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    poter supporre che anch'essi fossero di stirpe celto-ligure o umbra: la radicale "Ar", come nel caso dell'umbra "Ariminum", avvalora questa ipotesi. Ad ulteriore riprova di ciò sta il fatto che Silla vi inviò una colonia di suoi fedelissimi al fine di "latiniz¬zare" la zona, che si chiamarono "Aretini fidentes" e che si sovrapposero alla popo¬lazione preesistente; negli anni 60-54 a.C. vi si dedusse una nuova colonia: quella degli "Aretini julienses".
    Con l'arrivo dei Romani si ebbe la rapida estinzione degli Etruschi che si tro¬vavano nella città e nel contado.
    Coi Longobardi ci fu un lungo dissidio con la città di Siena al tempo di re Liut¬prando e nel "tempore Ariperti gloriosissimi regis".
    Nel 751 il gastaldo senese ricorse a mezzi violenti: si trattava del possesso di alcune chiese, ma il fatto era di natura politica: ambedue le città erano in fase di espansione.
    Ma nel periodo longobardo la città fu anche sede di intensa vita culturale, con una insigne scuola di diritto e di lettere, tanto che Teobaldo, vescovo di Fiesole, vi fece i propri studi e più tardi, divenuta Arezzo città campione dell'ideale ghibellino, fornirà quattro giuristi all'imperatore Federico II, i quali sostennero le sue ragioni nelle controversie col Papato.
    Nella piana di S. Sepolcro, provenienti quasi sicuramente dalla Valle del Savio in Romagna, si stanziarono a parere dello storico locale Don Eugenio Gamurrini, i Galli Biturgi o "Bituriges", preceduti, pare, dai misteriosi, onnipresenti Umbri.
    Secondo l'annalista Taglieschi e l'avv. Coleschi di Anghiari, i Longobardi, arri¬vati qui in gran numero, posero nella zona ora occupata dalla città di S. Sepolcro le loro scuderie di cavalli da guerra, sotto il controllo degli aldii, comandati da qualche "marescalco", mentre l'esercito formato dagli arimanni andò a fortificarsi su di un prato ("Anger") posto in cima ad un pendio "Hang") e sorse così il castello di An¬ghiari, una delle poche denominazioni di pretta origine germanica esistenti in Tosca¬na. Una famiglia di Lambardi del Castello di Casale presso il torrente Afra hanno fra i capostipiti un "Robusto" e un "Bofolco": i Lambardi chiamavano i loro aldii o servi rustici coloni, pastori, bifolchi o guardiani, a seconda delle loro attribuzioni; il nome Bofolco indica l'origine, così come Robusto ne avvalora la supposizione, essendo la robustezza una condizione indispensabile per un buon guardiano di cavalli.
    Più tardi a S. Sepolcro fu costruita una rocca, di cui sono ancora riconoscibili i vetusti avanzi del torrione o mastio, che gli invasori denominavano nella loro lingua "Borg" o "Burg" e da allora la cittadina venne chiamata semplicemente "il Borgo"; è molto probabile che furono proprio i Longobardi a coniare, in onore dei due pelle¬grini Egidio e Arcano la dizione di "Civitas Sancti Sepulcri", così come avevano chia¬mato Tiferno Tiberino "Castrum Felicitatis", la futura Città di Castello. Solo nel X secolo il Borgo di S. Sepolcro ha una certa consistenza numerica, mentre prima poco differiva per popolazione, dagli sparsi castelli che vi stavano intorno: nel territorio aretino non esistevano città ma solo castelli, 42 per il Goracci e 32 per il Bercodati:

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  2. #12
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    secondo l'avv. Coleschi, di origine germanica furono i Cattani di Collevecchio, Lam¬bardi quelli di Castel Cignano, i Bernardini Signori dell'Alpe, i Tarlati, i Gherardi Signori di Rocca Cignata e i marchesi di Gricignano e di Casaproto; Anghiari fu in seguito proprietà dei Lambardi di Galbino, da cui provenivano anche i conti Barbo¬lani di Montauto; il castello di "Sorci", poco distante da Anghiari, significa in realtà "castello della brughiera", dato che in longobardo "sorci" o "soci" aveva tale signi¬ficato. La giurisdizione ecclesiastica dipendeva dal vescovo di "Castrum Felicitatis", mentre quella civile e militare dipendeva da Arezzo, per mezzo del proprio gastaldo o gastaldione, che esercitava la giustizia in nome del re, da cui veniva direttamente nominato; a quei tempi "Castrum Felicitatis" faceva parte della Toscana, dipendendo dal duca che aveva sede a Lucca, il quale governava delegandovi uno "sculdascio" ("skuldais").
