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  1. #1
    Arthur I
    Ospite

    Predefinito Nihil est in Iesu quod prius non fuerit in Caesare

    Una bomba sotto il Cristianesimo

    Articolo di THOMAS von der DUNK (Vrij Nederland-6 aprile 2002)

    Vi è una serie di temi gravosi che concernono l’antichità, sui quali gli storici ed i profani appassionati si accapigliano da sempre: la Troia di Omero, la localizzazione di Itaca, il lineare A di Creta, l’esistenza dell’Atlantide e l’origine degli Etruschi. E: la storicità di Gesù Cristo. Quando si tratta di questi temi, gli eruditi si trincerano ognuno all’interno delle proprie linee difensive, da dove più nessun vero contatto con l’altro campo è possibile. Scommettendo su una certa concezione si sono rovinate intere reputazioni scientifiche.

    War Jesus Caesar? Gesù fu effettivamente lo stesso che Giulio Cesare? Dietro questo titolo sconcertante e provocante si nasconde uno studio elaborato e riccamente documentato del filosofo e linguista italiano Francesco Carotta. Se il libro contiene anche solo un nucleo di verità, innesca una bomba sotto il bimillenario Cristianesimo.

    Tralasciando i veri credenti che prendono la parola del vangelo per assoluta, da quando Ernest Renan nel 1862 nella sua Vie de Jésus, Vita di Gesù, mise pubblicamente in dubbio la divinità di Cristo, rimane ai filologi, storici e teologi seri ancora abbastanza materiale di discussione per continuare ad essere fondamentalmente in disaccordo gli uni cogli altri. Quando poi arriva un outsider con una teoria apparentemente ancor più astrusa, tutti gli scienziati che non hanno avuto loro stessi quell’idea, serrano – è umano – le fila. Poiché, se questo è vero, allora decine d’anni del loro lavoro sono da cestinare.

    Gesù Cristo era Giulio Cesare? GC=GC? Precisando l’orientamento dell’elaborazione di Carotta più di quanto non lo faccia il titolo, fu il Cristianesimo nient’altro che una forma inselvatichita, una copia fraintesa ed equivocata del culto in onore del Divo Giulio, del Giulio Cesare deificato post mortem? Il racconto della passione è da ricondurre ad una versione storpiata della biografia di Cesare sugli ultimi giorni del dittatore e pontefice massimo di Roma, noto per la sua clemenza e celebrato come benefattore del popolo? Una domanda che può sembrare folle. Però Carotta presenta numerose prove della tesi avanzata. E anche se tutte non possono convincere direttamente e molte sue asserzioni fanno sorgere altre domande, è però tutto sommato in grado di rendere plausibile che così è stato e così si è svolto. Oltre, in questo stadio, non si può andare. Una tesi rivoluzionaria merita di essere verificata da accurati esami.

    La dimostrazione di Carotta si appoggia inoltre ampiamente su un’argomentzione filologica, sulla quale un giudizio equilibrato è possibile solo a specialisti che possiedono conoscenze del latino, del greco, del siriaco e dell’aramaico. Il suo esame è lardellato di comparazioni fra citazioni tratte dai quattro vangeli e descrizioni contemporanee della vita di Cesare. Il nocciolo ne è che si tratta di comprensibili sbagli di traduzione e trascrizione, di errori logici e di interpretazione dovuti ai copisti, agli evangelisti e ai loro predecessori. Secondo l’assunto di Carotta questi non erano ugualmente padroni di tutte le lingue rilevanti. Per questo avevano la tendenza a confondere una parola di una lingua straniera a loro non nota con un’altra nota nella stessa lingua, o addirittura a leggerla come una simile parola nella propria lingua. Fatti concreti potevano così facilmente essere presi in senso traslato, e viceversa.

