stato, quale configurato dalla costituzione, mutamenti che ne sovvertano il nucleo dei principi fondamentali”.
Dunque si deve guardare alla complessiva struttura, con un giudizio obiettivo di fatto e di diritto: sicché se ne viene meno l’integrità il limite è stato superato. Tanto più ciò vale se non una singola disposizione soltanto viene modificata, ma un gruppo di norme, come ora accade. Si può includere nella valutazione del nucleo essenziale violato, e delle innovazioni che lo ledono, il rumore di fondo, per così dire, delle leggi che creano privilegi, esenzioni, prescrizioni, condoni, immunità?
Certo non siamo di fronte a una caduta dell’ordinamento. Ma a un suo intorbidamento sì.
Dice il neo senatore a vita Mario Luzi: “Fa piacere l’attenzione verso la cultura in un momento torbido della vota internazionale e nazionale, mentre si assiste al bistrattamento della Costituzione e allo sbriciolamento dello Stato che si sta consumando”. La parola del poeta è precisa, appropriata. Autentica.
“Nella mia vita non ho mai rinunciato a prendere posizione, lo farò ancora, sperando che non sia scandaloso. La poesia e la cultura, le lettere, sono la coscienza linguistica del paese e possono costituire argine ai tanti fronti di crisi che minacciano la civiltà, dalla invadenza informatica e mediatica alla clonazione.” Ecco, di nuovo la comunicazione, i media; e il loro rapporto con lo stato, la democrazia. Torbido. E la Costituzione come prima preoccupazione del poeta e della sua coscienza.
Il Parlamento non sarebbe più l’attuale rappresentante del popolo dotato del potere di legiferare, controllare l’esecutivo, dare o togliere la fiducia, dal momento che il governo deciderebbe di porre la fiducia sui temi a suo avviso essenziali; dalla sfiducia verrebbe lo scioglimento delle Camere. Come se ogni parlamentare avesse, collegato al pulsante, un filo elettrico che termina alla sua propria sedia. Votando no, si fulminerebbe. E’ prevista una sfiducia costruttiva, ma solo se la Camera individua un nuovo premier nella maggioranza! Il premier, eletto direttamente dal popolo, deve essere incaricato di formare il nuovo governo, che non ha bisogno del voto di fiducia. Il capo dello Stato deve certificare semplicemente la autenticità degli atti che il premier gli sottopone. Svuotato di poteri, incapace di accompagnare la vita dei vertici delle istituzioni, egli garantisce però l’unità federale dello stato. Che cosa sia questa unità non si capisce bene. Né si comprende a che cosa servirà il senato federale. Certo a far nascere conflitti tra le due camere, a rallentare il lavoro legislativo, a promuovere giochetti e scambi: già si prevede una commissione paritetica per dirimerli. Una Cameretta in più. La chiave sembra essere la parola “esclusiva”. Organizzazione sanitaria, scuola. Ma lo stato mantiene una competenza “trasversale”, come si usa dire, in caso di necessità, per garantire l’unità giuridica, economica e sociale della repubblica. Che abbia ragione Giuliano Amato, quando dubita che questo federalismo inesistente, peraltro tanto caro ai leghisti, resti là quiescente con quel risalto alla competenza “esclusiva” che sta per possibile secessione? Una brace che cova, da far accendere al momento buono. Questo stato federale di carta non nasce da unità statali preesistenti. Quali sono le entità che si federano? Si chiede Amato. E cita anch’egli Mortati: “se nello stato regionale c’è una spinta alla cornice complessiva unitaria e armonizzante, nello stato federale ci sono diversi sistemi normativi ridotti a unità solo per specifici settori.” La riforma in corso non delinea allora uno stato federale, nonostante le competenze esclusive, sia per quel potere di intervento dello stato, che per l’atteggiamento delle regioni e delle loro legislazioni.