    Dal libro "Anghiari" di Don Angelo Ascani, stampato a Città di Castello nel 1973, possiamo trarre delle notizie che ci dicono come anche dopo il mille i Lam¬bardi dell'Aretino erano ancora capaci di creare dei fastidi al clero: D. Ascani parla di un documento del 1070, già da noi citato, che riproduce una vibrata protesta dei monaci di S. Flora contro le usurpazioni fatte da alcune nobili famiglie, chiamate in modo generico "longobardi":


    «Il conte Suppo, detto Negro, diede al Proposto e al monastero di S. Flora una terra nella località Monna entro i confini della pieve di S. Cassiano; questa terra i Barbolani la contestano
    e la detengono di prepotenza. Analogamente lo stesso conte donò un manso presso Valialla, nella villa di Trafiume, ora tenuto di prepotenza dai figli di Ranieri di Galbino. I Longobardi di Giello
    detengono un'altra terra nella villa di Catigliano in pieve di S. Maria di Sovara: si tratta di quattro poderi; altra terra i Longobardi di Caprese consegnarono alla chiesa di S. Donato e il vescovo
    Teodaldo passò al monastero di S. Flora. I Longobardi di Tulliano (per il Pasqui erano i Pietra¬molesi ) si contestano una corte... i Longobardi di Carpineto... i Longobardi di Turrita. Come si
    vede, nella zona appenninica che ci interessa c'era tutta una fungaia di Longobardi o Signori, che stavano sistemandosi ed espandendosi a spese degli enti ecclesiastici e monastici senza tener
    conto delle donazioni, dei lasciti, dei testamenti, operando vere e proprie usurpazioni arbitrarie e violente.
    Che la lamentela del monastero di S. Flora non fosse un caso sporadico, ma sistematico, basterà qui anticipare quanto è detto nel testamento che Bernardino farà nel 1104: a...ad redi¬mendas depredationes ac rapinas, quas villici et ministri sui faciebant ex frumento aliisque rebus
    bonorum ecclesiasticorum et pauperum, decrevit omnia bona sua Deo in perpetuum oflerre...».


    La presenza di questi signori egoisti e prepotenti ostacolò dunque un poco la espansione della diocesi tifernate da un lato e del territorio aretino dall'altro costi¬tuendo come un atollo autonomo in mezzo a giurisdizioni in continua fase di accre¬scimento. Tra tutti questi Longobardi due soli vengono indicati con un nome ben preciso: i Barbolani per la zona di S. Cassiano e i figli di Ranieri per la zona di Gal¬bino; gli altri sono tutti innominati, accennati appena dal nome della loro abitazio¬ne. Abbiamo così da quel documento un primo accenno ai Signori di lfontauto e di
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  3. #13
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    Galbino ("filii Raynerii de Galbine"). La presenza di questi arimanni inoltre, con i relativi palazzi o castelli primitivi, creerà di tempo in tempo una rete di comunica¬zioni viarie gravitanti tutte, per affinità politiche, verso Arezzo imperiale e ghibelli¬na, anzichè Città di Castello, pontificia e guelfa. Arezzo infatti non conobbe mai tan¬to fulgore, tanta potenza politica e tanto prestigio, quanto sotto gli imperatori ger¬manici al tempo degli Ottoni e dei due Federici. Anghiari figurava allora come capo¬linea di questo itinerario montuoso.
    Ancora un cenno alla patria di Michelangelo Buonarroti: un libello commemora¬tivo su Caprese Michelangelo di E. Agnoletti e B. Giorni annota che a Caprese sa¬rebbe morto Totila, re dei Goti: la leggenda narra che Totila e Narsete si sarebbero scontrati presso Pesaro e che il re dei Goti, gravemente ferito, dopo una fuga a ca¬vallo di otto miglia, sarebbe spirato a Capra o Capre. Altre fonti però dicono che la battaglia si svolse a "Busta Gallorum", nei pressi di Gualdo Tadino e che il re goto sarebbe morto a Caprara, a 10 Km. da Gualdo. «All'inizio del VII secolo i Longo¬bardi dilagarono nell'alta valle del Tevere, assestandosi nei fortilizi di Caprese, Mon¬tedoglio, Anghiari, Monterchi e Citerna».