    Per di più si scriveva allora senza interpunzione e tutto in maiuscole, in diversi alfabeti, senza interspazi, con abbreviazioni e senza accenti, mentre l’ortografia e la direzione della lettura variavano. Altrettante occasioni per ulteriori errori. Cosicchè poteva succeder facilmente che nomi propri romani che esprimono al contempo proprietà, venissero interpretati come le proprietà stesse, non appena si fu perduta la memoria delle persone storiche sottese. Si pensi ad una frase odierna presa da un quotidiano quale ‘een blik in de politieke keuken van premier Kok op het Catshuis’, ‘uno sguardo nella cucina politica del premier Kok al Catshuis’. Fra cent’anni uno straniero con insufficienti conoscenze del francese e dell’olandese, prendendo ‘politique’ (politica) per ‘politesse’ (galateo), e ‘Kok’ letteralmente per ‘cuoco’, potrà capire questa frase come ‘un assaggio della raffinata cucina dello chef del Catshuis’. (E forse coll’andar del tempo quella diventerà effettivamente un’attività rilassante).

    Lo storico a chi sia capitato di dover decifrare scarabocchi semileggibili scritti in una lingua straniera trovati in un archivio, sa quanto facilmente si possa prendere fischi per fiaschi – e coloro che scrissero i vangeli non erano certo degli storici di formazione. E si dà il caso che proprio fra le persone che Cesare ebbe dapprima a combattere e furono poi guarite dai loro errori politici, se ne trovassero diverse che portavano tali nomi ambigui. Metello, Clodio, Cecilio – il mutilo, il claudicante, il cieco: ecco qui i molti infermi, che dopo alcune metamorfosi verranno guariti (fisicamente) da Gesù.

    Quel che Carotta mette altresì in campo sul terreno della storia della cultura, è altrettanto notevole. Molto si basa su circumstancial evidence, ma è di una tal mole, che non può trattarsi di puro caso. Così per esempio i simbolismi utilizzati sono strettamente apparentati. E vi è una lunga catena di nomi di luoghi e di persone vicinissimi, che interpretano lo stesso ruolo sia presso Cesare che presso Cristo. La vita e la morte di entrambi mostrano una lunga serie di paralleli, incluso il tradimento da parte di un discepolo (Giuda come novello Bruto), dove le vicende di Cristo possono venire interpretate come la traduzione simbolica e depoliticizzata di quelle di Cesare.

    L’esposizione di Carotta esige in ogni caso una critica seria ed una eventuale confutazione. Si potrebbe per esempio controllare se egli non sorvoli scientemente sugli aspetti che non combaciano, ben nota tendenza degli ‘outsider’ che cercano di far quadrare per arrotondamento la loro ‘soluzione’ di vecchi enigmi. In nessun caso però il suo lavoro può essere scartato come se fosse opera di un sognatore, di un nuovo Erich von Däniken. E’ troppo basato su studi approfonditi in diversi campi specialistici incluso quello linguistico. Presso Carotta gli dei non sono cosmonauti, ma semplicemente il Messia adorato da duemila anni dalla Cristianità non è un comune giudeo di Palestina, ma la clonazione inselvatichita (bastaardkloon) di un romano onnipotente. In Vaticano e a Staphorst [NB: Staphorst, roccaforte dei protestanti olandesi] si sono scelti soltanto la falsa figura del Salvatore – cioè una fittizia.

    Rilevante è che la vita di Cesare ci è stata tramandata nei dettagli, ma senza nessun miracolo. Per Cristo invece vale esattamente il contrario. Per Carotta una ragione per assumere trattarsi qui di due metà speculari di un’unica biografia. Gesù infatti non viene nominato in nessuna fonte storiografica anteriore ai vangeli. Il vangelo più antico, quello di Marco, viene generalmente datato a poco dopo l’anno 70. La sua versione canonica è scritta in greco, epperò numerosi latinismi hanno fatto pensare che sia stato tradotto dal latino. Un caso?