Che resti il seme della secessione? O che sia solo un espediente leghista per far vedere una vittoria che non c¹è, avallato dalla sbrigatività e dallo scambio interni alle forze di governo? L’equivoco è troppo grande per rimanere, e non venir dissipato. Anche perché non sappiamo in che direzione andrebbero quegli accorpamenti tra regioni, quei cambiamenti dei loro confini, che appaiono una stranezza: dice Eugenio Scalari: “sembra un puzzle” di un pazzo. E se non fosse? La vera pazzia sta in questo modo di trattare la Costituzione. Ma tacciono, o quasi, gli italiani delle stesse regioni che potrebbero vedersi deformate, di quelle che sarebbero depauperate da un articolato e abile trasferimento di aziende, attività, risorse. Se il puzzle fosse gestito con destrezza, insomma, si potrebbe ridisegnare il paese e realizzare una strisciante separazione delle “zone pregiate” da quelle misere. Una secessione all’italiana. Una arlecchinata in senso proprio per il territorio. Intanto, mentre si percuote la Costituzione, si soffia sullo spirito nazionale. Si va ora a Trieste per l’anniversario del suo ritorno all’Italia, ma non si spiega la mancata azione a tutela delle minoranze rimaste in Istria - e vessate ogni giorno, come ha documentato di recente Gian Antonio Stella - nel momento, politicamente a noi propizio, dell’ingresso sloveno in Europa. Vi si elogia invece, nell’”aria tormentosa” della città, una Patria che lo stesso governo indebolisce e frammenta.
Ma non è solo una maionese impazzita. C’è purtroppo una coerenza di disegno.
Allora. Il capo dello stato perde poteri e ruolo, non indica più il presidente del consiglio, non decide di sciogliere le camere se non su richiesta del premier, per sua morte o dimissioni. Non nomina i ministri. Potrà fare dello sport, bastandogli 40 anni di età per accedere alla carica. La magistratura perde indipendenza.
Il Parlamento viene svuotato e confuso nei modi che si sono visti. Cedono i poteri diversi dall’esecutivo, che aumenta grandemente il proprio ruolo a loro danno. Il quarto potere è già troppo in pugno del primo ministro pro-tempore: situazione, quest’ultima, eccezionale, ma non per questo meno pericolosa. Il fascismo è durato vent’anni, un battito di ciglia nella storia, e ha fatto quello che ha fatto. Lo squilibrio tra i poteri è evidente e arrogante nel pacchetto dei nuovi costituenti- demolitori. E Berlusconi, spregiudicato, sicuro di sé, annuncia, per chi non avesse capito: la riforma è approvata (15 ottobre), ora tocca alla giustizia. Appunto. Il disegno comprende la riforma dell’ordinamento giudiziario, che ne è parte essenziale, va subito in vigore, toglie subito il fastidio del limite della garanzia di legalità offerta dai giudici.
Poco, troppo poco sarebbe durata la stagione della piena e invidiata autonomia della magistratura: compressa dal fascismo, né mai prima franca da soggezioni incompatibili con le migliori democrazie contemporanee, a lungo in lotta con l¹abilità sopitrice dei governi ( ricordate i procuratori generali onnipotenti e amici del potere che imperversavano in alcune metropoli? Ricordate le inchieste insabbiate, la commissione inquirente, infine tutto quello che pareva salvare e invece ha affondato la prima repubblica?), la giustizia tornerebbe a essere sottomessa. Magari blandita, c’è da aspettarselo, da buoni stipendi. Onorata nelle cerimonie, nei vertici allineati al governo. Di fatto, nuovamente, dopo pochi decenni di limpida autonomia da ogni altro potere - è in Costituzione! - dimessa come dimessi i cittadini di rango modesto, e vincenti quelli potenti e bene inseriti nel sistema. Era, tra l’altro, il progetto della P2, associazione “oscura e corruttrice” secondo Giovanni Spadolini: ma Silvio Berlusconi ne aveva la tessera. A un uomo così spregiudicato, o così sprovveduto da non capire di cosa si trattasse, bisognerebbe lasciare tale accresciuto e riformato potere, quale i capi della loggia desideravano?