    A Caprese venne investito dall'imperatore Ottone I un suo fido di nome Gof¬fredo, figlio di Ildebrando; nell'XI secolo passò ai Lambardi conti di Galbino. Nel 1226 il popolo di Caprese elesse a suo sindaco il conte Guiderano dei Lambardi. Nel 1200 Signore di Caprese fu Aghinolfo Guidi di Romena. Guido Tarlati di Pietra¬mala, di stirpe longobarda, nel 1321 venne proclamato Signore di Arezzo e del di¬stretto aretino: è a lui che i Capresi, ribellatisi ai conti di Romena, si daranno in "accomandigia", sottomettendosi alla città di Arezzo.
    Per concludere il nostro viaggio nella provincia d'Arezzo, additeremo a scopo storico-turistico la visita del Casentino e dei suoi castelli: noi che l'abbiamo percor¬sa, visitandone alcuni, anche in rovina, ricordiamo il toponimo di Talla, con cui i Longobardi chiamavano la valle ("Thala", ted. "Thal"); nominata per la prima vol¬ta nel 1057 in un atto sottoscritto dal lambardo Ugo, del fu Grifo, e da suo figlio Ardingo, nel quale si impegnano di non molestare né recar danno ai beni dell'abate di Prataglia, per la modica somma di 300 soldi: "Actum Talla, judicaria aretina".
    In altro documento del 1141 si parla di certi Ardinghi, signori di Catenaia, ove si ricorda che «i loro maggiori si dividevano in tre lati, tutti di un sangue..., un lato possedeva Talla".
    Da non perdere a Romena la visita alla pieve di S. Pietro del XII secolo, ove si può osservare che gli scalpellini romanici avevano ben vivo il ricordo dell'arte pla¬stica longobarda.
    Le origini di Pisa rimangono misteriose e comunque leggendarie: una colonia greca di profughi ovviamente Troiani, secondo Catone e Servio sarebbero stati i Teu¬tates o i Focesi; assai probabile l'ipotesi ligure sostenuta da Polibio e da T. Livio; comunque è assodato che in seguito vennero gli Etruschi ai quali va il merito di aver dato il nome alla città: Pisa significa nella loro lingua foce, ossia sbocco del fiume al

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  4. #14
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    mare, cosa che al tempo degli Etruschi avveniva certamente; non risulta tutti che il loro insediamento abbia rivestito un carattere permanente.
    I conquistatori longobardi occuparono Pisa senza incontrare resistenza e ne cero l'unico porto dell'alto Tirreno nel loro regno, da cui mossero alla conquista la Corsica, fino a che Rotari non utilizzò quello di Genova.
    In un documento del 1078, nel quale la contessa Matilde fa una donazione cattedrale di Pisa, ci sono i nomi di otto testimoni pisani, così chiamati: Pagano Rolando, Gualando di Sigerio, Gerardo di Lanfranco, Azzone di Gisla, Ranieri Sigerio, Gandolfo di Carlo, e Gerardo di Golosulo, tutti professanti la legge lon barda.
    Durante gli scavi condotti nella Piazza dei Miracoli sono venuti alla luce resti di inumati Longobardi: fra i reperti una spatha, quattro sax, una lancia e fra menti di coltelli, avanzi di lamine di bronzo dorato di uno scudo da parata, sia a quello di Lucca-S. Romano, pettini, avanzi di guarnizioni di una cintura a 5 placo del tipo di Civezzano della seconda metà del VII secolo; un'altra decorazione di c tura in 13 pezzi di ferro, pertinente ad una cintura multipla molto in uso tra i Lc gobardi; avanzi di broccato d'oro e resti di una fibbia d'oro di una tomba femmini
    Possessi arimannici sono stati segnalati sul "tumulo" o "tombolo" suburba della città, adibiti a pascoli per i cavalli ed il bestiame ( "fiuwadie") .
    Per Siena è priva di ogni fondamento l'ipotesi di una città etrusca: invece l'o gine celtica appare quasi certa, come stanno a dimostrare alcuni toponimi vicini a città come Brenna, Mersa, Merse e Gallico e lo stesso nome di Sena Etruriae o Se Julia, simile a quello di altre località celtiche: Sena Gallica e Cesena.