    E’ inoltre indubbio che il culto del dio Giulio era molto popolare anche nell’oriente dell’impero, soprattutto presso i suoi soldati ed i loro discendenti. Di questo culto a partire dal terzo quarto del primo secolo non si hanno più notizie, senza che il suo scomparire venga notato dagli storiografi del tempo. E proprio in quel momento emerge altrettanto improvvisamente nelle fonti una nuova setta. Inizialmente non viene chiamata christiani ma (così in Tacito) chrestiani – Christos sta in greco per ‘l’Unto’, Chrêstos per ‘il Buono’ – un epiteto attribuito ufficialmente al dio Cesare e iscritto sui piedestalli delle sue statue di culto. Un caso? Una confusione di scrittura o una simbiosi è presto fatta quando in Palestina altre idee provenienti dal giudaismo e concernenti un Messia compenetrano la religione del Divo Giulio importata da Roma.

    Sia i romani che i giudei usavano scrivere su rotoli di pergamena. Cesare introdusse – come innovazione tecnologica ideologicamente non neutra – il molto più pratico codice costituito da fogli di papiro rilegati, ma la tradizione dei rotoli sopravvisse ancora a lungo. Dei vangeli si sa che essi, contrariamente ad una altrettanto inveterata tradizione giudaica, furono scritti direttamente su codice, su libro. Il libro divenne così rapidamente il simbolo stesso del Cristianesimo: la stessa scelta ideologica o un caso?

    Divo Giulio nella sua qualità di antidio imperiale era popolare soprattutto fra coloro che si rifiutavano espressamente di rendere i dovuti onori divini all’imperatore momentaneamente al potere – cosa che valse anche per i cristiani. Un caso? Molti luoghi di culto del Divo Giulio nelle città fondate da Cesare o in suo nome appaiono improvvisamente trasformati in chiese dedicate al Salvatore, e i templi di Venere nelle stesse città nelle prime chiese della Madonna: un caso? Cesare si considerava figlio di Venere, e quando lui stesso fu fatto dio, Venere divenne conseguentemente madre di dio. Una speculazione? Certo, epperò in mancanza di fonti abbondanti, senza speculazioni – purché fondate su argomentazioni sensate – uno storico dell’antichità non può procedere.

    Prendendo Marco come punto di partenza, l’autore perviene infatti direttamente ad un numero impressionante di conclusioni riguardanti il racconto della passione. Gli altri tre evangelisti sono decisamente meno importanti poiché i loro testi – e su questo sono quasi tutti d’accordo – sono più recenti e quindi considerati meno autentici. Marco aveva riportato solo quello che egli aveva via via sentito dire, con tutte le conseguenti contraddizioni ed imprecisioni. Con Matteo e Luca si può invece parlare di un’opera di redazione, di completamento ed interpretazione, e per Giovanni questo vale a fortiori. Giovanni viene incontestabilmente considerato come l’ultimo dei quattro. Si mette in mostra soprattutto come propagandista e romanziere, che per amore dell’effetto vuol rendere la storia più bella, sensazionale e logica di quanto non sia.

    Carotta va subito al cuore della questione: la crocifissione non era una crocifissione. In Marco ciò non si legge alla lettera da nessuna parte – questa la conclusione dell’accurato studio del testo greco tramandatoci. L’autore fa giustamente osservare che abbiamo la tendenza a vedere quel che sappiamo, e non a sapere quel che vediamo. Il che significa: la rappresentazione delle cose che ci è familiare riguardo avvenimenti particolari, ci induce inconsciamente a riconoscerla automaticamente in una descrizione di essi, noi cioè leggendo mettiamo dentro ai testi più di quanto in essi effettivamente ci sia. Nella fattispecie: la parola greca stauroô di Marco, che viene tradotta con ‘crocifiggere’, significa, nota Carotta, letteralmente qualcosa di completamente diverso: disporre pali ed assi. Lo si può naturalmente, seguendo una tradizione preconcetta, con molta buona volontà interpretare come una descrizione della ‘crocifissione’, ma non è obbligatorio. La parola greca qui usata, tenuto conto dell’insieme della situazione, sembra indicare piuttosto l’ammassar legna attorno ad un morto – per un rogo.