Non è polemica, è molto di più. E’ indignazione. E’ resistenza morale e civile. Dove sono certi liberali di un tempo? Quanti lo erano davvero, e quanti si sono messi a servizio del nuovo padrone. Dove sono certi repubblicani? Come i liberali. Alcuni combattivi, alcuni avviliti, o in silenzio. I voltagabbana stanno con il capo.
Dice Romano Prodi: “mentre a Roma si firma la costituzione europea, sempre a Roma si sta disfacendo la costituzione italiana”. Aggiungiamo: a caro prezzo, anche finanziario. Saranno migliaia di miliardi - a chi sottratti; ai servizi dei comuni? - nella sovrapposizione delle burocrazie regionale e statale. E anche questo preoccuperà l’opposizione. Ma non è il primo punto. Che sta nella necessità di dire al paese che cosa gli sta accadendo. Nell’impegnarsi per impedirlo con inflessibile costanza: anche a costo di dispiacere a qualcuno dei controversi moderati che, come ogni altro elettore però, servono alla vittoria. Continuava Foscolo, il poeta degli “ideali”: “questo che avanza è sol languore e pianto”.
Nessun languore è consentito a una comunità civile. Il pianto può essere nobile, ma è vile aspettare passivamente la sventura che lo suscita. Quel clima morale che permise di sconfiggere il terrorismo, di affrontare finalmente con risultato positivo, a caro prezzo di vite, la mafia, di smascherare la corruzione, potrebbe non formarsi più in un ambiente diverso, nel quale la convinzione di servire la legge sia indebolita.
Deve essere sicuro, ha scritto Andrea Manzella, quell’intero ordine di limiti e contro-limiti costruito dalla costituzione del 1948. Nella contrapposizione del maggioritario, dev’essere creata una intercapedine di diritti e procedure che diano respiro alla vita della Repubblica, sottraendola alla logica assoluta di maggioranze e opposizioni. Questa richiesta non è stata presa in considerazione alcuna dai riformatori. Ai quali dunque si deve addebitare non solo il male di quelle modifiche apportate, ma anche quello della incapacità di effettivi miglioramenti quali erano possibili, e in qualche caso necessari, rispetto a un testo costituzionale di qualità e però necessariamente in certi punti non più attuale e adeguato. Ecco le autorità indipendenti, ecco il sistema delle telecomunicazioni, la pubblica amministrazione da riparare di fronte a uno spoil system sfrenato. E le inchieste parlamentari pur sempre nel dominio della maggioranza. Invece, la Corte Costituzionale, finora efficacissimo presidio e mezzo di promozione dell’ordinamento giuridico, si politicizza e viene esclusa da alcune possibilità di verifica della legittimità costituzionale della procedura legislativa. Anche Manzella nota le ferite all’equilibrio dei poteri. Altra cosa è la stabilità necessaria dei governi dal rifiuto del reciproco contenimento dei poteri dello stato. Il governo personale del primo ministro è al centro del progetto. E qualsiasi governo, egli dice, non solo questo governo, illimitato fatalmente incorre in pericoli per la democrazia. Quella sorta di urlo “Via il Parlamento, via il capo dello Stato” che esce dallo scritto di un illustre e pacato studioso come Manzella quale sintesi della riforma ha la virtù di indicare con precisione e di esprimere con passione un grave pensiero. Quando Tommaso Padoa-Schioppa ricorda che ciascun uomo appartiene a comunità multiple, e che lo stato nazionale, col suo pretendersi esclusivo detentore del potere politico, è come un gigante che si sente morire se gli si taglia l’unghia, riconosce però subito che esso non può essere soppresso. Ne va corretto l¹assolutismo che non tollera poteri sotto o sopra di sé, ma resterà per molto tempo il punto di massima concentrazione delle funzioni pubbliche. Si intende: la massima concentrazione è nello stato, non nelle mani di una persona, o di un solo potere. E la previsione, in armonioso rapporto con le autonomie locali da un lato, con l’Europa dall’altro, è di molti anni. Allora nuovamente il 2011 e il 2016 sono inquietanti.