    Del periodo longobardo sappiamo che nel VII secolo la città era governata un funzionario regio, il gastaldo Willerad; nell'VIII secolo vi troviamo due gastalc Gundiberto, capo politico della città, rimasto ucciso in un conflitto con i seguaci d vescovo aretino Luperziano, e Roberto, amministratore dei beni della corona.
    Nel 715 esisteva un tribunale longobardo presso la chiesa di S. Martino ed territorio era affidato al gastaldo Warnefrid, fondatore dell'abbazia di S. Eugenio Monistero e di quella di S. Donato ad Asso. Alla metà dell'VIII secolo il territor senese, che arrivava fino alla corte di Sexiano, presso Montalcino, era governato d gastaldo Gansperto. «...Tracce abbastanza evidenti dell'organizzazione militare e pr duttiva longobarda si hanno nella documentazione rimastacî e nell'onomastica. P Siena, a proposito dell'VIII secolo si è parlato addirittura di un prevalere, non so politico, com'è ovvio, ma anche numerico, dell'elemento longobardo; e il toponin "Sala", relativamente diffuso, rinvia alla "sala", centro e deposito del "castrum", sua volta cuore della colonia agricolo-militare a base gentilizia tipica dei longobar e chiamata "arimannia", un nome che ha provocato studi e polemiche a non finii Attraverso il reseau dei nuclei longobardi sparsi per il senese, che così acquista s d'ora quell'aria "di frontiera" giustamente rilevata da Odile Redon e che, dai tem di Ghino di Tacco a quelli dei banditi dell'età ducale, non abbandonerà mai, ci
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  5. #15
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    già dato intravvedere l'impianto e al tempo stesso le radici lontane di questa come terra di castelli» (').
    Dopo il passaggio della Toscana al regno di Carlomagno, il contado si popolò di nuovi conquistatori franchi: ne fa riscontro l'abbondanza di professioni di legge salica. Nell'823 troviamo un Comes Alderico e nell'867 un Comes Ranieri di Winni¬sigi, fondatore della Badia Ardenga e capostipite degli Ardengheschi, dei Berarden¬ghi, dei Cacciaconti e dei Guiglieschi.
    Sono di questi anni le notizie sugli scabini senesi ("skapins" dal ted. "schaffen" =fare): funzionari eletti dal popolo per l'organizzazione e il funzionamento dei tribunali.
    Tra i castelli senesi ne menzioneremo alcuni sorti in epoca longobarda come quelli di Casole d'Elsa, di Sinalunga, di Poggio alle Mura, di Montauto, di Rapolano e Montefollonico, ricordati dal re Liutprando, Lucignano d'Arbia della famiglia lon¬gobarda dei Guiglieschi, di Capraia, nominato dal gastaldo Warnefrid, di Monticia¬no, costruito ai tempi dell'ultimo re Desiderio; il castello di Montelifré trae il suo nome da un suo antico signore: Liutfredo; quello di Castiglion Ghinibaldi da un Ghinibaldo, e la rocca d'Orcia, che vide nell'867 un baratto tra il conte Winnisigi, "Adelrat", cioè nobile consigliere di Siena e Nordimanno, Prando, Bernardo e Poso, figli di Petrone di Chiusi. L'Abbadia San Salvatore venne fondata nel 762 da un monaco longobardo friulano Erfo, divenendo una delle più importanti della regione.
    Di S. Gimignano nomineremo le sue 15 torri che erano molte di più, per ricor¬dare che la torre deve la sua prima origine alla primitiva abitazione dei guerrieri longobardi, costruita a scopo difensivo, che consisteva appunto in una torre di legno a due piani, che continuerà ad essere così costruita fino all'anno mille: a piano terra c'erano le cantine e le dispense, mentre al primo piano, a cui si saliva da una scala esterna, c'era la "sala", unico locale rozzamente arredato con panche e tavole, dove il padrone viveva, mangiava e dormiva con tutta la famiglia e con i suoi "gasindi". La torre era circondata da due fossati che servivano per la difesa; per evitare incendi si cucinava all'aperto, tra i due fossati; i servi si sistemavano nella cantina o nel sot¬toscala. La casa longobarda era così un vero e proprio fortilizio; le piccole finestrelle non avevano vetri, al posto dei quali si usavano delle pelli di pecora rese trasparenti con olio di lino; per ripararsi dal freddo si coprivano con pelli o con pesanti stoffe. Solo in seguito le vecchie torri di legno vennero sostituite da quelle costruite in pie¬tra e si incorporarono nei castelli e nei borghi fortificati e, quando gli arimanni si inurbarono in case più solide e confortevoli, essi non rinunciarono alla torre, simbolo del loro potere guerriero: è così che oggi ne vediamo i possenti resti in tutte le nostre città.