    Perché uno non pensi che Carotta faccia bruciar vivo Gesù, diciamo subito che secondo l’autore “Gesù” era già morto da tempo. Quel che colpisce in Marco infatti è che Gesù non proferisce più parola da quando egli dal 15 del mese di nizan viene preso nel Gethsemani. Certo, in Giovanni seguono interi monologhi fin sulla croce, non così però secondo il primo evangelista. Davanti agli scribi giudei, Gesù, noto per la sua prontezza di parola e facondia – ‘in principio era il verbo’ –, a tutte le domande non risponde più nulla, eccetto un breve insignificante ‘tu lo dici’. L’audace conclusione di Carotta: “Gesù” in quel momento non era già più in vita – e precisamente già dal momento della sua ‘cattura’. La scena nel Gethsemani, accompagnata non a caso dal necessario sguainar di armi e da ferite, corrisponderebbe all’assassinio di Cesare il 15 (!) di marzo del 44 a.C. E ciò che poi segue nei vangeli, è una riproduzione del processo postumo (!) con susseguente cremazione del corpo, come ampiamente descritto da Appiano, Svetonio e Dione Cassio. Gli scribi sono presso di essi i senatori: patres conscripti, così stava scritto in latino. La fonte di un ulteriore fraintendimento? Da Marco non risulta poi che Gesù dopo il Getzemani si sia più mosso sulle proprie gambe – viene continuamente ‘mandato’, ‘condotto’, ed infine ‘portato’ sul Golgotha. Ciò si può fare in linea di massima, come parte di una particolare cerimonia, sostanzialmente anche con un morto.

    Notevole in questo contesto: il corpo di Cesare viene alla fine portato sul Campidoglio. Capitolium significa in latino classico ‘luogo del cranio’ – proprio come Golgotha. Sappiamo che fra gli elementi che più colpirono durante la cremazione pubblica di Cesare, vi fu una grande croce (tropeo), che stava a capo della bara e sulla quale venne fissata una figura in cera di Cesare divinizzato. Al contempo, seguendo il costume romano, un attore – con una maschera del defunto davanti alla faccia – proferì in nome del defunto alcune frasi significative. Abbiamo qui i primi ‘antecedenti’ delle ultime parole di Gesù sulla croce.

    Come è possibile che una storia che ha luogo a Roma venga trasferita così facilmente in Palestina? Questo è dovuto al fatto che nel racconto romano dell’ultimo periodo della vita di Cesare, i luoghi e le persone vengono quasi sempre espressi in termini generali: Non Roma, ma ‘la città’, non Cesare, ma ‘il salvatore’, ‘il gran sacerdote’, ‘Egli’, oppure – ‘il figlio di Dio’. Sinedrio, come viene chiamato il collegio degli scribi, era un termine greco usato comunemente per indicare il Senato di Roma. E i romani erano dappertutto.

    Gli unici che vengono nominati espressamente, sono i giudei: essi infatti erano presenti anche a Roma. Ma in un ruolo affatto diverso da quello che hanno nel nuovo testamento. Le tinte fosche in cui vengono lì dipinti si devono a Paolo, che, come è noto, ha dato praticamente al cristianesimo la sua forma. Anche dietro Paolo si nasconde secondo Carotta un personaggio storico, e la sua particolareggiata e dettagliata tesi al riguardo non è meno sensazionale. Chi vuol sapere come stanno precisamente le cose, deve leggere il saggio di Carotta.

    http://www.carotta.de/subseite/echo/vn/vnital.html

    Riassunto della tesi:
    http://www.carotta.de/subseite/texte/isumma.html

    Jesus Christ = Julius Caesar
    http://www.carotta.de/subseite/echo/tumult-e.html

    Articoli ulteriori:
    http://www.carotta.de/subseite/texte...i/quaderni.pdf

    http://www.carotta.de/subseite/texte...i/incognit.pdf

    Intervista all'autore a Radio Colonia, Germania:
    http://www.carotta.de/elemente/multikul.wav

  2. #2
    Mjollnir
    Ospite

    Predefinito

    Caro Arthur
    non è sicuramente un caso che nella stessa sera in cui pubblicavi questa "bomba" sulla figura del falegname galileo - bomba che leggerò con calma poi - io provvedessi a pubblicarne un'altra, forse più famosa, sullo stesso argomento.
    Più famosa, ma non per questo meno efficace

    Quindi buona lettura.