La preminenza della maggioranza impronta naturalmente la democrazia; la minoranza ne deve accettare le decisioni. Ma questo, appunto, reclama una costituzione che fissi i presupposti della convivenza tra tutti, i principi sostanziali della vita comune, le regole di esercizio del potere pubblico accettate da tutti, posti perciò al di fuori, anzi al di sopra, della contesa politica; principi e regole sui quali non si vota. Così Gustavo Zagrebelsky sintetizza il senso della costituzione, la sua necessità e la sua natura: “Il patto in forza del quale ci si accorda sulle condizioni dello stare insieme, nel reciproco rispetto che protegge dal conflitto all’ultimo sangue. Sulla base di questo primo accordo può essere stipulato il pactum subiectionis con il quale ci si promette reciprocamente di ubbidire alle decisioni del governo legittimo, cioè del potere della maggioranza che agisce secondo le regole, nel rispetto di principi contenuti nel pactum societatis.”
In democrazia, dice Zagrebelsky: “I governanti resi saggi dalla lezione dell’esperienza sanno che il rispetto del pactum societatis , cioè della Costituzione, è garanzia di un minimo comune denominatore di omogeneità politica e che ciò è la condizione indispensabile per il governo..perciò si può dire che la Costituzione, con i suoi vincoli e i suoi limiti, anzi: proprio per i vincoli e i limiti, è strumento di governabilità, non ostacolo o impaccio per il governo; ove prevale l’opinione opposta, c’è incoscienza o spirito d’avventura.”
Dunque, vien da dire sentendo voci come queste, ci sono, ci sarebbero stati i costituenti del terzo millennio. I quali sanno ciò che dicono, conoscono il senso serio e profondo della Costituzione, non pensano neppure che ci si possa giocare. Intendono la necessità di un patto leale tra i cittadini. Temono l’abuso del potere. Scavano nel concetto di governabilità come possibilità e legittimità del prevalere della maggioranza. Non la pensano come una facilità di comando, una sbrigativa disponibilità degli altri, una agevolazione per l¹imposizione dei propri desideri e interessi, anche personali. Ma questi uomini non sono stati ammessi tra i costituenti. Ed era bello conversare con loro, discutere, capire, onestamente collaborare a una vera proposta di riforma! Né i professori di diritto costituzionale sono stati ascoltati, ammessi nei sontuosi palazzi presidenziali, riservati agli amici. Al contrario, alla maniera del fascismo che derideva il pensiero ed esaltava l¹azione bellicosa, sono stati mortificati. Ancora Sartori ha ragione: “l’epoca, il momento sono poco propizi allo studio e all’approfondimento. Conta il comando. Si fa quel che si vuole.”
Si modificano le procedure, come si vuole appunto, per poter ulteriormente fare ciò che si vorrà. Quella bella solennità della Costituzione, come struttura e ossatura e indole di un popolo, quella sua forza e insieme quella delicatezza della complessità e degli equilibri, interessano poco. Viene ignorata e scavalcata sotto gli occhi di un paese che non reagisce, non solo a causa degli uomini che vedono la televisione, ma di una certa ignoranza del passato che fa ripetere gli errori. Abbiamo infine una responsabilità, sebbene forse attenuata dalla imposizione mediatica e da altri espedienti. E questa responsabilità la politica, l’opposizione tende a lasciar correre. Nominandola, stimolandola, potrebbe perdere consensi ! Far patire i moderati. Intanto il tempo corre, con i problemi della globalizzazione, della povertà, della ricerca, del lavoro, dell’ambiente, della genetica. Della pace. Ma nella battaglia d’Inghilterra, mente noi sostenevamo il fascismo, il coraggio è stato provocato, proposto e con fermezza richiesto.