    (7) Dalla prefazione del Prof. Franco Cardini a "I castelli della Toscana" - Il Senese, di Enrico Bosi, Ed. Bonechi, 1981.

  6. #16
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    I molti toponimi "Torre" o "Torri" si devono in massima parte alle torri d guardia e di avvistamento costruite dai Longobardi in tutto il territorio occupato.
    Chiusi, l'umbra "Charmars" (8), decadde la prima volta in seguito alle incursion dei Galli Senoni nel suo territorio; all'inizio del VII secolo i Longobardi la conqui starono, facendone la sede di un importante ducato, intorno al quale gravitava anche la città di Arezzo. Oggi forse solo le fondazioni dell'imponente fortezza riedificati nel XII secolo, sono lì a ricordare che essa fu sede di una corte sontuosa.
    Occasionalmente è venuta alla luce una necropoli longobarda che venne distrut ta nel 1934 ed il materiale disperso: si è salvato solo un reperto di eccezionale finte resse: un'intera cintura multipla con decorazioni placcate e ageminate in argento simile a quelle rinvenute in tombe alemanne a Nord delle Alpi: le placche sono simil a quelle rinvenute a Trento.
    In località Arcisa o Portonaccio, su un pianoro a picco su di un torrente, posi zinne ricorrente nelle necropoli longobarde, furono iniziati gli scavi nel 1914, presto interrotti per la guerra. Furono recuperate solo 10 tombe: 5 maschili, 2 femminili i doppia con donna e bambino e 2 non attribuibili: una fibula in argento dorato cot motivo di stile animalistico, una fibula ad S di tipo pannonico, simile a quelle di Ci vidale, spada, lancia, e scudo da parata, finimenti per cavaliere, placche decorate d cintura, oltre a bacili, ceramiche e collane.
    Grosseto e la Maremma.
    Giungendo nell'Etruria vera e propria si ha l'impressione di avvicinarsi al cuori del misterioso mondo degli Etruschi: Ansedonia, Saturnia, Populonia, Sorano e So vana; anche le usanze già meridionali, come quella di usare la strada come salotto di conversazione, come abbiamo visto nel simpatico quartiere medievale di Pitiglia no, ci distraggono dalle nostre ricerche sui Longobardi: eppure ci sono stati e come, sull'Amiata, stupenda posizione di difesa di fronte alla Maremma, con il clima salu bre, le castagne, l'olio ed il vino buoni.
    Grosseto e la Maremma erano feudi della celebre famiglia Aldobrandeschi: Ilde brando, il terribile papa Gregorio VII nasce nel 1013-1014 qui a Sovana, chiamat< allora Suana o Soana, probabile figlio di un conte Rodolfo Aldobrandeschi.
    Del resto le chiese di S. Maria e la Cattedrale di Sovana sono piene di ricord longobardi, a testimonianza della numerosa colonia che vi doveva abitare. Anche 1: leggenda di Orlando ne avvalora l'ipotesi, se è vero che i difensori longobardi d Soana furono in grado di tenere in scacco per alcuni anni l'esercito franco di Carlo magno, che dopo avere vinto Desiderio e Adelchi, discendeva la penisola per vincer le ultime sacche di resistenza, tanto che sarebbe stato chiamato il fiero paladino Or lando a comandare l'ultimo assalto; ma pare che anche sotto la sua guida l'esercito franco fu costretto a ripiegare con gravi perdite.
    (8) Fu fondata dal popolo degli Umbri-Camertí. 316

  7. #17
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    Questa è leggenda; ma anche la scienza ci viene a soccorso: nel grossetano, in località Grancia, esiste una delle rarissime necropoli longobarde integralmente esplo¬rate (dal Maetzke): si tratta di 80 tombe che appartenevano ad un piccolo insedia¬mento rurale, dato che non vi sono armi, eccettuato un frammento di sax, ma poveri arredi di una popolazione ormai completamente dedita all'agricoltura.