    Julius Evola: Gesù non è il tipo di un Dio

    da Imperialismo pagano. pg 116-121




    GESÙ NON È IL TIPO DI UN DIO.

    Circa il Cristo, prescinderemo dal problema puramente storico.
    Considereremo il Cristo soltanto come un tipo, come il modello ideale che il cristianesimo ha saputo proporre per l’umanità. E porremo questo problema: è, un tale tipo, divino? È tale che non si possa pensarne uno più alto ? Da questo punto di vista, l'essere il Cristo effettivamente esistito o meno, è cosa di assai secondaria importanza.
    Si deve rilevare però la preesistenza del mito del Cristo al cristianesimo: nella sua forma gnostica, onde il Cristo si identifica all'"Uomo interiore e celeste", esso fu già una dottrina dei Misteri mediterranei, òrfici e caldaici. In proposito vanno ricordate recenti teorie, come quelle del Couchoud, audaci ma pur fondate almeno quanto le ortodosse, che ricostruiscono il progressivo enuclearsi e trasformarsi di questo mito a partire dagli ideali messianici e indicano le precise circostanze storiche, psicologiche e polemiche che hanno portato a corporizzarlo, fino a concepirlo in un personaggio pensato come reale e come apparso ad un certo momento. Ad ogni modo noi, mantenendo il criterio di ricercare ciò che nel cristianesimo vi è di specifico, dobbiamo assumere il tipo Cristo in funzione soltanto del Cristo storico-evangelico, in quanto che circa le ulteriori speculazioni cristologiche,
    specie patristiche, ove è indubbio l'influsso della civilizzazione ellenistica e del gnosticismo, ripetiamo che i cristiani non hanno nulla di originale: essi hanno semplicemente carpito qualche briciola dell'insegnamento sapienziale balbettandola in pessima lingua e cercando di rivestirvi, per i bisogni della loro causa, fatti storici d'importanza e d'autenticità d'altronde assai relativa.
    Riportandoci allora nell'ordine della coerenza intema della concezione evangelica, già le basi sono infide. I pagani cominciavano col contestare lo stesso presupposto per l'intervento del Cristo quale salvatore, cioè la possibilità del peccato originale. E che! – esclamava Celso - se un comandante sa farsi obbedire dai suoi soldati e un capobanda dai suoi accoliti, è imaginabile che Dio onnipotente non sia stato capace di ciò rispetto al solo uomo che egli abbia direttamente formato? Ma sia anche concesso questo: Come Dio, nella sua giustizia e nella sua bontà, ha potuto aspettare tanti secoli prima di intervenire per ricondurre a sé i peccatori? E perché in quel dato momento, e non in un altro? Ne basta: Che rapporto ragionevole può esservi fra le sofferenze di Gesù e i delitti dell'umanità? Come un male - il sacrificio del Figlio - aggiunto ad un male, può cancellare quest'ultimo? Come Dio, onnisciente, poteva ignorare che inviando il Figlio suo fra gli uomini, lo inviava fra malvagi che dovevano macchiarsi di un nuovo e più terribile delitto uccidendolo? E se non lo ignorava, perché lo ha fatto?
    Dio è onnipotente: gli sarebbe bastato di perdonare e di annullare direttamente con un suo verdetto i peccati di coloro che l'avevano offeso, dato anche che ne provasse un qualche risentimento, cosa che è indegna di un Dio: il sacrificio del Figlio come espiazione per l'umanità presupporrebbe una responsabilità di Dio stesso rispetto a qualcun altro al disopra di lui, ovvero il riscatto come una legge a cui egli stesso sia tenuto a piegarsi - il che, pertanto, lo riduce ad una caricatura di Dio.