    Cosa è rimasto ai Toscani dell'eredità longobarda?
    Consapevolezza ben poca: ci ha pensato il clero cattolico ad esorcizzare questo pericolo incominciando subito dopo la vittoria di Carlomagno a rendere odioso il termine di arimanno, lambardo, uomo di masnada= masnadiero; abbiamo già avuto occasione di fare qualche annotazione sulle lamentazioni elevate dai clericali per presunte usurpazioni, di cui sarebbero stati vittime. Ma la verità è esattamente lo opposto: la rivolta dei comuni, ispirata dalla Chiesa, aveva rovinato il feudo ed il tipo di economia rurale che esso rappresenta, per cui si hanno ex arimanni che vivo¬no di elemosina, come i Conti di Tintinnano in Val d'Orcia, dopo che dovettero cedere il castello e le terre; o, come ben ci ragguaglia il Capponi nella sua storia di Firenze, sui sistemi con i quali la città ebbe ragione dei Lambardi del contado con l'arma dei bandi, delle ammende e delle confische: «A Pistoia, un luogo di deten¬zione prende nel '200 nome di Carcer Lambardorum ed è più specialmente l'ospizio non desiderato di tutti i banditi nobili, dai 12 anni in sù, caduti nelle mani più vendicatrici che giuste dei tribunali d'allora e condannati a pagar di persona e di tasca. Una disposizione statutaria vieta il cibo, se non sborsano le ammende, a quelli che non debbono esser puniti personalmente ma solo multati... Siamo al tramonto di questa classe sociale che pure ha dato tanta parte di sè alla fortuna della città, alla fine del feudalismo ed all'avvento della borghesia» (9).
    Questa borghesia che dopo avere sapientemente spogliata la nobiltà lambarda, tenta di ricostruire il feudo caduto nelle proprie mani: sono i nuovi nobili come i Maz¬zi, i Bardi, i Salimbeni, i Bonsignori, i Galleani, che acquistano terre e castelli dai nobili insolventi: ma non è più la stessa cosa...!
    Alcuni però non si rassegnano ed abbiamo allora «uomini di masnada» darsi alle razzie e al banditismo, il che, per uomini d'arme, è assai più comprensibile che tendere la mano all'elemosina.
    Altra reazione dettata dalla disperazione e dall'odio contro il clero cattolico è l'eresia: i castelli diventano covi ereticali attirando su di sè la persecuzione dei ve¬scovi e dei podestà e l'odio della popolazione asservita ai preti: l'eresia lambarda dette ampia libertà al potere civile e religioso di colpirli, senza per questo poter essere difesi da quello che avrebbe dovuto essere il loro naturale protettore, l'impe¬ratore, come Federico II, che, considerando gli eretici nemici dello Stato oltre che della Chiesa, doveva mostrarsi inflessibile con loro, anche per non peggiorare i già
    (9) G. Volpe: "Origine e svolgimento dei Comuni nell'Italia longobarda" - Ed. Volpe.

  8. #18
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    tesi rapporti col Papato.
    Per tutte queste ragioni è venuta a mancare tra la popolazione della Toscs la consapevolezza di essere stata parte di quella mirabile civilizzazione sia pure triarcale e contadina che fu la comunità rurale del primo medioevo longobardo; fo l'odio anticlericale che si è evidenziato in Toscana nel XX secolo può rappresent una nemesi storica, una inconscia vendetta contro coloro che quella civiltà distrusse
    Un fiorentino il cui ideale politico sembra scaturire da una visione del mor esemplarmente germanica è il sommo Dante: pur sentendosi "romano", accorati la sua invocazione all'imperatore tedesco, il Veltro, perché non abbandoni «il gi dino dell'Impero» che è l'Italia; pur nato da famiglia guelfa, l'Alighieri attacca v lentemente il Papato per la sua pretesa di confondere in sè i due poteri: lo sp tuale e il temporale; non solo per la «serva Italia, di dolore ostello, nave senza n chiero in gran tempesta, non donna di provincia, ma bordello», ma per il benessi di tutti i popoli, egli propugna l'idea dell'Impero Universale, traendo riferimento valori metafisici, sognando un sistema federativo di stati autonomi, uniti da un game di fedeltà al loro unico Signore, l'Imperatore, il quale deriva la sua autor direttamente da Dio e non dalla Chiesa di Roma e questo altro non è che fide-, supremo dell'autentico Ghibellinismo del Sacro Romano Impero della Nazione G manica.