    Ma Celso vedeva bene la precisa ragione per tutte queste incongruenze: si è che il "sacrificio per l'umanità" è una semplice invenzione escogitata a fine di travestire luminosamente la fine ignominiosa, null'affatto degna di un Dio, di Gesù; a fine di far credere, trasformando la necessità in virtù, che questa fine non fu il risultato di forze, di contro a cui Gesù si mostrò impotente, ma invece un disegno divino da lui liberamente assunto per amore degli uomini. I cristiani sapevano bene che questa fine non poteva non ripugnare ai pagani, non poteva non proibire loro di riconoscere in Gesù un uomo-Dio, tanto gloriosi erano i miti in cui essi erano usi a ritrarre il modello ideale dell'umanità.
    L'espediente dell'"espiazione", congiunto al sovvertimento e al capovolgimento di tutti i valori tradizionali e affermativi, servì loro per tentare di trarsi d'impaccio.
    Ma il gioco non riuscì con i pagani, come non riesce con noi. Gesù non è per nulla il tipo di uomo, di cui non si può pensarne uno più alto e nobile. Gesù non è della razza degli uomini-iddii.
    Un uomo-Dio, per noi come per i Romani, non può essere un giustiziato, un crocifisso: non può essere colui che a Getsemani indugia in sentimentalismi e implora sospirando che gli sia evitato, se possibile, l'amaro calice; non può essere colui che, predicando la fede, alla fede viene meno nel momento supremo, disperando del Padre; non può essere chi, incapace a persuadere, sa soltanto suggestionare e moralizzare con visioni apocalittiche a base di stridore di denti e di pianti, e épater le bourgeois con qualche fenomeno sopranormale appreso dalla magia degli Egizi; non può essere chi non rispetta gli uomini con
    la pretesa di esser lui, o l'irrazionale fede in lui, quella liberazione che ogni vero uomo deve invece conquistarsi da sé e a nessuno permettere che gliela dia; non può essere chi sente il bisogno di proclamarsi ad ogni istante Messia e figlio unico del Supremo, ignorando che la prima massima non di Dèi, ma soltanto di aristòcrati, è di essere senza ostentazione.
    E per aver netto il senso della differenza, non occorre riferirsi ai tipi mitici dei Semidii pagani - basta riferirsi a qualcuno dei loro uomini. Già quanto più luce che non nel Galileo vi è nella figura di Socrate e dello Spoudaios plotiniano, che calmi ed impassibili si fanno incontro alla morte e alla sciagura, nel chiaro sapere che esse sono nulla rispetto alla fiamma che arde in loro, rispetto alle loro anime superbamente domate! E Epitteto, che al padrone che gli torceva il braccio,sorridendo avvertiva: "Guarda che lo romperai" - e, avendolo rotto:
    "Tè l'ho detto: l'hai rotto!".
    "Quanto più 'umano', quanto più vicino a noi, è invece il Cristo!"
    si dirà. Vicino a voi, non a noi. Ripetiamolo: questa è la mentalità cristiana: l'"umano" diviene un valore - non se ne vergognano, ma lo adulano, se ne gloriano. Epperò l'"umanità" del Cristo, che è ciò stesso che ce lo fa respingere, in loro divien titolo di superiorità e motivo di accettazione. Nelle loro menti intrise di passione, i tipi classici appaiono freddi, immobili, senza vita, senza "infinito". Ignorano che questa freddezza significa dominio, fuoco magnificamente contenuto; ignorano che questa immobilità è quella di un moto infinito contratto nel potere di darsi un limite assoluto; ignorano che questa apparente mancanza di vita è l'esaltazione stessa della vita in una forma trascendente e incorruttibile.
    Noi sospettiamo di tutte le pseudo-virtù del Cristo e dei suoi seguaci, poiché in esse troppo ci dice di semplice travestimento di necessità. Anche noi conosciamo la rinuncia; anche noi conosciamo il sacrificio, la dedizione, il perdono e, come già dicemmo, l'amore. Ma la rinuncia non è permessa a chi non ha: è permessa al Buddha che giovane, bello, regale, tutto arridendogli, dice no al mondo - è permessa allo yogì che, nell'aspirazione a suprema liberazione, si scioglie
    dai poteri di cakravartì (Signore universale) a cui, con il suo sforzo, è giunto - ma i cristiani troppo poco posseggono per permettersi un simile lusso. E il Cristo stesso, che pur non disdegnava talvolta le messe in iscena, invece di fuggire prima e poi farsi catturare, nella chiara visione degli eventi futuri non avrebbe dovuto disdegnare di presentarsi lui stesso, calmo, dinnanzi ai suoi accusatori, immobilizzarli, far balenare loro la visione dei poteri con cui avrebbe potuto annientarli, e solo dopo mettersi a loro disposizione: allora la sua fine sarebbe stata
    purificata da quel lato di ignominia, che irrepugnabilmente le conviene; e la procedenza dal volere riscattativo del Padre (per quanto incomprensibile questo sia), sarebbe stata più credibile, nel "Figlio dell'Uomo".
    Del pari, la cessazione dell'affermazione non è permessa a chi non è capace di affermazione, ne l'umiltà a chi non conosce le altezze, ne l'amore a chi non conosce la condizione della solitudine e dell'inaccessibile essere individuale, ne il perdono a chi non conosca prima la forza che sa imporre rispetto e giustizia. Non vi siano equivoci, su questo punto: manca la prova, nel Cristo e nel cristianesimo, perché tutti i "valori" in proposito, anziché di là dall'uomo, siano prima, al di qua dell'uomo vero e virile. E in quanto un tale uomo è ancora un avvenire lontano per la gran parte dei mortali, la predicazione delle cosiddette "virtù cristiane" non può avere che il senso di un incitamento alla degenerescenza, che va duramente contrastato.
    Lungi dall'avere il significato ora indicato, esse poggiano tutte sul dualismo, l'incompatibilità, la reciproca esclusione di ordine naturale e ordine sovrannaturale, di immanenza e trascendenza - sia nella persona del Cristo, sia nella dottrina in generale. Lo "spirito" è trascendenza, ed è incompatibile con i valori di questo mondo e del suo demoniaco reggitore: qui è il mondo, là lo spirito, e gli eroi secondo ordine terreno divengono borghesi in confronto a coloro che, abbandonandolo, anelano alla "salvazione". Anche qui, la dottrina è una superstizione fomentata da ignavia. Il dualismo è un errore metafisico ed è un errore morale. La concezione più alta non è quella che dello spirito fa l'"altro" rispetto alla materia e al mondo, ma quella che lo pone nella materia e nel mondo come Signore e invisibile condizione dell'una e dell'altro. Allora come il mondo è il corpo dello spirito, così lo spirito non è veramente che nello splendore di un corpo trasfigurato, di un corpo che si faccia atto, testimonianza della sua essenza vivente. Epperò la via ad esso non è ascesi, distacco, fuga dalla realtà, fede sognante nel Padre e nel "Regno dei Cieli", astratta separazione di naturale e di sovrannaturale, di potenza e spiritualità, ma è invece l'immanente risoluzione del mondo nel valore, spirito che va a fare della realtà, piegata alla sua legge, l'espressione stessa della perfezione della sua attualità. La realtà del mondo va riconosciuta e, a dir vero, come quella del luogo istesso ove da un uomo può trarsi un Dio, dalla "terra" un "Sole".
    Tale visione del mondo avevano i Misteri alla Mithra; questo senso della vita fu portato dalla tradizione pagana e mediterranea e da essa, di contro all'oscura tragedia del Golgota, scaturirono gli Imperi come gloriose realtà stringenti insieme immanenza e trascendenza, luce divina e luce di vittoria. E così Celso, portando i Giudei dinnanzi a coloro che, identificata Roma alla "Prostituta di Babilonia", minavano le basi della sua grandezza con una propaganda secreta ed illecita di diserzione, di astensione, di sovvertivismo, mostrava l'assurdo di riconoscere il loro Messia in Gesù: il Messia del primo profetismo era il mito glorioso del "Signore degli eserciti", atteso affinchè, alla testa di un popolo eletto, portasse l'Impero mistico della giustizia e dello spirito fra le genti di questo mondo.
    Ma questo ideale di forza e di luce del popolo ebraico era decaduto col decadere di questo popolo stesso; dileguando le speranze politiche, esso indietreggiò in astratte forme finché la bruta contingenza delle cose reagì su di esso e lo plasmò perentoriamente trasformandolo nel tipo opposto dell'"espiatore" e del "salvatore" secondo i valori di umiltà, di amore e di sacrificio, fino a poterlo ravvisare nella figura di un demagogo seminiziato e rivoluzionario, finito sulla croce.