    Nemico dell'uguaglianza, egli ammette che, non dissimilmente che per gli in vidui, anche per le Nazioni ve ne sono di quelle più atte a governare, mentre ali non possono che essere sottomesse: pertanto non solo è conveniente che siano govi nate, ma anche giusto, persino con la costrizione (10).
    Consapevole di cosa i Longobardi hanno rappresentato nella storia d'Italia è c altro fiorentino: Nicolò Machiavelli che, con la sua consueta lucidità, addebita al mire espansive del nascente Stato Pontificio la responsabilità di avere impedito Longobardi di unificare il paese e critica duramente la funesta iniziativa papale i avere sollecitato l'intervento dei Franchi in Italia, la cui venuta aveva prodotto ta devastanti effetti, che in quell'epoca dovevano essere ancora evidenti alle menti ape te come la sua.
    In Francesco Guicciardini, amico del Machiavelli, al disilluso realismo si acco: pia lo scetticismo verso le umane virtù; ma si trova pure il senso della fedeltà dell'onore e la venerazione della giustizia.
    Più vicino alla nostra epoca F.D. Guerrazzi, il cui radicalismo eversivo por all'insofferenza e alla ribellione contro le istituzioni e le convenzioni borghesi.
    Più marcato è il senso del distacco del Toscano dall'italiano "grasso e molle" Curzio Malaparte: «O italiani grassi che usate abbracciarvi l'un all'altro, e prende tutto in facile, e veder tutto roseo, e tutto quel che fate lo gabellate per eroico,
    (10) Arthos N. 12 - 1976¬318
    318
    vi credete virtuosi, e avete la bocca piena di libertà mal masticata, e pensate tutti a un modo, sempre, e non v'accorgete d'esser pecore tosate. O italiani che non amate la verità, e ne avete paura. Che implorate giustizia, e non sognate se non privilegi, non invidiate se non abusi e prepotenze, e una sola cosa desiderate: esser padroni, poiché non sapete essere uomini liberi e giusti, ma o servi o padroni. O poveri italiani che siete schiavi non soltanto di chi vi comanda, ma di chi vi serve, e di voi stessi; che non perdete occasione alcuna di atteggiarvi a eroi e a martiri della libertà, e pie¬gate docilmente il collo alla boria, alla prepotenza, alla vigliaccheria dei vostri mille padroni: imparate dunque dai toscani a ridere in faccia a tutti coloro che vi offen¬dono e vi opprimono, a umiliarli con l'arguzia, il garbato disprezzo, la sfacciataggine allegra e aperta. Imparate dai toscani a farvi rispettare senza timor della legge, né degli sbirri, che in Italia tengon luogo della legge, e della legge son più forti. Im¬parate dai toscani a sputare in bocca ai potenti, ai Re, agli Imperatori, ai Vescovi, agli Inquisitori, ai Giudici, alle Signorie, ai cortigiani d'ogni specie, come si è sem¬pre fatto in Toscana, e si fa tuttora» (")
    Dello stesso parere del Machiavelli sulle colpe del Papato nella mancata unifi¬cazione dell'Italia ad opera dei Longobardi è oggi il toscano Indro Montanelli, che però più di tanto non si espone, rappresentando la sua ottima penna una buona pedina nelle mani dell'establishment liberai-democratico che gli Italiani non sono riu¬sciti a scrollarsi di dosso nemmeno con l'indigestione di marxismo che ha caratte¬rizzato il ventennio 1960-1980.
    Ancora inconsapevoli eredità barbariche sono fra i Toscani tutte quelle credenze e pratiche superstiziose, residuato del mondo magico e fiabesco dei loro antenati pro¬venienti dall'estremo Nord: ciò appare tanto più stupefacente se pensiamo alla vis polemica ed all'arguzia che li caratterizzano; eppure tutto il vecchio folklore è pieno di credenze magiche, accettate sorridendo, ma accettate come un remoto linguaggio che parte dall'animo loro e di cui non si sentono di sbarazzarsi.
    Ancora una inconsapevole eredità germanica è la serietà con la quale i Toscani indossano i costumi tradizionali, che sono rimasti quelli della loro incomparabile civiltà medievale. Basta osservare come portano gli antichi abiti: sembra che que¬sti siano le loro reali vestimenta, assai più dell'abito moderno: non sorridono né ghignano come farebbero gli altri Italiani indossando delle fogge inattuali, anzi assu¬mono un cipiglio ed una dignità che li trasfigura in personaggi di un'epoca ormai lontana. Avete mai osservato la positura che assumono gli armigeri, a gambe diva¬ricate, secondo l'antica tradizione militare germanica? Anche questo è, a nostro avvi¬so, un retaggio degli Arimanni! Certo i tratti facciali dei Toscani sembrano fatti ap¬posta per quelle fogge e per quelle armature; noi siamo stati spesso a vedere le loro giostre e ne abbiamo tratto sempre la medesima impressione: sono dei nostalgici del
    (11) Curzio Malaparte: "Maledetti Toscani" - Ed. Vallecchi, 1957.
    319

  9. #19
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    Medioevo perché sono uomini che detengono ancora dei valori di quei tempi.
    Dei caratteri somatici dei Toscani abbiamo già accennato e basta avere oc e saper vedere per evidenziare in una parte di essi qualche tratto germanico; questi il mento prominente e volitivo, come quello posseduto dall'Alighieri, stai almeno alle immagini che di lui ci hanno tramandato, che in Toscana sembra rel vamente frequente come nel nostro Trentino e che viene designato col termine < lettale di "bazza".
    La ricerca sistematica nel campo della toponomastica minore, dell'onomast e dell'etimologia di varie espressioni popolaresche è tutta aperta ai ricercatori.
    Quanto ai toponimi, di quelli costituiti da un appellativo seguito da un ant ponimo o personale germanico, come Borgo Ariberti, Rocca Arnolfi, Gello Biscarc Campaldino, Camaldoli, ecc., che in Italia assomerebbero a 1113, la Toscana ne rebbe la più ricca, assieme al Lombardo-Veneto: secondo il Prof. Carlo Battisti c' l'Università di Firenze, le province di Firenze e di Arezzo sarebbero le più ricc di questi composti: nel solo corso medio e superiore dell'Arno ce ne sono a cer naia, ad Arezzo se ne conosce 97, Firenze ne sarebbe straordinariamente ricca.
    Numerosi anche i nomi di luogo riferibili a condizioni geografiche denomina alla maniera longobarda come "augia"=prato irriguo, "bifank"=luogo recinta Bifancoli in Lucchesia; "biunda"=terreno recintato, presente nel Pistoiese e nell' retino; "blaha", "blaca"=querceto, castagneto, "marinsk", dal danese "marsk" zona palustre, con un'area assai estesa in Toscana; "gahagi"=bosco recintato: p sente nella valle dell'Arno in ben 70 toponimi come Cafaggio o nel termine dial tale "cafaggiaio"=guardiaboschi; "Wiffa", "guiffa"=segno di possesso: presente Lucchesia; "lama"=piscina, come Lama Paldoli ad Arezzo; e per finire le mo "sala" = abitazione.
    Già abbiamo visto le voci in engo, fingo, come Clusole Ubertenghe, Terra C cinga, Spafingo in provincia di Arezzo.
    I termini dialettali toscani ad etimo germanico sono tutti da scoprire: qualcl duno ce ne dà il Malaparte, ma non ne siamo tanto sicuri: "uzza": aria pungeni "barlaccio": andato a male; certamente germanico è "ruzzo": strepito, rumore.
    "Gualcare"=sodare i panni, viene da "gualchiera": le gualchiere erano i f Ioni tessili ad acqua i cui magli battevano la stoffa; è un vocabolo che si usava o usa ancora a Prato e viene dal logb. "walkian", frc. "walkan".
    Oltre all'artigianato della tessitura la tradizione longobarda è alla base de specializzazione orafa che in Toscana deriva dai cesellatori e ageminatori fioriti sot la signoria arimannica.

  10. #20
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    Un'ultima istituzione longobarda rimasta a lungo in Toscana è quella del "sal¬tario": nel Sudtirolo il "Saltner" è il guardiano dei vigneti e portava un costume quanto mai pittoresco; nel mondo longobardo esso stava tra il guardiacaccía, il guar¬diaboschi e la moderna guardia ecologica: i suoi compiti erano vari e molteplici: era il responsabile della conservazione dei boschi, dei pascoli comuni e della relativa faúna; tale istituzione la ritroviamo sino al XVI-XVII secolo in varie regioni italiane.
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