  3. #3
    Arthur I
    Ospite

    Predefinito

    Grazie a te, Mjollnir, per il contributo.

    Aggiungo anche il link al forum multilingue e attivo di Francesco Carotta:
    http://www.carotta.de/forum.html

  4. #4
    Ospite

    Predefinito

    Il miglior libro del Barone!

  5. #5
    Arjuna
    Ospite

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    Originally posted by +HELIACVS+
    Il miglior libro del Barone!

    Da Evola stesso piu' volte criticato e definito un "pamphlet giovanile"

    L'ultimo Evola mi sembra abbastanza distante da queste posizioni.

  6. #6
    Ospite

    Predefinito

    ...diciamo che tutta una serie di eventi, tra cui l'ascesa e la caduta del Fascismo e l'incontro con Guénon, gli fecero più male che bene

  7. #7
    zilath mexl rasnal
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    Originally posted by +HELIACVS+
    Il miglior libro del Barone!
    Condivido anche se Arjuna ci ricorda che l'Autore nel dopoguerra lo considerava "datato" rimane una delle sue opere più valide.

  8. #8
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    Predefinito Re: Nihil est in Iesu quod prius non fuerit in Caesare

    Originally posted by Arthur I
    [B] Gesù, noto per la sua prontezza di parola e facondia – ‘in principio era il verbo’ –,
    Se l'evangelista voleva riferisrsi alla facondia di Gesù, dobbiamo ringraziare il malinteso che ha portato a consolidare quella che, quanto meno, si può chiamare un'interessante prospettiva teologica...
    Comunque i lavori di cui si parla nell'articolo saranno interessanti e non lo metto in dubbio, ma denotano una bella tendenza evemerista.
    Poi magari qualcuno se ne esce dicendo che Evemero era un brav'uomo, ma non la pensava così Plutarco.

  9. #9
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    Originally posted by +HELIACVS+
    ...diciamo che tutta una serie di eventi, tra cui l'ascesa e la caduta del Fascismo e l'incontro con Guénon, gli fecero più male che bene
    Te pareva.

  10. #10
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    Predefinito

    Invece la critiche di Evola in parte le accolgo, Del resto anche la Chiesa ha combattutto le eresie che umanizzavano in modo esclusivo il Nazareno. Forse in un altro contesto Gesù Cristo sarebbe apparso un riformatore religioso come Zoroastro in Iran, ma nel medio oriente dei primi secoli dell'eone cristiano faceva macchia d'olio il cosidetto neoplatonismo, e di qui all'affermazione della divinità del Logos il passo è immediato.
    Saluti a tutti e in particolare al buon Mjollnir che non sento da un pezzo.

 

 
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